1.12.1997 Le dichiarazioni di CANDURA SALVATORE

AUDIO deposizione


 

Dalla SENTENZA BORSELLINO BIS

Appare opportuno muovere dalle dichiarazioni di Candura Salvatore sia perché si tratta delle prime dichiarazioni di carattere confessorio che hanno consentito di avviare le indagini sul gruppo mafioso che ha organizzato ed eseguito la strage oggetto del presente giudizio, sia perché dette dichiarazioni, oltre a risultare, come si vedrà più avanti, oggettivamente riscontrate, provengono da un soggetto che non si è reso responsabile di gravi fatti di sangue ed il cui “pentimento” appare più stabile e sicuro in quanto fondato non tanto su bassi calcoli utilitaristici o sulla speranza di sottrarsi ad una pesante condanna, quanto piuttosto sulla paura, umanamente comprensibile, di essere stato coinvolto in modo inconsapevole in un gioco troppo grosso e di trovarsi esposto insieme ai familiari ad un livello di rischio certamente non proporzionato alla reale gravità dei reati commessi.

 

Ciò premesso, va osservato che Candura Salvatore, esaminato all’udienza dell’1.12.1997 ai sensi dell’art. 210 c.p.p., ha cominciato a collaborare nel settembre – ottobre 1992 e si è autoaccusato del furto della vettura fiat 126 usata per la strage di via D’Amelio.

Particolarmente inquietanti e significativi appaiono i contatti del Candura con la famiglia di Scarantino Vincenzo prima dell’inizio della collaborazione di quest’ultimo, poiché il Candura ha riferito che nel corso della sua collaborazione la moglie lo aveva lasciato per tornare a Palermo, ove era stata spesso avvicinata dai familiari di Scarantino che avevano fatto pressioni perchè il marito ritrattasse, promettendogli di pagare l’avvocato.
Ha riferito, inoltre, che, mentre la moglie si trovava a Bologna presso la casa del cognato Guagenti Carmelo, la figlioletta al telefono gli aveva detto che c’era “Cacantino “ e lui aveva capito che la moglie aveva ricevuto la visita di Scarantino Rosario, il quale aveva cercato di convincerla a far ritrattare le accuse nei confronti del fratello, precisando che il cognato Guagenti aveva un cantiere dove spesso aveva visto gli Scarantino.
Ha dichiarato di essere andato ad abitare in zona Guadagna circa 4- 5 anni prima del 1992, a circa 100 metri di distanza dall’abitazione degli Scarantino, di essersi occupato anche a livello professionale di fotografia e filmini e di avere lavorato in occasione di riunioni e cerimonie familiari, feste rionali e religiose ed altro, di avere conosciuto Tomaselli Salvatore.
Era stato quest’ultimo quello che lo aveva presentato a sua volta a Scarantino Vincenzo, il quale, insieme a Tomaselli gestiva un grosso giro di droga e gli era stato indicato come persona che apparteneva a “ gente di rispetto “ , tra cui il cognato Salvatore Profeta.
Ha riferito di avere con il tempo guadagnato la fiducia di Scarantino Vincenzo e dei suoi fratelli, venendo incaricato spesso di prelevare stupefacente ovvero di procurare delle autovetture.
In particolare quando veniva incaricato di rubare delle autovetture gli veniva specificato il tipo di autovettura richiesta e, a seconda delle dimensioni, gli veniva poi consegnata come compenso la somma di lire 500.000, se di grande cilindrata, o di lire 200-300.000 se di piccola cilindrata, inoltre in alcune occasioni al momento dell’incarico gli era stata data una chiave che riusciva ad aprire ed a mettere in moto tutte le auto.
Le vetture rubate venivano portate dal Candura in un vicolo vicino l’abitazione della madre degli Scarantino, ovvero in un magazzino sito in una strada che da via Buonafede porta a corso dei Mille, che passa sotto il ponte del fiume Oreto. Tale magazzino era composto di vari locali, una stanza era destinata agli animali ed in particolare ad i maiali, in un’altra c’erano un letto un tavolo ed una sedia ed in una parete c’era un “blocchetto“ o botola dove Scarantino conservava la droga ed anche varie armi, nel magazzino spesso aveva trovato, oltre ai fratelli Scarantino, Salvatore Tomaselli, e tale Michele Aglieri, che si occupava di smontare i pezzi delle autovetture rubate, nonché altra gente che alcune volte aveva ripreso con la telecamera ma il cui rullino era stato restituito.
Le macchine venivano da lui rubate personalmente ma a volte mandava altri spacciatori, in ogni caso nel magazzino di Paganello i fratelli Scarantino si occupavano di farle a pezzi o alterarne i documenti o mandarle all’estero. Ha dichiarato di avere rubato in tutto circa 50-60 auto, anche se in sede di contestazione è emerso che durante precedenti fasi il Candura ha dichiarato di averne rubato 20-30. Ha aggiunto che solo raramente gli era capitato di rubare delle auto senza specifico incarico degli Scarantino e che in un’occasione era stato rimproverato ed gli era stato ordinato di restituire la macchina rubata perché era di un “amico”.

A proposito della strage di via D’Amelio ha dichiarato che una sera verso le 20-21 nei primi di luglio del 1992 aveva incontrato Tomaselli Salvatore e Scarantino Vincenzo, quest’ultimo lo aveva incaricato di procurargli un’auto di piccola cilindrata, anche in cattive condizioni, purchè funzionante, e gli aveva promesso 500.000 lire dandogli subito la somma di 150.000 lire (composta da due biglietti da 50.000 e cinque da 10.000), nonché uno “spadino” per aprire le portiere e mettere in moto le macchine, e fissandogli un appuntamento per la consegna in una traversa di via Roma vicina a via Cavour alle ore 23.00.
A seguito di contestazioni della difesa è emerso che il Candura aveva precedentemente dichiarato che lo Scarantino gli aveva espressamente detto che l’auto serviva ad un suo amico per prendere dei pezzi.
In ogni caso Candura era andato con la sua moto prima da Valenti Roberto, al quale era molto legato essendo questi suo figlioccio, poi si era recato in via Oreto nuova, aveva parcheggiato la moto presso una zia che abitava nei pressi ed aveva preso la autovettura di Valenti Pietrina, una 126 bordeaux in cattive condizioni d’uso che aveva qualche problema con l’accensione. In particolare aveva aperto lo sportello, aveva messo in folle ed era uscito dal viale lungo circa tre metri a marcia indietro ed a motore spento per non fare rumore, poi, con qualche difficoltà, aveva messo in moto e si era avviato verso il luogo dell’appuntamento, passando per via Oreto nuova, via Oreto vecchia , la stazione ferroviaria e via Roma. Aveva scelto la macchina della Valenti perché, se fosse stato sorpreso o fermato, avrebbe potuto dire che si trattava dell’auto prestatagli da un’amica.

Dopo il furto dell’auto si era recato nel posto convenuto, qui aveva trovato ad aspettarlo Scarantino a bordo di una vespa bianca che il Candura aveva riconosciuto come quella solitamente usata dal Tomaselli ed in compagnia di un’altra persona che aveva cercato per tutto il tempo dell’incontro di restare nella parte buia della strada e di non farsi riconoscere.
A tal proposito il Candura ha detto di non essere sicuro dell’identità di quest’individuo, ma di avere pensato che fosse Tomaselli, cosa non detta prima per mancanza di sicurezza sul punto, in ogni caso ne ha fornito una precisa descrizione: di altezza tra il metro e cinquanta/sessanta, viso scuro e capelli ricci, portava una camicia celeste (a seguito di contestazioni è emerso che poteva trattarsi di un giubbotto), un bracciale, una collana tipo Cartier ed un anello al mignolo con brillantini. A seguito di specifiche domande anche della difesa ha ammesso di non avere mai fatto caso se Tomaselli portasse gioielli o meno.

Candura in dibattimento ha dichiarato che, dopo la consegna, Scarantino lo aveva allontanato con una certa fretta ed era andato via a bordo della vespa, mentre l’altra persona si era allontananta a bordo della macchina. Dopo ripetute contestazioni è emerso che era stato Scarantino a salire subito sulla vettura rubata ed a partire in direzione di via Messina Marine, preceduto dalla vespa guidata dall’altra persona. Il Candura era tornato a piedi nel posto dove aveva lasciato la moto ed aveva impiegato circa due ore e mezza.
A proposito del luogo della consegna Candura ha avuto alcune incertezze nel descrivere l’esatta ubicazione della via, in ogni caso è emerso, anche in sede di contestazioni, che si trattava della via Ammiraglio Gravina, traversa di via Roma, dove c’era una casa abitata da prostitute ed omosessuali e dove spesso lo stesso Candura aveva accompagnato Scarantino.
Ha precisato che era la prima volta che Scarantino gli aveva chiesto di lasciare una macchina rubata in una zona diversa dalle solite.
Ha dichiarato che il compenso promessogli per il furto non gli era stato mai dato, e che in una sola occasione Scarantino, oltre a dargli denaro, lo aveva pagato con della sostanza stupefacente.
A seguito di contestazione emergeva, però, che anche in occasione del furto della 126 in questione aveva ricevuto della droga come parte del compenso.
Subito dopo il furto Valenti Pietrina gli aveva chiesto di adoperarsi per farle riavere l’auto, facendogli intendere di avere sospetti su di lui. Candura aveva fatto finta di cercare l’auto insieme a Valenti Luciano, pregando Valenti Roberto di convincere la sorella a non sporgere denuncia per il furto.

Particolarmente significativo appare quanto riferito dal Candura riguardo al periodo successivo alla esecuzione della strage. Infatti, ben presto il Candura aveva intuito che la macchina utilizzata poteva essere quella da lui sottratta alla Valenti ed aveva più volte contattato Scarantino per manifestargli la sua preoccupazione, questi aveva reagito bruscamente e gli aveva raccomandato di non parlare a nessuno della cosa, ma al contempo lo aveva pesantemente minacciato, con ciò confermando in modo inequivoco la fondatezza dei sospetti nutriti dal Candura:
Imp. CANDURA S.: – no, mi sembra l’indomani, o la sera o l’indomani. Non ricordo bene con precisione. Quando gli ho detto: “Ma non facciamo che la mia… perché hanno detto che si tratta o di una 126 o di una 500, non facciamo che la mia macchina l’amico tuo l’ha utilizzata per fare la strage”. Quando gli ho detto così, lui è saltato in aria, nel senso di dirmi: “ma che dici? Non dire più questo, mi raccomando, non parlare con nessuno, stai attento”. Gli ho detto: “Ma scusa, perché ti stai agitando così, che motivo hai?”. “No, tu non devi dire niente. Tu non hai dato niente a nessuno. Non parlare con nessuno”. “Ma io con nessuno parlo, con chi devo parlare?” Però questa sua reazione mi ha dato atto a intendere che questa macchina forse era stata usata per questo, per commettere tale eccidio. Io iniziai a preoccuparmi.

P.M. DOTT. DI MATTEO: – ma lei la prima volta, quando glielo disse la prima volta, ha detto all’indomani della strage?
Imp. CANDURA S.: – sì. La sera o l’indomani.
P.M. DOTT. DI MATTEO: – aveva già dei sospetti sul fatto che potesse essere stata utilizzata quella macchina per la strage oppure lo disse tanto per dirlo a Scarantino?
Imp. CANDURA S.: – no, l’ho detto così, cioè l’ho detto nel senso che gli ho dato la notizia: “Hai sentito cosa è successo, la strage in via D’Amelio? Addirittura hanno detto che si tratta forse o di una 126 o 127 o 500. Ma non facciamo che l’amico tuo la macchina che gli abbiamo dato ha fatto questa strage”. Quando gli ho detto questo, lui è saltato in aria. Mi ha preso: “non parlare, con nessuno, stai attento”. “Ma perché ti stai agitando così, scusa? Quale è il motivo? Allora che è, vero?” “Ma che dici?” Poi parole ovviamente e via di seguito. C’erano sempre delle colluttazioni.
Allora il modo come ha reagito lui mi intende a capire che allora questa macchina… Io ci andava sempre: “Scarantino, dimmelo, Enzo” perché si chiamava Enziriddo come soprannome. “Enziriddo, se è stata fatta una cosa… dimmelo, cioè io non so che devo fare”. Perché ero preoccupato che io facendo così, con lui mi ci colluttavo sempre, già i miei sospetti erano che o oggi o domani questi mi facevano fuori. Lui sempre invece mi tranquillizzava: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti creare problemi”. Fatto sta che poi mi ha dato atto che questa 126…

P.M. DOTT. DI MATTEO: – lei ha mai ricevuto in quel periodo delle telefonate di minaccia?
Imp. CANDURA S.: – sì, infatti quando ci sono andato, ci andavo diverse volte da lui per questa macchina, perché ho detto: “Io non voglio più soldi, va bene che già questi soldi non me li avete più dati. Io non voglio più niente. Ma io voglio rassicurarmi”. “Non ti preoccupare, vattene a casa, stai tranquillo”. Le solite cose. Andava a casa, squillava il telefono, lo ricordo pure che l’ha preso pure mia moglie, lo prendeva mia moglie e non rispondeva nessuno. L’ho preso io: “Stai attento a quello che fai, appena parli in giro – una cosa del genere – ti ammazziamo a te e alla tua famiglia”. Siccome io non avevo motivi di essere preoccupato prima, le mie preoccupazioni sono nate dopo questa Fiat 126 che io andavo sempre da lui per sapere quello che io dovevo dare, anche per fargli capire che io non dicevo niente a nessuno, però di non avere quella preoccupazione di essere ammazzato, questo io intendevo dire a lui. Ho ricevuto queste telefonate di minacce e così iniziai veramente a preoccuparmi.
( pagine 77, 78 e 79 verbale dell’1.12.1997)
Candura ha inoltre chiarito di avere parlato anche con il Tomaselli delle sue paure legate al furto della 126 e che questi, al pari di Scarantino, aveva cercato di tranquillizzarlo; a seguito di contestazioni è inoltre emerso che lo Scarantino aveva detto a Candura che a sapere della 126 erano soltanto loro due e Tomaselli.

Le dichiarazioni del Candura hanno consentito di stabilire che tali ultimi colloqui con Scarantino si erano verificati sicuramente nello stesso mese di luglio del 1992, poiché il Candura ha ricordato che ad agosto si era recato con la sua famiglia in villeggiatura a Termini fino al 5 settembre, data dell’arresto di Candura ad opera della squadra mobile insieme a Valenti Luciano per violenza carnale ed altri reati. Particolarmente interessante, anche al fine di apprezzare le ragioni che hanno indotto il Candura a collaborare con la giustizia, appare l’analisi di taluni fatti che hanno preceduto l’arresto sopra indicato.
Infatti risulta dagli atti che il Candura già prima del 5-9-1992 era stato fermato dai Carabinieri in relazione ad indagini per taluni furti e, in tale contesto, aveva mantenuto un comportamento assai strano, che è risultato comprensibile soltanto in relazione a quanto il Candura ha poi confessato, poiché durante l’interrogatorio aveva avuto delle evidenti crisi nervose giungendo persino a chiedere aiuto e protezione dicendo “quegli omicidi non li ho fatti io”.
Nel primo periodo di detenzione il Candura aveva cercato di convincere Valenti Luciano a dichiararsi interamente responsabile del furto e ciò perché provenendo questi da una famiglia con problemi mentali non ci sarebbero state conseguenze di rilievo, ma una volta capito che nessuno lo avrebbe creduto aveva deciso di collaborare. In sede di controesame attraverso contestazioni è emerso che, dopo tale accordo con Valenti, Candura aveva reso delle dichiarazioni volte ad accreditare la versione concordata con il Valenti.

Orbene, appare evidente alla luce del complesso degli elementi acquisiti che il comportamento iniziale del Candura era solo apparentemente strano, poiché può ben comprendersi il particolare stato di agitazione in cui certamente si era venuto a trovare il Candura dopo avere compreso di avere fornito l’autovettura che era stata usata come autobomba, causando la morte di diverse persone e le devastazioni mostrate da tutti i mezzi di informazione.
Non ci vuole molto per capire quale potesse essere il livello di angoscia in cui dovette trovarsi il Candura, piccolo delinquente di borgata abituato a furtarelli per procurarsi la droga, nel vedersi schiacciato tra la possibilità di essere coinvolto in un processo per strage e la possibilità di essere ucciso da chi gli aveva commissionato il furto, ipotesi quest’ultima che ebbe ad assumere una consistenza particolarmente concreta ed intensa dopo le minacce rivoltegli da Scarantino Vincenzo per indurlo a stare zitto. Pienamente comprensibili appaiono, quindi, sia la richiesta di aiuto e le espressioni apparentemente farneticanti in occasione del primo fermo da parte dei Carabinieri, sia il successivo, ingenuo, tentativo di scaricare ogni responsabilità su Valenti Luciano, confidando sulle precarie condizioni mentali dello stesso e dei suoi familiari.


SALVATORE CANDURA

 

 

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