C’è una relazione riservata che è finita fra le carte delle stragi siciliane. E’ la fotocopia di un fascicolo dei servizi segreti, una scheda intestata alla “fonte Catullo”. Sotto il nome in codice, c’è anche il nome vero del personaggio sotto copertura: Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta e poi a capo del “Gruppo Falcone-Borsellino”, il pool di investigatori che per decreto governativo ha investigato sulle uccisioni dei due magistrati.
Questa è l’ultima informazione arrivata dall’Aisi (l’Agenzia per la sicurezza interna) ai procuratori di Caltanissetta che indagano su Capaci e via Mariano D’Amelio, ed è anche l’informazione che potrebbe dare una sterzata decisiva a tutte le inchieste sui massacri di mafia avvenuti in quella stagione in Sicilia. Arnaldo La Barbera, morto di cancro nel settembre del 2002, fama di funzionario integerrimo, un duro catapultato nella prima settimana di agosto del 1988 in una Palermo rovente soffocata dai sospetti e dai veleni, in realtà era al soldo del Sisde con una regolare retribuzione registrata nel fascicolo spedito qualche settimana fa agli inquirenti siciliani. Un’anomalia – capo della mobile di Palermo e “fonte Catullo” – che forse porterà a inseguire altre tracce sulle stragi. A cominciare dall’autobomba che ha fatto saltare in aria Borsellino e a finire al fallito attentato dell’Addaura. Per il momento non c’è alcun collegamento – preciso, documentato – fra i buchi neri delle indagini sui massacri e la scoperta della “fonte Catullo”, lo scenario che però si apre con l’entrata in scena di La Barbera agente segreto è di quelli molto inquietanti.
A svelare l’esistenza della scheda e del doppio incarico di Arnaldo la Barbera sono stati due giornalisti, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che ne L’Agenda Nera – un saggio che sarà in libreria domani (Chiarelettere, pagg 464, euro 15) – ricostruiscono come sono state taroccate le indagini su via D’Amelio. Un capitolo è dedicato ai “depistaggi di Stato”. Ed è lì che si svela l’identità della “fonte Catullo”. Chi ha indagato sugli assassini di Paolo Borsellino – e ha incastrato il falso pentito Vincenzo Scarantino, quello smentito diciassette anni dopo da Gaspare Spatuzza – risultava nel 1986 e nel 1987, quindi nei due anni precedenti al suo arrivo a Palermo, un agente sotto copertura. Se la circostanza è assai strana di per sé (perché un poliziotto, anzi un superpoliziotto, avrebbe dovuto ricevere degli “extra” dal servizio segreto? e quali notizie di polizia giudiziaria avrebbe dovuto rivelare all’intelligence?), ancora più complicato e cupo è il contesto in cui questa informazione scivola. E’ quello della strage Borsellino. Indagine che è parzialmente da rifare, con un pezzo del processo già definito in Cassazione che va verso la revisione.
Le ultime investigazioni hanno accertato che il pentito Scarantino, voluto a tutti i costi da Arnaldo La Barbera come l’autore del furto di quell’auto che poi servì a uccidere Borsellino, mentiva. E mentiva probabilmente per sviare le indagini. L’interrogativo che si pongono oggi i magistrati: Vincenzo Scarantino è stato incastrato per un’ansia da prestazione, per trovare subito un colpevole oppure è stato “costruito” a tavolino per insabbiare ogni altra indagine sugli assassini del procuratore?
La scoperta della “fonte Catullo” riporta anche ad un’altra vicenda: quella sul fallito attentato all’Addaura. Una nuova inchiesta ha capovolto la scena del crimine: quel giorno – il 21 giugno 1989 – sugli scogli c’era un pezzo di Stato che voleva Falcone morto e un altro pezzo che l’ha salvato. Da una parte boss e agenti dei servizi che piazzarono l’ordigno, dall’altra i poliziotti Nino Agostino ed Emanuele Piazza che scoprirono quello che stava accadendo e riuscirono a sventare l’attentato. Dopo un mese e mezzo l’agente Agostino fu ucciso (Emanuele Piazza fu strangolato nove mesi dopo) e la squadra mobile di Palermo seguì per anni un’improbabile “pista passionale”. Un altro depistaggio. Cominciato la stessa notte dell’omicidio con una perquisizione a casa del poliziotto ucciso. Qualcuno entrò nella sua casa e portò via dall’armadio alcune carte che Agostino nascondeva. Quel qualcuno era l’ispettore di polizia Guido Paolilli, ufficialmente in servizio alla questura di Pescara ma spesso “distaccato” a Palermo e “a disposizione” di La Barbera. Scendeva in Sicilia in missione segreta – come la sera che perquisì la casa dell’agente Agostino e fece sparire gli appunti – senza lasciare mai traccia della sua presenza nell’isola. Qualche mese fa una microspia ha registrato la sua voce mentre raccontava al figlio: “In quell’armadio di Agostino c’erano carte che ho distrutto”.