VIA D’AMELIO, STORIA DEL PROCESSO BORSELLINO, UN MOSAICO CON TANTE TESSERE MANCANTI

Il processo Borsellino quater ha trovato conferma in Cassazione, è solo l’ultimo troncone di un percorso accidentato deviato dal “più grave depistaggio” della storia italiana. Che cosa sappiamo? Quanti processi sono stati aperti? Il depistaggio si sarebbe potuto smascherare?

Se il processo sulla strage di Capaci ha avuto un corso lineare, che si è concluso con la sentenza definitiva della Cassazione nel 2003, cui sono seguiti altri processi che hanno soltanto approfondito, completandole anche se forse non esaurendole nei moventi, le risultanze del primo processo, la vicenda di via d’Amelio, in cui hanno perso la vita il magistrato Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, ha avuto una storia processuale molto tormentata, che ancora non si è conclusa. Ora la Cassazione ha messo la parola fine sul processo quater, ma altre vicende giudiziarie collaterali e più o meno connesse sono ancora in corso e tante tessere del mosaico restano disperse.

IL CONTESTO STORICO, UNA PREMESSA NECESSARIA  Per capire che cosa possa avere determinato una vicenda così tortuosa e non sempre limpida, bisogna probabilmente ripartire dall’inizio, facendo una premessa sulla contingenza storica in cui le indagini sulle stragi sono iniziate. Essendo implicati nei due procedimenti, come vittime due magistrati in servizio a Palermo, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo – Giovanni Falcone nel 1992 era al Ministero della Giustizia fuori ruolo – la competenza delle stragi ricadeva sulla procura di Caltanissetta. Questo avviene perché ogni volta che un magistrato è vittima o indagato è stabilito per legge che non tocchi ai suoi vicini di scrivania occuparsene, ma a un altro giudice competente precostituito per legge: Caltanissetta per Palermo, Brescia per Milano, Milano per Torino e via di seguito. Una questione di distacco precauzionale. A dispetto del fatto che fosse una sede distrettuale – la Sicilia è l’unica regione che ne contempla ben quattro – Caltanissetta era a quell’epoca una procura piccola, con il ruolo del procuratore vacante. Numeri inadeguati a gestire la complessità prima della strage di Capaci del 23 maggio 1992, poi di quella di via D’Amelio avvenuta a 57 giorni di distanza.

Tre magistrati, Paolo Giordano, Carmelo Petralia e Pietro Vaccara si trasferirono lì da altre procure della Sicilia all’indomani della strage di Capaci, Fausto Cardella e Ilda Boccassini arrivarono da Perugia e da Milano nel novembre del 1992, grazie all’istituto dell’applicazione temporanea che poteva durare per legge non più di due anni: Cardella restò un anno, Boccassini due. Nel frattempo al vertice della procura nissena era stato nominato Giovanni Tinebra. Altri magistrati, tra cui prime nomine, innesti dalla Dna, e altri trasferiti, sarebbero arrivati man mano (tra loro Roberto Sajeva, Annamaria Palma, Nino Di Matteo, Luca Tescaroli): un fatto non trascurabile, perché ha fatto sì che i due enormi fascicoli (8 armadi di carte) dei procedimenti sulle stragi, siano passati nel corso dei procedimenti e poi dei processi, a staffetta, già dalle fasi del primo grado in diverse mani, con la complicazione dei passaggi di consegne che si può immaginare, data la mole delle carte.

V’è di più: la direzione distrettuale antimafia era appena nata, i suoi meccanismi con la Procura Nazionale antimafia non ancora rodati. La sentenza definitiva del maxiprocesso – il primo in cui sono stati gestiti collaboratori di giustizia provenienti da cosa nostra – risaliva a pochi mesi prima (30 gennaio 1992). La prima legge sui collaboratori di giustizia aveva appena compiuto un anno. Il codice di Procedura penale, che stabiliva la dipendenza funzionale della Polizia giudiziaria dal Pm, ne aveva appena tre, troppo pochi per essere già stato messo alla prova di un procedimento per mafia dall’indagine alla sentenza definitiva. Tutto questo, ovviamente non spiega, men che meno a giustifica incongruenze, opacità, punti oscuri, errori o depistaggi di un procedimento che, come vedremo, ne ha avuti molti, ma può aiutare a meglio contestualizzare la situazione o quantomeno a non incorrere nella distorsione cognitiva che porta a trasferire automaticamente all’epoca un bagaglio d’esperienze, di automatismi, di sapere acquisito che è scontato quasi trent’anni dopo, ma che poteva non esserlo all’epoca.

I PRIMI PROCESSI  Tra l’ottobre del 1994 e il 2008 sulla strage di Via d’Amelio si sono celebrati quattro processi e relativi gradi di giudizio: 1. Processo Borsellino 1 2. Processo Borsellino bis 3. Processo Borsellino ter 4. Processo stralcio, scaturito da un rinvio in appello da parte della Cassazione ad altra corte d’Appello (Catania). Quando l’ultimo viene confermato in Cassazione, nel 2008, sembra che il quadro delle responsabilità sia composto, anche se tanti punti restano da appurareche cosa ha accelerato la decisione di Cosa nostra di uccidere Borsellino, dopo aver massacrato Falcone? A determinare quell’attentato così clamoroso è stata solo la volontà di Cosa nostra o vi è stato il concorso di altri o almeno la convergenza di interessi diversi? E soprattutto, appurato che Cosa nostra aveva voluto e compiuto con modalità più clamorose rispetto anche a tutti i precedenti sanguinosi dei Corleonesi le due stragi, qual è stato il loro reale movente: basta a spiegare tanta violenza la vendetta per il Maxiprocesso, istruito dai due magistrati uccisi a Capaci e via D’Amelio, portato a sentenza definitiva il 30 gennaio 1992, nel quale per la prima volta Cosa nostra non si è salvata nel solito magma dell’insufficienza di prove?

2009 LA RIVELAZIONE DI SPATUZZA RIMETTE TUTTO IN DISCUSSIONE  Al netto delle domande rimaste aperte e di eventuali approfondimenti che possono sempre seguire, dal momento che la strage è un reato che non si prescrive, la definitività della sentenza della Cassazione del 2008 ha però i giorni contati, per uno sviluppo clamoroso che non rientra nella fisiologia dell’accertamento della verità giudiziaria neppure nei casi più complessi: nel 2009 la rivelazione di un collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, la cui attendibilità risulta ripetutamente riscontrata, svela che i processi Borsellino uno e bis contengono una “mina”: Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna, che si era autoaccusato del furto della 126 fatta esplodere a via d’Amelio, non aveva detto la verità. Era stato Spatuzza a impossessarsi dell’automobile.

LA REVISIONE  Il processo di revisione conclusosi a Catania ha fatto cadere sette ergastoli irrogati per effetto delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e confermati in Cassazione nel 2008. Le persone che erano state chiamate a correo da Scarantino e lo Scarantino medesimo, per il concorso in strage, scarcerate già nel 2011, vengono tutte assolte nel 2017. Gli atti vengono spediti a Caltanissetta competente a indagare Scarantino per calunnia. Per chiarezza è giusto dire che non tutto quello che era stato accertato nei precedenti processi Borsellino si è sgretolato: accanto ai 7 ergastoli caduti, altri 26 non determinati dalle inattendibili dichiarazioni dei “falsi pentiti” – si è scoperto che anche Andriotta e Candura avevano dichiarato cose inattendibili – sono rimasti in piedi e altre condanne sono state confermate con sentenza definitiva il 5 ottobre 2021 con la conclusione in Cassazione del processo Borsellino quater, nella cui sentenza di primo grado la Corte d’Assise di Caltanissetta aveva definito il caso: «Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana».

“IL PIÙ GRAVE DEPISTAGGIO DELLA STORIA GIUDIZIARIA ITALIANA”  Se il processo di revisione ha accertato la non sostenibilità delle accuse a carico delle persone per cui si era rivalutata la posizione, sono rimaste in ombra le modalità e le responsabilità con cui si era giunti alle collaborazioni inattendibili. Il “depistaggio”, presente come reato nel codice penale solo dal 2016, è infatti oggetto di altri processi definiti e in corso: se n’è occupato il Borsellino quater, nel quale è uscito prescritto dal reato di calunnia Vincenzo Scarantino e il processo in corso a Caltanissetta a carico di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei con l’accusa di calunnia in concorso, tre poliziotti in servizio nel gruppo Falcone-Borsellino che all’epoca, coordinato dalla Procura di Caltanissetta, si occupava delle indagini e dunque della gestione dei collaboratori rivelatisi falsi (Perché Scarantino ha detto il falso? Per volere di chi? Con l’aiuto di chi?). Al vertice di quel gruppo di investigatori della Polizia di Stato c’era Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, stimato da molti colleghi e magistrati, compresi quelli che nutrivano dubbi sulla credibilità e sulla caratura criminale di Vincenzo Scarantino. Le evidenze e le domande emerse negli anni riguardo alla gestione sciagurata di quella collaborazione con la giustizia e che rendono plausibili molti dubbi – cui non vanno esenti, come sempre in questi casi, strumentalizzazioni e letture “tifose” di segno opposto – fanno inevitabilmente di Arnaldo La Barbera il convitato di pietra di molte sentenze, definitive e non, più o meno recenti. La sua morte prematura ha reso il giudizio sul suo operato di allora materia per gli storici, senza avergli dato il tempo di vedersi contestare in giudizio accuse in vita e di difendersene.

IL FALSO PENTITO A distanza di 29 anni sono ancora in molti a chiedersi come abbia potuto una figura di poco spessore far deragliare un’indagine così importante facendole trovare conferme nei gradi di giudizio di diversi processi. Nelle deposizioni del processo in corso a Caltanissetta oggi a carico dei poliziotti s’è sentito al suo proposito l’appellativo siciliano di “scassapagghiara”, scassapagliai, a indicarne lo scarso spessore criminale, benché fosse parente di un noto uomo d’onore. A distanza di 29 anni è acclarata la sua figura di “collaboratore” controverso. Arrestato a settembre del 1992, collaboratore dal giugno 1994, già nel 1998 nel Borsellino bis aveva ritrattato tutto in aula affermando di aver ricevuto pressioni per mentire. Uno dei dati che hanno fatto scrivere all’estensore della sentenza di primo grado del quater che la situazione avrebbe dovuto: consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone».

LA TRAPPOLA SI SAREBBE POTUTA EVITARE?  L’aspetto che più interroga, di tutti i punti oscuri di una vicenda intricatissima, viene da due lettere, risalenti all’ottobre 1994, una delle quali inviata per conoscenza anche alla Procura di Palermo e solo lì ritrovata, lasciate agli atti da Ilda Boccassini, che fece parte del Pool che si occupava delle stragi a Caltanissetta dal novembre 1992 all’ottobre 1994. In questi documenti, uno dei quali controfirmato anche da Roberto Sajeva, magistrato della Dna e parte del Pool, si evidenziavano in modo circostanziato le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Scarantino e si suggeriva di riconsiderarne l’attendibilità complessiva. Il processo Borsellino 1 stava iniziando. Quei documenti scritti e ritrovati sono la prova documentale che già nel 1994 almeno due magistrati coinvolti nelle indagini avevano intuito la presenza di una falla. Se quell’intuizione avesse trovato ascolto «il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» si sarebbe potuto, come tante volte si fa con mitomani e depistatori, smascherare e sgonfiare per tempo?

È una risposta che potrebbe trovare il processo in corso a Caltanissetta, il cui dibattimento sta provando a far luce sulle eventuali responsabilità di poliziotti all’epoca impegnati nella gestione di Scarantino, e sul buco nero su chi e che cosa l’avrebbero indotto a mentire. Ma è evidente che il tempo trascorso renderà difficile dare risposte incontrovertibili a tanti piccoli episodi la cui memoria a distanza di 29 anni potrebbe non essere più così salda. Tanto più che nel frattempo è venuto a mancare, non solo Arnaldo La Barbera, ma anche il capo della Procura nissena di allora Gianni Tinebra.

UNA PAGINA INQUIETANTE Potremmo non sapere mai compiutamente se quello che chiamiamo depistaggio sia stato un disegno complessivo che ha indotto tante persone in errore o una catena di tanti eventi più piccoli (fraintendimenti, incongruenze, inesperienze, errori, inadempienze, aggiustamenti, forzature più o meno intenzionali) che hanno finito per convergere e portare l’indagine a deragliare e i processi a condannare innocenti o se si sia trattato di una commistione di entrambe le cose. Comunque il risultato è una “pagina vergognosa e tragica” della storia giudiziaria italiana per dirla con le parole del Procuratore generale della Cassazione al Borsellino quater.

INDAGINE ARCHIVIATA SU ALCUNI MAGISTRATI  Nel frattempo a Messina è stato archiviata l’indagine aperta per accertare eventuali responsabilità a carico di Annamaria Palma e Carmelo Petralia, due magistrati che si occuparono dei processi Borsellino a Caltanissetta, un procedimento scaturito dalle motivazioni del primo grado del Borsellino quater. Non sono stati ravvisati profili penali: “anomalie tecniche, giuridiche e valutative” sì, ma non dolo.

IL BORSELLINO QUATER IN CASSAZIONE  Il 5 ottobre 2021 il Borsellino quater ha visto confermate in Cassazione le condanne emesse in secondo grado, che a sua volta confermava il primo. Alle condanne di esecutori e mandanti della strage di via d’Amelio diventate definitive nei precedenti processi si sono aggiunte quelle all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a dieci anni per calunnia per i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Nonché il “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in ordine al reato di calunnia pluriaggravata” nei confronti di Vincenzo Scarantino, cui erano state riconosciute le attenuanti generiche perché si era ritenuto che fosse stato indotto a mentire.

LA VERITÀ GIUDIZIARIA SULLA MORTE DI BORSELLINO  Nemmeno questo basta a colmare tutte le lacune, sono stati gli stessi giudici di secondo grado a descrivere le evidenze probatorie acquisite dall’ultimo processo come «Singoli pezzi di un mosaico» con tante tessere mancanti. Mancano, per esempio, le tessere che potrebbero spiegare l’oscuro percorso compiuto dalla borsa presente nella macchina del giudice Borsellino al momento dell’attentato, scomparsa, e ritrovata solo mesi dopo negli uffici della Mobile di Palermo, senza l’agenda rossa, mai ritrovata, riguardo alla quale l’ipotesi più accreditata è che fosse un reperto importante – perché si ritiene che Borsellino vi annotasse cose importanti relative alle sue indagini – e che in origine si dovesse trovare nella borsa.

Riguardo alle ragioni per cui sarebbe morto Paolo Borsellino i giudici di primo e secondo grado sono giunti pur nell’identico esito processuale a conclusioni parzialmente diversese per i primi la cosiddetta trattativa Stato-Mafia avrebbe aperto “nuovi scenari”, i secondi hanno escluso che abbia influito sulla decisione di uccidere Borsellino, che «gli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa» avrebbero preso nel dicembre del ’91, durante la riunione della commissione provinciale di Cosa nostra, convocata da Totò Riina per gli auguri di Natale, contestualmente alla decisione di compiere la strage di Capaci, pur non escludendo il fatto che «abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Paolo Borsellino sarebbe morto perché «aveva continuato la sua instancabile opera nel contrasto alla criminalità organizzata, continuando a essere insieme al collega e amico Giovanni Falcone un simbolo della lotta alla mafia, rendendosi ben visibile anche agli occhi della stessa organizzazione criminale che continuava a concepire propositi omicidiari nei suoi confronti».

LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE, STRAGE MAFIOSA CON ZONE D’OMBRA  La sera dell’8 novembre 2021, i giudici della Cassazione depositando le motivazioni della decisione assunta il 5 ottobre 2021, chiariscono le ragioni che li hanno convinti a confermare la sentenza di Appello del cosiddetto Borsellino quater: nessun dubbio che sulla «paternità mafiosa della strage in cui sono rimasti uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina , anche se restano anomali «anomalie» non chiarite e «zone d’ombra», tra queste il percorso compiuto dalla borsa di Paolo Borsellino «ricomparsa dopo alcuni mesi», dopo la strage, «nelle mani del dottor La Barbera che la riconsegnava alla moglie del magistrato» .

Secondo i magistrati della Suprema corte quanto emerso nel processo sulla cosiddetta “trattativa” Stato – mafia è di «sostanziale neutralità», non fa emergere «nuovi scenari», nonostante gli «abnormi inquinamenti delle prove», in fase di indagini. Ha convinto la quinta Sezione penale della Cassazione a confermare la decisione dei magistrati della Corte d’Appello nissena, secondo cui «i dati probatori relativi alle zone d’ombra possano al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co)-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino, ma ciò non esclude il riconoscimento della “paternità mafiosa” dell’attentato di Via D’Amelio e della sua riconducibilità alla “strategia stragista” deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto come “risposta” all’esito del maxi processo». Tutto questo – rileva la Cassazione – «non fa certo venir meno la complessità finalistica di quella strategia, proiettata in una triplice dimensione: una finalità di vendetta contro il “nemico storico” di Cosa Nostra rimasto in vita dopo la strage di Capaci», una «finalità preventiva, volta a scongiurare il rischio che Borsellino potesse raggiungere i vertici delle nuove articolazioni giudiziarie promosse da Giovanni Falcone». 

Questa in estrema sintesi la verità che i giudici hanno stabilito in via definitiva. Ma è chiaro che nel merito tanti punti oscuri sono destinati a restare tali. FAMIGLIA CRISTIANA 9.11.2021 di Elisa Chiari

 

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