La ‘ndrangheta all’Università di Messina: la ramificazione dei Piromalli tra esami pilotati e legami mafiosi

 

 

È una storia di potere, silenzi e collusioni quella che emerge dall’inchiesta “Res-Tauro”, che ha disvelato il radicamento della cosca Piromalli, storicamente egemone nella Piana di Gioia Tauro, anche all’interno dell’Università di Messina. Un’infiltrazione silenziosa ma capillare, che ha prodotto negli anni un sistema di condizionamento e controllo sul percorso universitario e sanitario, utilizzato per rafforzare la rete criminale e garantirsi “quadri” professionali compiacenti.

L’Università di Messina come terra di conquista

A raccontare l’intreccio tra i clan calabresi e l’ateneo messinese sono le carte dell’inchiesta, arricchite da intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Secondo quanto riportato nelle carte vi era un’intera famiglia legata ai Piromalli, i cui membri avrebbero conseguito la laurea in Medicina in circostanze fortemente sospette nel periodo in cui era presieduta dal prof. Salvatore Navarra.
Un dettaglio tutt’altro che trascurabile: Salvatore era il fratello di Michele Navarra, noto boss di Cosa Nostra soprannominato “Il Dottore” o “U Patri Nostra”, a testimonianza di quanto la convergenza tra le mafie e le istituzioni accademiche avesse assunto un carattere sistemico.

I 18 esami in un anno e il “favore” del boss detenuto

A fornire un tassello chiave alla vicenda è il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, medico anch’egli, che racconta una vicenda sconcertante: i fratelli vicini al clan avrebbero superato ben 18 esami universitari in un solo anno, nonostante «la loro scarsa preparazione». Il tutto grazie alla protezione di Domenico Piromalli, detto “Don Mommo”, detenuto proprio in quegli anni all’ospedale Piemonte di Messina. Qui, secondo quanto riferito, i Tripodi erano incaricati di assistere il boss durante il ricovero — un compito che avrebbe fruttato loro una laurea “accelerata”, grazie agli “agganci” con professori universitari compiacenti, tra cui proprio il prof. Navarra.

Una rete di controllo condivisa

Non si tratta di episodi isolati. Le udienze del processo “’Ndrangheta Stragista” hanno rafforzato il quadro: il collaboratore Cosimo Virgilio ha raccontato come, negli anni ’80, l’Università di Messina fosse oggetto di interesse e spartizione tra le principali famiglie mafiose calabresi e siciliane. Secondo Virgilio, oltre ai Piromalli e ai Mancuso, anche figure come il preside Caratozzolo e suo figlio sarebbero stati al centro di rapporti ambigui con la criminalità organizzata, in particolare con famiglie come i Borgese.
La gestione dell’università non era solo accademica, ma includeva un vero e proprio “mercato” di esami e carriere universitarie, come sottolineato dai collaboratori.

Il quartiere “nostro” di Messina: una propaggine calabrese

La penetrazione della ‘ndrangheta nella città dello Stretto, tuttavia, non si è limitata all’università. In una conversazione captata nel 2022 tra tre indagati dell’inchiesta Res-Tauro — Francesco Adornato, Pasquale Ferraro Randazzo e Giuseppe Ferraro — emerge un quadro preciso: Messina era considerata una “stazione portante” dei calabresi, una vera e propria base operativa. Adornato, uomo di fiducia dei Piromalli e con rapporti personali con Giuseppe Piromalli (classe ’45), spiega come, nonostante la presenza di proiezioni catanesi e palermitane, fosse stato stabilito un accordo: la città doveva essere gestita dai calabresi.

Un equilibrio mafioso, un filo rosso che ha retto per decenni, favorendo l’espansione della ‘ndrangheta e la sua capacità di infiltrarsi nelle istituzioni civili, sanitarie e accademiche.

Conclusione: la necessità di guardare oltre i confini regionali

L’inchiesta Res-Tauro ci costringe a prendere atto di un dato tanto evidente quanto spesso rimosso: la ‘ndrangheta non è più da tempo un fenomeno circoscritto alla Calabria. La sua capacità di insinuarsi nei gangli vitali delle istituzioni pubbliche, anche a centinaia di chilometri di distanza, è la chiave del suo potere.

La vicenda dell’Università di Messina – in cui esami, lauree e percorsi di carriera venivano manipolati per favorire i sodali del clan – è solo una delle manifestazioni di un sistema ben più ampio. Un sistema che ha saputo costruire la sua forza non solo con la violenza, ma con l’infiltrazione, il silenzio e la complicità.
Il mondo accademico, così come quello sanitario, appare in questo contesto non solo vittima, ma in parte anche strumento di una pericolosa ragnatela criminale. Elisa Barresi


Le mani della ‘ndrangheta in Sicilia, l’ateneo di Messina e le logge coperte

 

La cerniera che unisce lo Stretto potrebbe essere costituita dai legami garantiti dalla comune appartenenza massonica di alcuni dei personaggi coinvolti nell’inchiesta (denominata “Rinascita-Scott”) che 48 ore fa ha mandato in cella oltre trecento persone, ritenute a vario titolo vicine alla ‘ndrangheta calabrese.

Una cerniera che unirebbe Calabria e Messina, ma anche un passe-partout di favori vari reciproci. La polaroid è stata scattata qualche giorno fa con il blitz messo a segno dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che ha disarticolato le cosche calabresi ramificate in tutta Italia.

Fra gli indagati, ad esempio, c’è Giuseppe Capizzi, costruttore nato a Bronte, ex candidato sindaco di Maletto e vincitore di appalti pubblici – anche in Sicilia – per svariati milioni di euro. Un nome notissimo alle falde dell’Etna, finito invischiato pure luinella maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta.

Tanti i nomi eccellenti coinvolti in questa operazione, come l’avvocato Giancarlo Pittelli, più volte parlamentare di Forza Italia tra il 2001 e il 2013 e poi dal 2017 esponente di Fratelli d’Italia.

Lo potremmo chiamare l’uomo dei due mondi. Un avvocato capace di mescolare “la massoneria più potente” e perfettamente inserito nelle famiglie della ndrangheta essenzialmente alla corte del clan Mancuso di Limbadi: “Accreditato nei circuiti della massoneria più potente, è stato in grado di far relazionare la ‘ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le istituzioni tutte, fungendo da passe partout del Mancuso, per il ruolo politico rivestito, per la sua fama professionale e di uomo stimato nelle relazioni sociali”. Si legge nelle carte di questa maxi operazione come le logge si insinuerebbero tra le istituzioni e la malavita in Calabria: un pentito di Milazzo, Biagio Grasso, tempo fa ha parlato con i pm di Messina raccontando come moltissimi colletti bianchi “incappucciati” interpretano quella mafia 2.0 che si sarebbe inserita nei salotti buoni della città.

Fra gli episodi citati nell’inchiesta, poi, ce n’è uno emblematico: proprio a Messina frequenta la facoltà di Medicina Teresa, la figlia del boss Luigi Mancuso, detto “supremo. La ragazza non riusciva a superare l’esame di Istologia alla facoltà di Medicina del Policlinico messinese.

L’avvocato Pitelli avrebbe garantito il proprio aiuto nei confronti  della figlia del boss, rintracciando il rettore dell’Università di Messina, Salvatore Cuzzocrea, attraverso suo cugino, l’avvocato Candido Bonaventura: “Ieri ero a Messina, vado a Messina, Teresa viene, la figlia viene all’aliscafo, al traghetto e dice…”avvocato, non riesco a superare Istologia ..perché è un professore stronzo” …le dico …”vieni con me tesoro, vieni con me”, vado all’università, chiamo l’avvocato Candido che è il cugino del nuovo Rettore, il rettore hanno fatto Cuzzocrea, che questo rettore io ho difeso il padre ad un processo che era l’ex rettore…e allora chiamo e dico “..inc…mi trovi tuo cugino per favore il rettore…eccetera” “si, guarda Giancarlo, dieci minuti e siamo al ristorante da te”, vengono davanti al Tribunale “Teresa vieni qua con me, sai chi è questo signore?” “si….il Rettore della mia università” “bravissima…bravissima… questa ragazzina scoppia a piangere e mi faceva “troppo avvocato. troppo avvocato troppo” si è messa a piangere Teresa, ma devi vedere che bella, che belle figlie, che bella famiglia…”.

Dei legami con la massoneria dell’avvocato Pitelli ne parla anche il pentito Cosimo Virgiglio, imprenditore di Rosarno attivo nell’import-export, vicinissimo al defunto boss di Gioia Tauro, Rocco Molè, ucciso nel 2008: il collaboratore di giustizia avrebbe svelato scenari del tutto inediti nel rapporto fra ‘ndrangheta e massoneria, risalenti tutti a diversi anni fa. Le sue conoscenze, infatti, si fermano al 2009, anno del suo arresto. Parla di logge ufficiali e di logge “coperte” e di come molti personaggi influenti facessero parte della cosiddetta Loggia dei Garibaldini d’Italia.

Lo stesso Giancarlo Pittelli avrebbe fatto parte di due logge, una ufficiale e pulita e un’altra deviata e coperta: “Premetto che io ero un massone, maestro venerabile…nella massoneria ero entrato a Messina, appena finita l’università, tra il 1990 e il 1993, all’interno del GOI; nello stesso periodo sono entrato a far parte del “SacroSepolcro”…l’avvocato PITTELLI aveva una doppia appartenenza, una “pulita” con il GOI del distretto catanzerese, e poi una Loggia coperta, “sussurrata”; lui aveva rapporti con quelli della Loggia di PETROLO di Vibo”.  Maurizio Zoppi IL SICILIA

 

 

‘NDRANGHETA