13.2.1999 BORSELLINO BIS – Dalla Sentenza

BORSELLINO BIS

 

Alle ore 16,58 del 19 luglio 1992 una violentissima esplosione, verificatasi a Palermo nella via Mariano D’Amelio, all’altezza del civico n.19/21, provocava la morte del dott. Paolo Borsellino, Procuratore aggiunto presso la Procura distrettuale della Repubblica di Palermo, e degli agenti di scorta Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina, nonché il ferimento di numerose persone ed una generale devastazione con gravi danni agli immobili prospicienti sul predetto tratto di strada ed alle autovetture ivi parcheggiate.

La zona teatro dell’esplosione, dopo i primi interventi di soccorso ai feriti ed agli abitanti della zona era stata tempestivamente transennata e presidiata in modo continuativo da forze di Polizia, per consentire l’espletamento dei primi accertamenti nell’ambito delle indagini prontamente avviate.
Sin dal mattino del giorno successivo, infatti, uomini della Polizia scientifica in collaborazione con agenti dell’F.B.I. con i consulenti del P.M. dott. Renzo Cabrino, Paolo Egidi , cap. Delogu e col. Roberto Vassale, avevano proceduto ad una laboriosissima attività di vero e proprio setacciamento dell’area interessata dall’esplosione e di recupero dei reperti. Tale attività, protrattasi per alcuni giorni, risultava estremamente utile per l’ulteriore corso delle indagini, in quanto, da una immediata osservazione del cratere dell’esplosione, i consulenti del P.M. desumevano in modo inequivoco che detta esplosione era stata provocata da una carica di elevato potenziale posta non a diretto contatto con la superfice stradale, poiché il cratere presentava orli stondati ed una evidente assenza di disgregazione minuta degli strati superficiali dell’asfalto e poiché le schegge rilevate sul muretto prospiciente al luogo dell’esplosione avevano seguito traiettorie orizzontali.
Si era pertanto resa sempre più concreta l’ipotesi che la carica esplosiva fosse stata collocata all’interno di una autovettura parcheggiata in prossimità dell’ingresso al numero civico 19/21, ove il dott. Paolo Borsellino si recava con una certa frequenza per andare a trovare l’anziana madre, Lepanto Maria Pia, nei giorni in cui la stessa era ospite della figlia Adele abitante al quarto piano del suddetto immobile.
L’ipotesi investigativa trovava una sostanziale conferma allorchè veniva rinvenuto in prossimità di una Fiat Croma di colore azzurro un blocco motore che presentava vistosi danni, che comunque doveva essere funzionante prima dell’esplosione per le tracce di olio che presentava e che, soprattutto, non apparteneva a nessuna delle autovetture, fortemente danneggiate ma ancora riconoscibili, individuate sul luogo dell’esplosione, per cui appariva estremamente probabile che detto blocco motore appartenesse all’autovettura verosimilmente utilizzata come contenitore della carica esplosiva, che probabilmente si era pressoché disintegrata a seguito della esplosione della carica contenuta al suo interno. Le indagini svolte sul predetto blocco motore, che presentava il numero di serie ancora visibile, consentivano di accertare che lo stesso, contrassegnato con il numero 9406531, apparteneva ad una fiat 126 telaio ZFA126A008781619, di colore rosso immatricolata il 25.10.1985 con targa PA 790936, intestata a D’Aguanno Maria, autovettura che era stata inserita il 10.7.1992 nell’elenco delle autovetture rubate quando tale Valenti Pietrina ne aveva denunciato il furto presso i Carabinieri della stazione di Palermo-Oreto.

Una ricerca mirata, sulla base degli elementi sopra evidenziati, aveva portato al rinvenimento di numerosi frammenti di lamiera, alcuni dei quali proiettati a notevole distanza dal luogo dell’esplosione, appartenenti ad una Fiat 126 di colore rosso. Era stata inoltre rinvenuta sul luogo dell’esplosione la targa automobilistica contrassegnata dalla sigla 878659 che apparteneva all’autovettura Fiat 126 intestata a Sferrazza Anna Maria, targa il cui furto, unitamente al furto dei documenti di circolazione dell’autovettura, era stato denunciato la mattina del 20.7.1992 da Orofino Giuseppe, titolare insieme ad Agliuzza Gaspare ed Agliuzza Francesco Paolo di una autocarrozzeria, sita in Palermo, via Messina Marine n. 94, ove l’autovettura della Sferrazza era stata ricoverata per riparazioni.
Numerosi altri rinvenimenti (: schede elettriche, uno spezzone di cavo coassiale per radiofrequenze, jack per connessioni tra antenna e apparecchio ricevente con varie bruciature, ed altro ) portavano a ritenere che l’esplosione della carica potesse essere stata attivata attraverso un radiocomando. Le analisi chimiche compiute su numerosi reperti avevano rivelato la presenza di T4, tritolo e pentrite tra i componenti della carica esplosiva, il cui peso veniva approssimativamente stimato in chilogrammi 90 circa di esplosivo, verosimilmente collocato nel vano bagagli anteriore della Fiat 126 utilizzata come autobomba.

Sulla base degli elementi evidenziati attraverso i rilievi obiettivi compiuti sul luogo della strage veniva disposta intercettazione telefonica sull’utenza 091-6473878 intestata a Furnari Simone, coniuge di Valenti Pietrina, e dall’ascolto di tali intercettazioni emergeva un episodio di violenza carnale commesso ai danni di tale Angiuli Cinzia da Valenti Luciano, fratello di Valenti Pietrina, da Valenti Roberto e da Candura Salvatore; quest’ultimo allorchè era stato sentito dagli inquirenti in relazione a tale episodio delittuoso, nonché ad un tentativo di rapina ai danni di un autotrasportatore aveva dato chiari segni di inquietudine, che avevano avvalorato il sospetto, nato dall’ascolto delle intercettazioni sull’utenza telefonica sopra indicata, che lo stesso potesse essere implicato nel furto della fiat 126 appartenente a Valenti Pietrina ed utilizzata verosimilmente come autobomba.

➡️ Tale sospetto veniva presto confermato in modo inequivoco dalla confessione resa da Candura Salvatore, il quale, dopo un iniziale accordo per addossare a Valenti Luciano la responsabilità del furto, ammetteva che il furto era stato in realtà da lui commesso su commissione di tale Scarantino Vincenzo, che insieme ai fratelli gestiva grossi traffici illeciti nella zona della Guadagna ed era imparentato con un noto esponente della criminalità mafiosa come Profeta Salvatore, coniugato con Ignazia Scarantino, sorella del nominato Vincenzo, inserito nella cosca mafiosa facente capo a Pietro Aglieri ed implicato in vari processi penali per associazione mafiosa, armi, droga, ed altro (tra cui il procedimento per il c.d. blitz di Villagrazia ed il primo maxi processo di Palermo istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino).

➡️ In esito all’attività investigativa svolta dagli inquirenti veniva emessa in data 26.9.1992 ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Scarantino Vincenzo per i delitti di strage, furto aggravato ed altro.


➡️ Le indagini, comunque, subivano una svolta improvvisa ed imprevista quando iniziava a collaborare con la giustizia Andriotta Francesco, il quale riferiva che nel corso di un comune periodo di detenzione tra il giugno e l’agosto del 1993 con Scarantino Vincenzo, quest’ultimo gli aveva confidato, dopo avere appreso dell’arresto di Orofino Giuseppe, che egli aveva commissionato il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba per la strage di via D’Amelio, che il
furto della targa era stato denunciato volutamente il giorno 20.7.1992 dall’Orofino approfittando della chiusura domenicale della sua officina per giustificare il ritardo, che nella fase preparatoria era stata operata una intercettazione telefonica per conoscere gli spostamenti del dott. Borsellino ad opera del fratello di un esponente mafioso vicino ai Madonia e che ai preparativi della strage ed alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato anche il cognato Profeta Salvatore.

➡️ Nei confronti di quest’ultimi, a seguito delle dichiarazioni dell’Andriotta, veniva emessa in data 8.10.1993 ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di strage e per gli altri connessi reati. Nell’ulteriore corso delle indagini particolare attenzione veniva dedicata alla ricostruzione analitica degli spostamenti del dott. Paolo Borsellino nel giorno della strage e nei giorni precedenti, al fine di accertare le modalità con cui gli attentatori erano riusciti ad individuare, nonostante le cautele adottate per proteggere gli spostamenti del dott. Borsellino, il momento in cui quest’ultimo si sarebbe recato presso l’abitazione di via D’Amelio ove soggiornava la madre, luogo sicuramente idoneo per l’esecuzione dell’attentato in quanto scarsamente protetto e privo persino di una zona rimozione nei pressi dell’ingresso dell’abitazione.

➡️ ed era altresì stato riferito che, già da un paio di mesi prima della strage, erano state notate strane anomalie nel funzionamento dell’utenza telefonica, per cui era stata espletata consulenza tecnica sulla rete telefonica del condominio di via D’Amelio n. 19 per rilevare eventuali tracce di una illecita intercettazione sull’utenza della famiglia Fiore-Borsellino. Tale consulenza, pure escludendo la presenza di tracce evidenti di siffatta intercettazione, poneva in evidenza che le riscontrate anomalie di funzionamento ben potevano derivare da una intercettazione abusiva realizzata in modo rudimentale attraverso un circuito di derivazione successivamente rimosso. Tale ipotesi investigativa trovava sostanziale conferma nelle dichiarazioni rese da Fiore Cecilia, figlia di Rita Borsellino e nipote del magistrato assassinato, e dal fidanzato Corrao Emilio, in quanto gli stessi riferivano di avere notato la presenza, pochi giorni prima dell’attentato e precisamente il martedi’ 14 o il giovedì 16 luglio, di un operaio intento a lavorare sulla cassetta ove passavano anche i cavi telefonici sul pianerottolo dell’abitazione, nonché di una panda azzurra parcheggiata sotto il palazzo con la scritta “Elte”. Entrambi i predetti testi fornivano poi una descrizione abbastanza precisa del suddetto operaio e lo riconoscevano, sia fotograficamente che di presenza nel corso del dibattimento, come Scotto Pietro, che operava quale dipendente della ditta “ Elte s.p.a. “, in squadra con tale Brusca Alfonso, presso la zona del “Centro lavori falde “ in cui ricade anche la via D’Amelio ove è stata realizzata la strage.

➡️ Sulla base degli elementi sopra indicati, delle indagini compiute e delle dichiarazioni rese nel corso del giudizio da Scarantino Vincenzo, il quale in data 24.6.1994 aveva iniziato a collaborare con la giustizia ammettendo le proprie responsabilità in ordine ai fatti contestati, confermando le accuse nei confronti dei coimputati e fornendo ulteriori particolari circa la fase preparatoria ed esecutiva della strage, i nominati Scarantino Vincenzo, Orofino Giuseppe, Profeta Salvatore e Scotto Pietro venivano rinviati a giudizio innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta che, in esito al dibattimento di primo grado (proc. N. 9/94 R.G. Assise, i cui atti sono stati acquisiti al presente giudizio), con sentenza in data 27-1-1996, passata in giudicato nei confronti di Scarantino Vincenzo, affermava la penale responsabilità dei suddetti imputati in ordine ai reati loro in concorso ascritti, decisione che è stata successivamente riformata dalla Corte d’Assise d’Appello, con sentenza in data 23-1- 1999, nei confronti degli imputati Orofino Giuseppe e Scotto Pietro, come risulta dalla copia di dispositivo di sentenza allegato alla memoria depositata dall’avv. Scozzola.

➡️ Sulla base delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nel corso della sua collaborazione con la giustizia riguardanti le ulteriori fasi di preparazione della strage e di esecuzione della stessa e segnatamente le fasi di una riunione nella villa di Calascibetta Giuseppe cui avevano partecipato diversi altri associati, del trasporto della 126 sottratta a Valenti Pietrina presso la carrozzeria Orofino, della preparazione dell’autobomba e del trasferimento della stessa sul luogo dell’attentato, veniva frattanto avviato il presente giudizio a carico degli odierni imputati che, con decreto del Gup Tribunale Caltanissetta in data 5-1-1996 venivano rinviati a giudizio innanzi a questa Corte di Assise per rispondere dei reati precisati in epigrafe.


➡️ 14.9.1998 presso l’aula bunker di Como si procedeva all’esame del dott. Bo Mario, nonché al confronto tra Di Matteo Mario Santo e Brusca Giovanni, confronto proseguito all’udienza successiva il 15.9.1998, data in cui si procedeva anche al confronto tra Scarantino Vincenzo e Scarantino Rosario ed all’esame di Scarantino Vincenzo, all’esito del quale le parti formulavano istanze ed eccezioni su cui la Corte provvedeva con ordinanza letta in dibattimento.
Il 16.9.1998 proseguivano i confronti tra Brusca Giovanni e Scarantino Vincenzo, nonché tra Brusca Giovanni e Cancemi Salvatore, non poteva tuttavia darsi luogo al confronto tra quest’ultimo e Cannella Tullio per essersi questo rifiutato di sottoporvisi. All’udienza dell’1.10.1998 i difensori formulavano ulteriori richieste ex art. 507 c.p.p. chiedendo termine anche in relazione alla indisponibilità di deporre per motivi di salute di Siino Angelo, in relazione al quale la Corte disponeva accertamenti sanitari, quindi il P.M. depositava a sua volta in data 7.10.1998 documenti ed ulteriori richieste ai sensi dell’art. 507 c.p.p.. A seguito della relativa decisione della Corte su tali ulteriori richieste il 13.10.1998 venivano sentiti Scarantino Vincenzo, che si avvaleva della facoltà di non rispondere all’esame chiesto dal P.M. e padre Neri Giovanni. All’udienza successiva del 14.10.1998 venivano sentiti il dott. Bo Mario e Scarantino Vincenzo, il P.M. depositava inoltre produzione documentale. Nelle udienze successive i difensori dichiaravano di aderire all’astensione dalle udienze deliberata dalla Camera Penale e la Corte sospendeva i termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 comma 1 lett.

b) c.p.p.. Il dibattimento veniva proseguito all’udienza del 26.11.1998, in cui l’avv. Scozzola chiedeva trascrizione di intercettazione ambientale e si procedeva all’esame dei testi D’Amore Cosima, D’Amore Leonardo, D’Amore Antonio, che si avvalevano tutti della facoltà di non rispondere, venivano altresì sentiti i testi Cannata Maria Antonietta, ed i periti Sardo Fernando e Calì.
Alle udienze del 9.12.1998, 10.12.1998, 11.12.1998, 15.12.1998, 17.12.1998 e

➡️ 18.12.1998 il P.M. svolgeva la sua requisitoria, formulando all’udienza  le conclusioni e chiedendo per gli imputati

  • Aglieri Pietro,
  • Riina Salvatore,
  • Greco Carlo,
  • Graviano Giuseppe,
  • Tagliavia Francesco,
  • Tinnirello Lorenzo,
  • Biondino Salvatore,
  • Scotto Gaetano,
  • Urso Giuseppe,
  • Gambino Natale,
  • Cosimo e La Mattina Giuseppe

la pena dell’ergastolo con isolamento diurno per mesi 18 e il pagamento di lire 15 milioni di multa; per gli imputati Calascibetta

  • Francesco, Murana
  • Gaetano e Gambino Antonino

condanna per il capo I ) ad anni 10 di reclusione ed assoluzione per gli altri reati;

  • per l’imputato Tomaselli condanna ad anni 9 di reclusione ed 8 milioni di multa;
  • per l’imputato Vitale condanna ad anni 10 di reclusione;
  • per l’imputato Romano assoluzione per non avere commesso il fatto.

Il processo contro gli autori della strage di via D’Amelio ai danni del dott. Paolo Borsellino e dei componenti della scorta muove sostanzialmente dalle indagini avviate subito dopo la terribile esplosione del 19 luglio 1992, che hanno consentito di ricostruire la dinamica del fatto, e solo successivamente si è arricchito del contributo di diversi collaboratori di giustizia tra cui, in ordine cronologico, Candura Salvatore, Andriotta Francesco, Scarantino Vincenzo e, successivamente, Ferrante Giovan Battista, Ganci Calogero e Cancemi Salvatore, i quali ultimi hanno riferito dettagli riguardanti il momento esecutivo della strage, nonché infine altri collaboratori di giustizia che hanno in vario modo contribuito ad una analitica ricostruzione del contesto criminale in cui l’azione delittuosa è maturata. Appare pertanto necessario, ai fini di una ordinata e sistematica ricostruzione degli elementi di prova acquisiti nel presente giudizio, procedere innanzitutto all’esame dei rilievi tecnici eseguiti nell’immediatezza del fatto, degli accertamenti peritali diretti a ricostruire la dinamica dell’attentato e delle indagini di polizia concernenti gli spostamenti della vittima designata, le attività dallo stesso svolte, l’individuazione dei possibili moventi, la correlazione con altri fatti delittuosi realizzati nello stesso contesto temporale e l’inquadramento dell’ambito criminale in cui è maturato il tragico evento. Solo successivamente potrà utilmente procedersi all’analisi dettagliata del contributo, particolarmente rilevante, offerto dai collaboratori di giustizia esaminati nel corso delle indagini e nella fase dibattimentale, onde potere poi ricercare, con riferimento alle posizioni individuali dei singoli imputati ed alle rispettive imputazioni gli eventuali riscontri probatori individualizzanti, desumibili dal complesso delle acquisizioni probatorie del presente procedimento.

= ANALISI DEGLI ACCERTAMENTI MEDICO LEGALI E DEI RILIEVI

Concludendo, quindi, i consulenti hanno indicato come ipotesi più probabile che la carica esplosiva fosse costituita prevalentemente da due “plastici”, l’uno a base di T4 e l’altro a base di Pentrite, oppure da solo SEMTEX – H, contenente entrambe le specie esplosive, e che oltre a tale esplosivo possano essere state impiegate anche “saponette” di Tritolo, sfuse o in un contenitore, e qualche cartuccia di esplosivo per usi civili del tipo gelatinato o pulverulento – nitroglicerinato.
Per quanto attiene al peso della carica esplosiva i consulenti hanno stimato un valore di circa 90 kg sulla base delle dimensioni del cratere scavato e degli effetti.

Le dichiarazioni di CANDURA SALVATORE:
Appare opportuno muovere dalle dichiarazioni di Candura Salvatore sia perché si tratta delle prime dichiarazioni di carattere confessorio che hanno consentito di avviare le indagini sul gruppo mafioso che ha organizzato ed eseguito la strage oggetto del presente giudizio, sia perché dette dichiarazioni, oltre a risultare, come si vedrà più avanti, oggettivamente riscontrate, provengono da un soggetto che non si è reso responsabile di gravi fatti di sangue ed il cui “pentimento” appare più stabile e sicuro in quanto fondato non tanto su bassi calcoli utilitaristici o sulla speranza di sottrarsi ad una pesante condanna, quanto piuttosto sulla paura, umanamente comprensibile, di essere stato coinvolto in modo inconsapevole in un gioco troppo grosso e di trovarsi esposto insieme ai familiari ad un livello di rischio certamente non proporzionato alla reale gravità dei reati commessi.
Ciò premesso, va osservato che Candura Salvatore, esaminato all’udienza dell’1.12.1997 ai sensi dell’art. 210 c.p.p., ha cominciato a collaborare nel settembre – ottobre 1992 e si è autoaccusato del furto della vettura fiat 126 usata per la strage di via D’Amelio.

Particolarmente inquietanti e significativi appaiono i contatti del Candura con la famiglia di Scarantino Vincenzo prima dell’inizio della collaborazione di quest’ultimo, poiché il Candura ha riferito che nel corso della sua collaborazione la moglie lo aveva lasciato per tornare a Palermo, ove era stata spesso avvicinata dai familiari di Scarantino che avevano fatto pressioni perchè il marito ritrattasse, promettendogli di pagare l’avvocato. Ha riferito, inoltre, che, mentre la moglie si trovava a Bologna presso la casa del cognato Guagenti Carmelo, la figlioletta al telefono gli aveva detto che c’era “Cacantino “ e lui aveva capito che la moglie aveva ricevuto la visita di Scarantino Rosario, il quale aveva cercato di convincerla a far ritrattare le accuse nei confronti del fratello, precisando che il cognato Guagenti aveva un cantiere dove spesso aveva visto gli Scarantino.
Ha dichiarato di essere andato ad abitare in zona Guadagna circa 4- 5 anni prima del 1992, a circa 100 metri di distanza dall’abitazione degli Scarantino, di essersi occupato anche a livello professionale di fotografia e filmini e di avere lavorato in occasione di riunioni e cerimonie familiari, feste rionali e religiose ed altro, di avere conosciuto Tomaselli Salvatore. Era stato quest’ultimo quello che lo aveva presentato a sua volta a Scarantino Vincenzo, il quale, insieme a Tomaselli gestiva un grosso giro di droga e gli era stato indicato come persona che apparteneva a “ gente di rispetto “ , tra cui il cognato Salvatore Profeta. Ha riferito di avere con il tempo guadagnato la fiducia di Scarantino Vincenzo e dei suoi fratelli, venendo incaricato spesso di prelevare stupefacente ovvero di procurare delle autovetture. In particolare quando veniva incaricato di rubare delle autovetture gli veniva specificato il tipo di autovettura richiesta e, a seconda delle dimensioni, gli veniva poi consegnata come compenso la somma di lire 500.000, se di grande cilindrata, o di lire 200-300.000 se di piccola cilindrata, inoltre in alcune occasioni al momento dell’incarico gli era stata data una chiave che riusciva ad aprire ed a mettere in moto tutte le auto. Le vetture rubate venivano portate dal Candura in un vicolo vicino l’abitazione della madre degli Scarantino, ovvero in un magazzino sito in una strada che da via Buonafede porta a corso dei Mille, che passa sotto il ponte del fiume Oreto. Tale magazzino era composto di vari locali, una stanza era destinata agli animali ed in particolare ad i maiali, in un’altra c’erano un letto un tavolo ed una sedia ed in una parete c’era un “blocchetto“ o botola dove Scarantino conservava la droga ed anche varie armi, nel magazzino spesso aveva trovato, oltre ai fratelli Scarantino, Salvatore Tomaselli, e tale Michele Aglieri, che si occupava di smontare i pezzi delle autovetture rubate, nonché altra gente che alcune volte aveva ripreso con la telecamera ma il cui rullino era stato restituito. Le macchine venivano da lui rubate personalmente ma a volte mandava altri spacciatori, in ogni caso nel magazzino di Paganello i fratelli Scarantino si occupavano di farle a pezzi o alterarne i documenti o mandarle all’estero. Ha dichiarato di avere rubato in tutto circa 50-60 auto, anche se in sede di contestazione è emerso che durante precedenti fasi il Candura ha dichiarato di averne rubato 20-30. Ha aggiunto che solo raramente gli era capitato di rubare delle auto senza specifico incarico degli Scarantino e che in un’occasione era stato rimproverato ed gli era stato ordinato di restituire la macchina rubata perché era di un “amico”.

A proposito della strage di via D’Amelio ha dichiarato che una sera verso le 20-21 nei primi di luglio del 1992 aveva incontrato Tomaselli Salvatore e Scarantino Vincenzo, quest’ultimo lo aveva incaricato di procurargli un’auto di piccola cilindrata, anche in cattive condizioni, purchè funzionante, e gli aveva promesso 500.000 lire dandogli subito la somma di 150.000 lire (composta da due biglietti da 50.000 e cinque da 10.000), nonché uno “spadino” per aprire le portiere e mettere in moto le macchine, e fissandogli un appuntamento per la consegna in una traversa di via Roma vicina a via Cavour alle ore 23.00. A seguito di contestazioni della difesa è emerso che il Candura aveva precedentemente dichiarato che lo Scarantino gli aveva espressamente detto che l’auto serviva ad un suo amico per prendere dei pezzi. In ogni caso Candura era andato con la sua moto prima da Valenti Roberto, al quale era molto legato essendo questi suo figlioccio, poi si era recato in via Oreto nuova, aveva parcheggiato la moto presso una zia che abitava nei pressi ed aveva preso la autovettura di Valenti Pietrina, una 126 bordeaux in cattive condizioni d’uso che aveva qualche problema con l’accensione. In particolare aveva aperto lo sportello, aveva messo in folle ed era uscito dal viale lungo circa tre metri a marcia indietro ed a motore spento per non fare rumore, poi, con qualche difficoltà, aveva messo in moto e si era avviato verso il luogo dell’appuntamento, passando per via Oreto nuova, via Oreto vecchia , la stazione ferroviaria e via Roma. Aveva scelto la macchina della Valenti perché, se fosse stato sorpreso o fermato, avrebbe potuto dire che si trattava dell’auto prestatagli da un’amica.

Dopo il furto dell’auto si era recato nel posto convenuto, qui aveva trovato ad aspettarlo Scarantino a bordo di una vespa bianca che il Candura aveva riconosciuto come quella solitamente usata dal Tomaselli ed in compagnia di un’altra persona che aveva cercato per tutto il tempo dell’incontro di restare nella parte buia della strada e di non farsi riconoscere. A tal proposito il Candura ha detto di non essere sicuro dell’identità di quest’individuo, ma di avere pensato che fosse Tomaselli, cosa non detta prima per mancanza di sicurezza sul punto, in ogni caso ne ha fornito una precisa descrizione: di altezza tra il metro e cinquanta/sessanta, viso scuro e capelli ricci, portava una camicia celeste (a seguito di contestazioni è emerso che poteva trattarsi di un giubbotto), un bracciale, una collana tipo Cartier ed un anello al mignolo con brillantini. A seguito di specifiche domande anche della difesa ha ammesso di non avere mai fatto caso se Tomaselli portasse gioielli o meno.

Candura in dibattimento ha dichiarato che, dopo la consegna, Scarantino lo aveva allontanato con una certa fretta ed era andato via a bordo della vespa, mentre l’altra persona si era allontananta a bordo della macchina. Dopo ripetute contestazioni è emerso che era stato Scarantino a salire subito sulla vettura rubata ed a partire in direzione di via Messina Marine, preceduto dalla vespa guidata dall’altra persona. Il Candura era tornato a piedi nel posto dove aveva lasciato la moto ed aveva impiegato circa due ore e mezza.
A proposito del luogo della consegna Candura ha avuto alcune incertezze nel descrivere l’esatta ubicazione della via, in ogni caso è emerso, anche in sede di contestazioni, che si trattava della via Ammiraglio Gravina, traversa di via Roma, dove c’era una casa abitata da prostitute ed omosessuali e dove spesso lo stesso Candura aveva accompagnato Scarantino. Ha precisato che era la prima volta che Scarantino gli aveva chiesto di lasciare una macchina rubata in una zona diversa dalle solite.
Ha dichiarato che il compenso promessogli per il furto non gli era stato mai dato, e che in una sola occasione Scarantino, oltre a dargli denaro, lo aveva pagato con della sostanza stupefacente. A seguito di contestazione emergeva, però, che anche in occasione del furto della 126 in questione aveva ricevuto della droga come parte del compenso.
Subito dopo il furto Valenti Pietrina gli aveva chiesto di adoperarsi per farle riavere l’auto, facendogli intendere di avere sospetti su di lui. Candura aveva fatto finta di cercare l’auto insieme a Valenti Luciano, pregando Valenti Roberto di convincere la sorella a non sporgere denuncia per il furto.

Particolarmente significativo appare quanto riferito dal Candura riguardo al periodo successivo alla esecuzione della strage. Infatti, ben presto il Candura aveva intuito che la macchina utilizzata poteva essere quella da lui sottratta alla Valenti ed aveva più volte contattato Scarantino per manifestargli la sua preoccupazione, questi aveva reagito bruscamente e gli aveva raccomandato di non parlare a nessuno della cosa, ma al contempo lo aveva pesantemente minacciato, con ciò confermando in modo inequivoco la fondatezza dei sospetti nutriti dal Candura:
Imp. CANDURA S.: – no, mi sembra l’indomani, o la sera o l’indomani. Non ricordo bene con precisione. Quando gli ho detto: “Ma non facciamo che la mia… perché hanno detto che si tratta o di una 126 o di una 500, non facciamo che la mia macchina l’amico tuo l’ha utilizzata per fare la strage”. Quando gli ho detto così, lui è saltato in aria, nel senso di dirmi: “ma che dici? Non dire più questo, mi raccomando, non parlare con nessuno, stai attento”. Gli ho detto: “Ma scusa, perché ti stai agitando così, che motivo hai?”. “No, tu non devi dire niente. Tu non hai dato niente a nessuno. Non parlare con nessuno”. “Ma io con nessuno parlo, con chi devo parlare?” Però questa sua reazione mi ha dato atto a intendere che questa macchina forse era stata usata per questo, per commettere tale eccidio. Io iniziai a preoccuparmi.

P.M. DOTT. DI MATTEO: – ma lei la prima volta, quando glielo disse la prima volta, ha detto all’indomani della strage?
Imp. CANDURA S.: – sì. La sera o l’indomani.
P.M. DOTT. DI MATTEO: – aveva già dei sospetti sul fatto che potesse essere stata utilizzata quella macchina per la strage oppure lo disse tanto per dirlo a Scarantino?
Imp. CANDURA S.: – no, l’ho detto così, cioè l’ho detto nel senso che gli ho dato la notizia: “Hai sentito cosa è successo, la strage in via D’Amelio? Addirittura hanno detto che si tratta forse o di una 126 o 127 o 500. Ma non facciamo che l’amico tuo la macchina che gli abbiamo dato ha fatto questa strage”. Quando gli ho detto questo, lui è saltato in aria. Mi ha preso: “non parlare, con nessuno, stai attento”. “Ma perché ti stai agitando così, scusa? Quale è il motivo? Allora che è, vero?” “Ma che dici?” Poi parole ovviamente e via di seguito. C’erano sempre delle colluttazioni. Allora il modo come ha reagito lui mi intende a capire che allora questa macchina… Io ci andava sempre: “Scarantino, dimmelo, Enzo” perché si chiamava Enziriddo come soprannome. “Enziriddo, se è stata fatta una cosa… dimmelo, cioè io non so che devo fare”. Perché ero preoccupato che io facendo così, con lui mi ci colluttavo sempre, già i miei sospetti erano che o oggi o domani questi mi facevano fuori. Lui sempre invece mi tranquillizzava: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti creare problemi”. Fatto sta che poi mi ha dato atto che questa 126…

P.M. DOTT. DI MATTEO: – lei ha mai ricevuto in quel periodo delle telefonate di minaccia?
Imp. CANDURA S.: – sì, infatti quando ci sono andato, ci andavo diverse volte da lui per questa macchina, perché ho detto: “Io non voglio più soldi, va bene che già questi soldi non me li avete più dati. Io non voglio più niente. Ma io voglio rassicurarmi”. “Non ti preoccupare, vattene a casa, stai tranquillo”. Le solite cose. Andava a casa, squillava il telefono, lo ricordo pure che l’ha preso pure mia moglie, lo prendeva mia moglie e non rispondeva nessuno. L’ho preso io: “Stai attento a quello che fai, appena parli in giro – una cosa del genere – ti ammazziamo a te e alla tua famiglia”. Siccome io non avevo motivi di essere preoccupato prima, le mie preoccupazioni sono nate dopo questa Fiat 126 che io andavo sempre da lui per sapere quello che io dovevo dare, anche per fargli capire che io non dicevo niente a nessuno, però di non avere quella preoccupazione di essere ammazzato, questo io intendevo dire a lui. Ho ricevuto queste telefonate di minacce e così iniziai veramente a preoccuparmi.
( pagine 77, 78 e 79 verbale dell’1.12.1997)
Candura ha inoltre chiarito di avere parlato anche con il Tomaselli delle sue paure legate al furto della 126 e che questi, al pari di Scarantino, aveva cercato di tranquillizzarlo; a seguito di contestazioni è inoltre emerso che lo Scarantino aveva detto a Candura che a sapere della 126 erano soltanto loro due e Tomaselli.

Le dichiarazioni del Candura hanno consentito di stabilire che tali ultimi colloqui con Scarantino si erano verificati sicuramente nello stesso mese di luglio del 1992, poiché il Candura ha ricordato che ad agosto si era recato con la sua famiglia in villeggiatura a Termini fino al 5 settembre, data dell’arresto di Candura ad opera della squadra mobile insieme a Valenti Luciano per violenza carnale ed altri reati. Particolarmente interessante, anche al fine di apprezzare le ragioni che hanno indotto il Candura a collaborare con la giustizia, appare l’analisi di taluni fatti che hanno preceduto l’arresto sopra indicato. Infatti risulta dagli atti che il Candura già prima del 5-9-1992 era stato fermato dai Carabinieri in relazione ad indagini per taluni furti e, in tale contesto, aveva mantenuto un comportamento assai strano, che è risultato comprensibile soltanto in relazione a quanto il Candura ha poi confessato, poiché durante l’interrogatorio aveva avuto delle evidenti crisi nervose giungendo persino a chiedere aiuto e protezione dicendo “quegli omicidi non li ho fatti io”.
Nel primo periodo di detenzione il Candura aveva cercato di convincere Valenti Luciano a dichiararsi interamente responsabile del furto e ciò perché provenendo questi da una famiglia con problemi mentali non ci sarebbero state conseguenze di rilievo, ma una volta capito che nessuno lo avrebbe creduto aveva deciso di collaborare. In sede di controesame attraverso contestazioni è emerso che, dopo tale

accordo con Valenti, Candura aveva reso delle dichiarazioni volte ad accreditare la versione concordata con il Valenti.
Orbene, appare evidente alla luce del complesso degli elementi acquisiti che il comportamento iniziale del Candura era solo apparentemente strano, poiché può ben comprendersi il particolare stato di agitazione in cui certamente si era venuto a trovare il Candura dopo avere compreso di avere fornito l’autovettura che era stata usata come autobomba, causando la morte di diverse persone e le devastazioni mostrate da tutti i mezzi di informazione. Non ci vuole molto per capire quale potesse essere il livello di angoscia in cui dovette trovarsi il Candura, piccolo delinquente di borgata abituato a furtarelli per procurarsi la droga, nel vedersi schiacciato tra la possibilità di essere coinvolto in un processo per strage e la possibilità di essere ucciso da chi gli aveva commissionato il furto, ipotesi quest’ultima che ebbe ad assumere una consistenza particolarmente concreta ed intensa dopo le minacce rivoltegli da Scarantino Vincenzo per indurlo a stare zitto. Pienamente comprensibili appaiono, quindi, sia la richiesta di aiuto e le espressioni apparentemente farneticanti in occasione del primo fermo da parte dei Carabinieri, sia il successivo, ingenuo, tentativo di scaricare ogni responsabilità su Valenti Luciano, confidando sulle precarie condizioni mentali dello stesso e dei suoi familiari.