RITA, la picciridda di Borsellino. Settima vittima di Via D’Amelio

 

di RITA ATRIA

 

Ora che è morto Borsellino nessuno, può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura e che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri  scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.

Prima di combattere la mafia devi farti un auto esame di coscienza e poi dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’é nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il modo sbagliato di comportarsi.
Borsellino sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta.


E’ una lunga sera e nel cielo ci sono milioni di stelle, una più affascinate dell’altra, in ognuna c’è un piccolo segreto, ognuna ha un lungo viaggio da compiere, una di esse, proprio la più piccola, la più lucente, la più lontana, sta compiendo per me il più lento ed il più lungo dei viaggi, per arrivare in un luogo chiamato infinito, proprio lì sono i miei due grandi amori, proprio lì nell’infinito un giorno potrà riabbracciare le mie stelle. Quelle stelle che avranno il potere di illuminare l’immensità del cielo e che nessuno potrà più spegnere mai.


Forse un mondo onesto non esisterà mai ma chi ci impedisce di sognare?    Forse, se ognuno di noi prova a cambiare forse, ce la faremo L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.

 

LUCIA BORSELLINO ricorda RITA ATRIA

FIAMMETTA BORSELLINO ricorda RITA ATRIA – Video

 

SERVIZIO RAI

 

SPECIALE TG UNO dedicato a RITA ATRIA

LA SICILIANA RIBELLE – Film


Così Partanna ricorderà Rita Atria, la ragazza che sfidò la mafia

 

Il 26 luglio una serie di iniziative nel 31esimo anniversario della morte

Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia morta suicida una settimana dopo la strage di via D’Amelio in cui fu ucciso Paolo Borsellino, il magistrato con il quale si era confidata raccontando i retroscena di una faida mafiosa che coinvolgeva la sua famiglia, sarà ricordato il 26 luglio prossimo a Partanna, suo paese natale con una serie di iniziative denominate «Rita nel cuore».
Le commemorazioni per il 31° anniversario cominceranno alle 16 con la Santa messa presso la Chiesa Matrice celebrata dal vescovo Mons. Angelo Giurdanella. Alle 17,30 nel cimitero di Partanna ci sarà un saluto davanti alla tomba di Rita.
Alle 22 in piazza Falcone e Borsellino si svolgerà la prima edizione del Premio Nazionale «Picciridda», nato dal desiderio di ricordare l’esemplare coraggio della giovane Rita. Ospiti «Bellamorea» ed il cantautore Andrea Canto. Tra i premiati il magistrato Alessandra Camassa, l’Associazione Casamemoria Peppino e Felicia Impastato, Luigi De Magistris, Nicola Clemenza ed il significativo premio alla memoria di Paolo Borsellino.
La manifestazione patrocinata dal Comune di Partanna è promossa da un cartello di associazioni: Rete Antimafia di Brescia; Associazione antiracket Libero Futuro; Casa di Paolo; Agende Rosse; Associazione Su La Testa; Antimafia 2000; Associazione tazzina della Legalità e la sezione di Partanna della Fidapa, oltre che da Mario Bruno Belsito e da Piera Aiello, cognata di Rita Atria ed anche lei testimone di giustizia.


Rita Atria (Partanna, 4 settembre 1974 – Roma, 26 luglio 1992) Si suicida una settimana dopo la strage di Via D’Amelio perché proprio per la fiducia che riponeva nel magistrato italiano Paolo Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti.


LA PICCIRIDDA DI PAOLO BORSELLINO  Rita Atria, 17 anni, è la settima vittima di via D’Amelio. Il 26 luglio 1992, Rita  era disperata per ciò che era accaduto una settimana prima in via d’Amelio. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita – scrisse Rita sul suo  diario – Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi. Ma io senza di te sono morta”.
La sua fu una vita dura, difficile da sostenere per una ragazza di soli 17 anni. E con la morte di Paolo Borsellino, che l’aveva aiutata e presa sotto il suo mantello protettivo, non riuscì ad andare avanti. Figlia di Vito e di Giovanna  nel 1985 all’età di undici anni  perde il padre, pastore affiliato a Cosa nostra, ucciso in un agguato. Alla morte del padre Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata 18enne Piera Aiello, che si era sposata nove giorni prima dell’omicidio del suocero. Da Nicola, anch’egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna 
Nel giugno 1991 Nicola Atria viene ucciso e sua moglie Piera Aiello, che era presente all’omicidio del marito, denuncia i due assassini e collabora con la polizia Rita, a soli 17 anni, nel novembre 1991 decide di seguire le orme della cognata, cercando nella magistratura giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni è il giudice Paolo Borsellino (all’epoca procuratore di Marsala),  al quale si lega come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala di avviare un’indagine sull’onorevole democristiano Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco di Partanna
Una settimana dopo la strage di via D’Amelio, in cui perde la vita il giudice Borsellino, Rita si uccide a Roma, dove vive in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale Amelia, 23.
Sua sorella Anna se ne andrà in seguito a vivere a Roma. Rita per molti rappresenta un’eroina, per la sua capacità di rinunciare a tutto, finanche agli affetti della madre (che la ripudiò e che dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate) per inseguire un ideale di giustizia attraverso un percorso di crescita interiore che la porterà dal desiderio di vendetta al desiderio di una vera giustizia. Rita (così come Piera Aiello) non era una pentita di mafia: non aveva infatti mai commesso alcun reato di cui pentirsi.


 


CARO DIARIO, SONO RITA ATRIA E LA MAFIA FA SCHIFO

Questa l’ultima pagina di diario della diciassettenne Rita Atria, siciliana di Partanna che il 26 luglio 1992, alle 15 circa, ha preso la decisione più tragica della sua breve vita: si butta nel vuoto dal settimo piano di un palazzo a Roma.
Figlia di un mafioso della locale cosca, Vito Atria, morto ammazzato in un agguato quando la figlia aveva undici anni; sorella di Nicola, seguace delle orme del padre anche nella modalità di morte, infatti anche lui muore ammazzato nel 1991. Rita, a soli diciassette anni, vuole giustizia per quei due omicidi che le hanno portato via un grande pezzo della sua famiglia, così nel 1991 inizia a collaborare con la magistratura ed in particolare con Paolo Borsellino, allora Procuratore Capo di Marsala. Tale magistrato è stato per lei molto più che una figura istituzionale, è stato un padre, quello che l’ha presa per mano raccogliendo le sue confidenze e l’ha indirizzata verso un sentiero pulito, nel quale l’ossigeno le permetteva la vita, la vera vita. Per questa sua collaborazione fu trasferita a Roma in segreto, la capitale che diventò per lei letto di morte.
La strage di via D’Amelio significò per lei ricadere nel baratro della paura, della sfiducia verso uno Stato che le aveva tolto tutto: una famiglia, perché non si è mai realmente impegnato per garantire un vero futuro pulito ai giovani come lei; un mentore, una guida, che quello stesso Stato ha ucciso con le sue connivenze e le sue mancanze. Rita viene ripudiata dalla madre, una madre che ammazzò la figlia due volte, quando la ripudiò essendo ancora in vita e quando, una volta morta, distrusse la sua lapide a martellate. Che razza di madre è?  E allora ha ragione il Procuratore Gratteri, che le fiction mitizzano questo marciume, non presentando affatto la realtà che si vive in una famiglia di mafia. Codice d’onore, belle ville, figli fortunati a cui non manca niente…la mafia non è questa. Rita Atria testimonia il degrado che esiste tra quella gente, testimonia la ribellione ad un sistema chiuso in una logica del terrore e del silenzio, testimonia il desiderio di giustizia: Rita Atria è testimone di giustizia. Proprio di questi mesi è il provvedimento della Commissione Antimafia già approvato dalla Camera e in attesa di un imminente “sì” del Senato che riforma il sistema della tutela dei testimoni di giustizia differenziandoli dai collaboratori di giustizia, spesso usati erroneamente come sinonimi. Il collaboratore di giustizia è un pentito di mafia, macchiatosi di reati, che ogni giorno apre gli occhi e si commuove perché è ancora vivo e decide di affidare le sue rivelazioni ai magistrati per dormire sonni tranquilli e avere una riduzione della pena. Il testimone di giustizia è quello che vede e/o vive dal di fuori o dal di dentro la metodologia mafiosa e le pressioni asfissianti a cui sono soggette le vittime o loro stessi e pensa, intelligentemente, che il reato sia girarsi dall’altra parte, quindi denuncia. Rita, non devi avere paura che lo Stato mafioso vincerà, lo sai anche tu che non è così. Rita, quegli “scemi” che combattono saranno anche veramente scemi, perché nei momenti di scoramento li vediamo un po’ come bolle di sapone contro un muro: le bolle attaccano il muro ma inevitabilmente scoppiano. Ma tante bolle di sapone, tanta acqua e sapone, eroderanno il muro scavando al suo interno e finalmente i raggi di sole riusciranno a passare tu sai anche questo.


La settima vittima di via d’Amelio “dimenticata”, la storia di Rita Atria in un libro-inchiesta

Si chiama “Io sono Rita” e racconta una versione inedita della vita e della tragica fine di Rita Atria, la “picciridda” dell’antimafia. L’intervista a Nadia Furnari, co-autrice del testo.
Era il 26 luglio 1992 – una settimana dopo la strage di via d’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – quando il corpo senza vita di Rita Atria fu ritrovato sul marciapiede antistante il palazzo in cui viveva.
Rita Atria, “la picciridda”, nel novembre 1991, all’età di 17 anni, si rivolse alla magistratura in cerca di giustizia per gli omicidi che avevano colpito la sua famiglia. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino, al tempo procuratore a Marsala), al quale si legò come a un padre.
Trent’anni dopo, un libro-inchiesta ricostruisce la storia di Rita Atria, abbandonata dalle Istituzioni, le stesse che avrebbero dovuto prendersi cura di lei. QdS ne ha parlato con Nadia Furnari, coautrice assieme a Giovanna Cucèe Graziella Proto, del libro “Io sono Rita – Rita Atria: la settima vittima di via d’Amelio”, edito da Marotta e Cafiero editori.


Rita Atria, la storia in “Io sono Rita”

Quando e perché nasce “Io sono Rita”?

“Quando? Forse dal primo giorno in cui ho appreso della storia di Rita. Probabilmente da quei viaggi a Partanna e dal suo diario che ho letto per la prima volta nel libro di Sandra Rizza, “Una ragazza contro la mafia”. Raccontare tutta la genesi sarebbe veramente troppo lunga però, se proprio devo dire da dove è cominciato concretamente tutto, la storia del libro nasce proprio in viale Amelia a Roma di fronte al civico 23 un 26 luglio di qualche anno fa. Una donna si avvicinò a noi e ci raccontò di quel giorno. Poi se ne aggiunse un’altra ad arricchire il racconto e a dire una frase che mi fece sobbalzare: ‘Abbiamo guardato su e la tapparella era quasi abbassata’. Io conoscevo un’altra verità totalmente incompatibile con una tapparella quasi abbassata”.
“Così mi sono guardata con gli altri dell’associazione e con Graziella Proto de ‘LeSiciliane’, che aveva già scritto su Rita un articolo inchiesta qualche anno prima, e da quel momento è stato chiaro che quello che io ho avuto sempre dentro come sensazione alla fine si stava materializzando. Lì, quindi, è stato il vero punto di svolta perché fino a quel momento, per anni, io stessa mi ero affidata solo alle narrazioni ufficiali, facendo riferimento solo a poche testimonianze nelle quali avevo riposto tutta la mia fiducia, senza cercare veramente Rita, la sua storia, le sue sofferenze, tutti i suoi affetti, i suoi amici e quindi anche la verità sulle giornate romane”.
“Ecco, così nasce “Io sono Rita”. Avere accanto una giornalista come Graziella Proto, un avvocato come Goffredo D’Antona e un’associazione che fa del concetto di gruppo il suo motto ha fatto la differenza… e poi la grande professionalità di Giovanna Cucè, anche se arriva successivamente”.

Ci vuole raccontare l’esperienza di scrivere un libro a sei mani? Che rapporto c’è con Giovanna Cucè e Graziella Proto, che hanno scritto con lei questo lavoro?

“Con Graziella ci conosciamo dal 2006 quando venne a intervistarmi per ‘LeSiciliane-Casablanca’. Da quel momento non ci siamo più lasciate e, nonostante siamo donne dal temperamento e dalle storie diverse, abbiamo fatto di questa nostra diversità una ricchezza. Giovanna è stata l’unica giornalista a raccogliere il senso del nostro comunicato stampa del 2020 quando, dopo aver acquisito le carte del fascicolo romano sulla morte di Rita, abbiamo ritenuto opportuno diramare un comunicato stampa come ‘Associazione Antimafie Rita Atria’ e come testata ‘LeSiciliane’ in cui esprimevamo sconcerto per le mancanza di indagini approfondite e accurate sulla morte di Rita”.

Giovanna Cucè decise di venire al cimitero di Partanna nel giorno in cui l’associazione, con un rito quasi privato, ogni anno, porta un fiore a Rita anche per rinnovare un impegno. Giovanna e il TG1 decisero che quei dubbi meritavano uno spazio e quindi parlarono di Rita e dei nostri dubbi. Ne seguì un silenzio assordante. Nessuna reazione, nessuno voleva saperne di più. Così abbiamo capito che non solo quel libro si doveva fare ma che eravamo sulla strada giusta”.
“La presenza di Giovanna era quella visione non ‘condizionata’ dal vissuto degli anni ’90. Così ho proposto a Graziella l’estensione del gruppo e lei non ha avuto nulla in contrario. Un libro si scrive ma si pensa soprattutto e quindi non sono state le sei mani la grande scommessa ma la diversità dei vissuti e delle visioni generazionali”.

Un vero lavoro di squadra, quindi…

“Ognuna di noi ha apportato contributi tra loro non sovrapponibili e le diversità si sono incastrate come in un puzzle e anche se, naturalmente, non siamo state sempre in sintonia su alcune letture, siamo riuscite a lavorare in armonia perché questo è essenzialmente un libro-inchiesta che si basa su fatti e documenti cercati nelle procure, nei tribunali, negli archivi di Polizia Giudiziaria, nei ministeri, nelle scuole, e via dicendo e non su letture personali”.

Quanto è durato il lavoro di ricerca di questo libro-inchiesta? Avete incontrato difficoltà?

“Come ho spiegato prima, ognuna portava con sé la propria storia personale e professionale e quindi quel lavoro di ricerca possiamo racchiuderlo in circa tre anni, compresa la prima fase quando abbiamo chiesto il fascicolo alla Procura di Roma. Nessun problema particolare solo tanta burocrazia, la necessità di tante richieste e a volte qualche reiterazione di richiesta, attese delle risposte… eravamo in piena pandemia e i problemi spesso erano legati proprio all’accesso agli archivi”.

Esiste quindi una narrazione diversa da quella attuale?

“Diciamo che, a partire dalla morte di Rita, la narrazione è diversa. Noi abbiamo trovato una storia che non coincideva con quella che anche noi stessi avevamo raccontato finché non abbiamo iniziato a porci seriamente domande e a cercare risposte che avessero riscontri oggettivi. Per esempio, sulla morte di Rita io sapevo che si era buttata ‘a palombaro’, impossibile con una tapparella quasi chiusa. Ma non voglio soffermarmi su quest’aspetto perché lascio a chi leggerà il libro decidere se fermarsi a ciò che è stato finora detto o porsi qualche domanda su come, invece, potrebbero essersi svolti i fatti in base a quello che ci raccontano le carte”.

Si tratta, senza dubbio, di un libro sulla storia di Rita Atria che ha suscitato opinioni contrastanti. A suo giudizio, da dove derivano?

“Guardi, su questo aspetto preferisco non esprimermi perché, come spesso accade in questo Paese, anche questa volta si è finito per declinare tutto sul piano personale, evitando di focalizzarsi sulle risposte ai quesiti che abbiamo posto. I motivi bisogna chiederli a chi ha sollevato i polveroni, a chi ha chiesto il sequestro del libro e a chi ha addirittura ritenuto che fosse giusto il ritiro del documentario su Rita Atria di Giovanna Cucè. A tal proposito, vi consiglio di vederlo: è disponibile su RaiPlay dal 17 luglio dello scorso anno e il titolo è ‘Rita Atria – la settima Vittima’”.

In seguito all’uscita di un libro-inchiesta c’è, inevitabilmente, un dopo che spesso è legato ai motivi che hanno portato alla sua scrittura. Oltre alla sacrosanta ricerca della verità e della giustizia, è possibile ipotizzare un percorso che possa portare alla riapertura delle indagini, anche alla luce del lavoro di analisi che avete compiuto?

“L’avvocato Goffredo D’Antona su mandato della ‘Associazione Antimafie Rita Atria’ e della sorella di Rita, Anna Maria Atria, ha presentato alla Procura di Roma una richiesta di riapertura delle indagini a giugno del 2022. Siamo in attesa. Aspettiamo che, chi di competenza, si esprima sul contenuto dell’esposto”.

Possiamo ipotizzare che Rita Atria “sia stata suicidata”?

“Oggi non si può escludere nulla, alla luce di quello che abbiamo trovato. Posso solo dire che non c’è nessuna prova che Rita si sia suicidata. La narrazione suggestiva attorno alla sua morte pare risultare priva di fondamento in base a quello che abbiamo trovato e descritto senza aggiungere nessuna interpretazione personale. La risposta è, quindi, che oggi non possiamo escludere niente, ma lasciamo a chi di competenza trovare le risposte”.


Il Diario – video

 Dal DIARIO di RITA

Sull’uccisione del fratello Nicola:

Mio Dio, 
perché mi togli sempre troppo presto ciò che amo. 
Ti prego toglimi il cuore ma non farmi soffrire, non farmi tenere tra le mani ciò che non potrà mai essere mio.[…] 
Sono quasi le 9 di sera, sono triste e demoralizzata forse perché non riesco più a sognare, nei miei occhi vedo tanto buio e tanta oscurità. 
Non mi preoccupa il fatto che dovrò morire ma che non riuscirò mai ad essere amata da nessuno.
Non riuscirò mai ad essere felice e a realizzare i miei sogni. Vorrei tanto poter avere Nicola vicino a me, poter avere le sue carezze e i suoi abbracci, ne ho tanto bisogno, e, l’unica cosa che riesco a fare, è piangere, ma vorrei tanto il mio Nicola. 
Nessuno potrà mai colmare il vuoto che c’è dentro di me, quel vuoto incolmabile che tutti, a poco a poco, hanno aumentato. Non ho più niente e nessuno, non possiedo altro che briciole. Non riesco a distinguere il bene dal male, tanto ormai è tutto così cupo e così squallido. 
Credevo che il tempo potesse guarire tutte le ferite. Invece no. Il tempo le apre sempre più fino ad ucciderti, lentamente. 
Quando finirà quest’incubo? 

 

Il ricordo. Rita Atria, la picciridda di Borsellino 

Via D’Amelio e via Amelia. Paolo e Rita. Il magistrato nemico delle mafie e la ‘picciridda’, figlia di una famiglia mafiosa. Una storia di riscatto e di speranza, di fiducia nei giovani e in una vita pulita, che vince anche la morte. Quella di Rita Atria, 17 anni, la settima vittima di via D’Amelio, anche se la sua vita si ferma il 26 luglio 1992 sul marciapiede al numero 23 di via Amelia, a Roma, sotto il palazzone dove la ragazzina viveva tutelata dal Servizio centrale di protezione, testimone di giustizia, dopo l’uccisione del padre e del fratello, mafiosi di Partanna. Una scelta disperata dopo la morte di Borsellino, il suo nuovo papà. «Rita non la dobbiamo ricordare per la sua morte ma per la sua intelligenza che le diede la possibilità in pochissimo tempo di cambiare. È la storia drammatica di una ragazza che per la prima volta aveva trovato nella vita cose pulite e siccome era intelligente aveva capito la differenza tra le cose sporche in cui aveva vissuto e quelle pulite che aveva trovato».
Così la ricorda Alessandra Camassa, presidente del Tribunale di Marsala. Venticinque anni fa, giovanissima sostituto procuratore nella città siciliana, fu lei a seguire il percorso di collaborazione di Rita. Lei insieme al suo ‘capo’ Paolo Borsellino. «Paolo aveva una particolare predisposizione per i giovani, soprattutto per i più fragili. Più un ragazzo era fragile e più lo amava. Aveva questo spirito adottivo. Si sostituiva subito alla figura paterna. La sua era una vocazione. E quindi il rapporto con Rita è stato automatico. Faceva benissimo il magistrato ma gli riusciva ancor più bene fare il padre». E per Borsellino era fondamentale anche nella lotta alla mafia. «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo», diceva. «Quanto è importante investire sui ragazzi. È fondamentale», afferma anche la Camassa. Ed è anche l’eredità che ci lascia la ‘picciridda’, così come la chiamava Borsellino.

 

In fondo è proprio quello che Rita aveva scritto. «Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo». Rita sceglie di parlare seguendo l’esempio della giovane cognata Piera Aiello, moglie del fratello ucciso. «Quando comincia a collaborare con la giustizia – racconta ancora il magistrato – non pensa minimamente ‘ora aiuto i giudici’. C’è solo rabbia. Era venuta per vendicarli. E come può una ragazzina di 17 anni vendicare la morte del padre e del fratello? Certamente non si poteva mettere a sparare per strada pur conoscendo tutti i mafiosi amici del padre. E allora collabora con la giustizia. Ma per lei la giustizia erano i carabinieri che venivano a casa la notte. Nei primi colloqui mi dice ‘mio padre era un uomo straordinario perché ogni volta che rubavano le pecore, lui riusciva a farle restituire’. Io allora le faccio vedere i rapporti giudiziari e le dico, ‘guarda che tuo padre rubava le pecore e si faceva pagare per restituirle: si chiama estorsione’. Per Rita tutto questo è stato un vero percorso analitico, ha rivisitato la sua vita, ha reinterpretato le figure del padre e del fratello. In un anno ha cambiato testa. Le si leggeva in faccia il suo stupore. Non so come ci immaginava. Forse tutti vecchi e burbera. Invece Paolo era tanto affettuoso, io e la collega Morena Plazzi eravamo due ragazze, gentili, normali. Così lei pensa ‘e allora tutto quello in cui avevo creduto era sbagliato’. E si affida davvero in un modo personale a Borsellino. Morti il padre e il fratello, rifiutata dalla madre e dalla sorella, Paolo per lei era la salvezza. Era la figura maschile che le mancava».
E Borsellino la coccola, le fa regali, così anche la moglie Agnese. E Rita cambia anche nell’aspetto. «Quando partì dalla Sicilia aveva un vestitino con il pizzo, sembrava una donna dell’800, quando è tornata aveva una grande consapevolezza di sé». In fondo era «una ragazzina, ma dura, perché già la vita l’aveva traumatizzata. Mi diceva sempre: ‘dottoressa lei certe volte non può capire perché è troppo una brava ragazza’. E questo mi faceva sorridere perché faceva un po’ la grande con me, mi trattava da ingenua. E un po’ aveva ragione. Le sue paure, le sue ansie io non potevo comprenderle. La paura di una che che ha avuto quella vita non è quella che abbiamo noi, è una paura profonda». E poi il rapporto con la madre. «Lei lo capiva che era qualcosa di terrificante però diceva ‘mia madre è una donna che ha avuto grandi disgrazie. Io sono quella intelligente che deve andare verso di lei’. E si sorbiva delle minacce pesantissime. ‘Ti farò fare la fine di tuo fratello’, le diceva. Ma voleva che nei colloqui non la lasciassimo mai sola. Borsellino con la sua grande umanità cercava di trovare la quadratura del cerchio ma erano due mondi che non si potevano parlare».

Già perché la famiglia era ed è ancora convinta che la colpa delle scelte di Rita sia tutta di Borsellino e di Piera Aiello. «La madre – ricorda Camassa – denunciò Paolo per sottrazione di minore e fummo costretti a fare il procedimento al Tribunale dei minorenni per sospendere la patria potestà». E proprio la madre spezzò la lapide della tomba. Ora, dopo la sua morte quattro anni fa, la lapide è stata rimessa. Anzi due. Una di chi ha sostenuto la sua scelta, una della sorella. Fianco a fianco ma le parole e i pensieri restano diversi. Ma almeno il suo nome c’è. Nome e memoria.

Ma c’è un modo molto concreto per onorarne la memoria. Approvare rapidamente la proposta di legge sui testimoni di giustizia. Il testo è uscito dall’inchiesta della Commissione antimafia nel maggio-luglio 2014. Come ci ricorda il deputato del Pd, Davide Mattiello, coordinatore dell’inchiesta, la commissione approvò all’unanimità una relazione nell’ottobre 2014. Poi alla fine del 2015 la proposta di legge sottoscritta da tutti i gruppi politici in commissione. A marzo 2017 è stata votata dalla Camera sempre all’unanimità. «Io ero il relatore – ricorda ancora Mattiello –. Al Senato, dove lo è Giuseppe Lumia, è stata incardinata in commissione Giustizia poche settimane fa. La sfida è che non sia modificata e così diventi rapidamente legge. Spero non ci siano sorprese dopo tutta questa unanimità».
Anche perché la proposta di legge è dedicata a Rita. Ed è importante perché definisce per la prima volta uno statuto autonomo dei testimoni di giustizia, rispetto ai collaboratori di giustizia. «Fino ad ora – spiega Mattiello – i testimoni sono stati trattati come una costola della normativa sui collaboratori, una scelta che genera confusione e nella confusione un certo mal trattamento». Invece, commenta la Camassa, «dobbiamo riconoscere il grande sacrificio dei testimoni. Il Paese dovrebbe tributare loro un ringraziamento continuo, perché è gente che cambia la sua esistenza, la propria vita, e per sempre». Proprio come Rita, la ‘picciridda’ di Borsellino. AVVENIRE 26 LUGLIO 2017

 

 

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“Rita, non t’immischiare, non fare fesserie”

le aveva detto ripetutamente la madre, ma, Rita aveva incontrato Paolo Borsellino, un uomo buono che le sorride dolcemente, e lei parla, parla…racconta fatti. Fa nomi. Indica persone, compreso l’ex sindaco democristiano Culicchia, che ha gestito e governato il dopo terremoto. “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri” disse qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale, di tutto il paese, non andò nessuno. Non andò neppure sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l’aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione. Inoltre, sia a lei che a quella poco di buono di sua nuora, Piera Aiello, che aveva plagiato a picciridda, non perdonava di aver “tradito” l’onore della famiglia.

Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, e con un martello, dopo aver spaccato il marmo tombale, rompe pure la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente.

Figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo, Rita Atria è nata e cresciuta a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto. Un territorio in cui, in quel periodo, si dice circolasse denaro proveniente dal narcotraffico, e di cui Rita non sopporta le brutture, le vigliaccherie, la tristezza. L’ignavia delle donne. “Una donna sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio” ha spiegato Piera Aiello moglie di Nicola Atria, fratello di Rita, e lei condivide con convinzione. Sensibile all’inverosimile, eppur ostinata, caparbia, fin dall’adolescenza dimostra di essere molto dura ed autonoma. Acasa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, erano all’ordine del giorno, perché, suo padre, don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, era un uomo di rispetto che si occupava di qualsiasi problema; per tutti trovava soluzioni; fra tutti, metteva pace, “…per questioni di principio e di prestigio…- sosteneva Rita – senza ricavarne particolari vantaggi economici…” tranne quello di rubare bestiame tranquillamente ed avere buoni rapporti con tutti quelli che contavano. Cionostante, il 18 novembre dell’85, don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato, e che la droga impone un cambio generazionale, è stato ucciso. Rita innanzi a quel cadavere crivellato di colpi, fra gli urli e gli impegni di rappresaglia dei famigliari, anche se appena dodicenne, dentro di sé, comincia ad rimestare vendetta. Ma la morte del padre le lascia un vuoto.Rita, allora, riversa tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola. Ma Nicola era un “pesce piccolo” che col giro della droga, aveva fatto i soldi e conquistato potere. Girava sempre armato e con una grossa moto. Quello con il fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. E’ Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, del movente; chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila… trasformando così una ragazzina di diciassette anni, in custode di segreti più grandi di lei. Tutto ciò non le impedisce di innamorarsi e fidanzarsi con Calogero, un giovane del suo paese. Fino al 24 giugno del 91, il giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello che da sempre aveva contestato a quel marito le frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia e fa arrestare un sacco di persone. Calogero interrompe il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita e sua madre Giovanna va in escandescenze.
Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita a Partanna è veramente sola: rinnegata dal fidanzato e dalla mamma, non sa con chi parlare, con chi scambiare due parole.
Sottomettersi come sua madre o ribellarsi?   
All’inizio di novembre, ad appena diciassette anni, decide di denunciare il sistema mafioso del suo paese e vendicare così l’assassinio del padre e del fratello. Incontra il giudice Paolo Borsellino, un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà qualche approccio per farla riappacificare con la madre. La ragazzina inizia così una vita clandestina a Roma.
Sotto falso nome, per mesi e mesi non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. L’unico conforto è il giudice. Ma arriva l’estate del ’92 e ammazzano Borsellino, Rita non ce la fa ad andare avanti. Una settimana dopo si uccide.
 Assoc. Antimafia Rita Atria

 

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Dopo decenni torna la lapide per Rita Atria, la picciridda

La prima lapide con il nome e la foto di sua figlia la spezzò a colpi di bastone, rinnegandola perché si era pentita e aveva collaborato con la giustizia. Giovanna Cannova, morta lo scorso novembre, non aveva mai accettato la scelta della figlia Rita Atria di confidarsi all’allora procuratore della Repubblica di Marsala Paolo Borsellino, svelando quello che sapeva dei fatti di mafia di Partanna.

Ecco perché aveva deciso che, sino a quando sarebbe stata viva, su quella tomba non doveva comparire nulla di sua figlia Rita. Nè il nome, nè la foto. Lo scorso luglio, nel ventennale del suicidio della giovane partannese, l’associazione “Libera” preparò una lapide che, soltanto per poche ore, rimase poggiata lì, sulla tomba della famiglia Cannova. Poi fu portata via ed è oggi custodita dal coordinatore provinciale di Libera.

Per decenni quella sepoltura è rimasta anonima al ricordo di Rita Atria, seppellita lì, insieme al padre Vito Atria (ucciso nell’85). Da pochi giorni su quella tomba è comparsa una lapide in marmo a forma di libro, con la foto di Giovanna Cannova e quella di Rita Atria.

A volerla è stata la sorella Anna, l’unica sorella della testimone di giustizia suicidatasi nel ‘92 a Roma, che vive lontana dalla Sicilia. La sua firma «Con affetto Anna» è apposta in calce al testo:

Alla mia famiglia, condannata, speculata, calunniata, marchiata, violata, abusata, usurpata, umiliata, giudicata, incriminata, che ha lottato, creduto, sperato, amato, sopportato, sofferto. Nel mio cuore sarà sempre vivo il ricordo di colore che vissero unicamente per amore della famiglia.

La cognata di Rita Atria, Piera Aiello, anche lei testimone di giustizia, un mese fa a Marsala aveva reso pubblica la notizia della morte dell’ex suocera.

Il tema dell’esame di maturità svolto da Rita Atria. La traccia recita: La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga.

«La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l’immagine dell’uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un’immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.
Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c’è chi ha paura come Contorno (Salvatore Contorno, divenuto un pentito nel 1984, seguendo l’esempio di Tommaso Buscetta, diede informazioni dettagliate sugli affari interni a Cosa Nostra. Le sue testimonianze furono cruciali nel maxiprocesso contro la mafia siciliana a Palermo e nel processo Pizza Connection a New York negli anni ottanta N.d.R), che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per assicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un’altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivranno contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare? Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.»  – Rita Atria – 5 giugno 1992  CASTELVETRANO SELINUTE 


 

 

 

IL GIUDICE E LA PICCIRIDDA 

Di Roberto Scurto Tratto dal libro “I giorni del Blog” ed “Il Mio Libro.it” Roma, Quartiere Tuscolano, In una Palazzina rosa di Viale Amelia c’è Una finestra aperta al penultimo piano. Fa proprio caldo e l’unico rumore che si sente è il ronzio delle pale di enormi ventilatori. Rita, una ragazzina di 18 anni, sta studiando per gli esami di maturità. Sotto i libri il suo diario   Pieno zeppo di intime confessioni e di vari pensieri. Si alza spesso dalla sua scrivania, non riesce a concentrarsi e così guarda nervosamente dalla Finestra i tetti delle case di fronte. Ogni tanto scende giù una lacrima , si asciuga il suo bellissimo viso con un fazzoletto di carta e torna a studiare.-

E’ estate del 1992, fa sempre più caldo e Rita si è sdraiata sul letto. Non si trova bene in questa città. Che ci fa una picciridda a Roma, una picciridda che non si era mai mossa dalla sua Partanna ? Non si trova bene neanche in quella casa Accogliente in Viale Amelia perché non è casa sua. Le è stata affidata dal Ministero dell’Interno in attesa di processo.-

Vorrebbe abbracciare la madre, ma lei è rimasta in Sicilia. Vorrebbe abbracciare il suo nuovo ragazzo ma al momento non c’è. Non c’è nemmeno Piera, la cognata anche lei di Partanna, con la quale divide l’appartamento romano.

Passano tante albe e tanti tramonti e arrivano puntuali anche gli esami di maturità. Non è poi tanto tanto nervosa e sceglie velocemente la traccia del tema “La morte del giudice Falcone ha riportato ad attualità il tema della mafia…”

I suoi occhi fissano la parola mafia. In fondo questo argomento lo conosce bene, potrebbe scrivere decine di pagine su quello che ha vissuto a Partanna in casa sua. Proprio li ha conosciuto la mafia, proprio fra quelle mura , quando vedeva suo padre e suo fratello e si intratteneva con il fidanzato.

Il padre di Rita faceva il paciere a Partanna. Si chiamava Don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, ma era un uomo che si occupava di qualsiasi problema. Per tutti trovava soluzioni e fra tutti metteva pace. Anche suo fratello Nicola faceva parte di Cosa Nostra e il fidanzato stava diventando anche lui un picciotto.

A Partanna, così come ad Alcamo e nell’intera provincia, erano però scoppiate le guerre di mafia. I sanguinari corleonesi volevano in tutti i mandamenti solo uomini fidati e stavano cercando di spazzare via tutte le vecchie famiglie. A contendersi la Valle del Belice ce n’erano due: gli Ingolia e i Cannata. Questi ultimi però molto più potenti e con l’aiuto dei corleonesi in piena ascesa in tutta la Sicilia, stavano vincendo la guerra di mafia a via di omicidi ed agguati.

Saranno decine e decine i morti in quella città fra il 1987 e il 1991. Tra questi anche il paciere di Partanna Don Vito Atria, il padre di Rita, ucciso due giorni dopo il matrimonio del figlio Nicola con Piera Aiello. Nicola era nervoso quei giorni. Voleva vendicarsi, costi quel che costi. Rita era distrutta, riversava tutto il suo affetto e la devozione verso di lui. Nicola così le parlava delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, del movente, di chi comanda in paese, delle gerarchie, di chi tira le fila…. Rita era solo una ragazzina di diciassette anni ma stava diventando custode di segreti più grandi di lei.

Nicola però non fa in tempo a vendicarsi perché anche lui verrà ucciso il 24 giugno 1991. Sua moglie Piera, una schifosa collaboratrice di giustizia. Rita ormai non ha più nessuno, resta sola. Non si vuole arrendere come ha fatto sua madre. Condividendo tutto quello che stava facendo la cognata, decide di darsi da fare anche lei. Non può più tollerare i silenzi omertosi della mamma. “ Io sono solo una ragazzina che vuole fare giustizia” scrive nel suo diario mentre i mafiosi di Partanna continuano ad uccidersi nelle strade del paese.-

Il 5 novembre 1991 Rita esce di casa. Invece di andare a scuola va dritta nell’ufficio di Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala. “Mi chiamo Rita Atria e mi presento alla signoria vostra per fornire notizie e circostanze legate alla morte di mio fratello e all’uccisione di mio padre” dice emozionata al giudice.

Borsellino inizia ad ascoltarla attentamente. Rita parla e tantissime persone finiscono in manette. In paese tutti ora la odiano e anche la madre non ne vuole più sapere di quella figlia che parla con gli sbirri. Borsellino sempre più preoccupato per le sorti della picciridda le dice chiaramente “Piglia una cartina dell’Italia, taglia il triangolino della Sicilia e buttalo via per sempre. La Sicilia la devi dimenticare ! “

Rita così ora vive a Roma. Pensa continuamente a Paolo Borsellino dedicandogli tante pagine nel suo diario. Anche il giudice ormai la considera come una figlia e fa di tutto per andarla a trovare a Roma. In quei famosi 57 giorni dalla morte di Falcone , Borsellino và due volte a trovarla . “Chissà come sta la picciridda ? “ si chiedeva ogni qual volta i mass media davano brutte notizie.

Il 19 luglio 1992 purtroppo anche Borsellino salta in aria. Rita apprende la notizia dalla televisione. E’ crollato il suo mondo Lo “zio” Paolo non ci sarà più a difenderla da tutto e tutti. Scrive nel suo diario: “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.”

E’ passata una settimana dalla strage di Via d’Amelio e a casa di Rita non c’è nessuno. E’ Sola. Osserva con le lacrime agli occhi la luce proveniente dalla finestra e si avvicina a piccoli passi. Dopo pochi minuti si butta giù. E’ il 26 luglio 1992. Il suo corpo verrà trovato sul selciato sotto quella finestra al penultimo piano di viale Amelia. La caduta l’ha uccisa.

Qualche tempo dopo i funerali , la madre ha preso un martello e ha fracassato senza pietà la lapide sulla tomba della figlia. Eccola la mafia, quel cancro così letale che distrugge anche il rapporto speciale tra madre e figlia.-

 A  Roma:

È notte e nel cielo c’è soltanto silenzio
e un gran buio la città intorno a me è ancora sveglia e piena di luci
ascolto ma non sento
Quella città è troppo lontana da me o forse io da lei
Comunque sia non sapere qual è la mia città mi fa solo capire
quanto sia dolce il dolore che ci lega ai suoi ricordi.


La ragazza che disse no alla mafia. Un fiore per Rita

Un anniversario, un altro di quel terribile 1992 delle stragi, e una tomba senza nome nel cimitero di Partanna. Ma anche il ricordo di tante persone che oggi a quella tomba daranno finalmente un nome. Quello di Rita Atria, neanche 18 anni, testimone di giustizia, morta drammaticamente il 26 luglio 1992 una settimana dopo Paolo Borsellino, non solo il magistrato al quale aveva affidato, con fiducia, la sua testimonianza, ma molto di più, quel padre che non aveva mai avuto.Perché Rita nasce in una famiglia mafiosa di Partanna. Per anni vive tra violenza e omertà. Ad appena 11 anni le uccidono il padre. Ma anche lei accetta, ascolta in silenzio, tiene tutto dentro, come accade ancora – per fortuna sempre meno – ad alcune donne del Sud, donne di famiglie mafiose. Anche a scuola recita bene il suo ruolo di «donna d’onore», soprattutto con le compagne. Ma è proprio la scuola a far scattare in lei i primi dubbi. Già, aveva proprio ragione il giudice Antonino Caponnetto, “padre” del pool di Palermo: «La mafia ha più paura della scuola che dei giudici». E la scuola, con l’incontro con bravi e motivati insegnanti (quanti ce ne sono nella scuola italiana…), scava il cuore di Rita. Non è più piena delle “certezze” inculcate dai suoi e dalla loro cerchia. E dopo la morte di Giovanni Falcone scrive in un tema dedicato proprio alla strage: «L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti». Riflessioni, pensieri. Già profondamente eversivi per il sistema, allora asfissiante, di “cosa nostra”.Poi, quando viene ucciso anche il fratello, al quale era profondamente legata, e la cognata Piera Aiello, poco più grande di lei, decide di fidarsi e affidarsi alla magistratura, anche lei fa il salto, il primo e più netto. Va e racconta tutto. Non collaboratrice di giustizia, perché lei non ha mai avuto parte in alcun delitto, ma testimone di quello che ha visto e sentito. Memoria giovane, ricordi precisi. Tutte quei racconti ascoltati in silenzio ora trovano finalmente voce. A raccoglierli due magistrati bravi e sensibili, Alessandra Camassa e Paolo Borsellino. Un rapporto che va oltre la formalità giudiziaria, soprattutto con l’allora procuratore di Marsala. Ritrova un padre, forse quello che non ha mai avuto, e in Agnese Borsellino quella madre che, dopo la sua scelta di testimoniare, l’ha rinnegata. Rita è di famiglia a casa Borsellino, Agnese le fa piccoli regali come alle figlie, Paolo capisce il suo tormento e accompagna con delicatezza il suo cammino di cambiamento. «Picciridda», la chiama.È un’altra vita, forse la vera vita per la ragazza. Così piano piano quella sua ricerca di vendetta per la morte dei cari, ancora retaggio della cultura mafiosa, si trasforma in altro. Molto più profondo. «Forse – scrive ancora – un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo». Poi il distacco. Borsellino a Palermo e Rita a Roma, in una casa protetta dalle Forze dell’ordine. Perché quanto ha raccontato è davvero importante e la mafia sa come vendicarsi. Ma c’è tempo. Prima tocca al magistrato. Quel 19 luglio, con la strage di via D’Amelio, la nuova vita di Rita – chiusa, ironia della sorte, in via Amelia – precipita di nuovo nel buio. Ma nel suo diario vuole lasciare ancora un grido di speranza: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci».Ma il dolore è troppo e aggiunge: «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta». Così, sette giorni dopo, sceglie di fermare i suoi giovani anni.ola Rita, ma non giù sul selciato di quella grigia strada romana, tanto lontana dai colori della sua terra. Vola in alto, raccolta tra le braccia del Signore al quale più volte si è rivolta nel diario. Accanto al suo “papà” Paolo, anche lei vittima innocente di mafia. C’è tragicamente pace per questa ragazzina tenacemente coraggiosa. Ma non c’è nella sua Partanna. Rita è ancora un’infame. La madre, decisione terribile, spezza la lapide della sua tomba. E da allora nessuno la sostituisce. Una tomba senza nome. Solo una foto, ma truccata per farla sembrare più vecchia dei suoi 17 anni. Così per vent’anni. Ma c’è chi non la dimentica e ogni anno, il 21 marzo, “Giornata della memoria e dell’impegno” promossa da Libera, ripete il suo nome assieme a quelli di centinaia di vittime della mafia. E chi ogni 26 luglio porta un fiore su quella tomba ignota. Non l’ha dimenticata Piera che, ancora sotto protezione, racconta a tanti giovani quella storia che la mafia vorrebbe far dimenticare.Non va dimenticata la piccola forte ragazzina di Partanna. Non va cancellato il suo nome. Così dopo l’estate nascerà la cooperativa Rita Atria, promossa dalla diocesi di Mazara del Vallo e da Libera, col sostegno del progetto Policoro della Cei, per coltivare terreni confiscati alla mafia. Proprio quella che Rita scelse di combattere. Un lavoro pulito per giovani siciliani come lei. E quel nome, scritto su una lapide, sarà portato oggi al cimitero da tante persone, accompagnate dal vescovo Domenico Mogavero e da don Luigi Ciotti. Resterà però solo all’ingresso perché la famiglia continua a non volere quel nome sulla tomba. Quel nome, quella giovane vita che in una celebrazione eucaristica sarà nuovamente affidato al Signore. Anche come «segno di pacificazione e riconciliazione per questo Paese» spiega monsignor Mogavero. Vent’anni dopo. Perché ogni uomo, ogni donna, ha diritto al suo nome. Alla sua storia e alla sua identità. Anche la piccola Rita che la mafia voleva cancellare ma che con le sue scelte è rimasta e rimarrà nella nostra memoria. Una memoria che proprio nel suo nome si fa impegno e speranza.


UNA DONNA CONTRO L’ OMERTA’

Faceva una vita da reclusa, si sentiva abbandonata. Senza padre, senza fratello, con una madre che l’ aveva ripudiata, prigioniera in un anonimo appartamento di una città lontana dal suo paese, lontana dalla Sicilia. E adesso non c’ era più neanche lui, il magistrato che le era stato vicino in questi ultimi terribili mesi. Per morire ha scelto un pomeriggio di domenica. Il pomeriggio della domenica dopo, alla stessa ora, pochi minuti prima delle 17. Povera Rita, povera disperata Rita che a diciotto anni è volata nel vuoto lasciando sul comodino della stanza da letto due righe di addio: “Sono rimasta sconvolta dall’ uccisione del procuratore Borsellino, adesso non c’ è più chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio più…”. Anche lei aveva annunciato la sua morte. Appena due giorni prima, venerdì: “Piera, se me ne vado non piangere, non provare dolore..”. Piera, sua cognata, altra ragazza guardata a vista dai carabinieri, altra giovane donna che aveva confidato i segreti della “famiglia”. Povera gracile Rita senza più voglia di vivere. Questa è la storia di Rita Atria, nata a Partanna, valle del Belice, nell’ anno 1974. Ragazza siciliana, minuta, piccolina, un bel viso ovale, occhi neri, capelli castani. Suo padre, Vito, era un pastore. Uno di quelli che stava dentro la vecchia, ferocissima mafia di quella zona. Stava, perchè è morto. Ucciso la mattina del 18 novembre del 1985 fra le vigne della campagna trapanese. Regolamenti di conti tra bande, si disse allora. Il maschio della famiglia era Nicolò, il ragazzo giurò di vendicare la morte del genitore. E ne parlava in giro, ne parlava sempre finchè uccisero anche lui. A Montevago, provincia di Agrigento, dentro la pizzeria che aveva appena aperto. Colpi di lupara, era il 24 giugno del 1991. E’ in quell’ estate, negli ultimi giorni del luglio dell’ anno scorso, che nel paese di Partanna accade qualcosa che non era neanche immaginabile, qualcosa che stravolge tutte le regole di una comunità. Sono le donne della “famiglia”, tre donne, che decidono di rompere il silenzio. La prima si chiama Rosalba Triolo, ha 21 anni, è la compagna di un killer che uccide per 500 mila lire. La seconda è Piera Aiello, ha 24 anni e una figlia di 3 rimasta senza papà. La terza è lei, è Rita, la figlia del pastore. La caserma dei carabinieri Le tre ragazze bussano alla porta di una caserma dei carabinieri, un maresciallo le porta da Paolo Borsellino, il procuratore capo di Marsala. E il magistrato le ascolta, le interroga, poi affida l’ inchiesta a due giovani colleghe, Alessandra Camassa della procura di Marsala e Morena Plazzi della procura di Sciacca. Donne che si confessano con altre donne, donne che si fidano di altre donne. In Sicilia, sulla strada che da Partanna porta verso il mare africano, in una terra inesplorata e mai violata dalle indagini antimafia prende forma una delle ultime inchieste partite dalla stanza del procuratore Borsellino. Nella stessa stanza dove un giorno entra Rita Atria con quella sua aria un po’ timida, con il coraggio che aveva dentro il cuore. E parla, parla, racconta almeno dieci anni di frasi sentite dal padre o dal fratello, di discorsi fatti a tavola, di strani incontri, di nomi pronunciati a bassa voce, di uomini politici coinvolti in omicidi, di minacce, di paure. E’ la sua vita che Rita affida a Borsellino e alle due giovani donne magistrato. Rita si ribella, si rivolta anche contro la madre Anna che non vuole più vederla quando lei entra in una caserma dei carabinieri, una madre che oggi probabilmente non andrà neanche a riprendersi il cadavere della figlia “pentita”. Comincia in quei giorni l’ odissea di Rita, dai carabinieri ai giudici, dai giudici ai “protettori” dell’ alto commissariato da Partanna a Roma. Mesi di solitudine, passati al settimo piano di un palazzone di Roma nel quartiere Tuscolano. In compagnia solo di Piera, la moglie di Nicolò. Piera che aveva fatto la sua stessa scelta, Piera che aveva deciso di svelare i segreti che il marito le aveva lasciato. Un legame stretto fra le due donne, un legame che si era rafforzato fuori dalla Sicilia. Sempre unite, sempre insieme, tranne in un’ occasione. Erano i primi di giugno di quest’ anno e Rita voleva tornare a tutti i costi in Sicilia. “Devo farlo, devo scendere a fare gli esami…”. La storia la racconta sulle pagine de “La Sicilia” il professore Salvatore Girgenti, insegnante di Lettere all’ Istituto Alberghiero di Erice. “Io ero commissario di esami e Rita mi è venuta incontro una mattina accompagnata da 4 carabinieri armati…”. La ragazza doveva sostenere come “esterna” gli esami. Ricorda ancora il professore Girgenti: “Quando l’ ho vista ho chiesto in giro cosa mai avesse combinato per venire in aula circondata dai carabinieri…nessuno mi ha risposto, poi ho letto il tema di Rita, il titolo era…cosa ti ha colpito di più…Lei ha fatto un tema sulla morte di Falcone. Il racconto del professore Fra le righe si leggeva la speranza, scriveva che bisognava credere nei giovani, scriveva che bisognava infrangere il muro dell’ omertà”. Poi il professore Girgenti pensa a quando ha interrogato Rita: “I carabinieri sono rimasti fuori, io le ho chiesto: ‘ Ma perchè sei scortata, cosa hai fatto?. E lei mi ha risposto: ‘ Professore non glielo posso dire, è una cosa importante, lei lo saprà presto’ . E qualche settimana dopo l’ ho saputo…”. Qualche settimana dopo, di notte, decine di mafiosi cadono nella rete dei carabinieri. E’ la prima retata nella zona del Belice dopo anni di inerzia investigativa, si ricostruisce la faida fra il capomafia Stefano Accardo della cosca dei “Cannata” e gli Ingoglia. Parlano le tre donne e i cancelli delle case circondariali si aprono. Piera Aiello ricorda di avere visto suo marito Nicolò morirgli tra le braccia e fa i nomi dei killer, parla della figlia Vita Maria (“Piange, piange sempre…”), giura che prima o poi diventerà una poliziotta. E poi c’ è Rosalba Triolo che confessa i peccati del suo amante Carlo Favara: “Uccideva anche per mezzo milione…tutti gli omicidi avvennero per ordine degli Accardo, ricordo anche che per ammazzare Antonino Russo gli diedero 2 milioni…”. E poi c’ è Rita che racconta al giudice Alessandra Camassa anche il movente dell’ uccisione di un potente dc di Partanna, il vicesindaco Stefano Nastasi. Un delitto legato alla “volontà dell’ onorevole Culicchia di restare sindaco del paese, onde a continuare a gestire il potere, anche economico, e scongiurare il pericolo che il Nastasi potesse scoprire gli illeciti e le sistematiche ruberie ascrivibili al Culicchia”. Una confessione che ha convinto i magistrati a chiedere un’ autorizzazione a procedere (poi concessa) per omicidio e associazione mafiosa contro Vincenzo Culicchia, deputato dc e per quasi 30 sindaco di Partanna. Ma Rita parla anche della madre Anna Trinciari, parla della moglie del pastore che non vuole più incontrare la figlia. Dalle parti di contrada Camarro, nella campagne dove una volta viveva la famiglia di Vito Atria, si dice che la madre di Rita si sia ritirata in un convento. E lei, Rita, prima di morire, avrebbe anche confidato alla sua amica Piera di non volerla vedere più. Nemmeno davanti all’ altare della Madonna delle Grazie, la chiesa madre di Partanna dove domani un vecchio parroco celebrerà il funerale di una ragazza della Valle del Belice . – ATTILIO BOLZONI  29 luglio 1992 LA REPUBBLICA 


28 luglio 1992 SUICIDA UNA CONFIDENTE DI BORSELLINO


«Tu chiamami zio Paolo»

Nel 1985, a 18 anni, Piera Aiello sposa Nicolò Atria. Poco giorni dopo il suocero Vito, boss mafioso di Partanna, in provincia di Trapani, è assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca al marito. Piera decide di testimoniare. Ad ascoltarla c’è Paolo Borsellino. A 25 anni dall’omicidio del magistrato antimafia, le parole della prima testimone di giustizia italiana

«All’epoca ero una paesanella, non sapevo neppure il significato del termine procuratore della Repubblica», racconta Piera Aiello, ricordando il suo primo incontro con Borsellino. Piera ha 24 anni e una bambina di tre. Alcuni mesi dopo anche Rita Atria, sua cognata, allora 17enne, decide di testimoniare. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala. Paolo Borsellino diventa un punto di riferimento per entrambe. Il 19 luglio 1992 il magistrato è ucciso da un’autobomba, insieme alla sua scorta, in via d’Amelio a Palermo. Una settimana dopo Rita Atria, che non riesce a reggere il dolore, si toglie la vita a Roma. Da allora sono passati 25 anni. Piera Aiello ha una nuova identità, una nuova famiglia, un lavoro. La incontriamo a Berna, alla Casa d’Italia, dov’è venuta a raccontare la sua storia. Nonostante quel che ha vissuto, è una donna affabile, sorridente, solare. Nelle sue parole non c’è rimpianto. Semmai amarezza per uno Stato troppe volte assente, anche nei confronti dei testimoni di giustizia.

Signora Aiello, nel 1991 lei ha deciso di testimoniare contro gli assassini di suo marito. Cosa l’ha spinta a fare quella scelta? Sapeva a cosa stava per andare incontro?

Piera Aiello: Dopo l’omicidio di mio marito, dopo i vari omicidi successi nel mio paese, a un certo punto ho detto basta. Non era possibile continuare così. C’erano troppi orfani, troppe vedove, troppe donne con il fazzoletto nero in testa. Siccome avevo riconosciuto gli assassini di mio marito e avevo vissuto tanti anni in silenzio, scrivendo molte cose nei miei diari, ho deciso di parlare. All’inizio pensavo addirittura che sarei andata dai carabinieri, avrei fatto la mia denuncia e sarei tornata a casa. Poi però Francesco Custode, un maresciallo dei carabinieri, mi ha portata a Terrasini, per incontrare Paolo Borsellino. Borsellino mi ha detto: «Voglio che tu sappia quello a cui vai incontro. Denunciando queste persone non potrai più tornare a casa. Però avrai un protezione adeguata. Ti do tre giorni di tempo per pensarci». Ho risposto di non avere bisogno di tre giorni per decidere, ma solo per raccogliere le cose che mi servivano. Avevo già deciso. Così è iniziata la mia storia di testimone. Ma allora non esisteva ancora la figura di testimone di giustizia, la legge è arrivata solo nel 2001. All’inizio sono stata inserita nel programma dei collaboratori di giustizia.

Per la sua scelta la figura di Paolo Borsellino è stata fondamentale, Qual era il suo rapporto con lui?

Più che un giudice Paolo Borsellino è stato un amico, un fratello maggiore, è stata la spalla su cui abbiamo pianto, gridato, inveito, riso, scherzato.​​​ Il mio primo incontro con lui è stato quasi comico. Io ero una paesanella, per me la massima autorità era il maresciallo del paese. Non conoscevo neppure il significato del termine procuratore della Repubblica. E quando vado a Terrasini e lo vedo seduto alla scrivania con l’eterna sigaretta in bocca, non so cosa dirgli. Lui vedendomi in imbarazzo, mi dice: «Piacere, Paolo Borsellino». Siccome aveva un accento palermitano molto marcato, io rispondo: «Veramente lei con questo accento mi sembra un mafioso».  E lui si mette a ridere. Capivo che era una persona importante. Siccome nel mio paese tutte le persone importanti si facevano chiamare onorevoli, io faccio: «Senta, scusi onorevole.» Lui si gira: «Alt! Prima mi hai chiamato mafioso, ora onorevole. Con tutto il rispetto per la categoria, mi guardo bene dall’essere un onorevole. Sono un semplice procuratore della Repubblica. Ma tu chiamami zio Paolo.» Così l’ho sempre chiamato zio Paolo. E lui per me è stato veramente un caro zio, un amico, una persona fondamentale nei momenti di scoramento. I primi tempi sono i più difficili, perché lasci la famiglia, lasci gli affetti, lasci tutto.

Lei ha iniziato a testimoniare nel luglio del 1991. Un anno dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati uccisi. Come ha vissuto quei momenti drammatici?

È stata un’esperienza devastante. Falcone non lo conoscevo, ma sapevo che era molto amico di Borsellino. Dopo la strage di Capaci ho cominciato davvero a preoccuparmi, a pregare giorno e notte, anche perché lui stesso diceva: «Il prossimo sarò io.» Però non ero preparata alla sua morte. Per Rita e per me è stato terribile, lui era una persona a cui potevamo rivolgerci quando c’erano dei problemi e ci dava sempre conforto. Poi ho visto sorgere tutti questi movimenti di solidarietà, a Palermo e altrove. Era segno che tanta gente gli voleva bene. Però mi sono anche sempre chiesta: tutta questa gente quando Falcone e Borsellino erano vivi e venivano criticati e boicottati? Dov’era?

Sua cognata, Rita Atria, non ha retto alla morte di Borsellino. Lei dove ha trovato la forza di andare avanti?

Fra Rita e me c’era un grande differenza. Rita aveva me, ma non aveva una famiglia che la sosteneva. La mia famiglia invece non mi ha mai abbandonata. In questi casi la famiglia è molto importante. Rita amava suo padre e suo fratello, anche se diceva: «Lo so, mio padre è un mafioso, mio fratello è un delinquente.» La madre l’ha rinnegata. Rita si è trovata sola. Ricordo una sua frase: «Tutte le persone che io amo alla fine vengono ammazzate, che siano dalla parte giusta o dalla parte sbagliata.» Quando ha iniziato a testimoniare, Rita l’ha fatto per vendetta. Poi quando ha conosciuto Borsellino ha capito che la vendetta non portava a nulla. Da lui ha imparato tantissimo. Si è sentita di nuovo figlia. Quando è morto ha perso il suo punto di riferimento. “Oggi corro più rischi di vent’anni fa, perché molti di quelli che ho fatto condannare sono fuori dal carcere”.

Com’è la sua vita quotidiana? Ha paura per sé, per la sua famiglia? 

Vivo in una località protetta, con videosorveglianza. Vado a lavorare e ho una scorta. Ma cerco comunque di vivere una vita tranquilla, di passare momenti felici con la mia famiglia. Non mi sento sicura al cento per cento, la certezza non te la può dare nessuno. Anzi, poco tempo fa ho chiesto un’analisi di rischio: oggi corro più rischi di vent’anni fa, perché molti di quelli che ho fatto condannare sono fuori dal carcere. Ma ho imparato a convivere con questa situazione. Ho timori, ma non per la mia vita, piuttosto per la mia famiglia.

Da 26 anni lei vive una vita sotto protezione, ha fatto parte del programma per i testimoni di giustizia, ne è uscita, oggi ha nuove generalità. Qual è stata la sua esperienza a fianco delle istituzioni in questi anni?

Chi ci doveva aiutare, chi ci doveva proteggere, molte volte è stato assente, indifferente. Il fatto di essere testimone non dovrebbe voler dire che regali completamente la tua vita allo Stato. Hai bisogno e diritto di ricostruirti una vita. “La verità è che spesso siamo stati trattati come arance: quando le hai spremute, poi le butti via”. Io sono una delle poche testimoni che è riuscita a ricostruirsi una vita, perché ho ripreso tutto nelle mie mani, a muso duro. Ho deciso che non potevo avere un altro padre, un padre ce l’ho già. Lo Stato non mi può fare da padre, mi può solo accompagnare a una nuova vita. Molti di noi hanno lasciato attività commerciali, case, hanno lasciato tutto. Il minimo che lo Stato ci possa dare è la dignità lavorativa. Abbiamo combattuto per vent’anni per avere un posto di lavoro, per ottenere una legge regionale siciliana e anche una legge nazionale. Ora la legge regionale siciliana ha già collocato una quarantina di testimoni nelle sedi regionali ed extra regionali, ma la legge nazionale ancora non è stata applicata e sa perché? Perché non ci sono i soldi! Chi è stato al governo magari per due anni quando esce riceve un vitalizio. E chi invece dà la vita per lo Stato, non merita neanche un posto di lavoro, una sicurezza economica? Noi non abbiamo chiesto vitalizi, abbiamo solo chiesto di tornare a lavorare. La verità è che spesso siamo stati trattati come arance: quando le hai spremute, poi le butti via. Così si è comportato lo Stato con i testimoni. Con tutto ciò però, continuo a ribadire che ognuno di noi deve avere una coscienza. Se tornassi indietro, testimonierei di nuovo, ma andrei dove voglio io, non mi affiderei allo Stato.

Testimoni di giustizia

Il testimone di giustizia è una figura prevista dall’ordinamento giuridico italiano. Si tratta di una persona che non ha commesso alcun reato – e anzi spesso ne è vittima – e ha deciso di collaborare con la magistratura fornendo informazioni utili alle indagini, mettendo a rischio la vita propria e quella dei propri famigliari in misura tale da rendere insufficienti le normali misure di pubblica sicurezza.
La figura di testimone di giustizia, anche se esisteva già in precedenza, è stata riconosciuta sul piano legislativo solo nel 2001. In precedenza i testimoni di giustizia erano assimilati ai collaboratori di giustizia (i cosiddetti «pentiti»). I testimoni di giustizia hanno diritto a misure di protezione e di sostegno economico.
Una legge del 2013 prevede la possibilità per i testimoni di giustizia di essere assunti dalla pubblica amministrazione. Nel marzo 2017 la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge che offre loro, tra l’altro, maggiore autonomia economica. Le legge deve ancora essere dibattuta in Senato. I testimoni di giustizia in Italia sono un’ottantina, a fianco di circa 1300 collaboratori di giustizia. Compresi i familiari, lo Stato italiano protegge oltre 6500 persone su tutto il territorio nazionale.

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