Il progetto San Francesco, associazioni, sindacati e imprese uniti per insegnare la legalità a Cermenate
Un marciapiede con l’orlo mangiato dall’usura. Non uno ma due cani di guardia a un giardino curato. Gambe accavallate e sandali slacciati di donne fuori dal gelataio, bambini che urlano, cani mignon che abbaiano. Portici, cortili, un campanile. Il rumore d’una carta da gioco lanciata su un tavolino di plastica circondato da quattro vecchietti. Dove sta il segreto? In quale punto cominciare a cercarlo? Cosa di tremendo e intrigante ha quest’anonima terra senza orpelli e senza arie – piuttosto storie di statali e di stabilimenti -, cosa nasconderà mai? Non certo la mafia. Qua la mafia non esiste, non scherziamo. Non si vede, dunque non c’è.
In superficie mancano indizi a spiegare perché Cermenate, 9 mila abitanti in provincia di Como, paese ordinario e ordinato, si trovi nella geografia di Giuseppe Pignatone, di Ivan Lo Bello, di Alessandro Marangoni, e di Michele Prestipino, Francesco Musolino… Tutti sostenitori e protagonisti del Progetto San Francesco. Che ha base in una villetta, per l’appunto a Cermenate, sequestrata al clan ‘ndranghetista Paviglianiti e diventata il Centro di studi sociali contro le mafie, intitolato a Giorgio Ambrosoli (presente con l’impegno del figlio Umberto). Il Centro: dibattiti, denunce. «Ma puntiamo più ai fatti che alle parole. Vogliamo pestare i piedi, provocare rumore» dice Alessandro De Lisi, il direttore generale del Progetto, «un movimento culturale, una piattaforma per promuovere la cultura della giustizia attraverso la collaborazione con associazioni, sindacati e imprese». Palermitano, De Lisi. Ma di nuovo: cosa c’entra Cermenate? Che domanda. «Un luogo perfetto per combattere l’esotismo dell’antimafia».
Esotismo. La definizione è sempre sua, di De Lisi, giornalista, saggista, esperto di sistemi sociali legali e illegali. Quattro anni fa, racconta, De Lisi era davanti al Tribunale di Palermo. Parlava con l’ex procuratore capo Pignatone appena trasferito a Reggio Calabria (oggi a Roma) e l’allora questore Marangoni, adesso a Milano. «Venne un’idea». A chi in particolare non importa. Creare una casa per il pool antimafia. Un pool non esclusivamente investigativo: cioè di pm e forze dell’ordine. E la casa, quella su al nord. Non la Sicilia, non la Calabria, non la Campania. Troppo facile. Andiamo al nord . In Lombardia. La Lombardia ammalata di cosa nostra e di ‘ndrangheta. Non una città, però: non serve. «La città sarebbe stata solo una vetrina». E poi, poi bisognerebbe stare vicini al confine . La criminalità l’ha già superato, il confine, da un pezzo, e ha conquistato l’Europa. Non conviene darle altra distanza. Cermenate dal valico svizzero dista venti chilometri. Bene. A Cermenate c’era la villetta dei Paviglianiti, che cadeva alla perfezione. E c’è un sindaco, Mauro Roncoroni, medico chirurgo, classe ’60, che si dà da fare. E che è di una lista civica vicina al Pdl. E sarà uno convinto che mica è proprietà della sinistra, il tema dell’antimafia; non c’è il copyright.
Cermenate potrebbe sembrare un’incursione, una passione del momento: non lo è. Allo stesso tempo non è una improvvisata migrazione degli uomini che combattono la criminalità organizzata. Riduttivi, gli schemi. Lo dicono i fatti. Nel 2010 l’inchiesta «Infinito» ha portato all’arresto in Lombardia di 168 persone per associazione mafiosa. E oltre alle minacce continue, asfissianti a De Lisi, a Cermenate mesi fa sono state devastate le targhe dei tabelloni che compongono il percorso della legalità. E ancora, spiazzante è stato per tanti l’atteggiamento dell’Ance comasca, l’Associazione dei costruttori edili, piena di riserve verso la partecipazione alla ristrutturazione della villetta, forse a causa di timori per la mancanza di soldi e la necessità di contingentare i finanziamenti. Ma a Cermenate nessuno resiste. La sede è già stata inaugurata e utilizzata, eppure servono interventi (i boss l’avevano mollata in cattive condizioni). Si sono mossi il prefetto di Como, il sindacato di poliziotti Siulp, la Cisl, lo stesso Roncoroni e a inizio settimana, con il sì dell’Ance i lavori sono finalmente cominciati. Un sì per la cronaca ragionato, convinto, partecipato: infatti sono stati coinvolti anche i ragazzi delle scuole edili. Un altro bel risultato. Il che non significa che uno debba accontentarsi. «Vede, abbondano i libri sulle infiltrazioni mafiose nel nord. Ormai», dice De Lisi, «non si contano più. Non mi fraintenda, aspetti, non voglio mancare di rispetto… Ben vengano a Cermenate le presentazioni di libri che spiegano la capacità della mafia di intaccare i sistemi politici e produttivi. Ma dopo i convegni della sera il mattino dobbiamo recuperare posizioni sul campo… Non chiedono più il pizzo alle ditte, gli ‘ndranghetisti: mettono le mani sulle finanziarie che concedono crediti, e così permettendo alle fabbriche di sopravvivere e di accumulare debiti per l’eternità, delle ditte diventano padroni, e le useranno per riciclare denaro, per sfruttare la rappresentatività sociale di fabbriche e imprenditori».
Nella Reggio Calabria lasciata da poco, dopo importanti catture di latitanti, i collaboratori di Pignatone – magistrati, poliziotti, carabinieri del Ros – esaltano una sua qualità: far squadra. Alla Questura di Palermo anche l’ultimo degli agenti ricorda con stima la figura del questore Marangoni. E Ivan Lo Bello, già a capo di Confindustria Sicilia, legato al Progetto San Francesco, con coraggio aveva espulso parecchi iscritti: «C’è un’area di collusione difficile da tradurre in processi e condanne». E il prefetto di Genova Musolino? È il padre di Sciamano, tecnologico sistema informatico, adottato anche in vista di Expo, per controllare appalti e subappalti. Prestipino? Appassionato, amato dagli investigatori che lavorano con lui. Manca qualcuno nella squadra del Progetto? No. De Lisi tiene a ricordare tre colonne quali il presidente Battista Villa e gli attivissimi Claudio Ramaccini e Giacinto Palladino (un bergamasco, un comasco, un napoletano, elenca lui). Il Progetto si chiama San Francesco in omaggio al patrono d’Italia; e quel percorso antimafia che qualche vandalo ha invano attaccato – le targhe sono state aggiustate -, riporta frasi di Giovanni Falcone, Carlo Alberto Dalla Chiesa, don Pino Puglisi, Paolo Borsellino. Una delle preferite resta di Martin Luther King. La frase se ne sta, non vistosa ma in una posizione da sentinella, sul sito internet: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti».
Andrea Galli5 luglio 2012 CORRIERE DELLA SERA