La nascita di una “Cosa Nuova”. La «superstruttura» di ‘Ndrangheta e Cosa nostra per «indurre lo Stato a trattare»

 

Obiettivo: unire la «capacità militare» delle cosche calabresi e quella «distruttiva» dei clan siciliani

 

REGGIO CALABRIA Unire la «capacità militare» della ‘ndrangheta a quella «distruttiva» di Cosa nostra per evitare alle organizzazioni criminali «batoste» dallo Stato. Una «superstruttura», una riorganizzazione delle mafie per «ottenere benefici carcerari e altri vantaggi e opporsi a inasprimenti legislativi, evitare sequestri e confische e nuove collaborazioni». Una “Cosa Nuova” – così la chiamano i collaboratori di giustizia – nata «da una necessità impellente» delle organizzazioni criminali calabrese, siciliana, ma che coinvolgeva anche la Camorra: «indurre lo Stato a trattare». E tra i principali fautori di tale strategia all’interno di Cosa Nostra, c’era Giuseppe Graviano. Lo scrivono i giudici reggini nelle motivazioni della sentenza in appello del processo ‘Ndrangheta stragista. Il boss di Brancaccio condannato, insieme a Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli di Gioia Tauro, per il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 in un agguato avvenuto sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla. Un attentato dietro il quale c’era un «complesso progetto criminale più ampio», come emerso prima dalle indagini, poi durante i processi e infine nelle motivazioni delle sentenze.

Nel mirino di Cosa nostra il 41 bis

Nelle mille e quattrocento pagine di motivazioni i giudici reggini parlano di «accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici». A unire le organizzazioni criminali calabrese e siciliana «un’evidente convergenza o commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro “desiderata”». In particolare Cosa Nostra, – scrivono i giudici – appoggiata dalla ‘ndrangheta, intendeva «“allargare” a tutte le organizzazioni criminali la base partecipativa della strategia stragista, al fine di operare una pressione sempre più asfissiante e ad ampio raggio nei confronti dello Stato, in vista del raggiungimento degli obiettivi inerenti l’eliminazione del regime previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario e la modifica della legislazione sui “pentiti”». Centrale la figura di Giuseppe Graviano, il quale, «per fare capire ai possibili interlocutori istituzionali vecchi e nuovi che Cosa Nostra faceva sul serio e “impartire il colpo di grazia” si è adoperato in maniera fattiva nel 1993, riuscendo a far sì che anche la “Ndrangheta scendesse a fianco della mafia siciliana per piegare definitivamente le istituzioni ai desiderata dei mafiosi facendo capire che le mafie più potenti del Paese erano “unite”».

La nuova riorganizzazione di ‘Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra

Nelle motivazioni della sentenza i giudici reggini ricordano il racconto del collaboratore di giustizia Gaetano Costa, soggetto appartenente alla omonima consorteria, «divenuto referente messinese per la Calabria e appartenente alla Camera di Controllo della Piana di Gioia Tauro». Costa racconta di una «superstruttura» che comprendeva famiglie di ‘ndrangheta e Cosa nostra. In particolare – scrivono i giudici – ha affermato che, «dopo le stragi di Falcone e Borsellino, al carcere di Cuneo nel 1992 in transito verso l’Asinara aveva incontrato Girolamo Raso che, alle lamentele fatte da alcuni di loro sul trattamento carcerario pesante, aveva risposto dicendo di stare tranquilli perché si stava creando una “Cosa Nuova”, nel senso di una “superstruttura” che abbracciava famiglie di Cosa Nostra (famiglie appartenenti ai Corleonesi) e “Ndrangheta (Piromalli, De Stefano, Mancuso), una riorganizzazione delle mafie per ottenere benefici carcerari e altri vantaggi e opporsi a inasprimenti legislativi, evitare sequestri e confische e nuove collaborazioni, e che Raso gli disse che erano “i soliti”». Costa ha precisato che «questo progetto era stato pensato già dopo la seconda guerra di mafia, ma che lui ne era venuto a conoscenza mentre si trovava presso il carcere di Cuneo nel 1992 e che la capacità militare della “Ndrangheta e capacità distruttiva di Cosa Nostra insieme avrebbero dato vita ad una nuova struttura criminale diversa da quella nota alle forze di Polizia». Il collaboratore di giustizia, scrivono ancora i giudici, ha confermato «quanto detto nel 1994 sulla composizione di Cosa Nuova, ossia che Girolamo Raso gli aveva riferito che della Cosa Nuova “facevano parte i Barbaro, i Papalia, Mammoliti di San Luca, gli Alvaro, Piromalli, i Pesce, i De Stefano che rappresentano anche i Tegano e i Libri, gli Ursino, i Mancuso di Limbadi, i Muto di Cetraro e gli Arena di Isola Capo Rizzuto”», e ha aggiunto che «con la nuova riorganizzazione si erano cementati i collegamenti della “Ndrangheta con Cosa Nostra e con la nuova camorra». (m.ripolo@corrierecal.it)

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