Il “depistaggio”, presente come reato nel codice penale solo dal 2016, è infatti oggetto di altri processi definiti e in corso: se n’è occupato il Borsellino quater, nel quale è uscito prescritto dal reato di calunniaVincenzo Scarantino e il processo in corso a Caltanissetta a carico di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei con l’accusa di calunnia in concorso, tre poliziotti in servizio nel gruppo Falcone-Borsellino che all’epoca, coordinato dalla Procura di Caltanissetta, si occupava delle indagini e dunque della gestione dei collaboratori rivelatisi falsi (Perché Scarantino ha detto il falso? Per volere di chi? Con l’aiuto di chi?). Al vertice di quel gruppo di investigatori della Polizia di Stato c’era Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, stimato da molti colleghi e magistrati, compresi quelli che nutrivano dubbi sulla credibilità e sulla caratura criminale di Vincenzo Scarantino. Le evidenze e le domande emerse negli anni riguardo alla gestione sciagurata di quella collaborazione con la giustizia e che rendono plausibili molti dubbi – cui non vanno esenti, come sempre in questi casi, strumentalizzazioni e letture “tifose” di segno opposto – fanno inevitabilmente di Arnaldo La Barbera il convitato di pietra di molte sentenze, definitive e non, più o meno recenti. La sua morte prematura ha reso il giudizio sul suo operato di allora materia per gli storici, senza avergli dato il tempo di vedersi contestare in giudizio accuse in vita e di difendersene.
IL FALSO PENTITO A distanza di 29 anni sono ancora in molti a chiedersi come abbia potuto una figura di poco spessore far deragliare un’indagine così importante facendole trovare conferme nei gradi di giudizio di diversi processi. Nelle deposizioni del processo in corso a Caltanissetta oggi a carico dei poliziotti s’è sentito al suo proposito l’appellativo siciliano di “scassapagghiara”, scassapagliai, a indicarne lo scarso spessore criminale, benché fosse parente di un noto uomo d’onore. A distanza di 29 anni è acclarata la sua figura di “collaboratore” controverso. Arrestato a settembre del 1992, collaboratore dal giugno 1994, già nel 1998 nel Borsellino bis aveva ritrattato tutto in aula affermando di aver ricevuto pressioni per mentire. Uno dei dati che hanno fatto scrivere all’estensore della sentenza di primo grado del quater che la situazione avrebbe dovuto: consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone».
LA TRAPPOLA SI SAREBBE POTUTA EVITARE? L’aspetto che più interroga, di tutti i punti oscuri di una vicenda intricatissima, viene da due lettere, risalenti all’ottobre 1994, una delle quali inviata per conoscenza anche alla Procura di Palermo e solo lì ritrovata, lasciate agli atti da Ilda Boccassini, che fece parte del Pool che si occupava delle stragi a Caltanissetta dal novembre 1992 all’ottobre 1994. In questi documenti, uno dei quali controfirmato anche da Roberto Sajeva, magistrato della Dna e parte del Pool, si evidenziavano in modo circostanziato le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Scarantino e si suggeriva di riconsiderarne l’attendibilità complessiva. Il processo Borsellino 1 stava iniziando. Quei documenti scritti e ritrovati sono la prova documentale che già nel 1994 almeno due magistrati coinvolti nelle indagini avevano intuito la presenza di una falla. Se quell’intuizione avesse trovato ascolto «il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» si sarebbe potuto, come tante volte si fa con mitomani e depistatori, smascherare e sgonfiare per tempo? È una risposta che potrebbe trovare il processo in corso a Caltanissetta, il cui dibattimento sta provando a far luce sulle eventuali responsabilità di poliziotti all’epoca impegnati nella gestione di Scarantino, e sul buco nero su chi e che cosa l’avrebbero indotto a mentire. Ma è evidente che il tempo trascorso renderà difficile dare risposte incontrovertibili a tanti piccoli episodi la cui memoria a distanza di 29 anni potrebbe non essere più così salda. Tanto più che nel frattempo è venuto a mancare, non solo Arnaldo La Barbera, ma anche il capo della Procura nissena di allora Gianni Tinebra.
UNA PAGINA INQUIETANTE Potremmo non sapere mai compiutamente se quello che chiamiamo depistaggio sia stato un disegno complessivo che ha indotto tante persone in errore o una catena di tanti eventi più piccoli (fraintendimenti, incongruenze, inesperienze, errori, inadempienze, aggiustamenti, forzature più o meno intenzionali) che hanno finito per convergere e portare l’indagine a deragliare e i processi a condannare innocenti o se si sia trattato di una commistione di entrambe le cose. Comunque il risultato è una “pagina vergognosa e tragica” della storia giudiziaria italiana per dirla con le parole del Procuratore generale della Cassazione al Borsellino quater. da FAMIGLIA CRISTIANA nov.2021