SALVATORE CANDURA, il falso pentito

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10 marzo 2009 SALVATORE  CANDURA: ammette di aver dichiarato il falsoin merito al furto della Fiat 126 di VALENTI Pietrina e di essere stato spinto a rendere quelle dichiarazioni dal dottor LA BARBERA Arnaldo e, successivamente, anche dal dottor SALVATORE LA BARBERA e dal dottor RICCIARDI.

 

Salvatore Candura e il Depistaggio Borsellino

Nel complesso mosaico delle indagini sulla strage di via D’Amelio, una figura controversa, è quella di Salvatore Candura, un ladro d’auto coinvolto in un colossale depistaggio che ha sviato le indagini per anni. La sua storia inizia nei primi giorni di settembre 1992, quando Candura viene arrestato insieme a Luciano e Roberto Valenti per rapina e violenza sessuale
Pochi giorni dopo l’arresto, Candura inizia a parlare del furto di una Fiat 126, utilizzata come autobomba nell’attentato che ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Afferma di aver commesso il furto su incarico di Vincenzo Scarantino, che gli avrebbe promesso un compenso di 500.000 lire.
Queste false dichiarazioni diedero il via a un depistaggio che portò a sentenze e condanne definitive, successivamente sgretolate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Il 10 marzo 2009, interrogato dai pm di Caltanissetta, Candura ammette di essersi inventato tutto diciassette anni prima. Dichiara  di non aver rubato l’auto e di essere stato indotto ad accusarsi del furto e a chiamare in causa Scarantino a seguito delle pressioni e delle minacce subite da parte del dott. Arnaldo La Barbera e altri funzionari di polizia.
Durante il processo Borsellino Quater, Candura racconta di essere stato picchiato e minacciato per costringerlo a dichiarare il falso.
“Mi hanno fracassato di botte, Presidente, non potete immaginarlo. Un poliziotto mi fece sbattere la testa sul tavolo. Poco dopo rientrò Arnaldo La Barbera. Io non avevo nemmeno la forza per piangere e lui mi disse: ‘Ne va della tua vita, ti faccio dare l’ergastolo, io sarò la tua ossessione. Devi dirmi che hai rubato tu l’auto e dirmi a chi l’hai portata. Ti incastrerò perché ho le prove. Io continuavo a proclamarmi innocente. Con il furto della 126 non c’entravo nulla così come non c’entravo nulla con l’accusa di violenza sessuale. Ero un galantuomo e mai e poi mai avrei potuto abusare di una ragazza così come non sapevo nulla di quella 126’”, ha testimoniato Candura.
Queste rivelazioni hanno messo in luce le pratiche illegali e coercitive utilizzate da alcuni funzionari di polizia per indurre falsi pentiti a dichiarare il falso, contribuendo così a deviare le indagini sulla strage di via D’Amelio. Il caso di Salvatore Candura rimane un capitolo oscuro nella storia della giustizia italiana, un esempio di come la ricerca della verità possa essere compromessa da azioni illecite all’interno delle istituzioni preposte a proteggerla.


7.2.2023 Via D’Amelio, mentì sul furto della 126 e depistò le indagini: ora chiede un risarcimento allo Stato

 

Bocciata dalla Cassazione la richiesta di Salvatore Candura, che si riteneva “vittima di un errore giudiziario”.
Nel 1994 patteggiò la pena per aver rubato l’auto, ma dopo la sentenza di revisione del processo sulla strage è stato assolto. Per i giudici la falsa confessione non è stata frutto di violenze subite ma di una libera scelta

 

Aveva mentito raccontando di essere stato lui a rubare la Fiat 126 poi imbottita di esplosivo ed utilizzata per compiere la strage di via D’Amelio, in cui il 19 luglio 1992 morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
Una delle bugie sulle quali era stato costruito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, impedendo – ancora oggi – l’accertamento pieno della verità. Salvatore Candura, 62 anni, confessando il furto mai commesso aveva patteggiato la pena nel 1994, era stato poi inevitabilmente assolto nel 2017 dopo la sentenza di revisione del processo sulla strage. E, a dispetto di tutto, ha pure chiesto un indennizzo allo Stato per l’errore giudiaziario di cui si ritiene vittima. Un’istanza ora definitivamente rigettata dalla Cassazione.
La quarta sezione della Suprema Corte, presieduta da Patrizia Piccialli, ha infatti confermato la decisione già presa dalla Corte d’Appello di Catania a maggio scorso, condividendo integralmente le conclusioni dei giudici, secondo cui “a dare causa all’errore giudiziario sono state indubbiamente le dichiarazioni di Candura” e “non ci sono prove di violenze fisiche e psicologiche subite dalle forze dell’ordine per costringerlo a confessare un reato non commesso”. Da qui anche la condanna a pagare le spese processuali.
A dimostrare che Candura è stato “causa del suo male”, c’è tra l’altro il fatto che per 10 anni ha beneficiato del programma di protezione senza mai ritrattare, salvo poi fornire la vera versione dei fatti riferendo però anche delle presunte violenze patite per raccontare il falso.
Che non fosse stato lui a rubare la 126 era venuto fuori soltanto con le rivelazioni di Gasapre Spatuzza, uno dei collaboratori di giustizia grazie ai quali è stato poi possibile riscrivere correttamente una parte della Storia, smontando completamente tutte le menzogne del falso pentito Vincenzo Scarantino. E quelle di Candura.
“Pur non essendo dubbio che Candura sia stato indotto a rendere le dichiarazioni che hanno poi costituito l’avvio dell’attività di depistaggio – rimarca la Cassazione – non è stato provato che egli fosse vittima di pressioni psicologiche e atti di violenza fisica tali da azzerare la sua volontà, essendo più verosimile che egli sia stato indotto alle dichiarazioni autoaccusatorie con la prospettazione di vantaggi di varia natura, non potendosi pertanto escludere che la falsa confessione sia stata frutto di un atto di autodeterminazione che, per quanto condizionato, è rimasto almeno in parte frutto di una libera scelta, ispirata da valutazioni di convenienza”.
Elementi che per i giudici integrano il “dolo o colpa grave che per legge sono ostativi al riconoscimento dell’indennizzo” per riparare ad un evenutale errore giudiziario. La Suprema Corte riporta come nella sentenza di patteggiamento del 1994 per il furto della 126 si legga: “Determinanti si rivelavano le dichiarazioni dello stesso Candura il quale, dopo prime incertezze, assumeva atteggiamento di collaborazione con l’autorità giudiziaria e oltre ad ammettere le sue responsabilità, forniva concrete e puntuali indicazioni circa colui che gli aveva commissionato il detto furto”. A riprova che tutto è nato dalle stesse dichiarazioni di Candura. PALERMO TODAY


23 marzo 2016 Da ex pentito di mafia a truffatore | La parabola di Salvatore CANDURA

Si è rimesso di nuovo nei guai da solo. Salvatore Candura, 55 anni, credeva di potersi fare beffa di nuovo dello Stato che lo ha smascherato per la seconda volta.
Era già accaduto quando si inventò di avere rubato la Fiat 126, poi consegnata a Vincenzo Scarantino e imbottita di tritolo per ammazzare il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta in via D’Amelio. Due decenni dopo un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, raccontò un’altra verità passata al vaglio dei giudici. Scarantino e Candura si erano inventati tutto e furono così cacciati dal programma di protezione. Rientrato a Palermo, senza più la protezione i soldi dello Stato, Candura si è messo alla testa di una banda di truffatori.
Seguiva tutti i passaggi – dalle ferite inferte ai complici – alla riscossione degli indennizzi, passando per le viste mediche negli ospedali. Solo che, nel frattempo, ha commesso un nuovo errore. Aveva denunciato all’autorità giudiziaria di essere stato vittima di intimidazioni nella speranza, forse, di tornare a essere un protetto di Stato. Gli è andata malissimo perché è stato pedinato e intercettato dagli agenti della Direzione investigativa antimafia che non hanno trovato riscontro alcuno alla denuncia dell’ex pentito. Il pentito lo hanno intercettato mentre diceva ai suoi complici di “…di prendere delle bottiglie…” per sfregiare al volto una serie di donne e incassare l’indennizzo.
Gli investigatori scrivono che “una sorta di firma d’autore del duo Salvatore Candura-Maurizio Furitano è la realizzazione di profondi tagli al viso delle persone coinvolte, quasi sempre giovani donne, che richiedono l’apposizione di numerosi punti di sutura e che vengono successivamente considerati sfregi permanenti”. Ed ancora: “Si sono dimostrati persone estremamente pericolose e senza scrupoli, non hanno dimostrato alcuna pietà nei confronti dei soggetti cui procurano profondi tagli e fratture”. Ce n’era abbastanza per chiedere che venissero fermati al più presto, prima che ci scappasse il morto. Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA


Il pentito e le stragi La nuova verità che agita l’antimafia

 

Via D’Amelio, conferme su un ex boss Rivelazioni – Gli attentati di Palermo, Milano e Roma

 

Dopo quella del pentito Gaspare Spatuzza, arriva un’altra «voce di mafia» a mettere in dubbio la verità giudiziaria sulla strage di via D’Amelio. L’attentato in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta — 19 luglio 1992, 57 giorni dopo l’eliminazione di Giovanni Falcone, la moglie Francesca e tre degli uomini che dovevano proteggerlo — fu realizzato con una Fiat 126 imbottita di esplosivo; un’auto rubata, secondo le sue ammissioni d’allora e i processi costruiti anche su quelle parole, da un «balordo» palermitano, tale Salvatore Candura, pregiudicato per reati contro il patrimonio, arrestato dalla polizia nel settembre ’92 per una violenza carnale.

In carcere Candura confessò quasi subito il furto dell’auto destinata a far saltare in aria Borsellino, e disse che a dargli l’incarico era stato Vincenzo Scarantino. Il quale fu arrestato, si pentì, e raccontò molti particolari sulla strage di Via D’Amelio: parlò di una riunione di boss a casa del mafioso Calascibetta e tirò in ballo gran parte della «cupola» di Cosa Nostra, compreso il capo del mandamento di Santa Maria di Gesù Pietro Aglieri e altri «uomini d’onore». Le confessioni andarono avanti a sprazzi: confermate, poi ritirate, quindi ribadite, ma ritenute attendibili dai giudici fino alle sentenze di Cassazione. Oggi però Candura, che a Scarantino faceva da «spalla», si rimangia tutto e dice: il furto della 126 non l’ho commesso io, fu la polizia a farmelo confessare, ma con quella storia non c’entro. L’ha detto durante il confronto con Gaspare Spatuzza, già capo del mandamento mafioso di Brancaccio a Palermo, pluriergastolano legatissimo ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, uno dei killer che nel 1993 uccisero padre Pino Puglisi.

Da alcuni mesi Spatuzza, arrestato nel 1997, collabora coi magistrati e ha rivelato una nuova verità su Via D’Amelio. Smentendo proprio Scarantino. Ha detto di aver rubato lui l’autobomba nel luglio del ’92 (la stessa per la quale s’erano accusati Candura e Scarantino), portando gli investigatori sul luogo esatto in cui era parcheggiata. E ha spiegato che con la strage i boss di Santa Maria di Gesù — Aglieri e altri — non c’entrano: fu opera dei Graviano e dei mafiosi di Brancaccio; lui compreso, sempre scampato a inchieste e processi. Messi faccia a faccia con il nuovo «dichiarante», Candura ha ritrattato e gli ha dato ragione, mentre Scarantino ha insistito sulla sua versione. Ma magistrati e investigatori sembrano orientati a dare credito più al nuovo pentito che al vecchio, anche se i suoi verbali possono creare non pochi problemi. Perché le rivelazioni di Spatuzza aprono vistose crepe sulla ricostruzione giudiziaria, sancita dalla Cassazione, dell’omicidio Borsellino e non solo. Mettendo in crisi il lavoro svolto negli anni passati dalla Procura e dalle corti d’assise di Caltanissetta, e offrendo la possibilità di far riaprire il processo, ad esempio, per il boss Pietro Aglieri, ergastolano per Via D’Amelio (eccidio dal quale era stato scagionato, inutilmente, pure dal pentito Giovanni Brusca) oltre che per altri delitti. La valutazione dell’attendibilità di Spatuzza non è stata completata dai magistrati di Caltanissetta, mentre quelli di Palermo lo considerano affidabile ma non decisivo per il contributo fornito alle indagini su altri fatti di mafia per cui sono competenti.

Il neo-collaboratore — sempre rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, in isolamento ma non più ai rigori del «41 bis» — dovrà passare il vaglio anche di altre Procure, perché le sue rivelazioni riguardano diversi episodi. A cominciare dalle stragi organizzate da Cosa Nostra nel 1993 sul continente fra Firenze, Roma e Milano, per le quali sta scontando il carcere a vita. Per l’autobomba esplosa in via Palestro a Milano (27 luglio 1993, cinque morti e 12 feriti) ci sarebbe un condannato che a dire di Spatuzza è innocente, mentre altri coinvolti nell’attentato non sarebbero nemmeno stati inquisiti. Quell’azione doveva avvenire in contemporanea con le bombe di Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, 22 feriti), ma Spatuzza racconta che l’obiettivo di Cosa Nostra doveva essere un altro: la Casa di Dante, nel rione Trastevere. Ma il piano saltò, a causa della popolare festa de’ noantri in corso nei giorni programmati per l’attentato; c’era il rischio di provocare vittime, mentre l’obiettivo erano i monumenti e i luoghi d’arte, non le persone. Per coordinare le diverse indagini in corso o da riaprire sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha convocato per oggi nei suoi uffici una riunione con i rappresentanti di tutte le Procure interessate: Caltanissetta, Palermo, Milano, Roma, Firenze e Reggio Calabria; tra le tante cose raccontate dal neo-pentito, infatti, ci sono pure i commenti dei fratelli Graviano sull’omicidio di due carabinieri avvenuto lungo la Salerno-Reggio, nei pressi di Scilla, nel gennaio 1994. Sarà l’occasione per mettere a confronto le diverse interpretazioni sulla collaborazione del killer di Cosa Nostra che ha deciso di parlare, e di smentire altri pentiti, dopo aver scontato più di undici anni di galera.

Giovanni Bianconi Corsera 22 aprile 2009


SALVATORE CANDURA, la seconda vita criminale del falso pentito di via D’Amelio

 

Palermo, l’uomo a capo di una banda che truffava le assicurazioni. Pagate persone che si facevano ferire e denunciavano finti incidenti

 

Il ginocchio destro era già malandato: «Ho questa ragazza di 41 anni che ha un problema, il ginocchio è pieno di liquido e le ho detto, “senti, prima che ti fanno la rottura nell’altro, meglio che ti fai rompere questo…”». La signora incinta aveva un taglio al volto troppo piccolo per ottenere un congruo risarcimento: glielo allargarono con le mani. La ragazzina di 12 anni con un taglio nel braccio avrebbe reso bene nella liquidazione del risarcimento. Si fermarono appena in tempo.
L’indagine della Direzione investigativa antimafia di Palermo scoperchia un mondo oltre i confini della realtà, nove persone arrestate per truffe alle assicurazioni con metodi che ricordano gli episodi di autolesionismo del tempo di guerra: ma lì si trattava di cercare di salvare la pelle, tra Palermo e Napoli agiva invece una banda che reclutava disperati pronti a inventare incidenti stradali ma a farsi spezzare sul serio una gamba o a farsi sfregiare per un tozzo di pane, fra 300 e 500 euro e un danno fisico da portarsi dietro tutta la vita.

IL DEPISTAGGIO

Regista di tutto era un ex pentito, fasullo quanto i “sinistri” che simulava con i compari siciliani e napoletani: Salvatore Candura tra i primi a testimoniare, con Vincenzo Scarantino, nel processo per la strage di via D’Amelio. Partì da entrambi un pezzo del maxidepistaggio che segnò la fase iniziale dell’inchiesta sull’eccidio in cui caddero il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta. Sette persone finirono all’ergastolo e sono state scarcerate dopo 18 anni di carcere ingiusto, grazie al contributo del pentito Gaspare Spatuzza. Condannato a 9 anni in primo e secondo grado, per calunnia pluriaggravata, a fine novembre Candura è stato assolto in Cassazione, perché le accuse che aveva mosso a un imputato minore, Salvatore Tomaselli, in fondo erano state troppo vaghe e generiche. Erano cioè talmente inconsistenti, ha stabilito la Suprema Corte, che Tomaselli non fu condannato per questo motivo.
Mentre affrontava a Caltanissetta l’inchiesta-bis sul depistaggio, Candura aveva denunciato assai presunte minacce. Da qui la decisione dei pm Annamaria Picozzi e dei suoi colleghi Claudia Ferrari e Gaspare Spedale, coordinati dal procuratore di Palermo Franco Lo Voi e dall’aggiunto Salvatore De Luca, di intercettare il falso pentito. Ed era venuto fuori un mondo fatto di truffe e segnato da maxirisarcimenti, con cifre fra 13 mila e 25 mila euro: per evitare i possibili contraccolpi delle indagini sulle ferite finte, che a Palermo hanno portato a centinaia di arresti, la banda Candura aveva inventato la truffa con gli incidenti falsi e le ferite vere.
Anna Campagna è tra gli arrestati: si presta a uno degli imbrogli più dolorosi e assurdi. È incinta di 5 mesi ma a gennaio 2015 accetta di simulare un incidente fra un motorino e una motoape. In realtà la sfregia Candura con una bottiglia rotta, ma i punti che le danno al volto sono pochi. Due giorni dopo, al telefono col fidanzato (pagato con 500 euro), la donna dice che i punti sono diventati 10: Candura e le ha allargato la ferita: «Hanno detto che adesso la cicatrice mi rimane per tutta la vita… Salvatore mi ha fatto in faccia la Z… Zorro, con le mani, con le mani! A me fa schifo a guardare questa faccia. Ha detto: “Tra un anno ti fai una chirurgia plastica”». Una donna di Napoli era pronta a mettere a disposizione la figlia di 12 anni: «Per un taglio al braccio le danno 4mila euro». La ragazzina fu poi risparmiata. Mentre la donna che aveva il liquido al ginocchio destro se ne pentì, evitò la frattura all’arto inferiore ma dovette accettare una ferita alla mano: «Se lo deve far fare», disse il complice napoletano (latitante) di Candura. E così fu. 23 marzo 2016 LA STAMPA


MENZOGNE E FALSI PENTITI, ECCO SALVATORE CANDURA E VINCENZO SCARANTINO  Durante le investigazioni, condotte dal dott. Arnaldo La Barbera e i suoi uomini, nonostante le perplessità che potevano insorgere sulle dichiarazioni di Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino e sulla loro personalità, non veniva mai fatto un sopralluogo con il ladro dell’automobile… Si riporta qui di seguito (per maggiore comodità di lettura e consultazione) uno stralcio della deposizione dell’Ispettore Claudio Castagna, che assisteva a detti sopralluoghi (videoregistrati) con Gaspare Spatuzza e con Pietrina Valenti:

  • TESTE C.G. CASTAGNA – Sì.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Sì.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, tra l’altro mi sono occupato quasi… quasi totalmente, in una sola occasione credo si sia occupato un collega di tutte le videoriprese, di tutti i sopralluoghi che sono stati fatti con…
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Tutti videofilmati.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Di Candura, sì. Sì, ne ho fatto anche annotazione, tra l’altro, su questo per…
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, sì.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Allora, lui, invece, sosteneva che… di essere, quindi, l’autore del furto della 126 e che l’autovettura, nel momento in cui l’aveva prelevata, si trovava posteggiata proprio davanti l’ingresso dello stabile, quindi nella parte terminale della L.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Allora, immaginando questa L immaginaria, Spatuzza e la signora Valenti la indicavano proprio nel primo parcheggio principale sul lato dello stabile, mentre Candura diceva che la macchina si trovava al termine della L, del… della L.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Proprio davanti al portone di accesso.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Dove c’erano questi gradini, questi gradini che conducevano verso il piazzale.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, abbiamo, praticamente, acquisito buona parte del carteggio degli accertamenti che erano stati fatti all’epoca.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – No, non…
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Non risultano atti.
  • TESTE C.G. CASTAGNA – Non risultano atti in cui… cioè in cui sarebbero stati fatti questi sopralluoghi.

PERPLESSITÀ  Orbene, come emerge anche dalla testimonianza appena riportata, una tale attività istruttoria di sopralluogo non veniva mai espletata in passato, allorquando si raccoglievano le dichiarazioni di Candura e Scarantino, per la strage di via D’Amelio.

Durante le pregresse investigazioni, condotte dal dott. Arnaldo La Barbera e dai suoi uomini, nonostante le naturali perplessità che potevano insorgere, in relazione alla personalità di entrambi i ‘collaboratori’ ed anche al contenuto delle loro dichiarazioni (si pensi, solo per fare un esempio, al racconto di Scarantino sulla cerimonia della sua affiliazione a Cosa nostra), non veniva mai fatto un sopralluogo con il ladro dell’automobile, né con la derubata.

Anche per questo motivo, oltre che per il sopravvenuto mutamento dei luoghi, l’atto istruttorio si rivela di fondamentale importanza, andando a riscontrare, in maniera molto significativa e puntuale, le dichiarazioni di Spatuzza (e, per converso, ad escludere la credibilità di quelle rese da Salvatore Candura e da Vincenzo Scarantino, nei precedenti processi). Inoltre, l’individuazione del luogo esatto di sottrazione della Fiat 126, da parte di Gaspare Spatuzza, si rivela ancor più attendibile, in considerazione del fatto che il collaboratore indicava un punto dove, all’epoca del sopralluogo, era impossibile posteggiare un’automobile, poiché vi erano delle fioriere, installate in epoca successiva, come spiegato dalla stessa Pietrina Valenti. Quest’ultima (nella consueta maniera confusionaria), spiegava che, all’epoca dei fatti, nel posto dove venivano poi collocate le fioriere condominiali, si poteva parcheggiare (“io la posteggiavo la macchina dov’è che ora ci sono messe le piante”).

[…] Sempre in occasione della sua testimonianza, Pietrina Valenti precisava che, per come aveva parcheggiato la sua Fiat 126, quella sera, non aveva modo di controllarla a vista, dalle finestre del suo appartamento. […] Le dichiarazioni della Valenti trovavano anche conferma nell’attività di riscontro del Centro Operativo DIA di Caltanissetta, da cui risultava che, effettivamente, la zona dove venivano installate le menzionate fioriere condominiali (dove la teste, come detto, posteggiava la Fiat 126, prima che le venisse rubata), non era visibile dalle finestre dell’appartamento della proprietaria. Al contrario (come anticipato), Salvatore Candura, nel sopralluogo del 24 novembre 2008 (anch’esso agli atti), confermando quanto già dichiarato nei precedenti procedimenti, indicava, come luogo dove rubava la Fiat 126 di Pietrina Valenti, un posto diverso, nelle immediate vicinanze del portone d’ingresso dello stabile, peraltro in una posizione parzialmente visibile dalla camera da letto della Valenti. Venivano, poi, acquisite al fascicolo per il dibattimento, sul consenso delle parti, anche tutte le dichiarazioni rese dai condomini di via Sirillo, su tre temi di prova:

se i luoghi subivano o meno delle modifiche, dal luglio 1992, come affermato da Pietrina Valenti e negato da Salvatore Candura (fatta eccezione, secondo quanto dichiarato da quest’ultimo, per due archi in ferro, messi per ostruire la marcia di possibili autovetture, nel vicolo cieco d’accesso al portone condominiale);

se, all’epoca dei fatti, era possibile oppure no posteggiare automobili, per un tempo apprezzabile, nel predetto vicolo cieco, come escluso dalla Valenti ed affermato da Candura, che sosteneva, appunto, d’aver rubato la Fiat 126 proprio da siffatta posizione;

se qualche condomino notava il furto della Fiat 126 oppure la presenza di due persone nei pressi della medesima automobile, la sera in cui la stessa veniva asportata (attese le menzionate dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, secondo cui, mentre perpetrava il furto con Tutino, una coppia con due bambini transitava a piedi).

Le circostanze complessivamente desumibili dalle dichiarazioni acquisite agli atti, possono riassumersi (in maniera estremamente sintetica, considerata anche la sopravvenuta confessione, da parte di Salvatore Candura, della falsità delle proprie precedenti dichiarazioni, sul furto della Fiat 126, sotto casa di Pietrina Valenti), come segue. Effettivamente, alla fine del vicolo cieco che conduce al portone dello stabile di via Bartolomeo Sirillo n. 5, successivamente al luglio del 1992, venivano realizzate, da uno dei condomini (Passantino Vincenzo), delle opere (abusive), consistenti nella realizzazione di alcuni gradini, di fronte all’entrata per l’edificio. Detta circostanza, oltre che dal diretto interessato (che operava, come accennato, senza alcun titolo edilizio, per cui non esistono atti pubblici, per una precisa datazione delle opere), veniva confermata anche dagli altri condomini (tutti collocavano tali opere, all’incirca, negli anni 2000-2005). Inoltre, pure i paletti per impedire l’accesso al cortile prospiciente al portone d’ingresso, venivano collocati in epoca più recente, rispetto al luglio 1992 (verosimilmente, dopo l’anno 2003). Lo stesso vale per le fioriere poste nel cortile/parcheggio dello stabile, a ridosso dell’edificio condominiale, collocate nella stessa epoca dei paletti.

ANCHE CANDURA AMMETTE DI AVER MENTITO  Quanto alla possibilità di posteggiare, all’epoca dei fatti, nel vicolo cieco che conduce al portone d’ingresso condominiale, le dichiarazioni dei condomini non erano del tutto univoche: molti evidenziavano che, prima dell’installazione dei paletti, le automobili venivano parcheggiate fin davanti al portone dello stabile, ma solo per soste brevi (come per scaricare merci o per la pausa pranzo); tuttavia, la collocazione degli ostacoli si rendeva necessaria proprio per evitare che parcheggiassero lì autovetture che non consentivano l’accesso allo stabile, qualora ve ne fosse stato bisogno, per i mezzi di soccorso; con particolare riferimento alla signora Pietrina Valenti, alcuni condomini dichiaravano che la stessa era solita parcheggiare dal lato delle fioriere; altri ricordavano, genericamente, che la predetta parcheggiava dove trovava posto. Sul punto, Roberto Valenti (confermando, sia pure con qualche titubanza, le indicazioni già fornite in fase d’indagine, anche con la redazione di uno schizzo planimetrico) dichiarava che sua zia Pietrina, abitualmente, posteggiava la Fiat 126 sul lato lungo del cortile, limitrofo all’edificio condominiale, in posizione dove la stessa ne poteva controllare visivamente la presenza, affacciandosi dalle finestre dell’abitazione. Analoghe indicazioni dava Luciano Valenti, che spiegava come la sorella Pietrina era solita posteggiare, sul lato lungo dello stabile di via Sirillo (confermando, anche in tal caso, le indicazioni offerte in uno schizzo planimetrico, redatto di suo pugno, acquisito al fascicolo per il dibattimento); inoltre, quest’ultimo teste chiariva anche quanto dichiarato nel dibattimento del primo processo sulla strage di via D’Amelio: allorquando rispondeva che la Fiat 126 della sorella, prima di esser rubata, veniva posteggiata “sotto la scala” (proprio come sostenuto, all’epoca, da Salvatore Candura), non intendeva indicare (in senso letterale) proprio l’ingresso dello stabile.

Peraltro, anche Salvatore Candura, allorché (nell’interrogatorio reso il 10.3.2009, acquisito al fascicolo per il dibattimento, col consenso delle parti e riportato in nota) decideva di ammettere (innanzi all’evidenza) la falsità delle sue precedenti dichiarazioni in merito al furto della Fiat 126, dichiarava (fornendo una versione, comunque, da prendere con le dovute cautele) che l’automobile della Valenti era posteggiata dalla parte delle fioriere (anch’egli redigendo uno schizzo planimetrico, allegato al verbale), riferendo che la vedeva parcheggiata lì, nella stessa sera in cui veniva, poi, asportata (poiché, a suo dire, quella sera, si recava effettivamente a casa di Pietrina, per farle visita) e che, durante il sopralluogo indicava agli inquirenti, volutamente, un posto sbagliato per lanciare loro un segnale sulla falsità delle proprie dichiarazioni (delle quali avrebbe sempre avvertito il peso). Anche in dibattimento, Candura confermava tali indicazioni.

[…] Infine, si deve dare atto (più che altro per completezza d’esposizione) che anche Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura, dopo aver confessato -entrambi- la falsità delle loro precedenti dichiarazioni su questi fatti, tornavano sui loro passi anche sul punto specifico, spiegando che la Fiat 126 di Pietrina Valenti non si poteva affatto rubare con lo “spadino”. Vincenzo Scarantino, nel corso di un interrogatorio (acquisito al fascicolo per il dibattimento), ammetteva di aver adeguato le sue dichiarazioni alla versione di Candura circa l’utilizzo dello “spadino” per rubare la Fiat 126 della Valenti, spiegando che solo i modelli più “antichi” di detta automobile potevano essere rubati con tale arnese, mentre quelle “di ‘a secunna serie in poi con uno spadino non si apre”, confermando così la versione di Agostino Trombetta e quella di Gaspare Spatuzza.

Anche Salvatore Candura ammetteva che quel modello di Fiat 126 in uso a Pietrina Valenti si poteva mettere in moto solo rompendo il bloccasterzo e collegando i fili d’accensione, spiegando addirittura (ma la circostanza deve esser valutata con il beneficio dell’inventario) che, al momento della sua falsa collaborazione, dichiarava volutamente che lui utilizzava un “chiavino”, anche se ciò era un “controsenso” (così come, a suo dire, lo era pure la circostanza di avere utilizzato il medesimo attrezzo anche per aprire la portiera, poiché quella macchina si poteva aprire pure con la “chiave Simmenthal”), al fine di lanciare dei segnali agli inquirenti […]. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA processo Borsellino quater


Candura, uno dei falsi pentiti

Si riporta qui di seguito (per maggiore comodità di lettura e consultazione) uno stralcio della deposizione dell’Ispettore Claudio Castagna, che assisteva a detti sopralluoghi (videoregistrati) con Gaspare Spatuzza e con Pietrina Valenti:
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, lei ha parlato, invece, di sopralluoghi esperiti con l’Autorità Giudiziaria assieme a Gaspare Spatuzza.
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Lei ha presenziato a questi sopralluoghi?
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Sa le modalità con le quali sono stati condotti questi sopralluoghi? Cioè da un punto di vista tecnico intendo.
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, tra l’altro mi sono occupato quasi… quasi totalmente, in una sola occasione credo si sia occupato un collega di tutte le videoriprese, di tutti i sopralluoghi che sono stati fatti con…
P.M. Dott. LUCIANI – Quindi i sopralluoghi sono stati…
TESTE C.G. CASTAGNA – Tutti videofilmati.
[…]
P.M. Dott. LUCIANI – Lei ha detto di aver visto anche le immagini del sopralluogo di Candura Salvatore.
TESTE C.G. CASTAGNA – Di Candura, sì. Sì, ne ho fatto anche annotazione, tra l’altro, su questo per…
P.M. Dott. LUCIANI – Ha fatto anche annotazione per descrivere.
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Ecco, sa che luogo ha indicato Candura Salvatore al momento del sopralluogo?
TESTE C.G. CASTAGNA – Allora, lui, invece, sosteneva che… di essere, quindi, l’autore del furto della 126 e che l’autovettura, nel momento in cui l’aveva prelevata, si trovava posteggiata proprio davanti l’ingresso dello stabile, quindi nella parte terminale della L.
P.M. Dott. LUCIANI – Davanti il portone, diciamo.
TESTE C.G. CASTAGNA – Allora, immaginando questa L immaginaria, Spatuzza e la signora Valenti la indicavano proprio nel primo parcheggio principale sul lato dello stabile, mentre Candura diceva che la macchina si trovava al termine della L, del… della L.
P.M. Dott. LUCIANI – Nel vialetto che conduce al portone di accesso.
TESTE C.G. CASTAGNA – Proprio davanti al portone di accesso.
P.M. Dott. LUCIANI – Proprio davanti al portone.
TESTE C.G. CASTAGNA – Dove c’erano questi gradini, questi gradini che conducevano verso il piazzale.
P.M. Dott. LUCIANI – Senta, per poter fare le attività che vi sono state delegate dalla Procura della Repubblica, avete avuto modo di visionare anche le attività che erano state fatte illo tempore?
TESTE C.G. CASTAGNA – Sì, abbiamo, praticamente, acquisito buona parte del carteggio degli accertamenti che erano stati fatti all’epoca.
P.M. Dott. LUCIANI – Per quello che ha potuto lei verificare dalla lettura di questi atti, chiaramente per poter assolvere alle deleghe della Procura, questo tipo di accertamento in via Sirillo di individuazione dei luoghi era mai stato fatto?
TESTE C.G. CASTAGNA – No, non…
P.M. Dott. LUCIANI – Da parte del Candura.
TESTE C.G. CASTAGNA – Non risultano atti.
P.M. Dott. LUCIANI – O da parte della Valenti.
TESTE C.G. CASTAGNA – Non risultano atti in cui… cioè in cui sarebbero stati fatti questi sopralluoghi.

Orbene, come emerge anche dalla testimonianza appena riportata, una tale attività istruttoria di sopralluogo non veniva mai espletata in passato, allorquando si raccoglievano le dichiarazioni di Candura e Scarantino, per la strage di via D’Amelio.
Durante le pregresse investigazioni, condotte dal dott. Arnaldo La Barbera e dai suoi uomini, nonostante le naturali perplessità che potevano insorgere, in relazione alla personalità di entrambi i ‘collaboratori’ ed anche al contenuto delle loro dichiarazioni (si pensi, solo per fare un esempio, al racconto di Scarantino sulla cerimonia della sua affiliazione a Cosa nostra), non veniva mai fatto un sopralluogo con il ladro dell’automobile, né con la derubata.
Anche per questo motivo, oltre che per il sopravvenuto mutamento dei luoghi, l’atto istruttorio si rivela di fondamentale importanza, andando a riscontrare, in maniera molto significativa e puntuale, le dichiarazioni di Spatuzza (e, per converso, ad escludere la credibilità di quelle rese da Salvatore Candura e da Vincenzo Scarantino, nei precedenti processi). Inoltre, l’individuazione del luogo esatto di sottrazione della Fiat 126, da parte di Gaspare Spatuzza, si rivela ancor più attendibile, in considerazione del fatto che il collaboratore indicava un punto dove, all’epoca del sopralluogo, era impossibile posteggiare un’automobile, poiché vi erano delle fioriere, installate in epoca successiva, come spiegato dalla stessa Pietrina Valenti. Quest’ultima (nella consueta maniera confusionaria), spiegava che, all’epoca dei fatti, nel posto dove venivano poi collocate le fioriere condominiali, si poteva parcheggiare (“io la posteggiavo la macchina dov’è che ora ci sono messe le piante”).
[…] Sempre in occasione della sua testimonianza, Pietrina Valenti precisava che, per come aveva parcheggiato la sua Fiat 126, quella sera, non aveva modo di controllarla a vista, dalle finestre del suo appartamento. […] Le dichiarazioni della Valenti trovavano anche conferma nell’attività di riscontro del Centro Operativo DIA di Caltanissetta, da cui risultava che, effettivamente, la zona dove venivano installate le menzionate fioriere condominiali (dove la teste, come detto, posteggiava la Fiat 126, prima che le venisse rubata), non era visibile dalle finestre dell’appartamento della proprietaria. Al contrario (come anticipato), Salvatore Candura, nel sopralluogo del 24 novembre 2008 (anch’esso agli atti), confermando quanto già dichiarato nei precedenti procedimenti, indicava, come luogo dove rubava la Fiat 126 di Pietrina Valenti, un posto diverso, nelle immediate vicinanze del portone d’ingresso dello stabile, peraltro in una posizione parzialmente visibile dalla camera da letto della Valenti. Venivano, poi, acquisite al fascicolo per il dibattimento, sul consenso delle parti, anche tutte le dichiarazioni rese dai condomini di via Sirillo, su tre temi di prova:
1) se i luoghi subivano o meno delle modifiche, dal luglio 1992, come affermato da Pietrina Valenti e negato da Salvatore Candura (fatta eccezione, secondo quanto dichiarato da quest’ultimo, per due archi in ferro, messi per ostruire la marcia di possibili autovetture, nel vicolo cieco d’accesso al portone condominiale);
2) se, all’epoca dei fatti, era possibile oppure no posteggiare automobili, per un tempo apprezzabile, nel predetto vicolo cieco, come escluso dalla Valenti ed affermato da Candura, che sosteneva, appunto, d’aver rubato la Fiat 126 proprio da siffatta posizione;
2) se qualche condomino notava il furto della Fiat 126 oppure la presenza di due persone nei pressi della medesima automobile, la sera in cui la stessa veniva asportata (attese le menzionate dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, secondo cui, mentre perpetrava il furto con Tutino, una coppia con due bambini transitava a piedi).
Le circostanze complessivamente desumibili dalle dichiarazioni acquisite agli atti, possono riassumersi (in maniera estremamente sintetica, considerata anche la sopravvenuta confessione, da parte di Salvatore Candura, della falsità delle proprie precedenti dichiarazioni, sul furto della Fiat 126, sotto casa di Pietrina Valenti), come segue. Effettivamente, alla fine del vicolo cieco che conduce al portone dello stabile di via Bartolomeo Sirillo n. 5, successivamente al luglio del 1992, venivano realizzate, da uno dei condomini (Passantino Vincenzo), delle opere (abusive), consistenti nella realizzazione di alcuni gradini, di fronte all’entrata per l’edificio. Detta circostanza, oltre che dal diretto interessato (che operava, come accennato, senza alcun titolo edilizio, per cui non esistono atti pubblici, per una precisa datazione delle opere), veniva confermata anche dagli altri condomini (tutti collocavano tali opere, all’incirca, negli anni 2000-2005). Inoltre, pure i paletti per impedire l’accesso al cortile prospiciente al portone d’ingresso, venivano collocati in epoca più recente, rispetto al luglio 1992 (verosimilmente, dopo l’anno 2003). Lo stesso vale per le fioriere poste nel cortile/parcheggio dello stabile, a ridosso dell’edificio condominiale, collocate nella stessa epoca dei paletti.
Quanto alla possibilità di posteggiare, all’epoca dei fatti, nel vicolo cieco che conduce al portone d’ingresso condominiale, le dichiarazioni dei condomini non erano del tutto univoche: molti evidenziavano che, prima dell’installazione dei paletti, le automobili venivano parcheggiate fin davanti al portone dello stabile, ma solo per soste brevi (come per scaricare merci o per la pausa pranzo); tuttavia, la collocazione degli ostacoli si rendeva necessaria proprio per evitare che parcheggiassero lì autovetture che non consentivano l’accesso allo stabile, qualora ve ne fosse stato bisogno, per i mezzi di soccorso; con particolare riferimento alla signora Pietrina Valenti, alcuni condomini dichiaravano che la stessa era solita parcheggiare dal lato delle fioriere; altri ricordavano, genericamente, che la predetta parcheggiava dove trovava posto. Sul punto, Roberto Valenti (confermando, sia pure con qualche titubanza, le indicazioni già fornite in fase d’indagine, anche con la redazione di uno schizzo planimetrico) dichiarava che sua zia Pietrina, abitualmente, posteggiava la Fiat 126 sul lato lungo del cortile, limitrofo all’edificio condominiale, in posizione dove la stessa ne poteva controllare visivamente la presenza, affacciandosi dalle finestre dell’abitazione. Analoghe indicazioni dava Luciano Valenti, che spiegava come la sorella Pietrina era solita posteggiare, sul lato lungo dello stabile di via Sirillo (confermando, anche in tal caso, le indicazioni offerte in uno schizzo planimetrico, redatto di suo pugno, acquisito al fascicolo per il dibattimento); inoltre, quest’ultimo teste chiariva anche quanto dichiarato nel dibattimento del primo processo sulla strage di via D’Amelio: allorquando rispondeva che la Fiat 126 della sorella, prima di esser rubata, veniva posteggiata “sotto la scala” (proprio come sostenuto, all’epoca, da Salvatore Candura), non intendeva indicare (in senso letterale) proprio l’ingresso dello stabile.
Peraltro, anche Salvatore Candura, allorché (nell’interrogatorio reso il 10.3.2009, acquisito al fascicolo per il dibattimento, col consenso delle parti e riportato in nota) decideva di ammettere (innanzi all’evidenza) la falsità delle sue precedenti dichiarazioni in merito al furto della Fiat 126, dichiarava (fornendo una versione, comunque, da prendere con le dovute cautele) che l’automobile della Valenti era posteggiata dalla parte delle fioriere (anch’egli redigendo uno schizzo planimetrico, allegato al verbale), riferendo che la vedeva parcheggiata lì, nella stessa sera in cui veniva, poi, asportata (poiché, a suo dire, quella sera, si recava effettivamente a casa di Pietrina, per farle visita) e che, durante il sopralluogo indicava agli inquirenti, volutamente, un posto sbagliato per lanciare loro un segnale sulla falsità delle proprie dichiarazioni (delle quali avrebbe sempre avvertito il peso). Anche in dibattimento, Candura confermava tali indicazioni.
[…] Infine, si deve dare atto (più che altro per completezza d’esposizione) che anche Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura, dopo aver confessato -entrambi- la falsità delle loro precedenti dichiarazioni su questi fatti, tornavano sui loro passi anche sul punto specifico, spiegando che la Fiat 126 di Pietrina Valenti non si poteva affatto rubare con lo “spadino”. Vincenzo Scarantino, nel corso di un interrogatorio (acquisito al fascicolo per il dibattimento), ammetteva di aver adeguato le sue dichiarazioni alla versione di Candura circa l’utilizzo dello “spadino” per rubare la Fiat 126 della Valenti, spiegando che solo i modelli più “antichi” di detta automobile potevano essere rubati con tale arnese, mentre quelle “di ‘a secunna serie in poi con uno spadino non si apre”, confermando così la versione di Agostino Trombetta e quella di Gaspare Spatuzza.
Anche Salvatore Candura ammetteva che quel modello di Fiat 126 in uso a Pietrina Valenti si poteva mettere in moto solo rompendo il bloccasterzo e collegando i fili d’accensione, spiegando addirittura (ma la circostanza deve esser valutata con il beneficio dell’inventario) che, al momento della sua falsa collaborazione, dichiarava volutamente che lui utilizzava un “chiavino”, anche se ciò era un “controsenso” (così come, a suo dire, lo era pure la circostanza di avere utilizzato il medesimo attrezzo anche per aprire la portiera, poiché quella macchina si poteva aprire pure con la “chiave Simmenthal”), al fine di lanciare dei segnali agli inquirenti […].

(pagg 1220-1240)

 

 

Dichiarazioni preparate a tavolino e misteriosi suggeritori

 

Nel periodo immediatamente anteriore alla trasmissione alla Squadra Mobile di Caltanissetta della suddetta nota del SISDE relativa allo Scarantino, quest’ultimo era stato destinatario di una intensa attività investigativa condotta dal Dott. Arnaldo La Barbera (il quale, peraltro, a sua volta, aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il SISDE dal 1986 al marzo 1988, con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia).

Sulla base di tale attività investigativa, lo Scarantino era stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 26 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Caltanissetta per concorso nella strage di via D’Amelio e nei reati connessi. Gli elementi indiziari a suo carico erano costituiti dalle dichiarazioni rese da due soggetti che avevano indicato in lui la persona che aveva commissionato e ricevuto la Fiat 126 utilizzata per la strage. Si trattava, precisamente, delle dichiarazioni di Luciano Valenti e Salvatore Candura, nelle quali il Pubblico Ministero, nella sua memoria conclusiva, ha individuato «la scaturigine del depistaggio».

Luciano Valenti e Salvatore Candura, insieme al fratello del primo, Roberto Valenti, erano stati sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere in esecuzione di un’ordinanza emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, commessi il 29/8/1992. I loro nominativi erano stati precedentemente posti all’attenzione degli inquirenti dalle conversazioni intercettate sull’utenza telefonica in uso a Valenti Pietrina, alla quale, come si è detto, era stata sottratta l’autovettura Fiat 126 utilizzata per la strage. Tra l’altro, la Valenti, nel corso della conversazione delle ore 23,14 del 30 luglio 1992, commentando le immagini televisive del luogo della strage di via D’Amelio con Sbigottiti Paola, moglie di Valenti Luciano, aveva pronunciato la frase: “ed in quel posto la mia macchina c’è….”. In una successiva telefonata delle ore 00,05 dell’1 agosto 1992, le due donne avevano esternato sospetti nei confronti di Salvatore, amico di Valenti Luciano, quale possibile autore del furto della Fiat 126. Tale soggetto venne identificato in Salvatore Candura.

Quest’ultimo, quando era stato tratto in arresto in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 2 settembre 1992 dal GIP presso il Tribunale di Palermo per i reati di violenza carnale e di rapina, ed era stato quindi condotto presso gli uffici della Squadra Mobile, aveva lamentato di aver ricevuto minacce e di essere preoccupato perché aveva avuto modo di notare persone sospette nei pressi della propria abitazione. Tale comportamento era apparso strano agli inquirenti, che lo avevano ricollegato all’atteggiamento tenuto dallo stesso Candura alcuni giorni prima, allorché, accompagnato presso una Caserma dei Carabinieri per essere denunciato per tentata rapina ai danni di un autotrasportatore, piangendo, aveva profferito la frase “…non li ho uccisi io…” (cfr. la informativa di reato del 19 ottobre 1992 della Squadra Mobile della Questura di Palermo).

Quegli strani colloqui investigativi

Il 12 settembre 1992 il Dott. Arnaldo La Barbera, nella qualità di Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, venne autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare un colloquio investigativo con i detenuti Candura Salvatore e Valenti Luciano.

Il giorno successivo, 13 settembre 1992, Salvatore Candura fu interrogato dal Pubblico Ministero di Caltanissetta, al quale riferì che nei primi giorni del mese di luglio 1992 Luciano Valenti gli aveva comunicato che il loro comune amico Vincenzo Scarantino aveva commissionato allo stesso Valenti il furto di un’autovettura di piccola cilindrata, il quale avrebbe dovuto essere eseguito quella sera stessa, e per compensarlo gli aveva dato la somma di 150.000 lire; il Valenti aveva aggiunto che si sarebbe impossessato della Fiat 126 della propria sorella, Pietrina Valenti. Il Candura affermò di essere a conoscenza che l’autovettura, quella stessa sera, era stata trafugata e quindi parcheggiata in una strada nei pressi di Via Cavour, per essere poi consegnata alle persone che ne avevano bisogno. Il Candura riferì inoltre che cinque o sei giorni dopo la data del furto era stato contattato da Pietrina Valenti, la quale gli aveva detto che nella notte precedente le avevano rubato la sua autovettura Fiat 126. Alla discussione aveva assistito Luciano Valenti, che aveva invitato il Candura a uscire insieme a lui per cercare l’autovettura, ed aveva quindi finto di attivarsi in tal senso. Il Candura segnalò di avere avuto dei sospetti sulla possibilità che la suddetta Fiat 126 fosse stata utilizzata per la strage di Via D’Amelio, e di averne quindi parlato con Luciano Valenti, il quale però lo aveva rassicurato incitandolo a tenere un comportamento indifferente rispetto a questa circostanza. Egli inoltre sostenne di aver visto, qualche giorno prima del furto della Fiat 126, lo Scarantino parlare con uno dei fratelli Tagliavia, titolare di una rivendita di pesce in via Messina Marine.

A sua volta, Luciano Valenti, dopo avere negato ogni propria responsabilità in data 17 settembre 1992 sia in sede di interrogatorio di garanzia, sia in sede di confronto con il Candura, in data 20 settembre 1992 finì per cedere alle pressioni di quest’ultimo e rese al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta un interrogatorio in cui affermava di avere sottratto l’autovettura su incarico di Vincenzo Scarantino, di avere ricevuto la somma di 150.000 lire come compenso, e di avere consegnato il veicolo nei pressi di Via Cavour.

In data 26 settembre 1992 venne quindi emessa la suddetta ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico dello Scarantino, che nell’interrogatorio di garanzia del 30 settembre 1992 sostenne la propria innocenza, negando di conoscere Luciano Valenti e precisando di conoscere solo di vista Salvatore Candura, suo vicino di casa.

Lo Scarantino venne quindi trasferito, in data 2 ottobre 1992, presso il carcere di Venezia, dove venne collocato nella stessa cella di Vincenzo Pipino, un trafficante di opere d’arte che il Dott. Arnaldo La Barbera aveva conosciuto nel periodo in cui aveva prestato servizio presso la Squadra Mobile di Venezia, e che aveva quindi pensato di utilizzare come una sorta di “agente provocatore” allo scopo di sollecitare e raccogliere le confidenze dello Scarantino. All’interno della cella dove si trovavano lo Scarantino e il Pipino venne anche attivato un servizio di intercettazione, che però non diede risultati significativi. A proposito delle conversazioni intercorse fra lo Scarantino e il Pipino, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno” ha rilevato che «trattasi in prevalenza di lunghi soliloqui in quanto è soltanto il Pipino a parlare, mentre il suo interlocutore non profferisce parola o accenna solamente qualche frase, il più delle volte incomprensibile», e ha evidenziato che il tenore dei colloqui «tradisce all’evidenza che il Pipino è un confidente della Polizia che era stato collocato nella stessa cella dello Scarantino allo scopo di provocarne e raccoglierne le confidenze in merito ai fatti di strage per cui è processo. All’uopo, infatti, il Pipino si adopera, spiegando allo Scarantino le accuse elevate nei suoi confronti, le incongruenze delle discolpe da lui addotte, i rischi connessi alla sua attuale posizione processuale, cercando nel contempo di sollecitarne le confidenze, prospettandogli possibili e più valide strategie difensive».

Nel frattempo, invece, il Candura modificava la propria versione dei fatti. Egli, nell’interrogatorio reso il 3 ottobre 1992 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, sostenne di essersi reso autore, nei primi giorni del precedente mese di luglio, del furto della Fiat 126 di Pietrina Valenti, commissionatogli dello Scarantino, e aggiunse di aver tentato di far ricadere su Luciano Valenti la responsabilità del furto per paura delle gravi rappresaglie che lo Scarantino avrebbe potuto mettere in atto nei suoi confronti. Lo Scarantino, nell’incaricarlo di reperire un’autovettura di piccola cilindrata, non importava in quali condizioni, purché marciante, gli aveva consegnato uno “spadino” (chiave artificiosa per aprire la portiera) e la somma di lire 150.000 in acconto sul maggiore compenso promesso di lire 500.000. In effetti il Candura, profittando dei rapporti di buona conoscenza intercorrenti con Pietrina Valenti (sorella dell’amico Luciano Valenti), che sapeva essere in possesso di una autovettura del tipo richiesto dallo Scarantino, aveva sottratto la Fiat 126 della donna, consegnandola nella stessa serata allo Scarantino nelle vicinanze di Via Cavour, all’angolo tra via Roma e un’altra traversa.

Il Candura inoltre affermò che, dopo avuto notizia dai giornali e dalla televisione dell’avvenuta utilizzazione di una Fiat 126 quale autobomba per la strage di Via D’Amelio, si era recato in più occasioni dallo Scarantino per essere rassicurato circa il fatto che l’autovettura da lui rubata non fosse servita per commettere il delitto, ma a tali richieste lo Scarantino si era visibilmente alterato, intimandogli di dimenticare tutto e di non parlarne con nessuno. Dopo tali incontri aveva ricevuto delle telefonate minatorie che avevano rafforzato il sospetto iniziale, tanto che si era nuovamente rivolto allo Scarantino, che riteneva essere l’autore delle telefonate, suscitandone però altre reazioni negative. trattava del primo interrogatorio reso dal Candura dopo che, in data 19 settembre 1992 il Dott. Vincenzo Ricciardi, della Squadra Mobile di Palermo, era stato autorizzato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo ad effettuare colloqui investigativi con lui.

Anche a fronte di queste nuove dichiarazioni del Candura lo Scarantino continuò a protestare la propria innocenza, negando, negli interrogatori resi tra il 1992 e il 1993 davanti al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Caltanissetta, la veridicità delle accuse mossegli.

Lo Scarantino in data 13/11/1992 venne trasferito dal carcere di Venezia alla Casa Circondariale di Busto Arsizio, dove rimase ristretto prima nella Sezione dove si trovavano i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis O.P., e poi in una cella singola, con regime di completo isolamento e di stretta sorveglianza; non gli era consentito neppure di vedere la televisione, e poteva effettuare un solo colloquio al mese con i propri familiari. Egli cadde quindi in uno stato di depressione, rendendosi protagonista di reiterati gesti di autolesionismo (cfr. la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Borsellino uno”). Nell’interrogatorio reso il 6 maggio 1993 al Pubblico Ministero di Caltanissetta, lo Scarantino, oltre a contestare le accuse mossegli, segnalava il proprio stato di prostrazione morale che lo aveva indotto a un tentativo di suicidio, esplicitava di non sopportare più lo stato di isolamento, e sottolineava che altri detenuti in particolare, un ex agente di custodia e il pentito Caravelli Roberto lo sollecitavano a confessare delitti da lui non commessi.

Dal 3 giugno 1993, la cella contigua a quella dello Scarantino venne occupata da Francesco Andriotta, il quale rimase nel medesimo reparto del carcere di Busto Arsizio fino al 23 agosto successivo. In data 14 settembre 1993, Francesco Andriotta iniziò la propria “collaborazione” con l’Autorità Giudiziaria, che forma oggetto di specifica trattazione in altro capitolo. In questa sede, è sufficiente rammentare che già nell’interrogatorio reso nella suddetta data al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta iniziò a riferire su una serie di confidenze che lo Scarantino gli avrebbe fatto durante il periodo di comune detenzione.

Secondo il racconto dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva confidato di avere effettivamente commissionato al Candura, su richiesta di un proprio parente (un cognato o fratello), il furto della Fiat 126 poi utilizzata nella strage di Via D’Amelio. L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche sua sorella, Ignazia Scarantino, ne possedeva una dello stesso colore, e quindi, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto. Il Candura aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Luciano Valenti, il quale la aveva portata nel posto stabilito, dove lo Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Infine, lo Scarantino aveva portato il veicolo dal garage alla via D’Amelio.

A dire dell’Andriotta, lo Scarantino gli aveva altresì riferito «che l’auto non funzionava e che venne trainata fino al garage», che «l’auto venne quindi riparata così da renderla funzionante», che «furono cambiate le targhe con quelle di un altro 126», e che «avevano tardato a denunciare il furto dell’auto o delle targhe al lunedì successivo all’esplosione giustificando tale ritardo con il fatto che il garage era rimasto chiuso».

I pentiti e le verità da raccontare

Diversamente da tutto il resto del racconto dell’Andriotta, queste ultime circostanze corrispondono perfettamente alla realtà: come si è visto nel capitolo relativo alla ricostruzione della fase esecutiva della strage, è rimasto inequivocabilmente accertato, nel presente procedimento, che la Fiat 126 presentava problemi meccanici, che vi fu la necessità di trainarla subito dopo il furto, che si provvide alla sua riparazione e alla sostituzione delle targhe, che la denuncia del furto delle targhe venne effettuata nel lunedì successivo alla strage.

Trattandosi di circostanze che mai lo Scarantino avrebbe potuto riferirgli, per la semplice ragione che non aveva avuto alcun ruolo nell’esecuzione della strage, deve necessariamente ammettersi una ricezione, da parte dell’Andriotta, di suggerimenti provenienti dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, avevano tratto le relative informazioni, almeno in parte, da altre fonti rimaste occulte. Tale inquinamento si era già realizzato al momento in cui ebbe inizio la “collaborazione” dell’Andriotta con la giustizia.

Nei successivi interrogatori, l’Andriotta aggiunse ulteriori particolari, arricchendo progressivamente il contenuto delle confidenze che sosteneva di avere ricevuto dallo Scarantino.

Ad esempio, nell’interrogatorio reso il 4 ottobre 1993 nel carcere di Milano Opera al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini, l’Andriotta sostenne di avere appreso dallo Scarantino che colui che gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage era Salvatore Profeta, motivò l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, e specificò che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.

In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, l’Andriotta affermò che nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126 era presente anche Salvatore Profeta. In occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, l’Andriotta aggiunse che, dopo la strage di via D’Amelio, il Candura aveva cercato, più volte, lo Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; ma lo Scarantino lo aveva trattato in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura.

E’ dunque evidente, nelle dichiarazioni dell’Andriotta, un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. Si noti, peraltro, che nella stessa data del suddetto interrogatorio, avvenuto il 17 gennaio 1994, l’Andriotta ebbe un colloquio investigativo con il Dott. Arnaldo La Barbera.

Frattanto, anche lo Scarantino, trasferito presso la Casa Circondariale di Pianosa, ebbe in tale luogo una serie di colloqui investigativi: rispettivamente, il 20 dicembre 1993 con il Dott. Mario Bo’ (funzionario di polizia inserito nel gruppo “Falcone-Borsellino”), il 22 dicembre 1993 con il Dott. Arnaldo La Barbera, il 2 febbraio 1994 con il Dott. Mario Bo’ e il 24 giugno 1994 con il Dott. Arnaldo La Barbera. In quest’ultima data lo Scarantino (il quale fino all’interrogatorio reso il 28 febbraio 1994 alla Dott.ssa Boccassini aveva protestato la propria innocenza) iniziò la propria “collaborazione” con l’autorità giudiziaria, con le modalità già indicate, confermando largamente il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese dal Candura e dall’Andriotta, ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico.

A sua volta, l’Andriotta, negli interrogatori resi il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994 nel carcere di Paliano (dove risultano documentati, nelle medesime date, altrettanti accessi del Dott. Mario Bo’), adeguandosi in gran parte alle dichiarazioni rese dallo Scarantino dopo la scelta “collaborativa”, riferì, per la prima volta, sulle confidenze fattegli da quest’ultimo sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute per timore sino ad allora.

I poliziotti di La Barbera

L’analisi che si è condotta sulla genesi della “collaborazione” con la giustizia del Candura, dell’Andriotta e dello Scarantino, lascia emergere una costante: in tutti e tre i casi, le dichiarazioni da essi rese, radicalmente false nel loro insieme, ricomprendevano alcune circostanze oggettivamente vere, che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte.

Altrettanto significativa è la circolarità venutasi a creare tra il contributo dichiarativo dei tre “collaboranti”, ciascuno dei quali confermava il falso racconto dell’altro, conformandovi progressivamente anche la propria versione dei fatti.

Per lo Scarantino e per il Candura, è rimasto documentalmente confermato che la falsa collaborazione con la giustizia fu preceduta da colloqui investigativi di entrambi con il Dott. La Barbera, e del primo anche con il Dott. Bo’. Un colloquio investigativo del Dott. La Barbera precedette anche un successivo interrogatorio dell’Andriotta contenente un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. A sua volta, il Dott. Ricciardi effettuò un ulteriore colloquio investigativo che precedette un consistente mutamento del contributo dichiarativo offerto dal Candura. Dunque, anche a prescindere dalle affermazioni compiute dallo Scarantino nel corso del suo esame dibattimentale (la cui valenza probatoria può effettivamente reputarsi controversa, considerando le continue oscillazioni da cui è stato contrassegnato il suo contributo processuale nel corso del tempo), e dalle indicazioni (decisamente generiche, oltre che de relato) offerte da alcuni collaboratori di giustizia (come Gaspare Spatuzza e Giovanni Brusca) sulle torture subite a Pianosa dallo Scarantino, deve riconoscersi che gli elementi di prova raccolti valgono certamente a che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose venne ingenerato in lui da una serie di attività compiute da soggetti, come i suddetti investigatori, che si trovavano in una situazione di supremazia idonea a creare una forte soggezione psicologica. Era questa senza alcun dubbio la posizione dello Scarantino, un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, frattanto, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva «maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai “incastrato” sulla scorta di false prove». Dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, i quali esercitarono in modo distorto i loro poteri con il compimento di una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte.

Si tratta, pertanto, di una situazione nella quale è indubbiamente configurabile la circostanza attenuante dell’art. 114 comma terzo c.p., che, come chiarito dalla giurisprudenza, prevede una diminuzione di pena per il soggetto “determinato” a commettere il reato, proprio in forza dell’opera di condizionamento psicologico da lui subita.

 


SALVATORE CANDURA, la seconda vita criminale del falso pentito di via D’Amelio. SEGUE

 

 

1.12.1997 Le dichiarazioni di CANDURA SALVATORE