Mafia e Mondo dell’Informazione in Commissione Parlamentare Antimafia

 


RELAZIONE

 

Spiritualità, cultura e informazione come argine alle mafie
Mafia e mondo dell’informazione

 

È già stato sottolineato il contributo offerto dal cinema, dalla televisione e più in generale dal mondo delle arti visive e dei mass media allo sviluppo del movimento civile dell’antimafia. Nel corso della legislatura, la Commissione, ha anche promosso e partecipato a numerosi eventi e iniziative di carattere culturale, destinati a sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della legalità e la memoria della lotta alle mafie511.
In particolare, costante attenzione è stata dedicata al rapporto tra il mondo dell’informazione e le mafie, sia con un’autonoma inchiesta sulla condizione dei numerosi giornalisti che subiscono intimidazioni e minacce di stampo mafioso sia interloquendo con i vertici della RAI, dopo le puntate del programma Porta a Porta dedicate ai funerali di Vittorio Casamonica512, boss dell’omonimo clan mafioso romano, e alla presentazione del libro autobiografico scritto dal figlio di Totò Riina intervistato in studio da Bruno Vespa.
Il fatto che, in entrambe le occasioni, un programma di punta della cosiddetta rete ammiraglia della RAI abbia offerto un prestigioso palcoscenico a chi cercava inaccettabili legittimazioni, è stato considerato dalla Commissione una gravissima sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del servizio pubblico. Alla figlia e al nipote di un capo clan è stato permesso di offrire un’autorappresentazione falsa e folcloristica della vasta famiglia mafiosa, che di fatto ne minimizzava la caratura criminale. Non a caso i Casamonica ospiti in studio, hanno sentito il bisogno, il giorno dopo, di ringraziare il conduttore Bruno Vespa.
Nel confronto con la Commissione, l’allora direttore di RAI 1, Giancarlo Leone, ha annunciato l’avvio di una riflessione interna all’azienda, riconoscendo la fondatezza delle critiche mosse: “quello che è successo apre per noi una questione interna molto importante e che tutto questo non potrà non essere foriero di importanti decisioni al nostro interno (…) Non c’è dubbio che tutto questo sarà oggetto di riflessione. Non c’è dubbio che in riferimento ai tanti criminali e ai tanti personaggi che sono stati ospiti dei nostri programmi d’ora in poi, quando ci porremo il tema di come rappresentarli, ci ricorderemo di quello che è successo e delle vostre parole”513.
A distanza di pochi mesi, si registrava un episodio ben più grave. Ignorando gli appelli di numerosi esponenti della Commissione e di tutto mondo dell’antimafia, la RAI mandava in onda il 6 aprile 2016 un’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina sul libro autobiografico Riina family life, ancora una volta nella cornice del “salotto buono” di Porta a Porta. Ai vertici dell’azienda, convocati il giorno dopo la messa in onda dell’intervista e ancor prima di qualunque altro organo parlamentare, la presidente Bindi ha contestato un’operazione editoriale che aveva visto Salvatore Riina definire il perimetro dell’intervista e condurre il gioco – tanto che la liberatoria venne firmata dopo la registrazione e non prima com’è prassi in tutti gli studi televisivi – per negare, con un linguaggio omertoso e reticente, il ruolo criminale del padre e la stessa esistenza della mafia, senza dire una parola sulla provenienza del denaro con cui si manteneva la famiglia. Inoltre, approfittando della prestigiosa vetrina RAI e del prevedibile buon andamento degli ascolti, il figlio del “capo dei capi” di cosa nostra, condannato a otto anni e dieci mesi per associazione mafiosa, come sottolineato dalla presidente Bindi “ha raccontato menzogne sui pentiti, a cominciare da Brusca, senza essere contraddetto. Ha attaccato il sistema dei collaboratori di giustizia e mandato un messaggio pericoloso e inquietante” che ha prestato il fianco “al negazionismo del fenomeno
511 Si veda tra l’altro l’iniziativa Il Mese dell’antimafia in Parlamento, nel marzo del 2014; l’anteprima della fiction RAI su don Peppino Diana in occasione dei vent’anni dal suo omicidio che si è tenuta a Montecitorio, alla presenza del Presidente del Senato Pietro Grasso, e della presidente della RAI Annamaria Tarantola; i convegni per ricordare la figura del giudice Rosario Livatino, la raccolta di tutti gli atti sulla strage di Portella della Ginestra, le celebrazioni della figura di Pio La Torre alla Camera dei Deputati; nonché in allegato l’elenco delle missioni.
512 Puntata di Porta a Porta, Rai1 dell’8 settembre 2015.
513Seduta del 23 settembre 2015, audizione del direttore di Rai1 Giancarlo Leone, resoconto stenografico n.113.

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mafioso. Questo è riduzionismo della mafia, da cui le organizzazioni criminali di questo Paese traggono forza e consenso sociale”514.
La presidente della RAI, Monica Maggioni, ha ammesso che “nelle riflessioni del giorno dopo, risentendo quel racconto, emergono moltissime cose che lo rendono insopportabile”515.
Ai vertici dell’azienda è stata chiesta maggiore coerenza e continuità nell’impegno culturale che pure il servizio pubblico svolge con la produzione di importanti serie televisive e film di grande qualità e successo popolare dedicati alle biografie di vittime innocenti delle mafie, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino o Lea Garofalo.
In questa sede preme sottolineare come occorra da parte di tutti i mass media evitare posizioni ambigue e di sottovalutazione dei comportamenti mafiosi e che possono indurre ad applicare impropriamente le regole della par condicio, come purtroppo è avvenuto in entrambe le occasioni ricordate, come se mafia e antimafia, legalità e illegalità possano essere presentate sullo stesso piano con una mal riposta esigenza di obiettività dell’informazione. In questi casi non si può invocare il pluralismo delle opinioni né tanto meno la neutralità della comunicazione; e il diritto di cronaca non può mai smarrire l’ancoraggio alle responsabilità morali e ai doveri di responsabilità sociale.
Su questi aspetti la Commissione ha sviluppato un intenso e proficuo confronto con gli operatori dell’informazione nell’ambito di una significativa inchiesta sulla condizione dei giornalisti intimiditi e minacciati dalle mafie. I mafiosi sono particolarmente insofferenti del lavoro di quei cronisti che scavano sui loro affari e fanno conoscere all’opinione pubblica le loro trame criminali.
L’inchiesta parlamentare è cominciata il 18 luglio 2014 presso il VIII Comitato Mafia, giornalisti e mondo dell’informazione, coordinato dall’on. Claudio Fava i cui risultati sono confluti in una proposta di relazione approvata dal plenum della Commissione il 5 agosto 2015. La Relazione sullo stato dell’informazione e sulla condizione dei giornalisti minacciati dalle mafie (Doc. XXIII, n. 6) è successivamente stata oggetto di dibattito e di approvazione all’unanimità da parte dell’Assemblea della Camera dei deputati. Si tratta del primo atto d’indagine che la Commissione Antimafia dedica, nei suoi cinquant’anni di attività, al rapporto tra mafie e informazione: non un titolo di merito ma il segno di una concreta e urgente preoccupazione.
Sono state svolte trentuno audizioni – sia in Comitato che in seduta plenaria – di giornalisti, direttori di quotidiani, presidenti di ordini dei giornalisti regionali e di quello nazionale, nonché del segretario della Federazione nazionale della stampa italiana e sono stati altresì auditi magistrati che, a vario titolo, potevano fornire un contributo sulla materia oggetto di analisi. Il giornalista Roberto Saviano, pur invitato, non ha ritenuto di accettare l’invito a essere audito. L’editore Mario Ciancio, in qualità di imputato per i medesimi fatti su cui sarebbe stato ascoltato dal Comitato, non è stato audito avendo preannunciato che si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere.
Durante i dieci mesi di attività del Comitato, la Commissione ha inoltre acquisito documentazione per l’approfondimento dei temi trattati, depositata dagli stessi auditi o acquisita d’ufficio; preziosa è stata anche la collaborazione con l’associazione Ossigeno per l’informazione. Altri atti utili all’indagine del Comitato sono stati acquisiti presso gli uffici giudiziari competenti.
L’indagine della Commissione ha preso le mosse da una precisa consapevolezza: la lotta contro i poteri criminali è anche una battaglia culturale che si gioca sul terreno di un’informazione con la schiena dritta, libera dai condizionamenti e capace di esercitare con correttezza e obiettività un’indispensabile funzione di conoscenza della realtà.
Una battaglia, in molti casi, solitaria e rischiosa. In Italia negli ultimi nove anni sono stati puniti in vario modo più di duemila giornalisti: avvertimenti, pestaggi, licenziamenti, trasferimenti, querele temerarie. Ogni due giorni vengono minacciati tre cronisti, stima per difetto visto che tiene
514 Seduta del 7 aprile 2016, audizione della presidente della RAI, Monica Maggioni e del direttore generale, Antonio
Campo dall’Orto, resoconto stenografico n. 149.
515 Seduta del 7 aprile 2016, audizione della presidente della RAI, Monica Maggioni e del direttore generale, Antonio
Campo dall’Orto, resoconto stenografico n. 149.

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conto solo degli episodi effettivamente denunciati. Non esistono zone franche: nel 2015 solo Val d’Aosta e Molise non hanno registrato aggressioni o intimidazioni contro l’informazione. Il vecchio paradigma di una violenza mafiosa concentrata nelle regioni meridionali è ormai superato da una realtà che indica nel Lazio la regione in cui si registra la maggior parte di episodi di minacce ai danni dei giornalisti. Merita attenzione anche il fatto che due casi tra i più gravi e recenti (l’attentato sventato ai danni di Giovanni Tizian e le ripetute gravi minacce nei confronti della giovanissima cronista Ester Castano), vanno collocati rispettivamente in Emilia Romagna e in Lombardia.
Probabilmente queste cifre sono la punta dell’iceberg perché tengono conto solo degli episodi conosciuti o denunciati: che restano una minima parte rispetto ai veri ordini di grandezza della violenza mafiosa contro i giornalisti. Se assumiamo l’indice proposto dall’osservatorio Ossigeno per l’informazione, che suggerisce di moltiplicare per dieci i casi noti, superiamo ogni anno le quattromila vittime dirette e indirette su una popolazione complessiva di 110 mila giornalisti iscritti all’ordine. Storie e numeri più che sufficienti per legittimare, nell’opinione pubblica straniera e nei rilevamenti di alcune grandi organizzazioni internazionali (dall’OCSE a Reporters Sans Frontiéres e all’IPI di Vienna), l’urgenza di un “caso Italia”. Al quale va aggiunto, come suggello storico, il numero tragicamente alto di giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo: ben undici. Troppi in un Paese democratico che dovrebbe avere nella libertà di informare e di essere informati uno dei capisaldi della propria cultura democratica.
Insomma, mentre le mafie sceglievano l’inabissamento, un profilo basso e cauto per continuare a fabbricare affari senza far troppo rumore, l’assalto al libero giornalismo è continuato. Anzi, è cresciuto, s’è fatto più sfacciato, come se il puntiglio della buona informazione fosse per loro una delle principali minacce. Davanti alle quali ogni risposta è lecita. Le enumera Roberto Rossi, uno dei giovani giornalisti che ascoltati in Commissione, ha denunciato: “Lettere minatorie, pallottole imbustate, incursioni in casa, cartucce abbandonate davanti alla porta della redazione, macchine incendiate, aggressioni a colpi di bastone, botte al giornalista e ai suoi familiari, sequestri di persona, danneggiamenti alle auto, bombe molotov lanciate contro il portone di casa, taniche di benzina adagiate sul tavolo della veranda, proiettili messi in fila sul davanzale di casa, convocazioni nella casa del boss, irruzioni in redazione, colpi di pistola contro l’autovettura nel cuore della notte…”516.
Sui rischi di isolamento cui vanno incontro i giornalisti minacciati anche all’interno delle loro stesse redazioni è stato audito – tra gli altri – Carlo Bonini, inviato di la Repubblica e consigliere nazionale dell’ordine dei giornalisti: “Quasi sempre la minaccia produce un effetto perverso, perché il collega minacciato, intorno al quale immediatamente si stringe una qualche forma di solidarietà, passati un mese, due mesi o tre mesi, diventa un problema per la sua redazione e per gli altri colleghi. Normalmente, quindi, diventa due volte vittima: è vittima prima di chi lo minaccia e poi di un clima di sostanziale fastidio, indifferenza o addirittura isolamento nel suo stesso contesto di lavoro”517.
Nel rapporto “L’antitesi mafia informazione”518 elaborato da Ossigeno per l’informazione è stata fatta, su incarico specifico della Commissione Antimafia, un’analisi puntuale non solo dei dati sul fenomeno delle minacce e delle intimidazioni subite dai giornalisti italiani, ma anche su come sono percepite dalla classe politica, dall’opinione pubblica diffusa e dagli stessi giornalisti.
“Le intimidazioni, le minacce, gli abusi e le forzature del diritto condizionano la vita e il lavoro di migliaia di operatori dell’informazione, e rimangono in gran parte impuniti” scrive il rapporto. Per contro “i media, la politica e gli stessi giornalisti continuano a ignorare un problema così grave e di così vaste dimensioni. La negazione del problema è l’ostacolo principale da superare. Si ottiene l’oscuramento dando visibilità mediatica soltanto agli episodi più eclatanti e rappresentando il fenomeno complessivo come un insieme di piccoli fatti locali non collegati da una matrice comune. Ciò consente anche alla politica di minimizzare il problema e di occuparsi soltanto
516 VIII Comitato, seduta del 1° agosto 2014, audizione del giornalista Roberto Rossi, resoconto stenografico n. 3. 517 VIII Comitato, seduta del 14 ottobre 2014, audizione del giornalista Carlo Bonini, resoconto stenografico n. 9. 518 Cfr. Docc. n. 409 e n. 1732.

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delle intimidazioni più gravi ed evidenti, trascurando le cause generali del fenomeno”.
Eppure – da ciò che è emerso nell’indagine – non è la minaccia a lasciare il segno più doloroso. Fa paura ormai la condizione di questo mestiere, la sua precarietà economica, professionale, contrattuale. La maggior parte dei giornalisti minacciati in Italia sono freelance. Che nelle altre nazioni vuol dire giornalisti, liberi professionisti, inviati, opinionisti. Non qui. In Italia i
freelance sono un concetto residuale, sono lavoro nero e mal pagato.
Alla fine del 2015 i giornalisti con un contratto di lavoro stabile erano soltanto 15.891
(13.048 professionisti, 2.700 pubblicisti e 143 praticanti) a fronte di quasi 60 mila operatori a vario titolo nel settore. La categoria subisce peraltro una progressiva, inarrestabile erosione: nel 2009 erano inquadrate regolarmente 18.859 persone, dunque in sei anni “il tasso di contrazione dei livelli occupazionali in ambito giornalistico è 6,4 volte maggiore di quello della generalità del sistema Paese” spiega Andrea Camporese, presidente dell’Inpgi (l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti). Se si valuta che i giornalisti professionisti sono in totale 29.110, se ne ricava che – tolti i 13.048 contrattualizzati stabilmente – il 55,18 per cento è in cerca di collocazione.
A ciò va aggiunta una complessiva e crescente contrazione delle retribuzioni dei giornalisti non coperti da contratto. La ricerca “Smascheriamo gli editori”, presentata dall’ordine nazionale dei giornalisti, ha analizzato la situazione dei freelance di una cinquantina di testate nazionali e locali: articoli pagati meno di 3 euro e compensi percepiti dopo anni o mai. Nessun settore è immune: dalla carta stampata ai giornali on-line, dalla radio alla tv.
Accanto alla precarietà economica, l’indagine ha messo in luce la quantità e qualità di strumenti utilizzati oggi per minacciare o intimidire un giornalista. Anche mezzi legali, le cosiddette querele temerarie, che a giudizio di questa Commissione hanno ricevuto un riconoscimento giuridico e un inquadramento normativo non sufficiente a dissuadere dall’uso molto diffuso delle citazioni in giudizio in mala fede come mezzo per indurre i giornalisti al silenzio o all’omissione.
Su questo punto, di estremo interesse per il Comitato, è stata l’audizione di Milena Gabanelli, responsabile fino allo scorso anno sulla RAI del programma televisivo Report. La Gabanelli e il suo programma hanno ricevuto richieste di risarcimento per una cifra complessiva superiore ai 250 milioni di euro (“Ne abbiamo persa solo una in appello per 30.000 euro”519): da quella della compagnia telefonica H3G per 137 milioni di euro, ai 10 milioni richiesti dall’editore catanese Mario Ciancio.
Non di rado l’intenzione dissuasiva si manifesta già nell’annuncio di un’azione legale, a prescindere dal fatto che venga o meno realizzata. “Te lo dicono prima – ha spiegato la Gabanelli alla Commissione – ti dicono che, se tu parlerai di questa cosa, ti arriverà la lettera dell’avvocato che dice ‘sappiate che si tratta di una compagnia quotata’, oppure ‘l’immagine dell’imprenditore tal dei tali’ o ‘del mio assistito, se affrontate quell’argomento, verrà danneggiata. State bene attenti, altrimenti procederemo per le vie legali e ne discuteremo nei luoghi di competenza’. È una formula di prassi. Almeno nell’80 per cento dei casi. Poi ci sono state querele annunciate e mai fatte…”520.
Le rilevazioni di Ossigeno per l’informazione affermano che, nel periodo 2011-2014, le querele temerarie e le citazioni per danni infondate hanno rappresentato il 38 per cento degli episodi classificati dall’osservatorio quali atti compiuti a scopo intimidatorio nei confronti degli operatori dei media. Anche in conseguenza delle attuali procedure giudiziarie, le querele e le citazioni per danni hanno sostituito progressivamente – e questo è un fatto negativo – la prassi della richiesta di rettifica. Il quadro è particolarmente grave ove si consideri – come ricordato da molti auditi – che la stragrande maggioranza dei giornalisti italiani ha rapporti di lavoro precario, compensi estremamente esigui e paga in proprio le spese di difesa legale per i processi di diffamazione.
L’inchiesta della Commissione ha rivelato anche l’altra faccia della medaglia, spesso taciuta: accanto a un numero sempre crescente di giornalisti aggrediti sopravvivono ancora sacche di informazione compiacente, reticente o – peggio – collusa. Di editori attenti a pretendere il silenzio delle loro redazioni su fatti o nomi innominabili e di direttori che si prestano a sorvegliare,
519 VIII Comitato, seduta del 10 marzo 2015, audizione della giornalista Milena Gabanelli, resoconto stenografico n. 18. 520 Ibidem.

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condizionare e redarguire quelle redazioni.
Un focus specifico è stato dedicato alla situazione dell’informazione in Sicilia.
Sull’informazione nell’isola e sui suoi due principali quotidiani, il Comitato ha raccolto – attraverso le numerose audizioni e gli atti giudiziari acquisiti – un quadro complesso, con ombre e luci, di cui la relazione (Doc. XXIII, n. 6) ha dato ampio conto.
In particolare, ha ricordato il giornalista Francesco La Licata che “… la sofferenza della Sicilia sul piano della produzione editoriale riguarda soprattutto il fatto che l’intero territorio siciliano, per decenni, è stato in mano a un duopolio che si è diviso il territorio. Da un lato Ciancio per Catania e la Sicilia orientale con il quotidiano La Sicilia, dall’altro gli Ardizzone con il Giornale di Sicilia…”. Aggiungiamo, tra le condizioni non risolte dell’informazione in Sicilia, il fatto che i due principali quotidiani, La Sicilia e il Giornale di Sicilia, hanno conosciuto per decine di anni l’identificazione della figura del direttore politico con quella dell’editore, con una sovrapposizione di funzioni, responsabilità e interessi che non sempre risulta d’aiuto alla qualità dell’informazione.
Un capitolo specifico della relazione è stato dedicato a Mario Ciancio, presidente della FIEG dal 1996 al 2001, poi vicepresidente – e attualmente nel consiglio di amministrazione – dell’ANSA, certamente l’editore più affermato del Mezzogiorno. Negli ultimi trent’anni Ciancio è stato capace di costruire un perimetro di interessi imprenditoriali che ben presto sono tracimati fuori dall’informazione per estendersi a molti altri settori: dall’edilizia pubblica e privata all’agricoltura, dal mercato pubblicitario ai servizi turistici.
Il 1° aprile 2015, la procura della Repubblica presso il tribunale di Catania, ha chiesto il rinvio a giudizio di Mario Ciancio per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso. Il processo si celebrerà nella primavera del 2018 e rappresenterà anche l’occasione per rileggere trent’anni di giornalismo catanese e siciliano, con uno sguardo assai più consapevole sulle ragioni dell’eccessiva “mitezza” con cui – in molte occasioni – è stato trattato il tema della mafia e delle sue innominabili protezioni. “‘Ciancio – recita l’avviso di chiusura delle indagini – metteva a disposizione dell’organizzazione criminale la propria attività economica, finanziaria e imprenditoriale avente a oggetto, tra l’altro, l’editoria, l’emittenza televisiva, la proprietà fondiaria e l’attività edilizia, centri commerciali, centri turistici, aeroporti, posteggi e altre lottizzazioni’. Mario Ciancio avrebbe promosso ‘affari di interesse dell’associazione mafiosa, anche mediando con soggetti politici e della pubblica amministrazione’, avrebbe costituito ‘società a cui faceva partecipare persone legate all’organizzazione criminale’ e partecipato ‘alla distribuzione di lavori controllati direttamente o indirettamente dall’organizzazione mafiosa’. E ancora, Ciancio avrebbe affidato ‘lavori per la realizzazione di progetti o affari da lui promossi a imprese mafiose o a imprese a disposizione della medesima associazione mafiosa’. Nell’avviso di conclusione delle indagini la procura sottolinea infine che ‘la contestazione si fonda sulla ricostruzione di una serie di vicende che iniziano negli anni ‘70 e si protraggono nel tempo fino ad anni recenti’ e ‘riguardano partecipazione a iniziative imprenditoriali nelle quali risultano coinvolti forti interessi riconducibili all’organizzazione cosa nostra’”521.
In conclusione la relazione – offrendo anche proposte di soluzione legislativa – sottolinea che il percorso di riforma dovrà concentrarsi sul tema dell’abuso di alcuni strumenti del diritto. Ma occorre un intervento altrettanto urgente, non delegabile al Parlamento, per costruire condizioni di maggiore sicurezza economica e dignità professionale per gli operatori dell’informazione. Soprattutto per chi opera nei territori più marginali, più esposti, più colpiti dalla violenza mafiosa o dall’arroganza dei poteri. Non aver ancora normato contrattualmente la figura dei freelance, che è di fatto l’ossatura dell’intero sistema informativo italiano, è una lacuna grave alla quale dovrà essere posto rimedio al più presto.
Resta un dato positivo, la determinazione con cui questa nuova generazione di giornalisti ha scelto di non piegare la schiena pur sapendo che quella scelta li espone ai morsi del pericolo e della
521 Cfr. Relazione sullo stato dell’informazione e sulla condizione dei giornalisti minacciati dalle mafie (Doc. XXIII, n. 6).

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precarietà. Sono giornalisti poco conosciuti, schivi, generosi, determinati. Molti di loro la Commissione li ha ascoltati. Raramente li incontreremo nei talk show televisivi e non troveremo i loro volti sulle copertine dei magazine, ma leggeremo e ascolteremo spesso i loro racconti sul sistema di potere mafioso, sui suoi insospettabili complici, sui suoi oscuri mallevadori. Degli undici giornalisti uccisi da mafie e terrorismo in Italia, questa silenziosa e tenace comunità di giovani cronisti è certamente l’eredità più autentica e preziosa.
A conclusione di queste riflessioni, è doveroso ricordare anche il sacrificio della giornalista maltese, Daphne Caruana Galizia, nota per le sue inchieste sui casi di corruzione e malaffare della politica locale e sui grandi traffici illeciti che intersecano la florida economia dell’isola, assassinata in un agguato mafioso, il 16 ottobre del 2017, alla vigilia della visita a Malta della Commissione.
Nel corso di tutti gli incontri istituzionali e in particolare con il vescovo de La Valletta, monsignor Scicluna la delegazione parlamentare italiana ha sottolineato la sconvolgente gravità di quell’omicidio, per le modalità con cui è stato realizzato, auspicando che le autorità maltesi possano fare piena luce sugli autori e i mandanti del delitto522.