Domenica 24 maggio.
All’indomani della morte di Falcone, della moglie e dei tre agenti di scorta, nel paesino
teatro della strage appaiono appesi agli alberi cartelli che recitano parole contro la
mafia: “Giovanni sei vivo”; “un pezzo di Sicilia se n’è andata”. Nessuno osa toglierli.
Nasce il comitato dei lenzuoli, un movimento che si afferma nei giorni e mesi seguenti e
si propone di attaccare ai balconi delle case lenzuola con frasi contro la mafia ed
affermare una cultura di legalità e antimafia.173
Borsellino alle 9 entra al Palazzo di Giustizia insieme alla moglie e ai figli. Sono
stretti gli uni agli altri per farsi forza. Dopo qualche minuto nell’ufficio del procuratore
Giammanco, Borsellino e altri colleghi scendono con la toga indosso al pianterreno
dove si sta allestendo la camera ardente di Falcone e della moglie. Arrivano le salme,
Borsellino porta quella di Falcone con la spalla sinistra. Una volta sistemata, scuote la
testa e dice ai colleghi: “Ragazzi, vi parlo come se fossi vostro padre o un fratello
maggiore. Ho il dovere di dirvi che non dobbiamo farci illusioni. Se restiamo, il futuro
di alcuni di noi sarà quello!”, indicando le bare. “Io resto, e resto solo per loro. Non
posso lasciarli soli!”. Si riferisce alle migliaia di persone che fanno la fila per omaggiare
i morti. Quando arrivano i politici da Roma si scatena contro di loro la rabbia della
gente: urla e spintoni. Borsellino resta fino a notte fonda lì, non vuole lasciare l’amico
Giovanni. Ha dei momenti di cedimento, piange tra le braccia della moglie. Va poi dai
parenti degli agenti di scorta, li abbraccia in silenzio, col volto pieno di dolore.174
Lunedì 25 giugno.
Mentre viene eletto a Roma Scalfaro come Presidente della Repubblica, a Palermo la
folla, arrabbiata e disperata, sotto una pioggia battente invade via Roma e la piazza di
San Domenico, sede dell’omonima chiesa barocca dove si celebrano i funerali: è la
chiesa che celebra gli uomini illustri, importanti per la storia della Sicilia. Borsellino
passa a prendere la madre di Francesca Morvillo per portarla al funerale. Per lui
Francesca era una di famiglia, è naturale comportarsi con sua madre quasi come un
figlio. I politici non entrano dall’ingresso principale della Chiesa per evitare i fischi e le
urla. I colleghi degli agenti di scorta rifiutano di entrare in chiesa: è un gesto di
contestazione nei confronti di chi dovrebbe proteggerli, per non mescolarsi “alle solite
facce di ministri e governanti”, “ai responsabili di quello che è accaduto”, dicono i
poliziotti della Squadra Mobile di Palermo. Borsellino ha un tale senso di rispetto delle
istituzioni che rimane turbato dalla protesta dei poliziotti. Le cinque bare, poste davanti
all’altare, sono avvolte dal tricolore: su quelle di Falcone e della moglie sono piegate le
loro toghe, su quelle degli agenti ci sono i cappelli della polizia. Borsellino fa parte del
picchetto d’onore che si pone davanti ai feretri e resta lì per tutta la cerimonia. Insieme a
Caponnetto, è davanti alla bara di Falcone, pallido e sconvolto. Quando la giovane
vedova dell’agente Schifani, Rosaria, pronuncia un discorso di perdono e allo stesso
tempo di accusa tra le lacrime, Paolo la abbraccia e le promette che farà giustizia a suo
marito e a tutte le vittime della strage. Finita la messa, Borsellino esce dalla chiesa
cerca sotto il temporale la sua auto blindata per riaccompagnare a casa la madre di
Francesca. Intanto i politici escono dalla sacrestia e il corteo funebre è accompagnato da
due ali di folla immense. La rabbia degli agenti esplode: “Siamo carne da macello”.
Dopo il funerale Borsellino ospita a casa Caponnetto, poi la sera lo accompagna
all’aeroporto. Il loro saluto è carico di emozione: “Nino, sei sicuro che ci rivediamo?”,
“O a Firenze o qui, ci rivediamo senz’altro”.175
Tutti adesso sono consapevoli del pericolo che corre Borsellino. Sotto la casa di via
Cilea torna la ronda dei carabinieri e la zona di rimozione delle auto, come durante il
maxiprocesso. La famiglia gioisce di ogni rientro a casa del magistrato. Lui ammette la
paura per la morte ma la affronta con coraggio: “Temo la fine perché la vedo come una
cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il
coraggio a prendere il sopravvento”. La sua più grande sofferenza deriva dal distacco
dai suoi cari: “Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire
sereno”.176 La prefettura studia i movimenti del magistrato e i suoi appuntamenti fissi:
Palazzo di Giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac e la casa della madre in via
D’Amelio. Gli agenti di scorta sollecitano una zona di rimozione sia davanti alla chiesa
che in via D’Amelio, ma la ottengono solo per la chiesa.177
Borsellino vorrebbe prendere parte alle indagini sulla strage di Capaci e chiede
addirittura di essere trasferito a Caltanissetta, sede preposta all’indagine in questione,
ma riceve un rifiuto perché coinvolto emotivamente nella faccenda. In un’intervista
dichiara:
“Confesso che non ho avuto molto tempo per riflettere come avrei voluto su
Capaci. Ciò che è accaduto mi ha toccato personalmente. Ho conosciuto
Giovanni che aveva i pantaloni corti. Siamo entrati insieme in magistratura.
Per tutta la vita, o quasi, abbiamo lavorato gomito a gomito. Conoscevo sua
moglie, Francesca, che era una ragazzina. Ho imparato a fare il magistrato
nell’ufficio del padre e ricordo che, dopo il lavoro, l’andavamo a prendere a
scuola. […] Purtroppo la procura di Palermo non è titolare delle indagini. Dico
purtroppo’ perché se avessi avuto la possibilità di seguire questa indagine
avrei trovato un sollievo al mio dolore. […] In ogni caso andrò a Caltanissetta
come testimone. Per raccontare piccole cose che possono aiutare l’inchiesta.
[…] Va osservato che c’è una coincidenza tra l’omicidio e una notizia che io
avevo appreso qualche giorno fa: Giovanni Falcone aveva ormai nel Csm la
maggioranza per essere nominato procuratore nazionale antimafia. […]
Nonostante la fortissima opposizione alla sua candidatura, dunque, Giovanni
ce l’aveva fatta. Era una sensazione ormai diffusa in questo palazzo. Voglio
dire che non so se la notizia che Falcone sarebbe stato il nuovo procuratore
antimafia fosse a conoscenza fuori…”.178
È titolare dell’inchiesta il Procuratore di Caltanissetta Celesti, aiutato dai sostituti
Polino, Petralia e Vaccara. Vaccara si stabilisce inizialmente in una stanza del Palazzo
di Giustizia di Palermo per seguire da vicino gli accertamenti e Borsellino lo va a
trovare quotidianamente, lo invita a cena, insomma, cerca di contribuire. Privatamente
indaga, si informa, legge dossier, cerca indizi, tracce. Giura a se stesso di trovare il
colpevole della strage.179
Giovedì 28 maggio
Borsellino si trova a Roma alla presentazione del libro “Gli uomini del Disonore” di
Pino Arlacchi.
180 A presiedere la conferenza ci sono, oltre all’autore, il ministro della
Giustizia Martelli, il capo della polizia Parisi, l’editore Leonardo Mondadori, il ministro
dell’Interno Scotti e Borsellino. Dopo la presentazione del libro si comincia a parlare di
Falcone e della Superprocura. Dal pubblico viene rivolta a Borsellino una domanda:
“Dottor Borsellino, prenderebbe il posto di Falcone?”. La risposta è secca: “No, non ne
ho intenzione”. Interviene a sorpresa il ministro Scotti: “Lo candido io. Con il collega
Martelli abbiamo chiesto al CSM di riaprire i termini del concorso ed invito
formalmente il giudice Borsellino a candidarsi”. Borsellino, imbarazzato, cerca di
nascondere la sua indignazione. Non è stato preventivamente informato di tale proposta,
che avrebbe bloccato immediatamente se gli fosse stata posta privatamente. Il ministro
non si rende conto che fare il suo nome significa renderlo un bersaglio maggiormente esposto.181
Venerdì 29 maggio
I colleghi della Procura di Palermo scrivono un documento in cui chiedono formalmente
a Borsellino di non accettare la proposta del ministro e di restare a Palermo. Lo
ritengono molto più decisivo nel lavoro a Palermo che come Superprocuratore a Roma.
A firmare il documento sono Ingroia, Teresi, Scarpinato, Morvillo, Scaduto, Guarnotta
e Natoli. Borsellino sostiene l’azione dei suoi colleghi e corregge addirittura alcune
righe apparentemente polimiche. Poi fa un passo indietro, dopo aver parlato con
Giammanco. Blocca i suoi colleghi perché teme strumentalizzazioni: “Questa vostra
lettera potrebbe farmi diventare il parafulmine del contrasto tra il ministro di Grazia e
giustizia e il Csm sulla scelta del superprocuratore”.182
Un giorno a tavola Borsellino tira fuori l’argomento della superprocura. Teme che la
sua decisione sia vista dai figli come una fuga, una rinuncia senza dignità. “Che ne dite
ragazzi, ci vado?”. Ma i figli ci scherzano sopra e lo tranquillizzano. È molto importante
per lui l’opinione dei figli e della moglie, essere appoggiato dalla famiglia. Cerca di non
trascurarli, ma passa quei giorni a lavorare, torna a casa a notte fonda. La moglie
ricorda: “Con me e i miei figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. È
diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura
moglie e figli ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. In gioco ci sono cose troppo
importanti. Se è reso conto, pur nella sua umiltà, che in quel momento è l’unico ad
avere le capacità e la volontà di lavorare con questi ritmi massacranti”.183
Domenica 31 maggio
Dopo aver parlato con il suocero, Borsellino decide di scrivere al ministro Scotti una
lettera in forma privata in cui rifiuta la candidatura a Superprocuratore.
“Onorevole signor ministro,
mi consenta di rispondere all’invito da Lei inaspettatamente rivol-tomi nel
corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I
sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi
renderebbero massimamente afflittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio al
quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di
Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce,infatti,
di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttu-
oso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura
alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in
presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri
aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso.
Molti valorosissimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero
Giovanni Falcone il naturale destinatario dell’incarico, ovvero si
considerarono non legittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio
superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni,
cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio
ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in
una procura della repubblica che è sicuramente quella più direttamente ed
aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa.
Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa
all’eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia
lettera.
RingraziandoLa sentitamente
Paolo E. Borsellino”.184
Primi giorni di giugno
Lunedì 1 giugno al Tg1 va in onda un’intervista a Borsellino. Il magistrato dice: “Io
voglio decisamente credere che la morte di Falcone sia un fatto così dirompente, così
drammatico, che bandendo ogni sofisma, ogni ipocrisia, ogni situazione di
compromesso, il potere politico riesca finalmente ad avere la forza di prendere una serie
di decisioni ordinarie ma drastiche perché i magistrati non debbano sempre lavorare
quasi nonostante le norme. Talvolta alcune di esse sembrano essere fatte apposta per
difficultare il lavoro. Se non si pone rimedio a questa dicotomia tra molto che si
conosce e poco che si riesce a condannare… altrimenti verrebbe quasi voglia di alzare le
braccia”.185 Nello stesso giorno suona alla porta di casa Borsellino un gruppo di carabinieri
e poliziotti che desidera entrare a far parte della scorta del magistrato. La
famiglia li accoglie in salotto, in attesa che Borsellino rientri. Questo gesto commovente
non viene compreso da Borsellino che, rientrato stremato dal lavoro massacrante di tutta
la giornata, trovandosi degli estranei in casa, riunisce furente in una stanza moglie e figli
e inizia a gridare: è stanchissimo, non vuole sconosciuti in casa. La famiglia dopo alcuni
minuti riesce a spiegare chi sono quegli sconosciuti e cosa chiedono. Borsellino capisce,
si dispiace e fa appena in tempo a bloccare i ragazzi che stavano andando via, pensando
di non essere graditi. Si scusa e gli invita a presentarsi il giorno seguente in Procura per
parlarne. Avvengono anche altre dimostrazioni di affetto, stima e solidarietà concreta
nei giorni che seguono. La sera di venerdì 5 giugno Borsellino si trova a una cena in un
ristorante di Terrasini organizzata dai carabinieri. Una cena che Borsellino ricorderà
come ‘la cena degli onesti’. Ingroia ricorda: “Si parlava di Falcone, delle indagini su
Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario
del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe
conoscerlo, nulla di più. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice
di si. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe
la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per po-chi
secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a
passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. ‘Sai
Antonio’, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, ‘stavo per mettermi a
piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al
nostro fianco’.
”186 Borsellino riceve anche molte telefonate che intendono trasmettergli
coraggio. Lo chiamano pure molti collaboratori di giustizia che hanno avuto a che fare
con lui. Rosaria, la vedova dell’agente di scorta Schifani, viene letteralmente adottata
dalla famiglia Borsellino. Tutti i Borsellino soffrono terribilmente nel vedere questa
ragazza, apparentemente fragile ma con una grande forza d’animo, vivere un lutto così
grande. Paolo abbracciandola le ripete spesso la sua promessa di giustizia.187
La paura resta comunque. La mattina del 2 giugno la madre del giudice affacciata al
terrazzo del suo appartamento al quarto piano in via D’Amelio nota strani movimenti
nel giardino accanto al suo palazzo oltre un muro perimetrale. Chiama subito il figlio
che a sua volta avvisa la polizia. Il giorno dopo un gruppo di agenti guidati dal capo
della Squadra mobile La Barbera fa un sopralluogo: rinvengono alcuni cunicoli nascosti
sotto il manto stradale e tracce di presenza recente.188 In quei giorni avvengono anche le
retromarce di alcuni collaboratori di giustizia, come Salvatore Contorno e Antonino
Calderone, che dopo Capaci non sono più sicuri se continuare su quella strada.
Borsellino deve lottare contro la paura del “suo” pentito Calcara, teme che la vendetta di
Cosa Nostra arrivi fin dentro al carcere in cui è rinchiuso. Ritratta le sue dichiarazioni e
solo dopo l’intervento di Borsellino, che gli garantisce protezione e vicinanza, accetta di
andare in aula a testimoniare e continuare. Ma la paura prende il sopravvento. Calcara si
lascia andare, trascura il suo aspetto, è uno straccio. Borsellino interviene: “Vincenzo,
dov’è finita la tua dignità, il tuo coraggio? Fatti forza. E ricorda cosa ti ho detto il
giorno del nostro primo incontro: è bello morire per qualcosa in cui si crede”. Gli
fornisce inoltre consigli spirituali: “Se ti senti nervoso o agitato fatti una preghiera,
vedrai che ti sentirai meglio” e per renderlo più tranquillo gli consiglia di ascoltare un
po’ di musica classica. Il messaggio del magistrato fa breccia nell’animo del
collaboratore di giustizia. Borsellino successivamente lo va a trovare spesso ed è felice
di vederlo finalmente rasato, pettinato, con gli abiti in ordine.189
Lunedì 8 giugno il Consiglio dei Ministri vara il decreto antimafia Scotti-Martelli
che prevede provvedimenti che portano all’inasprimento delle pene per reati di stampo
mafioso, danno più spazio ai giudici e investigatori e fornisce più garanzie di sicurezza
ai collaboratori di giustizia. Borsellino ne è felice ma non pienamente soddisfatto. Le
misure non prevedono infatti una richiesta molto sollecitata da lui: la creazione di
strutture investigative per i grandi latitanti.190 Sabato 13 giugno Borsellino incontra a
Palermo l’ex Presidente della Repubblica Cossiga che lo invita a candidarsi come
superprocuratore. Il giudice stenta nuovamente a mantenere la calma ma Cossiga è
chiaro: “E’ inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone. Lei e nessun
altro”. Intanto Borsellino si confida con la moglie. Come emerge dai verbali dei
colloqui di Agnese Borsellino alla Procura di Caltanissetta nel 2010, il magistrato le
riferisce: “C’è un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. In quei giorni
Borsellino chiude sempre le serrande in camera da letto perché teme di essere osservato
da Castello Utveggio. Arrivano le prime conferme del pericolo che corre Borsellino. Il
19 giugno il generale dei Carabinieri Antonio Subranni, comandante del ROS, invia un
rapporto al comando generale dei Carabinieri in cui dichiara che numerose fonti,
mafiose e non, hanno riferito della decisione da parte di Cosa Nostra di uccidere
Borsellino. Sono indicati come ulteriori potenziali obiettivi il maresciallo Carmelo
Canale, il ministro della difesa Salvo Andò e l’ex-ministro Calogero Mannino.191
Martedì 23 giugno
È il trigesimo dalla stage di Capaci. Viene organizzata una catena umana che alle 17.30
porta migliaia di persone a percorrere il tratto di strada che unisce il Palazzo di Giustizia
alla casa di Falcone in via Notarbartolo. Alle 17.56 il minuto di silenzio, alla fine del
quale si leva un grido: “Falcone vive!”.192 Le comunità parrocchiali del solidum hanno
preparato per la sera una veglia di preghiera nella Chiesa palermitana di S. Ernesto.
Borsellino gradisce e appoggia l’iniziativa e ne prende parte. Si presentano migliaia di
persone, la chiesa non riesce a contenerle tutte e molte restano fuori. Quando arriva il
momento di parlare, Borsellino viene accolto da un applauso interminabile di sette
minuti. Interrotto spesso dagli applausi, pronuncia questo discorso:
“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia,
lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con
perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta
proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della
sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo
pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi
amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è
fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato,
perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in
lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso
questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è
soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto
in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e
ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile
dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore
questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in
modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il
lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza
d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da
risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto
una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche
religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco
profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della
indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di
Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti
successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta egli mi disse: «La gente fa il tifo
per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio
morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il
nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i
sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera
forza di essa. Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben
presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia,
alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte,
insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta
d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma
la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode
abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza,
sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per invocare e ottenere,
purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo,
ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi,
dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Cercò di ricreare
altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro. Per poter
continuare a «dare». Per poter continuare ad «amare». Venne accusato di essersi
troppo avvicinato al potere politico. Menzogna! Qualche mese di lavoro in un
ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece!
Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato,
indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con
vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si
accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo
denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare!
Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa
lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna,
le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi.
La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio. Dal sacrificio della sua donna. Dal
sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la
giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di
correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con
stupide scuse accademiche. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro.
Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei
valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo
un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la
loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci
impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che
possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro);
collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui
dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente
ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi
persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa
gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che
Falcone è vivo”.193
Un discorso pronunciato con voce ricca di autorità di fronte al silenzio e all’emozione
degli astanti. Borsellino cerca di dare un senso alle morti della strage di Capaci e riesce,
nonostante il dolore e l’incertezza del futuro, a trasmettere coraggio e speranza ai
presenti. Alla fine della veglia, è quasi mezzanotte, Borsellino si intrattiene in mezzo
alla gente. Sembra che non voglia andare via, forse ha bisogno di sentire il calore delle
persone. Padre Bucaro lo rimprovera di fare attenzione, vorrebbe da lui maggiore
cautela, ma il giudice gli risponde che la mafia lo ucciderà nel momento in cui sarà
isolato. “Si muore se si è soli”. Poi stringe la figlia Fiammetta e la presenta al sacerdote
che già la conosce e glielo dice. Per tre volte, con lo sguardo fermo, ripete: “Padre
Bucaro, questa è mia figlia”. Il sacerdote, in silenzio, capisce quello che Borsellino
vuole comunicargli: quanto sia importante per lui la sua famiglia e quanto vorrebbeproteggerla.194
Mercoledì 24 giugno
Sono pubblicati sul “Sole 24ore” i ‘diari di Falcone’, degli appunti del magistrato in cui
parlava delle opposizioni e delle difficoltà trovate a Palermo che lo spinsero a spostarsi
a Roma. Borsellino li ispeziona nei dettagli, cerca di contattare tutte le persone citate
nelle righe scritte da Falcone e i colleghi fidati che possano fornirgli nuovi dettagli importanti.195
Giovedì 25 giugno
Gli ufficiali dei Carabinieri di Palermo apprendono che “negli ambienti carcerari si dà il
dottor Borsellino per morto”. Informano il giudice che risponde di esserne a conoscenza
ma che preferisce concentrare su di sé tutti i rischi per evitare che si diffondano anche
alla sua famiglia. La sera torna stanchissimo a casa, si cambia e stremato finalmente si
mette a tavola. Squilla il telefono: è Alfredo Galasso, ex membro del Csm e caro amico
di Paolo. Galasso gli ricorda l’appuntamento che si sarebbe tenuto dopo poco: un
pubblico dibattito organizzato dalla rivista MicroMega a cui Borsellino aveva promesso
di partecipare. Se ne era dimenticato, ma non vuole deludere l’amico e, dopo aver
chiesto scusa ai famigliari, si veste ed esce. Arriva nell’atrio dell’ex convento dei
Gesuiti, ora Biblioteca Comunale di Casa Professa, che il dibattito è già iniziato. Lo
spazio è gremito, c’è gente seduta anche in terra. Tutti accolgono l’arrivo di Borsellino
con un grande applauso. Al tavolo sono seduti anche Leoluca Orlando, il sociologo
Nando Dalla Chiesa, Galasso, il leader degli imprenditori contro il racket di Capo
d’Orlando Tano Grasso, il giornalista Saverio Lodato. Quando Borsellino inizia a
parlare le sue parole sono stanche e sofferenti. Il volto non nasconde la tensione e la
fatica di quei giorni. Non ha preparato un discorso, parla di getto. È il suo ultimo
discorso pronunciato in pubblico. 196
“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro
mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi
prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché
ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso
e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere
anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni
e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le
mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre
che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo
la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non
voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che
purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni
Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di
Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle
opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali
confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa
assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare
quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che
ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di
questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte
della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente –
e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che
probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che
in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di
Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il
caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando
l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare
speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa,
sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si
chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti
di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere
avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo
momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino
Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del
1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo
dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io
possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne
riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio
del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo
processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché
oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo,
ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in
effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro,
cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima,
in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di
Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un
professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica,
dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per
continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni
risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era
questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare
ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma
quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una
vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di
morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni
si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure
estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo
convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa
alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse,
qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio
compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì
Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni
che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva
inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino
Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore
della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a
crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza
privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza
dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi
mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il
fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e
senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso
della presentazione del libro ‘La mafia d’Agrigento’, denunciai quello che stava
accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca
Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso
per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito
dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali
gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì
quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo
sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo
io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato
comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve
sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve
morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella
caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il
Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente
decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool
antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento
nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché,
nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua
sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire
Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo
delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo,
continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di
Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte
di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere
indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più
continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia
e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non
perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era
innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma
perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter
continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni
decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso
dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più
raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo
raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega
Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento
interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so
quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno,
cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la
lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo
disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un
magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle
che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste
dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione
nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con
la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva
di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un
bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio
anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la
creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero
funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al
lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi
dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente
senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di
maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque
sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso
nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica
sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche
un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone
aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per
ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli
voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere
opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è
trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato
l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a
mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone,
nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della
magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli
avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di
fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal
diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci,
quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio
ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per
potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se
avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni
Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che
poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che
per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello
che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima
esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il
magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva
paura”.197
Al discorso, pronunciato tra numerose pause e sospiri, segue un applauso lungo e pieno
di calore. Borsellino, nel rispetto del suo ruolo non si è voluto sbilanciare troppo
riguardo certi argomenti ritenendo e sperando di essere convocato presto dai magistrati
nisseni. Con estrema lucidità e chiarezza ricostruisce però gli anni duri che precedono la
morte di Falcone. La famiglia Borsellino ha seguito il dibattito alla televisione perché
un’emittente locale lo ha trasmesso in diretta. La signora Agnese si spaventa di fronte
alle parole determinate del marito: “Ma che dice Paolo? Se fa così, lo
ammazzano…”.198
Venerdì 26 e sabato 27 giugno
Borsellino si trova a Giovinazzo, in provincia di Bari, per un convegno di Magistratura
indipendente. Alcuni giornalisti chiedono a Borsellino un parere sui diari di Falcone. Il
giudice conferma l’esistenza di questi scritti ma esclude che siano diari simili a quello
di Chinnici. Il 27 viene pubblicato un’intervista a Borsellino su “Il Mattino” intitolata
Sono nel mirino come Falcone: “Con la paura ormai ci convivo. È inutile nascondere le
apprensioni quotidiane per la mia incolumità e la sopravvivenza fisica. Il problema è
quello di far convivere la paura con il coraggio”.199
Domenica 28 giugno
Borsellino e la moglie si trovano all’aeroporto di Fiumicino per fare rientro a Palermo.
Il ministro della difesa Salvo Andò si avvicina per salutare il magistrato. Gli fa capire
che deve parlargli, così i due si allontanano. Andò gli parla di un’informativa spedita
alla Procura di Palermo che indica il ministro, il giudice e il Pm Di Pietro possibili
bersagli di un attentato e chiede ulteriori informazioni e consigli. Borsellino è
sconvolto. Non sapeva niente. Quando torna dalla moglie è molto arrabbiato, non
capisce perché Giammanco non lo abbia informato.200
Lunedì 29 giugno
Appena arrivato in Procura, Borsellino entra infuriato nella stanza di Giammanco. “Lo
so bene che da una minaccia ci si può difendere poco, ma è mio diritto conoscere tutte le
notizie che mi riguardano”, e sferra un pugno sulla scrivania. La sera a casa racconta
tutto ai famigliari. Racconta, amareggiato, che Giammanco aveva cercato di giustificarsi
adducendo alla competenza spettante a Caltanissetta, ma continua a non comprendere il
silenzio del suo superiore.201
Martedì 30 giugno
Borsellino vola a Roma. Alla sede dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia
di Stato), insieme al collega Aliquò e al questore Manganelli, deve incontrare un nuovo
collaboratore di giustizia: Leonardo Messina, trentasettenne appartenente alla famiglia
di San Cataldo (Caltanissetta). Messina spalanca alle menti di chi lo ascolta una realtà
sconosciuta riguardante il sistema di tangenti e appalti in Sicilia. Gli appalti pubblici
nell’isola, dice, legano mafiosi, politici e imprenditori. Riferisce inoltre l’interesse di
Riina alla Calcestruzzi Spa, azienda che lavora su scala nazionale.202
Mercoledì 1 luglio
Sull’agenda di Borsellino sono segnati questi appuntamenti: Ore 7.00: Roma (Holiday
Inn) ; Ore 9.00: Sco; Ore 12.30: C.C. ; Ora 15.00: Dia; Ore 18.30: Parisi; Ore 19.30:
Mancino; Ore 20.00: Dia.203 È un giorno importante: alle 15 deve incontrare un nuovo
collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo, che dopo Capaci aveva richiesto di parlare
esclusivamente con lui. Mutolo, soprannominato “u Baruni”, è ex autista di Riina e
precedentemente braccio destro di Saro Riccobono della famiglia di Partanna-Mondello.
È molto importante la sua collaborazione perché permette di addentrarsi nei livelli alti
di Cosa Nostra, e Borsellino lo sa. Proprio per questo si scontra con Giammanco che
aveva escluso Borsellino, nonostante l’insistenza di Mutolo, dagli interrogatori con la
motivazione delle competenze territoriali. Borsellino infine riesce a ottenere di parlare
con Mutolo ma deve accettare di essere accompagnato dal collega Aliquò. Con loro ci
sono anche il tenente colonnello Di Petrillo e il vicequestore Gratteri. Mutolo ricorda:
“Il giudice Borsellino mi viene a trovare – ha testimoniato Mutolo –, io ci faccio un
discorso molto chiaro … e ci ripeto, diciamo, che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni
funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente
se prima io non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci ‘c’è questo
pericolo, insomma, se si sa qualche cosa, qua, insomma, fi-nisce male’. Allora mi
ricordo probabilmente … che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, riceve
una telefonata, mi dice ‘sai Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il
Ministro’, ‘va beh, dice, manco una mezz’oretta e vengo’ ”. Borsellino si reca quindi dal
neo ministro dell’Interno Mancino. Secondo Mutolo, quando Borsellino torna è
sconvolto. Al Viminale incontra Vincenzo Parisi e Bruno Contrada. Quest’ultimo è a
conoscenza del colloqui con Mutolo e Borsellino non riesce a capire come Contrada
possa essere a conoscenza di una cosa così segreta. A tarda sera prende l’aereo che lo
riporta a Palermo. La moglie lo descriverà molto amareggiato appena rientrato a casa.204
In quei giorni il giornalista del Tg5 Lamberto Sposini ottiene da Borsellino
un’intervista, che sarà l’ultima trasmessa prima del 19 luglio, registrata nella casa di via
Cilea. Borsellino parla, con gli occhi carichi di dolore, tra lunghi sospiri. Sposini chiede
come sia cambiata sua vita dopo la morte di Falcone. Borsellino risponde che sta
cercando di riacquistare tutte le “possibilità operative sulle quali il dolore ha inciso in
modo enorme”. Parla poi dell’inasprimento delle misure di sicurezza nei suoi e nei
confronti dei famigliari. Sposini chiede se Borsellino si sente un sopravvissuto.
Borsellino fa riferimento alla frase a lui pronunciata da Cassarà dopo l’omicidio di
Montana nel’85 (“Siamo cadaveri che camminano) e continua: “Io accetto, ho sempre
accettato, più che il rischio, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo
dove lo faccio e vorrei dire anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto a un
certo punto della mia vita di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo
correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come
viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che
io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo
facciano tanti altri insieme a me. E so che tutti noi abbiamo il dovere morale di
continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o finanche vorrei dire
dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”.205
Borsellino a casa cerca di vivere una parvenza di vita normale. Si informa sugli
impegni dei figli e per quello che può cerca di seguirli. Sono comunque momenti di
angoscia per tutta la famiglia che è consapevole del rischio che Paolo corre. Quando
qualcuno di loro protesta per il modo in cui è organizzata la sorveglianza, per la
mancanza di una zona di rimozione in via D’Amelio, la risposta è sempre la stessa: “Ci
sono organi dello Stato che hanno il compito di assicurare la protezione di noi
magistrati. Ognuno deve fare il proprio lavoro: giudice, questore e prefetto. Io sono solo
un magistrato e tale devo restare”. Non ammette repliche ma se si tratta invece della
sicurezza degli altri, dei colleghi o della sua famiglia, pretende che nessuno subisca
danni. È preoccupato che nel caso di un attentato alla sua persona possano morire anche
altri, membri della scorta o della famiglia. “Se mi devono ammazzare voglio che
abbiano la possibilità di colpire solo me”.206
Sabato 4 luglio
Borsellino si reca a Marsala per la cerimonia dei saluti al Palazzo di Giustizia, già
rinviata diverse volte. Parla ricordando i sei anni trascorsi come procuratore e aggiunge:
“Abbiamo lavorato tanto e bene. Anche se qualcuno si ostina a dire che io sono venuto a
Marsala perché qui c’è il mare”.207 Poi c’è il momento del brindisi e delle fotografie.
Prima di rientrare a Palermo, Borsellino si sofferma nel suo ufficio di Marsala. I suoi
sostituti gli consegnano una lettera.
Carissimo Paolo,
al di là dei saluti ufficiali, anche se sentiti, un momento privato, un colloquio tra
noi. Noi tutti siamo qui a Marsala con te fino dal tuo arrivo, ma ognuno di noi
porta nel suo cuore un pezzetto di storia da raccontare sul lavoro a Marsala, nella
procura che tu hai diretto. Ci piacerebbe ricordare tante situazioni impegnative o
tristi o buffe che ci sono capitate in questa esperienza comune, ma l’elenco
sarebbe lungo e, allo stesso tempo, insufficiente. Possiamo comunque dirti di aver
appreso appieno il significato di questo periodo di lavoro accanto a te e le
possibilità che ci sono state offerte: l’esperienza con i pentiti, i rapporti di un certo
livello con la polizia giudiziaria, sono situazioni rare in una procura di provincia,
e la tua presenza ci ha consentito di giovarci di queste opportunità. Ab-biamo
goduto, in questi anni, di un’autorevole protezione, i problemi che si presentavano
non apparivano insormontabili perché ci sentivamo tutelati. Qualcuno ci ha
riferito in questi giorni che tu avresti detto, ironizzando, che ogni tuo sostituto,
grazie al tuo inse-gnamento, superiorem non recognoscet. Sai bene che non è
vero, ma è vero invece che la tua persona, inevitabilmente, ci ha portati a
riconoscere superiore solo chi lo è veramente. Ci sono state anche delle
incomprensioni, e non abbiamo dimenticate nemmeno quelle: molte sono dipese
da noi, dalle diversità dei caratteri e dalla natura di ognuno; altre volte, però, è
stata proprio la tua natura onnipotente a vedere ogni cosa dalla tua personale
angolazione, non suscettibile di diverse interpretazioni. Tuttavia, anche in questo
sei stato per noi un “personaggio”, ti sei arrabbiato, magari troppo, ma con
l’autorità che ti legittimava e che mai abbiamo disconosciuto. Anche nel rapporto
con il personale abbiamo apprezzato l’autorevolezza e la bontà, mai assurdamente
capo, ma sempre “il nostro capo”. E poi te ne sei andato, troppo in fretta, troppo
sbri-gativamente, come se questo forte rapporto che ci legava potesse essere
reciso soltanto con un brusco taglio, per non soffrirne troppo. Il dopo Borsellino
non te lo vogliamo raccontare: pur se uniti tra noi, in tantissime occasioni
abbiamo sentito che non c’eri più, e in molti abbiamo avvertito il peso, talvolta
eccessivo per le nostre sole spalle, di alcune scelte, di importanti decisioni. E
adesso il futuro, il tuo, ma anche il nostro. Noi ti assicuriamo, già lo facciamo,
siamo all’erta, sappiamo che cosa vuol dire “giustizia” in Sicilia ed abbiamo tutti
valori forti e sani, non siamo stati contaminati, e se è vero che “chi ben
comincia…”, con ciò che segue, siamo stati molto fortunati. Per te un monito: è un
periodo troppo triste ed è difficile intravederne l’uscita. La morte di Giovanni e
Francesca è stata per tutti noi un po’ la morte dello stato in questa Sicilia. Le
polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e
che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo
spesso che non ce la faremo, che lo stato in Sicilia è contro lo stato, e che non
puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non
abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello stato.
I “tuoi” sostituti208
Nel leggere la lettera Borsellino si commuove. Appena arrivato a casa la incornicia e la
appende nel suo studio. Alla figlia Lucia dice: “A Marsala, a parte il peso di essere
lontano da voi, ho passato il periodo più bello della mia vita. Lì, a quasi cinquant’anni,
ho incontrato quelli che sono diventati i miei veri amici. Non dimenticarlo mai: anche a
quell’età potrai incontrare amici veri”.209
Lunedì 6, martedì 7, mercoledì 8 luglio
La mattina del 6 luglio Borsellino, il sostituto Teresa Principato e il maresciallo Canale
prendono a Palermo un aereo che li conduce in Germania. Si recano a Manheim perché
devono interrogare Gioacchino Schembri, arrestato in Germania tre mesi prima in
seguito a un blitz nell’agrigentino ordinato da Borsellino e i sostituti Principato e
Vittorio Teresi. Borsellino aveva infatti puntato gli occhi su Agrigento e anche Trapani.
Schembri sembra far parte della Stidda, un gruppo che riunisce i fuoriusciti di Cosa
Nostra che si sta ponendo contro alle famiglie mafiose della periferia con lo scopo di
conquistare Palermo a discapito dei Corleonesi. Arrivati all’aeroporto tedesco si
stupiscono di fronte al servizio di scorta imponente preparato per tutelarli. Nell’hotel
che li ospita, la polizia ha messo sotto controllo i telefoni e ha installato telecamere a
circuito chiuso nei corridoi che portano alle loro camere: il tutto è trasmesso in una sala
di controllo. Tutte le persone che devono incontrarli sono prima sottoposti ai raggi x. Il
martedì Borsellino e i colleghi vanno al penitenziario per incontrare Schembri e
vengono infornati che un suo compagno di cella, tale Egon Schinna, ha iniziato a
collaborare e ha raccontato fatti sentiti da Schembri compiuti dagli stiddari. Ci sono
dichiarazioni riguardanti l’omicidio Livatino. I colloqui con Schembri sono proficui.
Borsellino riesce a conquistare la sua fiducia. Prima di andare via Borsellino,
sorridendo, dice a Schembri: “Allora Schembri, ci rivediamo presto?”. L’uomo ricambia
il sorriso e annuisce.210
Giovedì 9, venerdì 10, sabato 11, domenica 12 luglio
Nella tarda mattinata di giovedì 9 c’è il rientro in Italia. Borsellino ha appuntamento a
Fiumicino con la figlia Fiammetta che sta partendo per la Thailandia insieme all’amico
Alfio Lo Presti e alla famiglia. Ma il volo a causa di un disguido atterra a Ciampino.
Borsellino chiama dispiaciuto la figlia, le augura buon viaggio e la saluta con la
promessa di sentirsi spesso telefonicamente. Si dirige poi verso la sede dell’Alto
Commissariato per la lotta alla mafia per incontrare alcuni collaboratori di giustizia, tra
cui Leonardo Messina, il quale al termine del colloquio chiede al giudice un autografo.
Borsellino, stupito, chiede spiegazioni. Messina risponde che è per i suoi figli: lo
vedono spesso in televisione e sanno che il padre lo conosce. All’incontro successivo
Borsellino gli consegna una cartolina con scritto: “In ricordo delle lunghe giornate
trascorse con vostro padre. Paolo Borsellino”.211
La sera del 10 luglio, dopo aver trascorso la giornata negli uffici dello Sco, del Ros
e dell’Alto Commissariato antimafia, tra colloqui investigativi, riunioni e confronti,
Borsellino decide di andare a cena con Canale, da soli. Quella sera, ricorda Canale,
parla esclusivamente Borsellino. Prima di lavoro. Poi all’improvviso cambia
completamente discorso. Comincia a parlare dei figli, con un’aria felice e lo sguardo
innamorato. È orgoglioso di Lucia, della laurea in Farmacia che sta per prendere. È
felice anche del figlio e dei suoi studi in Giurisprudenza: Manfredi gli ricorda un
giovane Paolo. E infine la piccola di casa, Fiammetta, che ama leggere libri su libri,
proprio come il padre. Poi ricorda tutti i dispiaceri e le amarezze che il suo mestiere gli
ha portato. Se potesse rinascere, confessa, vorrebbe fare il portiere di un palazzo, un
lavoro onesto e dignitoso che permette di intrattenere rapporti umani intensi. A
Borsellino infatti è costato un grande sacrificio non poter entrare in confidenza con
molte persone con cui si è trovato a lavorare. Ma poi ripensa ai rapporti intensi che si
sono creati con alcuni, come quello con il collaboratore di giustizia Messina, e fa un
bilancio soddisfacente e consolatorio.212
Sabato 11 Borsellino passa nuovamente la mattina negli uffici romani dello Sco e
del Ros, poi nel primo pomeriggio insieme a Canale prende un elicottero che lo porta a
Salerno. Il giorno seguente deve infatti fare da padrino al battesimo del figlio del
collega e amico Diego Cavaliero. Borsellino divide la camera d’albergo con Canale che
all’alba della domenica, svegliandosi, nota Borsellino che scrive su un’agenda rossa.
Canale gli chiede scherzosamente cosa stia facendo, ma Borsellino è serio: “Carmelo,
per me è finito il tempo di parlare. Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch’io ho
le mie cose da scrivere”. Dopo il battesimo, Borsellino partecipa al pranzo. Nella tarda
serata prende a Napoli un aereo che lo riporta a Palermo.213
Lunedì 13 luglio
Sono giorni di lavoro intenso. Borsellino si sveglia prestissimo, alle 6 lavora già e
finisce dopo le 21. Ritmi massacranti giustificati dalla spaventosa ipotesi di attentati alla
sua vita: “Il mio problema è il tempo”. Sente scivolare via i giorni, le 24 ore di un
giorno sono troppo poche per la mole di lavoro enorme che vuole portare avanti. Intanto
aspetta di essere sentito in merito alla strage di Capaci a Caltanissetta ma la chiamata
non arriva. Caponnetto lo chiama spesso ed è preoccupato: lo sente stanco e
insoddisfatto a causa delle molte difficoltà che sta trovando. “Mi ritrovo più o meno
nella stessa situazione in cui si trovava Giovanni”, gli dice. Condizioni di lavoro
difficili, ostacoli all’interno della Procura. Caponnetto chiede ad Ayala di controllare
Borsellino, è veramente preoccupato. Borsellino, davanti alle richieste di lavorare meno
formulate da Ayala, risponde: “Giuseppe, non posso lavorare meno. Mi resta poco
tempo”. Ad essere preoccupato per lui è anche uno dei suoi più cari amici, Alfio Lo
Presti, che un giorno gli propone di essere prudente, di lasciare perdere e andare via da
Palermo, il pericolo è troppo alto. “Allora tu pensi che col mio lavoro non ho concluso
niente, che i miei anni da magistrato sono stati inutili. Certo, il male è sempre diffuso,
ma come sarebbe stato se io non avessi dato il mio contributo, se io ogni volta fossi
fuggito? Non hai rispetto per i miei sentimenti, per tutte le mie scelte di questi anni, non
mi sei amico se mi consigli così”, Borsellino si offende e si arrabbia terribilmente e a
fatica l’amico riesce a fargli capire quanto la sua sia solo una supplica all’attenzione.214
Lunedì 13 luglio Borsellino alle 9 entra nel suo ufficio in Procura. Ha lavorato da
casa già dalle prime ore del mattino. Quella mattina lo va a trovare don Cesare
Rattoballi con il quale è nata un’amicizia recente. Don Rattoballi è infatti cugino di Vito
Schifani, agente di scorta morto nella strage di Capaci. Borsellino e il sacerdote si
conoscono alla camera ardente allestita al Palazzo di Giustizia e da quel momento
spesso si incontrano per parlare. La mattina del 13 luglio parlano insieme per diverso
tempo, poi prima che don Rattoballi vada via, Borsellino lo blocca: vuole essere
confessato, “Devo essere pronto don Cesare. In ogni momento”. Nel pomeriggio un
agente della scorta vede il giudice particolarmente preoccupato e gli chiede spiegazioni.
“Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che è arrivato il tritolo per me e non
voglio coinvolgervi”.215 Gli ex colleghi di Marsala Massino Russo e Alessandra
Camassa vanno a trovarlo nel pomeriggio in Procura. Rimangono profondamente scossi
nel vederlo sconvolto. “Si è alzato dalla sedia, si è disteso sul divano, si è coperto il
volto con le mani ed è scoppiato a piangere. Era distrutto e ripeteva: ‘Un amico mi ha
tradito, un amico mi ha tradito…’. A casa, si confida con la moglie. Teme di
coinvolgere la famiglia in qualcosa di brutto, non vuole esporre i suoi cari al pericolo.
Alla signora Agnese dice: “Sto vedendo la mafia in diretta”. La moglie lo vede talmente
turbato che non riesce a chiedere chiarimenti, ottiene solo una risposta più specifica
riguardo una persona in particolare: “Subranni… ho saputo che è punciuto…”.216
Martedì 14 e mercoledì 15 luglio
Borsellino non fa vita, lavora anche nei giorni della festa di santa Rosalia, la patrona di
Palermo, in un Palazzo di Giustizia deserto. Allontana completamente la famiglia, con
grande sofferenza. La moglie racconta che Borsellino non vuole essere baciato né da lei
né dai figli. Si isola, per proteggerli e per prepararli al distacco. Al collega Ingroia
chiede di non andare in ferie per lavorare insieme a lui, c’è molto da fare. Quando
Ingroia rifiuta, legge sul volto di Borsellino un misto di rabbia e delusione. Il giorno
seguente Ingroia ritorna nel Palazzo semideserto per informare Borsellino che sarebbe
stato fuori soltanto il fine settimana, il lunedì sarebbe stato di nuovo con lui a lavoro. Il
giudice torna sereno e lo abbraccia.217
Giovedì 16 luglio
Dall’agenda di Borsellino leggiamo: ore 9: Roma (DIA). Prima che il giudice prenda
l’aereo che lo porta a Fiumicino però avviene un episodio strano e allarmante. Come
sappiamo, sotto l’abitazione di Borsellino non è possibile posteggiare auto, c’è una zona
di rimozione come misura di sicurezza. L’agente di Scorta Antonio Vullo, unico
sopravvissuto alla strage di via D’Amelio, racconta: “Noi siamo partiti da sotto
l’abitazione intorno alle 5.20 circa [per portare Borsellino in aeroporto]. [Prima] Noi ci
siamo allontanati intorno l’una e un quarto, l’una e mezzo da via Cilea. Siamo andati in
caserma a fare il rifornimento, abbiamo preso il caffè e i cornetti da portare anche a
quelli della vigilanza fissa e quando siamo tornati ci siamo accorti che c’erano questi
due mezzi parcheggiati nelle due estremità di via Cilea: uno posteggiato in via Principe
di Paternò, era una Lancia Thema targata Milano; e l’altro dall’altro lato dove
restringeva la carreggiata, dove c’era un vecchio casolare: avevano lasciato un pulmino
850 della Sip. Ci siamo allertati perché… trovarci questi due mezzi di notte e noi
dovevamo uscire di mattina presto per lasciare il giudice in aeroporto… però non si è
potuto fare nulla. Claudio Traina parlava con i colleghi degli uffici ma le auto non
risultavano rubate. Ma a prescindere da questo bisognava fare un controllo più appurato.
Abbiamo dato un’occhiata a queste auto, sotto ai veicoli per vedere se c’erano dei fili,
ma non abbiamo visto niente di strano. Ma non è che eravamo artificieri, noi abbiamo
guardato sommariamente. Abbiamo avvisato il giudice di questo fatto però lui ci ha
detto: ‘Ragazzi, io devo partire assolutamente’. Abbiamo deciso di partire passando dal
lato più largo, facendo un giro ampio per essere più distanti possibile dall’auto che
poteva essere un’autobomba”.218 Non avvengono esplosioni ma i due mezzi non
avrebbero dovuto essere lì. Borsellino intorno alle 7 prende l’aereo che lo porta a Roma.
Ha vari appuntamenti, tra cui l’interrogatorio con Gaspare Mutolo che dura diverse ore.
Il collaboratore di giustizia accetta di verbalizzare le accuse che rivolge a Bruno
Contrada, funzionario del Sisde, e al giudice Domenico Signorino.219 Le accuse rivolte a
queste persone, bollate come colluse con la mafia, turbano profondamente Borsellino.
Venerdì 17 luglio
Venerdì rientra a Palermo. Nel primo pomeriggio è in Procura. Prima di tornare a casa,
compie un gesto insolito. Saluta uno ad uno i colleghi che incontra, abbracciandoli. Tra
218 Intervista rilasciata da Antonio Vullo in data 19/08/2019 a Palermo.
219 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 86.
questi ci sono Vittorio Teresi, Teresa Principato e Ignazio de Francisci. Stupiti gli
chiedono il motivo di questo saluto. Borsellino, sorridendo appena e nascondendo la
preoccupazione, dice: “E perché vi stupite? Non vi posso salutare?”.220 Torna a casa nel
tardo pomeriggio. Manfredi racconta: “Mio padre è teso, nervosissimo. In troppi, e di
questo ne è amareggiato, sanno che Mutolo ha deciso di collaborare; qualcuno ha
violato un segreto che dovrebbe essere mantenuto, soprattutto nella fase iniziale di un
pentimento”; “Papà riesce a trovare spazio per l’ottimismo anche in quell’occasione:
‘Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo’, commenta
a casa, confidandoci che c’è un nuovo boss che s’è pentito. Non ci fa il suo nome: ‘Vi
dico solo che è un uomo d’onore vicinissimo per anni a Totò u curtu, gli ha fatto
persino da autista’”. Poi Borsellino si rivolge alla moglie: “Andiamo a Villagrazia, ho
bisogno di un po’ di aria di mare. Ma senza scorta, da soli”. La signora Agnese ha paura,
è pericoloso senza scorta, ma il marito non accetta contestazioni. La sua decisione è
ferma. In macchina Borsellino resta silenzioso. La moglie ricorda: “Riesco a fatica a
fargli ammettere qualcosa: un pentito, un mafioso, ha lanciato accuse contro un
magistrato, lo ha definito colluso. Ora capisco. Paolo non ha mai avuto una diffidenza
gratuita verso i colleghi. Li disapprova se si accorge che lavorano senza passione, se
sono pavidi, se usano la toga solo per far carriera e assecondare la voglia di
protagonismo delle mogli e degli amici. Ma non è disposto ad accettare l’idea che
qualcuno possa essere corrotto”;221 “Quel pomeriggio a Villagrazia incontrammo un
amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. Il
cielo era di un colore bellissimo. Mi prese per mano, come la nostra prima volta al Foro
Italico, quella mattina che c’eravamo incontrati per caso in via Maqueda. Ma a
Villagrazia le sue mani erano sudate. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta
amarezza. Mi disse: ‘Per me è finita’. Io gli sussurravo: ‘Paolo, restiamo a Villagrazia’.
Ma lui ripeteva: ‘Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata’. Mi disse
soprattutto che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, la mafia che non
gli faceva paura, ma sarebbero stati alcuni suoi collegi e altri a permettere che ciò
potesse accadere”.222
Sabato 18 luglio
Nel pomeriggio di sabato Borsellino va a casa della madre. Deve arrivare un cardiologo
che si è reso disponibile per una visita a domicilio alla donna che è cardiopatica. Ma si
rompe la macchina del dottore che propone di portare la donna il giorno seguente
direttamente a casa sua per la visita. La sorella di Paolo, Rita, non può perché
trascorrerà la domenica con la famiglia a Trabia, così Borsellino si offre di passare a
prendere la madre per portarla alla visita. Prima di tornare a casa passa dall’Hotel
Astoria Palace per salutare il pm e amico David Monti. Arrivato a casa, Borsellino
compie ancora un gesto atipico: saluta il portiere del palazzo con un abbraccio e un
bacio.223
3.2.4. 19 luglio
Domenica 19 luglio Borsellino si alza prima del solito. Alle 5 di mattina riceve una
telefonata dalla figlia Fiammetta che, lontana da casa, è nostalgica e ha bisogno di
sentire la voce del padre. Borsellino chiede alla figlia come sta e le ricorda di comprare
una radio per suo fratello Manfredi a Hong Kong. La ragazza ha l’impressione che il
padre voglia chiudere la telefonata così lo saluta. Sa che al telefono non è mai stato a
suo agio, ma averlo sentito la tranquillizza. Borsellino va nel suo studio e decide di
rispondere a una lettera. È una lettera scritta da una studentessa del Liceo Cornaro di
Padova, arrivata al Palazzo di Giustizia a fine febbraio. La giovane nella lettera esprime
il suo disappunto: Borsellino era stato invitato a un evento svoltosi il 24 gennaio nel
sopracitato liceo ma, senza avvisare, non si era presentato. La lettera di protesta termina
con 10 domande che gli studenti avrebbero voluto sottoporgli all’incontro di gennaio.
Borsellino fraintendendo crede che sia stata una professoressa a scrivere e inizia a
rispondere:
“Gentilissima” Professoressa,
uso le virgolette perché le ha usate lei nello scrivermi, non so se per sottolineare
qualcosa, e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato
agli studenti del suo Liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24
gennaio.
Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un
compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non
fosse altro perché a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana
223 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 89,90.
105
alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni
mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi
abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di
Palermo è 091/586963, utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma
nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le
indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di
Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che
diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro
che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del
quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito
nessuno.
Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di
aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo
avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato
“comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non
ebbi proprio il tempo di dolermene perché i miei impegni sono tanti e così
incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente
e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati.
Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché frattanto la mia
città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare
neanche ai miei figli, che vedo raramente perché dormono quando esco da casa ed
al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non
lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue
domande.
1) Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto
civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle
ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti.
La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al
mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per
la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al
1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’
vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia,
ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione,
anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle
problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni ereditarie etc.
106
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici
volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso
ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di
infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un
altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso.
I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi
casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché
esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di
essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella
colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi
giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia
generazione ne abbiamo avuta.
2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri,
della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di
realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora,
con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco
scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro
istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare
soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico
Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia
l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova
figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione,
ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e
processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura
sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire
tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui
se ne ravvisi la necessità.
3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e
verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua
caratteristica di “territorialità”. Essa è suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro
per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad
esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare,
legittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si
producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di
tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento
degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti
rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero
essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una fornitura apparente perché a somma algebrica zero, nel
senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una
corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità
(storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra
e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni
(pochi) togliendolo ad altri (molti).
La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa
Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema
criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale
concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è
risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi
pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata
verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità
sociale.
Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”,
Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività.
Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di
sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non hanno l’organizzazione
verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di
cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato,
che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.
4). 224
La lettera si interrompe al punto 4. Infatti squilla il telefono, sono circa le 7. Borsellino
risponde, è Giammanco: gli comunica che ha riflettuto molto e ha deciso di conferirgli
la delega per gli interrogatori di Gaspare Mutolo. La telefonata, in un giorno e in un
orario insoliti, è carica di tensione. Giammanco al termine dice: “Così la partita è
chiusa”, ma Borsellino non ci sta, urla “no, la partita è aperta!” e aggancia la cornetta.
La sua voce alterata sveglia la moglie. Borsellino alza lo sguardo e vede la figlia Lucia
seduta davanti a lui: “Non si è nemmeno accorto che sono nello studio, seduta nella
poltrona sistemata nell’angolo della stanza, mentre scrive quella lunga lettera. Mi chiede
se mi piacerebbe trascorrere quel giorno al mare, a Villagrazia. ‘Magari riuscirò a
vederti un po’ abbronzata, l’esame che hai domani ti ha costretto finora a non fare
neanche un bagno’. Fa il programma della giornata: subito Villagrazia, poi insieme io e
lui a prendere la nonna in via D’Amelio per portarla dal cardiologo, infine casa: io a
studiare, lui a lavorare. Rispondo di no: devo andare da un collega di università per
l’ultimo approfondimento di studio, e poi è il giorno del suo compleanno, mi ha invitata
a pranzo. ‘Ma quando li chiuderai, questi libri?’, protesta.225
Borsellino decide di partire subito con la moglie per Villagrazia. Chiede a Manfredi
se vuole andare con loro, ma il ragazzo ha fatto tardi la sera prima e vuole dormire
ancora un po’. Manfredi arriva alle 11 a Villagrazia. Il padre è appena uscito in barca
con l’amico Vincenzo Barone, la madre è andata a comprare del pesce con un’amica per
il pranzo. Vullo racconta un episodio di quella mattina: “Anche con la sua famiglia, se
doveva fare delle battute le faceva, anche se c’eravamo noi, ci considerava come di
famiglia. E infatti quel 19 luglio… loro erano alla casa al mare, avevano una piccola
cucina all’esterno, dove c’erano degli stipetti e si era avvicinato lui con la signora
Agnese a questi stipetti, lui ne apriva alcuni da un lato e lei da un altro. In uno di questi
c’era un contenitore, l’ha aperto e si è spaventato, io mi sono avvicinato per vedere. A
quanto pare era un contenitore di zucchero pieno di formiche, e rivolgendoli alla moglie
le ha detto: ‘non è che ti mangiano, non sono elefanti, ma formiche’, però l’ha detto in
modo dialettale… io ero là davanti e non sapevo se ridere o cosa fare, non mi aspettavo
che a sua moglie si rivolgesse in dialetto”.226 È l’ora di pranzo. La famiglia Borsellino è
a mangiare a casa dei Tricoli, dei vecchi amici. Manfredi ricorda il trambusto per
allungare la tavola e il segno della croce che Borsellino fa prima di mangiare. Sono ore
abbastanza serene, il giudice è tranquillo. Dopo aver finito di mangiare si intrattiene per
vedere un po’ il Tour de France in televisione, poi ringrazia e saluta gli amici e torna
nella sua villetta per fare un riposino. Non dorme affatto. Dopo qualche ora, verranno
trovate nel posacenere accanto al letto cinque mozziconi di sigarette.227
Intorno alle 16.30 Borsellino esce di casa. Indossa una Lacoste azzurra, dei jeans e
delle scarpe Tods. Ad attenderlo ci sono gli agenti di scorta: Claudio Traina, 27 anni;
Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Cusina, 31 anni; Emanuela Loi, 24 anni; Antonio
Vullo, 32 anni; Agostino Catalano, 43 anni. Borsellino saluta la moglie, il figlio e
l’amico Vincenzo Barone. Ai poliziotti dice: “Vado da solo sulla Croma blu, voi andate
sulle altre due”. Nel sedile posteriore destro posiziona la sua borsa. Parte la prima auto
di scorta, segue quella del giudice e chiude la fila l’altra di scorta.228 Quella squadra di
poliziotti di scorta non era mai stata prima in via D’Amelio. Vullo racconta: “Io quando
sono arrivato all’ingresso di via D’Amelio mi sono fermato. Non ci aspettavamo tutte
quelle auto, e infatti Claudio Traina ha fatto un’esclamazione tipica nostra: ‘minchia’,
nel senso di paura. Solo che non abbiamo avuto il tempo di informare il giudice, lui ci
ha sorpassato e si è introdotto in via D’Amelio, a quel punto siamo dovuti entrare. Io ho
fatto scendere i componenti della mia auto: Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Loro
dovevano andare all’interno del portone per fare un piccolo controllo, una piccola
bonifica per vedere se c’era qualcuno nascosto all’interno. Nel frattempo il giudice era
sceso e io mi sono posizionato alla fine di via D’Amelio, ho messo l’auto di traverso per
controllare la mia zona di competenza. Ho visto che non avevano delle vie, ma
solamente degli scivoli adiacenti a dei palazzi che c’erano lì, mentre l’altra auto doveva
bloccare via dell’Autonomia Siciliana, ma non l’ha fatto. E’ entrata e si è messa dietro
l’auto del giudice. L’altra auto era composta da Agostino Catalano, Walter Cosina,
Emanuela Loi. Difatti io che ero la seconda auto, se fossi rimasto come prima auto, sarei
rimasto all’altezza di via dell’Autonomia Siciliana, anche se non abbiamo fatto un corso
per le scorte, bene o male sapevamo il lavoro che c’era da fare: dovevamo bloccare i
due lati d’entrata alla via per garantire maggior sicurezza al giudice e a noi stessi, ma
Walter non l’ha fatto e si è infilato. […] Da dove io ero messo, fine di via D’Amelio,
ero a circa 10/12 metri dall’autobomba. C’ero anch’io fuori dall’auto e il giudice è
rimasto tanti secondi fermo davanti a quell’auto, proprio in quel punto. Difatti si stava
accendendo la sigaretta ma non riuscendoci Catalano gliel’ha fatta accendere. Nel
frattempo ho visto i componenti della mia auto che sono ritornati all’esterno del cortile,
dove c’era il portone d’ingresso. Ho visto il giudice che suonava il campanello
dell’abitazione. Vedendo tornare indietro sia Vincenzo che Claudio, ho dedotto che il
portone era chiuso, ma l’ho capito dopo, negli anni. Penso che se il portone fosse stato
aperto, almeno i componenti della mia auto si sarebbero salvati, avrebbero avuto un
riparo maggiore…poi anche perché il tempo che abbiamo passato lì fuori è stato
tantissimo per fare un attentato, avere sotto tiro una persona per più di 30 secondi… Poi
quando dalla mia posizione non li vedevo più, (ho dedotto che) il giudice e gli altri
componenti fossero entrati all’interno del cortile. Era rimasto solo Cosina fuori
dall’auto e si è acceso la sigaretta. A quel punto io volevo riposizionare l’auto in mododa poter ripartire, ho visto lui che stava fumando e ho deciso di spostare l’auto per stare
accanto a lui e aspettare che il giudice scendesse nuovamente. Pensavo fossero dentro lo
stabile e invece fatti 2/3 metri ho cominciato a vedere nuovamente le sagome del
magistrato e degli altri, e lui che era intento ancora a suonare il campanello del portone
d’ingresso. Io ho girato la testa per posizionare l’auto al centro della carreggiata, quando
sono stato investito all’interno dell’abitacolo della macchina da una violenta fiammata.
L’auto si è sollevata da terra e si è spostata per circa un metro, e mi sono sentito
schiacciare e lasciare tutto insieme. Hai presente un palloncino? Lo gonfi, lo schiacci e
lo lasci? Ecco, la stessa cosa l’ho provata io dentro l’auto, ancora non avevo capito
quello che era successo, sono sceso dall’auto e ti posso dire che mi sono sentito tirare,
come se qualcuno mi tirasse fuori. L’auto ha preso subito fuoco, lo sportello non si
apriva e sicuramente avrei fatto una morte diversa rispetto a quella subìta dai colleghi,
loro sicuramente non si sono resi conto di nulla. Sono riuscito ad aprire lo sportello e mi
sono reso conto di quello che c’era, di quello che era successo, però era tutto nero, fumo
nero, intenso, fuochi dappertutto. Si sentì poi esplodere le auto, forse anche i colpi delle
nostre armi. Io non sapevo che fare, se chiedere aiuto, se ricevere aiuto, a correre qua e
là, ero completamente disorientato… sono uscito da via D’Amelio e non vedevo
nessuno, sono rientrato nella via, e non vedevo nessuno. Subito dopo sono stato
bloccato da una persona, era una persona amica con un viso conoscente, ma ero
disorientato ed ero armato, anche lui poteva essere un’ulteriore (killer). Col tempo
questa persona mi ha ricordato l’episodio, io mi sono divincolato perché cercavo i
componenti della scorta…anche un altro mi ha bloccato, ma non me lo ricordo, io
cercavo i componenti della scorta, ho ripreso a correre e quando mi hanno nuovamente
bloccato ero sopra un piede mozzato di un collega. Ho visto dei brandelli di carne, ho
visto il corpo di Cosina appoggiato alla sua auto e poi mi sono ritrovato in ospedale”.229
L’autobomba era stata posteggiata proprio davanti al cancello del numero civico 19.
Una Fiat 126 il cui bagagliaio conteneva 90 kg di esplosivo, il Semtex-H, che provoca,
alle 16.58, un’esplosione pari a 900 kg di tritolo. Le vittime sono letteralmente
massacrate. Un braccio del magistrato viene trovato al secondo piano di un’abitazione,
la mano di un poliziotto al quinto piano. La bomba ferisce dozzine di persone, devasta
229 Intervista rilasciata da Antonio Vullo in data 19/08/2019 a Palermo.
quattro palazzi, distrugge 30 auto. La madre di Borsellino, sentita l’esplosione, scende a
piedi nudi quattro piani di scale, si convince che siano scoppiate le tubature del gas. Più
tardi dirà di non aver visto niente. Borsellino è a terra in mezzo ai detriti. La bomba gli
ha reciso le gambe e le braccia. Resta solo il tronco semi-carbonizzato, il volto è
annerito e i baffi un po’ inceneriti. La figlia Lucia corre in via D’Amelio. Grida
terribilmente, vuole vedere il padre. Disperata, si consola vedendogli sotto i baffi un
cenno di sorriso.230
3.2.5 Dopo via D’Amelio
Caponnetto prende immediatamente un aereo che lo porta a Palermo. Va a casa
Borsellino ad abbracciare Agnese e i figli, poi va all’obitorio a vedere il secondo
“figlio” perduto. All’uscita, dopo aver visto quei corpi martoriati, si lascia sfuggire una
frase disperata e piena di sfiducia. A un giornalista dice: “E’ finito tutto… è finito
tutto”. Al Palazzo di Giustizia arrivano le sei salme in serata. Come appena un mese e
mezzo prima, fuori c’è una coda immensa di persone in lacrime che vogliono salutare le
vittime, c’è il solito picchetto d’onore, ci sono le solite urla e contestazioni. Dal tardo
pomeriggio si formano cortei spontanei intorno a via D’Amelio, via Notarbartolo,
davanti al Comune e alla Prefettura. Inizia anche una forte protesta da parte dei colleghi
degli agenti di scorta uccisi. Fino a tarda notte ci sono momenti di alta tensione. Viene
presa a calci l’auto di Giammanco, la folla sputa su di lui e sul capo della Polizia Parisi,
sono lanciate monetine al ministro della Giustizia Martelli e a quello dell’Interno
Mancino.231 Lunedì 20 luglio Giammanco chiede ai magistrati della Dda di Palermo di
esprimergli solidarietà per le contestazioni ricevute la sera prima. La Procura si spacca
in due. Molti non sono disposti ad accettare. Otto dei sedici magistrati della Dda
firmano una lettera di dimissioni. Nella lettera chiedono alle istituzioni di prendere
posizione (“Paolo Borsellino era pienamente consapevole di essere esposto a un
incombente rischio di morte, e nonostante ciò, aveva accettato tale rischio confidando
che lo Stato, soprattutto dopo la strage di Capaci, avrebbe profuso il massimo sforzo per
tutelare la sua vita”) ma soprattutto esprimono la necessità di un cambiamento ai vertici
dell’ufficio (“Siamo disposti a rischiare, siamo disposti a morire, ma solo a condizione
di raggiungere scopi concreti. Alla Procura di Palermo, l’unità di intenti e lo spirito di
collaborazione appaiono compromessi. Solo una guida autorevole e indiscussa potrebbe
sanare le divergenze e le spaccature sorte dopo la strage di Capaci e acuitesi dopo
l’eccidio di via D’Amelio”). La firmano Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Ignazio De
Francisci, Teresa Principato, Antonio Napoli, Giovanni Ilarda, Alfredo Morvillo e
Antonio Ingroia. Giammanco a seguito delle polemiche chiede di essere trasferito a
Roma.232
Il 21 luglio ci sono i funerali degli agenti di scorta nella Cattedrale di Palermo. Sono
stati predisposti dei cordoni della Polizia per arginare la folla incontenibile e inferocita,
che chiede di entrare perché, come grida una donna, “Questo è il nostro funerale!”.
Quando arrivano i politici la folla riesce a rompere i cordoni dei 4000 agenti. Sia fuori
che dentro la chiesa aumenta la tensione e la protesta. I politici sono contestati e a stento
la polizia li sottrae dalle spinte, dalle urla, dal lancio di oggetti. Appena le bare dei
cinque agenti escono dalla Cattedrale dopo la cerimonia funebre cala la confusione, si
levano grandi applausi e tante lacrime.233 Agnese Borsellino rifiuta i funerali di Stato e
sceglie una cerimonia in forma privata, senza politici. Viene però deciso che chiunque
vorrà partecipare potrà farlo, senza alcun cordone della polizia che impedisca alle
persone di entrare in chiesa. La figlia Fiammetta viene informata della morte del padre
solo dopo due giorni perché essendo all’estero non si riesce a rintracciarla. Il funerale di
Borsellino è la mattina di venerdì 24 luglio nella Chiesa di Santa Luisa di Marillac. Gli
unici politici presenti sono Leoluca Orlando, il Presidente della Repubblica Scalfaro, il
capo della Polizia Parisi, il ministro della Giustizia Martelli. Scalfaro legge una
preghiera: “Signore ti chiediamo, noi uomini che rappresentiamo i poteri dello Stato, di
non disperdere la ricchezza che esce da questo enorme sacrificio. Nulla venga disperso,
affinché noi, responsabili di fronte alla gente buona, onesta, pulita, che ama il lavoro,
che chiede la pace… noi non siamo e non dobbiamo essere mai motivo di vergogna e di
scandalo. Per questo ti preghiamo”. Caponnetto non abbandona un attimo Agnese e i
figli, li stringe, piange con loro come un padre. È Caponnetto a leggere la preghiera
laica durante l’orazione funebre e promette: “Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino
al sacrificio dovrà diventare la lotta di ciascuno di noi. Questa è la promessa che ti
faccio, solenne come un giuramento”. La gente riempie la chiesa e il piazzale esterno,
tra l’emozione e il dolore e all’uscita della salma grida: “Paolo, Paolo, Paolo!”.234 Una
bambina di otto anni, Giacomina, che vive in una famiglia povera all’Albergheria dove
Fiammetta fa volontariato in un centro sociale, non si rassegna all’idea che Borsellino
sia morto e continua a chiamare a casa chiedendo di lui. Borsellino spesso
accompagnava la figlia al centro, si tratteneva con i bambini e aveva un debole per
Giacomina, la quale capirà davvero cosa è successo solo davanti alla lapide del
cimitero.235
NOTE
171 Citazione in Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 241, 242; Follain, I 57 giorni che hanno sconvolto
l’Italia, pp. 108- 121; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino. Dalla
strage di Capaci a Via D’Amelio, Aliberti, Reggio Emilia, 2010, pp. 21- 26; Attilio Bolzoni, Giuseppe
D’Avanzo, Il capo dei capi, p. 207.
172 Citazione in Lucentini, Paolo Borsellino, p. 12.
173 https://lamemoriasifastrada.wordpress.com/2012/05/11/il-volantino-del-comitato-dei-lenzuoli-del-
1992/ [Manifesto del Comitato dei Lenzuoli]; Caponnetto, I miei giorni a Palermo, p. 10.
174 Citazione in Follain, I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia, pp. 122, 123; Lucentini, Paolo
Borsellino, p. 243; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 30,
175 Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 243, 244; Follain, I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia, pp. 122-
125; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 31-33; “L’Unità”,
26 maggio 1992; Corlazzoli, 1992. Sulle strade di Falcone e Borsellino, pp. 83- 96.
176 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 245.
177 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 37.
178Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 245, 246.
179 Ivi., pp. 246, 247.
180 Giuseppe Pino Arlacchi è un sociologo e politico italiano. Amico di Falcone e Borsellino, negli anni
’90 ha partecipato, come consigliere del ministero dell’interno, alla costruzione della strategia antimafia,
contribuendo al progetto esecutivo della Dia.
181 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 77; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo,
Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 40, 41; Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 249, 250.
182 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 77; Lucentini, Paolo Borsellino, p. 251.
183 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 252; citazione in Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi
giorni di Paolo Borsellino, p. 42.
184 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 78; Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 250 251.
185 https://www.youtube.com/watch?v=ykDt61Rb4Gc
186 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 78-81; Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 252- 254.
187 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 254.
188 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 80; Follain, I 57 giorni che hanno sconvolto
l’Italia, p. 131.
189 Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 254-256; Francesco Viviano, Alessandra Ziniti, Visti da vicino.
Falcone e Borsellino gli uomini e gli eroi, Aliberti, Reggio Emilia, 2012, p. 169.
190 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 283.
191 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, pp. 80-82.
192 Ivi. pp. 46, 47
193 Paolo Borsellino, Oltre il muro dell’omertà: Scritti sul verità, giustizia e impegno civile, Bur
Rizzoli, 2011, pp. 220-223.
194 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 262.
195 http://www.archivioantimafia.org/giornali/sole24ore/liana_milella_appunti_falcone.pdf.
196 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, pp. 83,84; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo
Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 53.
197Citazione in Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 264-269;
https://www.youtube.com/watch?v=dqUSYwhmKCw&t=207s.
198 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 59.
199 Ivi., p. 62.
200 Zurlo, Oltre la trattativa, p. 70; Agnese Borsellino, Salvo Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che
potrò, pp. 72,73; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 63, 64;
19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 86.
201 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, pp. 86, 87; Agnese Borsellino, Salvo Palazzolo,
Ti racconterò tutte le storie che potrò, pp.73.
202 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, pp. 87; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo,
Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 66-68.
203 Paolo Borsellino, Cosa nostra spiegata ai ragazzi, PaperFIRST, 2019.204 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, pp. 89, 90; Follain, I 57 giorni che hanno
sconvolto l’Italia, pp. 143-145.
205 http://www.archivioantimafia.org/borsellino_lambertosposini.php.
206 Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 269-271.
207 Il riferimento è a Vincenzo Geraci, il Giuda del discorso pronunciato il 25 giugno alla biblioteca di
Casa Professa, che in un libro appena pubblicato sostiene che “Paolo voleva la Procura col mare”. [Ivi.,
pp. 277, 278]
208 19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, pp. 91-93; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo
Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 77,78.
209 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 280.
210 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 79-81; Lucentini,
Paolo Borsellino, pp. 281-286.
211 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 81; 19luglio1992.com,
Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 95.
212 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 81; Lucentini, Paolo
Borsellino, pp. 287-289.
213 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 81, 82.
214 Caponnetto, I miei giorni a Palermo, pp. 108,109; Lucentini, Paolo Borsellino, p. 67, 281; Follain, I
57 giorni che hanno sconvolto l’Italia, p. 147.
215 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 82-84;
19luglio1992.com, Paolo Borsellino e l’agenda rossa, p. 96;
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/borsellino-cesare-confessami-mi-sto-preparando.
216 Antonio Subranni è il generale dei Ros. Il termine punciuto significa mafioso, appartenente a Cosa
Nostra. [Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, p. 84; Agnese
Borsellino, Salvo Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, pp. 151,152. ]
217 Agnese Borsellino, Salvo Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, p. 151; Lucentini, Paolo
Borsellino, pp. 290, 291.
220 Follain, I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia, p. 153.
221 Citazioni in Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 294, 295.
222 Agnese Borsellino, Salvo Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, pp. 145, 146.
224 http://www.19luglio1992.com/ultima-lettera-paolo-e-infiltrazioni-mafia-stato/ ; Lucentini, Paolo
Borsellino, pp. 296-299.
225 Lucentini, Paolo Borsellino, p. 299.
226 Intervista rilasciata da Antonio Vullo in data 19/08/2019 a Palermo.
227 Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 301, 305, 306.
230 Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino, pp. 94-98, 190; Follain, I
57 giorni che hanno sconvolto l’Italia, p. 161.
231 Follain, I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia, pp. 162, 163; Caponnetto, I miei giorni a
Palermo, pp. 17, 18; https://www.youtube.com/watch?v=JRV497mFqkQ [Video Caponnetto] ;
“L’Unità”, 21 luglio 1992.
232 A fine luglio Giammanco è trasferito alla Corte di Cassazione. Gli otto magistrati firmatari della lettera
restano alla Procura di Palermo. [Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo
Borsellino, pp. 102, 103].
233 https://www.youtube.com/watch?v=rr5umA_cEp8&t=6s [Funerale degli agenti di scorta] ; Giorgio
234 “L’Unità”, 25 luglio 1992; Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino,
pp. 105-107.
235 La moglie Agnese ricorda che Borsellino spesso diceva di ringraziare il Signore per avergli permesso
di mantenere vivo dentro sé il fanciullino di cui parlava Pascoli. “Si riferisce alla possibilità che ha
conservato intatta di emozionarsi quando gioca con i figli, o con gli altri bimbi che, infatti, lo adorano”.
[Lucentini, Paolo Borsellino, pp. 191, 247, 248].