RELAZIONE
I LEGISLATURA — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI — DOCUMENTI — DOC. XXIII N. 38
Mafie e religione
Premessa
La Commissione Antimafia ha dedicato particolare attenzione alla promozione di una nuova cultura della legalità e della giustizia, senza le quali la lotta alle mafie rimane chiusa nel perimetro della repressione militare e giudiziaria e non produce quel cambiamento delle coscienze indispensabile a fare terra bruciata del metodo mafioso.
Su questo versante è stato affrontato anche il rapporto tra mafie e religione che in questa legislatura si è imposto con una rinnovata sensibilità alla luce della costante predicazione di Papa Francesco contro l’illegalità e la corruzione, culminata nella scomunica ai mafiosi pronunciata nel giugno del 2014 a Cassano allo Ionio.
Nel cuore del dominio ‘ndranghetista, il Pontefice ha tracciato una linea di assoluta incompatibilità tra l’essere cristiano e l’essere mafioso che schiude nuovi orizzonti di liberazione nei rapporti tra Chiesa Cattolica e mafie, una questione antica che ha accompagnato il radicamento nel nostro Mezzogiorno delle organizzazioni mafiose.
Dalla neutralità a una nuova consapevolezza
La storia ormai centenaria delle mafie meridionali non è la storia di semplici organizzazioni criminali ma dei rapporti che l’insieme della società ha stabilito con questi fenomeni criminali e viceversa. La Chiesa fa parte a pieno titolo di questi rapporti che sono stati ampiamente scandagliati da studiosi e teologi, interpellati dal paradosso di una religione non violenta usata dall’ideologia violenta e totalizzante dei mafiosi.
Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita, si sono appropriate dei riti e dei simboli della fede cristiana per creare un proprio universo di significati e di valori, riconoscibile e rassicurante.
Falcone sosteneva che entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione e non c’è dubbio che per alcuni aspetti la Chiesa ha ispirato le regole, le gerarchie e il lessico sui quali si sono plasmate le organizzazioni criminali. In ampi territori del Sud d’Italia il legame con la religione è stato uno dei fattori decisivi nella costruzione del consenso e nella capacità delle mafie di presentarsi anche surrogato dei poteri pubblici e dello Stato.
Battesimi, cresime, matrimoni e funerali erano considerati una prova della religiosità dei mafiosi, insieme alle offerte di denaro in favore di confraternite, pellegrinaggi, feste patronali. Non si comprendeva o peggio si accettava la strumentalità con la quale queste occasioni pubbliche erano utilizzate per stringere alleanze e ostentare il controllo sul territorio.
Se per un mafioso la devozione era un elemento essenziale nell’autorappresentazione di sé – Michele Greco si faceva chiamare “papa” e nel covo di Provenzano sono stati trovati decine di santini, libri di preghiere, una bibbia e alle pareti solamente quadri raffiguranti scene sacre – per le chiese meridionali le mafie sono state a lungo vissute e tollerate come strutture d’ordine, alleate naturali nella comune estraneità-ostilità allo Stato unitario e poi, nel secondo dopoguerra, nella contrapposizione ideologica al comunismo e nella difesa di una comune civiltà cristiana.
I cedimenti, le omissioni e i silenzi di una parte del clero locale hanno avuto un ruolo legittimante dei poteri mafiosi che a lungo hanno fatto leva su questa neutralità per consolidare il loro dominio.
Come per la società italiana anche per la Chiesa Cattolica l’urgenza di eventi drammatici e sanguinosi costringe a guardare in faccia il male e a uscire dal silenzio.
La violenza sanguinaria degli anni Ottanta, le guerre di mafia a Palermo e quelle di camorra nel Napoletano, gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio la Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa innescano le prime condanne pubbliche. Ai funerali del generale dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro, del 3 settembre 1982, il cardinale Salvatore Pappalardo denuncia
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l’indifferenza delle istituzioni e proietta la questione mafiosa oltre i confini della regione, con una celebre citazione di Tito Livio: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!”. Pochi giorni dopo, in un documento della conferenza episcopale siciliana di solidarietà alle posizioni del cardinale di Palermo, compare per la prima volta la parola mafia: “A seguito del doloroso acuirsi dell’attività criminosa che segna di sangue e di lutti la nostra regione, i vescovi, in forza della loro responsabilità di pastori, riaffermano la loro decisa condanna (…) sottolineando la gravità particolare di ricorrenti episodi di violenza che spesso hanno come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita”.
In Campania, nello stesso anno il nuovo vescovo di Acerra, Antonio Riboldi promuove una marcia anticamorra di migliaia di giovani a Ottaviano, nel centro del potere di Raffaele Cutolo.
In Calabria, già nel 1975 un documento della conferenza episcopale definisce la mafia “disonorante piaga della società”. Più tardi, il 2 settembre 1984, don Italo Calabrò, il don Milani del Sud, chiama la sua comunità a reagire al rapimento, a Lazzaro di Reggio Calabria, del piccolo Vincenzo Diano: “siamo qui per stabilire un costume di non violenta, ma ferma opposizione alla mafia in tutte le sue manifestazioni” e parla dei mafiosi come “gente che in mezzo a noi esprime il potere di Satana, il regno del male”.
Prese di posizione di chiese e sacerdoti meridionali che testimoniano una crescente consapevolezza del fenomeno mafioso che negli anni Novanta si arricchisce di nuovi decisivi passaggi.
Il documento della CEI “Educare alla legalità” del 10 aprile 1991, rappresenta una lucida denuncia della crisi democratica e del peso crescente delle dinamiche criminali nel mancato sviluppo della società. I vescovi italiani descrivono un quadro severo della criminalità organizzata “che spadroneggia in varie zone del paese fino a proporsi come uno Stato alternativo a quello di diritto” stigmatizzano “l’omertà, le collusioni e il disimpegno” e la ricerca “delle convenienze” l’esplosione della corruzione. Il documento traccia un cammino di recupero della legalità che deve tenere insieme “le responsabilità pubbliche e i comportamenti individuali”; richiama “la comunità cristiana a un impegno serio, non formale, al principio di legalità attraverso la crescita dell’etica della socialità e solidarietà” con una particolare attenzione alla coerenza nei comportamenti, pubblici e privati, e tra i mezzi e i fini e invita “i credenti a essere cittadini esemplari”.
Ad Agrigento, il 9 maggio del 1993, si consuma la cesura più radicale tra Chiesa e mafie. A un anno dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio e dopo un commovente incontro privato con i genitori del giudice Rosario Livatino, Giovanni Paolo II abbandona il testo scritto dell’omelia per rivolgersi agli direttamente ai mafiosi con un grido di dolore pubblico che suona come un anatema: “Dio ha detto una volta, non uccidere. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è vita, verità e vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio”.
La reazione feroce di cosa nostra non si fa attendere. Prima, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, gli attentati alle chiese romane di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano. Poi, il 15 settembre, nel giorno del suo compleanno, viene assassinato don Pino Puglisi, il prete che a Brancaccio liberava i ragazzi dal controllo dei mafiosi. Gaspare Spatuzza, il killer armato dai fratelli Graviano, è anche l’uomo che aveva imbottito di tritolo le auto esplose a Roma, uno degli autori delle stragi di Via Palestro a Milano e di Via dei Georgofili a Firenze.
Francesco Marino Mannoia, un collaboratore di giustizia, in quei mesi aveva spiegato ai magistrati: “Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite”.
Il 19 marzo 1994, nel giorno del suo onomastico, veniva ucciso dalla camorra don Peppino Diana, parroco di Casal di Principe che in una lettera scritta nel Natale del 1991 insieme a altri sacerdoti, “Per amore del mio popolo non tacerò”, aveva denunciato il sistema criminale e i traffici
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della camorra, richiamato la politica alla sua responsabilità ma chiedeva anche alla Chiesa di essere protetica “ai nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”. Don Diana si era sentito meno solo dopo l’omelia agrigentina di Giovanni Paolo II e aveva moltiplicato il suo impegno anticamorra e ha pagato con la vita la sua coerenza cristiana.
Un anno dopo, il 25 marzo del 1995 nasce Libera, fortemente voluta da don Luigi Ciotti che riunisce in un cartello esplicitamente connotato dalla lotta alle mafie le associazioni antiracket e gruppi di volontariato civile e sindacati.
In poco tempo Libera è diventata l’anima dell’antimafia civile e culturale del nostro Paese che mobilita soprattutto i giovani e raccoglie sotto un’unica bandiera le voci e le esperienze di impegno sociale di tante parrocchie e centri di formazione del Sud.
Memoria delle vittime innocenti, educazione alla legalità nelle scuole, riuso sociale dei beni sottratti alle mafie, sono il terreno privilegiato sul quale si sviluppa un inedito percorso di partecipazione e condivisione che nei fatti rappresenta un’esplicita scelta di campo nella lotta contro l’illegalità e i poteri mafiosi.
Le sfide di oggi
La rottura con le neutralità e le connivenze del passato è dunque il frutto di lungo cammino che ha visto tante piccole e grandi realtà della Chiesa italiana presenti con un’opera coraggiosa e tenace di ‘liberazione’ delle coscienze e dei territori.
Oggi l’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle mafie – che nel frattempo non solo si sono insediate in tutto il Paese ma in qualche modo si sono anche “secolarizzate” – le nuove generazioni si mostrano meno sensibili e un latitante come Matteo Messina Denaro ha confessato il proprio ateismo – appare ancora oscillante.
Da un lato si sviluppa l’azione di contrasto declinato in una pluralità d’interventi che vanno dalle cooperative di lavoro per i giovani create da Libera all’informazione nelle scuole, dalla promozione di nuovi modelli di santità – con i processi di beatificazione di don Pino Puglisi e quelli ancora in corso per Rosario Livatino e don Peppe Diana – ai corsi nei seminari calabresi sulla ‘ndrangheta, a regole più stringenti per le feste religiose introdotte da alcuni vescovi per ostacolare strumentalizzazioni e protagonismo dei clan.
Dall’altro persistono zone d’ombra e preoccupanti forme di sottovalutazione, soprattutto nelle regioni del centro e del nord d’Italia, dove la convinzione generalizzata che le mafie siano solamente un problema del Mezzogiorno ha favorito la rimozione collettiva della realtà e impedito di cogliere per tempo i segnali di infiltrazione e condizionamento criminale.
La sottovalutazione nei nuovi insediamenti mafiosi
Il caso del funerale di Vittorio Casamonica, il 20 agosto del 2015 nella chiesa Don Bosco nel quartiere Tuscolano di Roma, ha avuto grande rilievo mediatico per la spettacolare messa in scena del feretro trasportato per alcuni chilometri dal cocchio funebre, sulle note del film Il Padrino, mentre un elicottero sorvolava a bassa quota per un lancio di petali rosa. Sulla facciata della chiesa una gigantografia del boss defunto, vestito di bianco con la scritta “hai conquistato Roma ora conquisterai il Paradiso”, testimoniava la forza di un clan mafioso, di elevatissimo spessore criminale, tra più potenti e temuti a Roma e nel Lazio.
Quel funerale non ha solo rappresentato una sfida allo Stato e alla magistratura che aveva scoperchiato mafia capitale. È stato anche una testimonianza della fatica di tradurre sul piano della pastorale quotidiana la scomunica pronunciata da Papa Francesco. Il parroco del Don Bosco non ha infatti mostrato imbarazzo: “Il perdono c’è per tutti. La Chiesa non discrimina, io do l’assoluzione a tutti” sostenendo che quanto accaduto fuori della chiesa non era di sua competenza.
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Un esempio, altrettanto indicativo della difficoltà della comunità ecclesiale di assumere atteggiamenti rigorosi e univoci nei confronti di soggetti affiliati alle cosche mafiose, è quello della cresima ricevuta a Padova nel dicembre del 2016 da Salvatore Riina, figlio del capo di cosa nostra, che gli ha permesso di fare il padrino al battesimo della nipote, il 29 dicembre del 2017 a Corleone. Salvatore Riina, condannato per associazione mafiosa, aveva pubblicizzato nella puntata del 6 aprile a Porta a Porta il libro autobiografico, Riina family life, nel quale non c’è traccia della storia criminale del padre e aveva sfruttato la prestigiosa vetrina della RAI per mandare messaggi inquietanti contro i collaboratori di giustizia. Ma il parroco di Corleone non ha mosso obiezioni e solo quando la notizia del battesimo è trapelata sui quotidiani nazionali, si è giustificato sostenendo che il figlio di Riina aveva un certificato di idoneità firmato da un parroco della diocesi di Padova e il permesso del giudice per andare in Sicilia.
Un rimpallo di responsabilità duramente stigmatizzato da monsignor Pennisi vescovo di Monreale: “consentire al figlio di Riina di fare il padrino di battesimo è stata una scelta censurabile e quanto meno inopportuna. Il padrino deve essere il garante della fede, deve dare testimonianza con le sue azioni e non mi risulta che il giovane abbia mai espresso parole di ravvedimento per la sua condotta”. La curia di Monreale ha emanato due decreti che vietano ai condannati per mafia in via definitiva di far parte di confraternite e di essere i padrini di battesimi e di cresime.
Il Mezzogiorno è più avanti?
Il 21 giugno del 2014, Papa Francesco a Cassano allo Ionio, nell’omelia per la celebrazione del Corpus Domini, di fronte a migliaia di fedeli pronuncia la scomunica per i mafiosi. “Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”.
Parole che segnano una netta cesura con le omissioni del passato e hanno contribuito a rafforzare, nella comunità dei credenti, la consapevolezza che la fede non può essere silente, indifferente o inerme di fronte all’illegalità e alla violenza.
L’incontro con la conferenza episcopale calabra
La scomunica di Papa Francesco ha prodotto nuove importanti prese di posizione nella Chiesa calabrese: negli istituti teologici e di scienze religiose è stato avviato un corso di studio sulla ‘ndrangheta, per integrare la formazione dei seminaristi con la conoscenza del fenomeno criminale, mentre in occasione del Natale 2014 è stata diffusa una nota pastorale “Testimoniare la verità del Vangelo” nella quale si precisa che la ‘ndrangheta è “una struttura di peccato, che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”. Pertanto, “il mafioso, se non dimostra autentico pentimento né volontà di uscire da una situazione di peccato, non può essere assolto sacramentalmente nel rito della confessione e riconciliazione, né può accedere alla comunione eucaristica e tantomeno può rivestire uffici e compiti all’interno della comunità ecclesiale”523.
523 Testimoniare la verità del Vangelo, Nota pastorale sulla ‘ndrangheta, CEC dicembre 2014 (Doc. 573).
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Il 22 giugno 2015 a Lamezia Terme si è svolto l’incontro tra la Commissione parlamentare antimafia e la Conferenza episcopale calabrese (CEC)524. Un’occasione di dialogo molto franco nel quale sono emerse, nella doverosa distinzione e autonomia dei ruoli, importanti convergenze. Monsignor Salvatore Nunnari, all’epoca presidente della CEC, ha ricordato che la ‘ndrangheta, “attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell’unico vero Dio, qualche volta anche fino al ridicolo”. Ne ha sottolineato la capacità di esercitare “un profondo condizionamento della vita sociale, politica e imprenditoriale nella nostra terra” e per questo rappresenta “un pericolo per il presente e il futuro della Calabria”. È compito della Chiesa “mettere ogni impegno, in tutte le forme possibili e compatibili con la sua missione, perché sia estirpata dalla nostra terra quella distorsione peccaminosa e perché le nuove generazioni siano vaccinate con la prevenzione”. Al tempo stesso, ha chiesto un impegno più forte da parte delle istituzioni: “È finito il tempo dell’assistenzialismo e del clientelismo Lo Stato deve essere presente per garantire i diritti”.
Questa preoccupazione è stata ribadita anche dagli altri vescovi presenti, che hanno denunciato le omissioni della politica, i ritardi con cui sono affrontati i problemi strutturali della Calabria, l’assenza di una attenzione vera e costante al Sud d’Italia. “La missione dell’antimafia deve essere quella di far credere con certezza che si possono cambiare le cose. La cura della mafia è il lavoro per i giovani”, ha detto il vescovo di Lamezia Terme mons. Luigi Cantafora. L’esigenza di “creare un circuito virtuoso e una pedagogia del positivo che possa generare il cambiamento culturale della mentalità mafiosa” è stata espressa da monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano alla Ionio che ha invitato la politica, le istituzioni, il terzo settore e la Chiesa “a costruire insieme”. Sulla stessa linea monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro, che ha richiamato alle responsabilità comuni: “Tutti noi ci dobbiamo dare una mossa, altrimenti saremo surclassati dalla corruzione. Abbiamo una chiarezza nitida sull’incompatibilità assoluta tra ogni forma di organizzazione malavitosa, che si chiami mafia o ‘ndrangheta, e il Vangelo”.
Ma non sono mancate voci preoccupate come quelle di monsignor Renzo, vescovo di Mileto-Nicotera e Tropea e di monsignor Milito, vescovo di Oppido Mamertina-Palmi, due diocesi finite sui giornali per i casi degli inchini di statue di santi davanti alle abitazioni di noti ‘ndranghetisti, durante le processioni dell’Affruntata a Sant’Onofrio e della Madonna delle Grazie a Oppido Mamertina. I due vescovi hanno espresso amarezza per il clamore mediatico riservato a quelle processioni mentre sarebbero state ignorate le rigorose misure adottate per evitare nuove strumentalizzazioni. Nè toni polemici come quelli di monsignor Morosini, vescovo di Reggio Calabria: “non potete chiedere alla Chiesa quello che neanche le forze dell’ordine e la magistratura fanno. Non è sufficiente il fumus per dire a un prete o a un vescovo: ‘non devi ammetterlo ai sacramenti’.
Pur nella diversità di accenti l’incontro tra la Commissione Antimafia e i vescovi della Calabria ha delineato il perimetro di una maggiore collaborazione e di un dialogo costante nell’impegno comune contro la criminalità organizzata.
Soprattutto nel Mezzogiorno, la presenza dello Stato non può essere identificata solamente l’azione di contrasto militare e la repressione. Alle provocazioni mafiose viste a Locri, dove alla vigilia della marcia in ricordo delle vittime innocenti di mafia sul muro del vescovado è comparsa la scritta “meno sbirri più lavoro”, occorre rispondere con la vigilanza delle forze dell’ordine e della magistratura e con politiche che incentivano la buona occupazione, assicurano i servizi essenziali, promuovono uno sviluppo di qualità, garantiscono i diritti di cittadinanza.
D’altra parte c’è bisogno di una Chiesa che non permetta forme distorte o deviate della religiosità popolare ma che usi il linguaggio della verità per smascherare quanti continuano a giustificare la presenza delle mafie con l’assenza dello Stato, avallando così la convinzione distorta che le mafie siano una conseguenza e non la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno.
524 Missione a Lamezia Terme del 22 giugno 2015, incontro con i vescovi della Conferenza Episcopale Calabra (Doc. 1746).
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La visita al santuario della Madonna di Polsi
La Commissione aveva in realtà già avviato gli approfondimenti sui rapporti tra Chiesa e ‘ndrangheta con una visita, il 29 aprile del 2014, al santuario della Madonna di Polsi. Per la prima volta, una delegazione della Commissione parlamentare antimafia, guidata dalla presidente Bindi varcava le porte del santuario nel cuore dell’Aspromonte. Un luogo simbolo della pietà popolare calabra, molto frequentato da maggio fino alla fine di settembre, e non a caso scelto dai vertici della ‘ndrangheta per organizzare, in occasione dei festeggiamenti della Madonna della montagna il 2 e 3 settembre, gli incontri più importanti, nei quali ratificare le cariche e prendere le decisioni strategiche. Come ha osservato il procuratore Nicola Gratteri, c’era una perfetta sinergia tra i locali di ‘ndrangheta di San Luca, di Platì e i preti che gestivano il santuario di Polsi. Quando è stato ucciso il prete don Giovinazzo “aveva in tasca” 800 mila lire e un conto in banca di due miliardi. E il sostituto Giovanni Musarò ha riferito che la riunione di Polsi, convocata una volta all’anno e a cui partecipano rappresentanti della ‘ndrangheta di tutte le locali del mondo, rimane una riunione importante anche se con la creazione della “provincia” ha sicuramente perso potere525.
La vicenda di don Giuseppe Giovinazzo, coadiutore del rettore del Santuario, assassinato in un agguato mafioso nel giugno del 1989 sul quale non sono stati ancora identificati mandanti ed esecutori ma che potrebbe essere legato al tentativo di mediazione nel sequestro di Cesare Casella, riassume bene le relazioni ambigue di un clero che fino a tempi recenti ha accettato la convivenza con le cosche come dato di fatto, arrivando persino a mostrare insofferenza per l’azione di contrasto delle forze dell’ordine.
Nel corso della visita, la presidente della Commissione aveva ricordato che la ‘ndrangheta “riesce a penetrare in ogni aspetto della vita sociale, culturale e civile di questa terra e uno dei segnali di questa pervasività è anche il fatto che riesce a intaccare un simbolo così sacro, come questo santuario. Siamo qui anche per testimoniare l’impegno delle istituzioni e dello Stato a liberare ogni luogo di questa terra, compreso un luogo della fede così significativo, dalla presenza asfissiante della ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta non può permettersi di usare le cose più sacre come la fede, la famiglia, l’amicizia. E al tempo stesso, e lo dico da credente, è giusto dire che non vogliamo farci usare. Siamo venuti qui con l’umiltà di chi vuole capire ma anche con la fermezza di chi vuole riaffermare la presenza delle istituzioni”.
La visita ha voluto riaffermare la collaborazione, sancita dalla Costituzione, tra Stato e Chiesa nella promozione della libertà e dignità della persona, costantemente negate dalle organizzazioni mafiose.
All’epoca rettore del santuario era il parroco di San Luca don Pino Strangio, nipote di Giuseppe Strangio capostipite della potente famiglia ‘ndranghetista di San Luca coinvolta nella strage di Duisburg. Il sacerdote è stato indagato dalla procura di Reggio Calabria per concorso esterno in associazione mafiosa e violazione della legge Spadolini-Anselmi, nell’ambito del procedimento “Gotha” e successivamente rinviato a giudizio. Secondo i magistrati della DDA reggina avrebbe svolto un ruolo di mediatore nelle relazioni tra esponenti istituzionali ed esponenti della ‘ndrangheta, funzionali allo scambio tra informazioni e agevolazioni.
Don Strangio è stato quindi sostituito nel gennaio del 2017, al suo posto il vescovo di Locri- Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha nominato rettore il parroco di Ardore, don Tonino Saraco, più volte minacciato per il suo impegno in favore della legalità. In quell’occasione il vescovo ha ricordato che il “Vangelo rifiuta il compromesso col potere del denaro e delle armi, della violenza e dell’arroganza mafiosa”.
Non sempre è stata però riscontrata questa chiarezza. Nel corso della missione a Locri nell’aprile del 2016, la presidente della Commissione aveva espresso il proprio rammarico per il
525 Missione a Reggio Calabria del 28 aprile 2014, audizione dei magistrati della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, resoconto stenografico.
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sostegno offerto dal vescovo di Locri-Gerace a una manifestazione organizzata a Platì nei locali della parrocchia per protestare contro le parole del Ministro dell’interno, Marco Minniti, che in una riunione a Palazzo Chigi aveva paragonato il radicamento jihadista nel quartiere Molenbeek di Bruxelles, al radicamento della ‘ndrangheta nella cittadina della Locride. L’incontro era stato promosso, in vista delle imminenti elezioni comunali, dai candidati di una lista elettorale e vi avevano partecipato anche noti esponenti delle cosche del paese. In quella occasione, la chiesa locale non aveva tempestivamente compreso la strumentalità dell’iniziativa, finendo per assecondare chi voleva negare l’evidenza del potere esercitato dalla ‘ndrangheta su quel territorio. All’intervento della presidente Bindi è seguito un incontro chiarificatore con il vescovo monsignor Francesco Oliva, il quale oggi è un punto di riferimento nella lotta contro l’illegalità e la violenza mafiose nella Locride.
È stato estremamente rigoroso e vigilante quando ha rifiutato una generosa donazione destinata alla ricostruzione del tetto della chiesa di San Nicola, Matrice di Bovalino, dopo che era accertata la dubbia provenienza del denaro: “È giusto che la Chiesa mostri distacco da tutto ciò che può influenzare o condizionare negativamente. Il nostro è un territorio tutto particolare, un territorio difficile, dove sappiamo che la malavita è molto organizzata”526. Nel giugno del 2017 ha sospeso le cresime a san Luca, dopo che alcuni cittadini avevano baciato la mano, in segno di ossequio, del latitante Giuseppe Giorgi appena catturato nel rifugio costruito nella sua abitazione in paese. Inchinarsi al potere umano, e ancor più al potere mafioso, rende schiavi e uccide la speranza, aveva scritto ai fedeli annunciando la sua decisione, “a voi tutti chiedo un sussulto di umanità e una conversione sincera alla vera fede”. In un incontro con il Ministro Minniti al Santuario di Polsi è stato molto esplicito: “Qui la ‘ndrangheta è sempre andata a braccetto con pezzi di Chiesa e la società civile non è stata attenta. Il nostro lavoro deve essere quello di evangelizzare ma anche di sensibilizzare la società civile. La ‘ndrangheta ha seminato un humus malefico che rende sempre più difficile l’idea di futuro di molte generazioni. Cosa fare? Occorre purificare la religiosità popolare e separarla dalla mentalità mafiosa. La Chiesa calabrese su questo impegno è compatta e ha maggiore attenzione da parte di tutti”527. Nella primavera dello stesso anno aveva ospitato a Locri, la Giornata nazionale dell’impegno e della memoria delle vittime innocenti delle mafie, celebrata in quella occasione alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella.
L’udienza speciale in Vaticano
Il 21 settembre 2017 la Commissione parlamentare antimafia è stata ricevuta in Vaticano da Papa Francesco. L’udienza speciale è stata concessa in occasione dell’anniversario dell’omicidio del giudice Livatino, definito da Giovanni Paolo II “martire della giustizia e indirettamente della fede”, per il quale è in corso il processo di beatificazione e che la Commissione aveva già commemorato rintracciando e pubblicando tutti gli atti delle inchieste e del processo ai mandati e agli esecutori del brutale agguato.
L’incontro ha rappresentato l’approdo più significativo del confronto sui temi della legalità tra Parlamento e Chiesa Cattolica sviluppato nel corso della legislatura528.
Come ricordato dalla presidente Bindi nel saluto iniziale, il magistero di Papa Francesco e la scomunica ai mafiosi, interpellano “credenti e non credenti, sulla capacità di operare davvero per la
526 Intervista a Radio Vaticana, 10 novembre 2016.
527 Avvenire, Chiesa e Stato insieme. Polsi, Santuario liberato, 4 luglio 2017.
528 Missione a Reggio Calabria del 10 dicembre 2013, audizioni di don Pino De Masi e don Giovanni La Diana; celebrazione alla Camera dei deputati del ventennale dell’assassinio di don Giuseppe Diana (17 marzo 2014); visita al santuario della Madonna di Polsi (29 aprile 2014, missione a Reggio Calabria); incontro con la CEC a Lamezia Terme(22 giugno 2015, missione a Lamezia Terme); incontro con la comunità di padre Alex Zanotelli nel quartiere Sanità di Napoli (15 settembre 2015, missione a Napoli); convegno di studi su Rosario Livatino alla Camera dei deputati (18 settembre 2015); convegno dell’Azione cattolica “Ridurre le diseguaglianze. Nuovi paradigmi per vivere insieme” tenutosi presso l’Istituto Bachelet il 12 e 13 febbraio 2016; seduta del 13 gennaio 2016, audizione in Commissione di don Luigi Ciotti.
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giustizia. Perché quando la Repubblica, tutti noi, la politica per prima, non promuove diritti fondamentali come il lavoro, la salute, l’educazione si aprono varchi alle mafie” e l’’impegno per la legalità non può essere misurato sulle convenienze e le opportunità del momento, perché “La misura della legalità è il bene comune che siamo chiamati a realizzare come cristiani e come cittadini, nella consapevolezza della radicale distanza che separa le mafie non solo dal Vangelo ma anche dalla nostra Costituzione”.
Nel suo intervento il Pontefice ha invitato a riconoscere i segni di una “crisi morale che oggi attraversa persone e istituzioni” tra i quali c’è anche “una politica deviata, piegata a interessi di parte e ad accordi non limpidi”. Al contrario una “politica autentica” opera invece “per assicurare un futuro di speranza e promuovere la dignità di ognuno” e sente come “sua priorità” la lotta alle mafie che “rubano il bene comune, togliendo speranza e dignità alle persone”. È dunque decisivo opporsi alla corruzione che “nel disprezzo dell’interesse generale, rappresenta il terreno fertile nel quale le mafie attecchiscono e si sviluppano”.
Il Pontefice ha ribadito la natura “contagiosa e parassitaria” della corruzione “una radice velenosa che altera la sana concorrenza e allontana gli investimenti”, “un habitus costruito sull’idolatria del denaro e la mercificazione della dignità umana” che va “combattuta con misure non meno incisive di quelle previste nella lotta alle mafie”.
Lottare contro le mafie non significa solo reprimere, “significa anche bonificare, trasformare, costruire” agendo su due livelli: quello politico “attraverso una maggiore giustizia sociale” e quello economico, “attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà”.
Il Papa ha ricordato “l’enorme problema di una finanza ormai sovrana sulle regole democratiche, grazie alla quale le realtà criminali investono e moltiplicano i già ingenti profitti ricavati dai loro traffici: droga, armi, tratta delle persone, smaltimento di rifiuti tossici, condizionamenti degli appalti per le grandi opere, gioco d’azzardo, racket”. Ha quindi sottolineato l’importanza di lavorare “costruzione di una nuova coscienza civile, la sola che può portare a una vera liberazione dalle mafie”.
Decisivo diventa allora “educare ed educarsi” alla consapevolezza dei contesti in cui si vive alla percezione dei fenomeni di corruzione “lavorando per un modo nuovo di essere cittadini, che comprenda la cura e la responsabilità per gli altri e per il bene comune”. Il Papa elogiando la legislazione antimafia dell’Italia “che coinvolge lo Stato e i cittadini, le amministrazioni e le associazioni, il mondo laico e quello cattolico e religioso” ha sottolineato il valore delle esperienze di riuso sociale dei beni confiscati alle mafie e ha chiesto di valorizzare e tutelare meglio di testimoni di giustizia.
Con il suo discorso Papa Francesco ha tracciato una vera e propria pastorale della giustizia e della liberazione dalle mafie e ha già messo al lavoro un gruppo di esperti incaricato di redigere un decreto ufficiale sulla scomunica ai corrotti e ai mafiosi. I vertici della Chiesa confermano che non torna indietro e che occorre moltiplicare l’impegno per uno sviluppo umano integrale. Spetterà alle chiese locali tradurre in atti conseguenti le indicazioni del Pontefice e c’è da augurarsi che non resti isolato, il comportamento tenuto dal vescovo di Monreale che all’annuncio della morte di Totò Riina, ha anticipato la prefettura con un secco no ai funerali per il boss di cosa nostra: “i mafiosi sono scomunicati e il canone 1184 del codice di diritto canonico, per evitare il pubblico scandalo dei fedeli, stabilisce che i peccatori manifesti e non pentiti devono essere privati delle esequie”529