MAFIA E APPALTI: Articolo 5° Parte

MAFIA e APPALTI di Damiano Aliprandi  Alberto Di Pisa: «Borsellino ucciso per mafia-appalti»

«Proprio il giorno dell’attentato di Via D’Amelio Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». A raccontarlo a Il Dubbio è il dottor Alberto Di Pisa, magistrato di lungo corso che aveva fatto parte del pool antimafia fin dagli albori. Ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso. Ha svolto importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, iniziò il processo Ciancimino, che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Avviò anche una inchiesta sui grandi appalti di Palermo gestiti dall’allora ben noto “comitato d’affari”. Gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “corvo”.  In particolar modo l’inchiesta su mafia e appalti palermitani, passata di mano per volere dell’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco, finì per essere archiviata. Nel 2016, dopo 45 anni di attività giudiziaria, ha riposto la sua toga per limiti di età. A 72 anni ha lasciato l’ufficio di procuratore di Marsala, un posto che prima ancora fu occupato da Borsellino. Recentemente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Morti opportune” dove analizza alcuni decessi sospetti come i suicidi, infarti, incidenti stradali, ma che riguardano persone che appartengono alle forze dell’ordine e ai servizi segreti. Morti che sarebbero state archiviate troppo frettolosamente.

Dottor Di Pisa, lei conosceva molto bene Paolo Borsellino?

Sì, eravamo in ottimi rapporti. Sia al livello professionale visto che abbiamo lavorato assieme nel pool antimafia, sia al livello umano. Inoltre abbiamo anche una parentela in comune. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci. Eppure, per quanto riguarda Giovanni Falcone basterebbe leggere i verbali di quando fu sentito al Csm. Alla domanda quali fossero i rapporti con me, lui rispose che erano ottimi e professionali. Non solo, quando fu nominato procuratore aggiunto a Palermo, mi congratulai  con lui e mi disse che avremo lavorato insieme. Ritornando a Borsellino, sa cosa mi disse quando uscì l’articolo di Repubblica dove si scrisse che io sarei stato l’autore della lettera del “corvo”?

No, mi dica.

Mi disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi che quell’anonimo l’ho scritto io. Quella vicenda, mi creda, la vorrei cancellare dalla mia mente. Tutto iniziò quando Totuccio Contorno venne arrestato a San Nicola l’Arena. Arrivò segretamente a Palermo quando era già collaboratore di giustizia negli Stati Uniti. Era sotto protezione, ma giunse in Sicilia nel periodo in cui si stava verificando un regolamento di conti all’interno della mafia. Io stesso, in una riunione dove erano presenti tutti i miei colleghi del pool, dissi apertamente che bisognava fare delle indagini per capire come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia. Ricordo che proprio in quel periodo Tommaso Buscetta disse che Contorno è stato pregato di tornare a Palermo, ma poi ha ritrattato questa sua affermazione.

Poi arrivò la lettera del “corvo” che in sostanza puntò gravissime accuse nei confronti anche di Falcone e Giovanni De Gennaro, l’allora dirigente superiore della Polizia. A quel punto è stato lei a farne le spese.

Dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di essere il “corvo” di Palermo. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica mi prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una mia impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la mia impronta. Tra l’altro denunciai Sica per abuso di potere, perché quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo.

Ma secondo lei chi è stato l’autore del “corvo”?

Basta leggere la sentenza di assoluzione. Dice chiaro e tondo che queste lettere nascono da una faida interna alla Criminalpol. E infatti in quel periodo c’era uno scontro tra la squadra di De Gennaro e quella di Bruno Contrada. Il “corvo” bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece.

Ma come mai c’è stata la volontà di incastrarla?

In quel periodo avevo inchieste scottanti, tra le quali quella su mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera, con Leoluca Orlando sindaco. Ma in realtà appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi. In realtà non era cambiato nulla e Vito Ciancimino ancora contava. Inchieste che l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco me le tolse. Ancora non ero stato raggiunto da un avviso di garanzia per il Corvo, ma era bastato un articolo de La Repubblica contro di me – che giorni prima aveva invece avanzato sospetti per il ritorno di Contorno – per sospendermi. Quella sugli appalti fu affidato ad un collega della procura di Palermo che poi fece richiesta di archiviazione. In quel periodo, ad esempio, mi occupai anche della vicenda di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Scoprii che furono rilasciate dalla giunta comunale guidata da Salvatore Mantione centinaia di concessioni edilizie a Rosa Greco, sorella del boss Michele Greco. Fu una lottizzazione abusiva avvenuta in cambio di favori. Dopo anni uscì fuori che in questa operazione edilizia ci fu l’interessamento della Calcestruzzi di Ravenna del gruppo Gardini-Ferruzzi. In quel periodo chi toccava gli appalti veniva delegittimato oppure moriva.

Perché, chi è morto per gli appalti?

Sicuramente Paolo Borsellino. Non c’entra nulla la trattativa, perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in Procura se avesse appurato una cosa del genere. In realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia. Lui stesso si era incontrato con i Ros per discutere delle indagini relative al dossier.

A lei ne ha mai parlato?

No, ma ricordo che in una occasione – se non erro ai funerali di Falcone – gli chiesi se l’attentato fosse una strategia di “destabilizzazione”. Lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”. Le racconto un’altra circostanza. Quella domenica del 19 luglio Borsellino era passato da mio cognato che vive nella zona di Marina Longa, la località estiva dove Paolo ogni tanto, il fine settimana, andava. Lui sapeva che ci andavo pure io. Purtroppo non ho fatto in tempo a incrociarlo. Quando arrivai, mio cognato mi disse che Borsellino mi aveva cercato, anche con insistenza. Rimango con questa amarezza nel non averlo incrociato, chissà cosa mi avrebbe voluto dire con una certa urgenza.

A proposito di magistratura, il caso Palamara le ha sorpresa?

Io che provengo dall’esperienza della Procura dei veleni assolutamente no. Ho scritto recentemente nella mailing list dell’Associazione nazionale magistrati che questo sistema uscito ora, in realtà esiste da 30 anni. Ad esempio, tutti gli incarichi direttivi venivano sempre dati agli esponenti di Magistratura Democratica. Non dimentichiamoci di Falcone. Con la sola eccezione di Gian Carlo Caselli, tutta MD votò contro di lui come successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

Ma lei pensa che ora ci sia un cambiamento?

No. Non c’è la volontà politica di fare un cambiamento radicale del sistema. Ho letto il progetto di riforma e mi pare acqua fresca. D’altronde potrebbe esserci il rischio che Luca Palamara diventi l’unico colpevole, una sorta di capro espiatorio della magistratura e, infatti, la sua linea difensiva mi pare chiara. Ovvero che non è solo lui, ma un sistema generalizzato.


Mafia-appalti, Totò Riina voleva far uccidere Borsellino, prima ancora di Falcone

La prima parola chiave nelle cinquemila pagine di motivazioni della sentenza di primo grado sul processo trattativa Stato- mafia è “accelerazione”. Il concetto che la sentenza intende esprimere è che il contatto avuto dagli ufficiali ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, avrebbe accelerato la strage di via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Non ci sono prove oggettive, ma solo deduzioni logico fattuali. Nelle motivazioni della sentenza, in linea con la tesi della procura, si fa cenno a un passaggio di ciò che ha detto Totò Riina, intercettato nel 2013, al suo compagno durante l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. «Non era studiato da mesi, ma studiato alla giornata!», ha detto Riina al detenuto Alberto Lorusso riferendosi all’attentato. Elemento che rafforzerebbe, appunto, la tesi sull’accelerazione. Ma in realtà il motivo lo ha spiegato sempre Riina. Cosa nostra conosceva gli spostamenti di Paolo Borsellino perché aveva messo sotto controllo il telefono del giudice e della madre. Per questo il 19 luglio 1992 fu facile per boss e picciotti pianificare e mettere in atto la mattanza di via D’Amelio, sotto la casa della madre di Borsellino. «Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: “domani mamma vengo”», ha raccontato sempre l’ex capo dei capi.

Ma perché quell’attentato si è dovuto fare in giornata? Totò Riina ha spiegato che la sorella di Borsellino si accorse di qualcuno che stava mettendo mano alla centralina telefonica del palazzo della madre. Quindi ecco spiegato il motivo: per paura che la sorella si insospettisse e quindi potesse far fallire l’attentato, Riina dette l’ordine di attuarlo nell’immediato, quindi in giornata.

Ma la tesi dell’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio a causa della presunta trattativa Stato- mafia dovrebbe crollare definitivamente dal momentoche si era da tempo venuti a conoscenza di un fatto, per nulla riportato in maniera adeguata all’opinione pubblica. Prima ancora di uccidere Giovanni Falcone ( quindi molto prima che si avviasse la presunta trattativa), Cosa nostra aveva progettato l’eliminazione ‘ eclatante’ di Paolo Borsellino. Un progetto fallito per il rifiuto di alcuni componenti del clan marsalese. Sì, perché, per ordine di Riina, Borsellino doveva essere ucciso con un’autobomba a Marsala tra il ‘ 91 e i primi del ‘ 92. Lo stesso Riina, come si evince dalle trascrizioni delle conversazioni intercettate quando era al 41 bis, ha detto riferendosi a Borsellino: «Eh … sì, sì. Minchia. Ma poi era il numero, non so il numero due. secondo… di Magistrato era un potentoso Magistrato … come Falcone, perché erano amici insieme… e dovevano… avevano fatto carriera insieme, hanno fatto tutto insieme. Che era Procuratore… a… a … là a Trapani, a Marsala era Procuratore di Marsala… lui. Ha fatto diversi anni là a Marsala. Minchia, l’ho cercato ( in gergo mafioso “cercare” vuol dire uccidere, ndr) una vita a Marsala… mai agganciato. Mai. Mai. Minchia! L’ho cercato, lo cercavo… Ma picciotti sbrigatevi, vedete…».

Ciò che ha detto Riina confermano le rivelazioni dei pentiti Antonino Patti e Carlo Zichittella fatte nel 1996 che hanno consentito all’allora procura distrettuale di Palermo di emettere ottanta ordini di custodia cautelare. Antonino Patti, all’epoca 37enne, che si è autoaccusato di quaranta omicidi, ha raccontato che «a D’ Amico e Craparotta era stato chiesto se volessero cooperare all’omicidio di Borsellino, con modalità eclatanti, in particolare con un’autobomba. Craparotta e D’ Amico fecero sapere che non volevano organizzare un attentato “di tale gravità” a Marsala. Da quel giorno furono protetti da due guardiaspalle, ma furono fatti ugualmente sparire». Versione confermata anche dal pentito Carlo Zichitella.

Quest’ultimo, a distanza di decenni, non ha cambiato versione. A dicembre nel 2018 è stato sentito nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta contro il super latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Alle domande poste dal procuratore nisseno Gabriele Paci, il pentito ha ribadito che Borsellino doveva essere ucciso “con modalità eclatanti” ma i capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara del Vallo, si rifiutarono e per questo furono uccisi. Il motivo del rifiuto a Totò Riina venne giustificato dal clamore che avrebbe generato a Marsala un omicidio così eclatante, tanto da provocare la presenza massiccia di forze di polizia sul territorio.

Rispondendo sempre alla domanda del procuratore Paci su cosa intendesse per ‘ modalità eclatanti’, il pentito Zichitella ha aggiunto: «Non c’era un posto giusto dove si poteva fare. Nel tragitto che Borsellino faceva ogni giorno sarebbero morte anche altre decine e decine di persone e allora i marsalesi non ci stavano a questa storia qua e non hanno accettato. Loro dicevano che erano tranquilli lì a Marsala e chiesero di trovare un altro posto con meno clamore. Non ricordo se Borsellino all’epoca dormiva in caserma. Nel tragitto che faceva ogni giorno comunque era impossibile mettere una bomba». Quindi, secondo i piani, Borsellino sarebbe dovuto morire già quando era a Marsala e quindi prima di Falcone. Perché? Se da una parte c’è la tesi della presunta trattativa ( ma che sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone) come movente della strage, dall’altra c’è una sentenza definitiva dove i giudici hanno scritto nero su bianco che la concausa è da ritrovarsi nel filone mafia appalti.

In esclusiva Il Dubbio può rivelare che Paolo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, già chiese copia del dossier mafia- appalti che era appena stato depositato ( il 20 febbraio 1991 su spinta di Falcone) nella cassaforte della procura di Palermo. In un verbale di assunzione di informazione, si evince che nel 1998, innanzi all’allora sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Biagio Insacco, il capitano Raffaele Del Sole ha spiegato che dal 1987 al 1992 ha guidato la compagnia di Marzara del Vallo. Ha raccontato che su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti in Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”.

È probabile che il primo tentativo di attentato eclatante, poi fallito per via di una diserzione, sia da collegarsi proprio all’evidente interessamento di mafia- appalti? Di certo si tratta di un ulteriore tassello che smentisce categoricamente il passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado sulla trattativa, dove si scarta l’ipotesi mafia- appalti come movente, quando si scrive che Borsellino non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier.


Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini

Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.

Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.

Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».

La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.

Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.

Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.

Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino – avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.

Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».

Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 – la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.

Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.

Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».

Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati.


Di Pietro: «Paolo Borsellino ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia- appalti»

Un fiume in piena l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, sentito come teste – citato dalla difesa degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno – nell’ambito del processo d’appello sulla presunta trattativa stato- mafia.

«Che c’azzecca con la trattativa», ha sbottato ad un certo punto Di Pietro. In effetti nulla. Nel senso che l’ex magistrato, in qualità di testimone ha affermato che «Paolo Borsellino è stato ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia appalti». Però con la trattativa c’entra, nel senso che nelle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, il giudice della corte d’assise di Palermo Montalto ha sentenziato che non solo la trattativa ci sarebbe stata, ma che Borsellino sarebbe stato fatto fuori perché avrebbe potuto opporsi.

Ma non solo. Scartando l’ipotesi di mafia appalti, ha anche scritto che l’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier. Però varie testimonianze, atti pubblici come le audizioni al Csm e, non per ultimo, lo stesso Di Pietro, smentiscono tutto ciò. Borsellino aveva già avuto copia del dossier mafia appalti depositato dagli ex Ros per volere stesso di Falcone.

Non solo lo ha letto quando era ancora procuratore a Marsala, ma ha anche svolto indagini informali visto che l’ex procuratore capo della procura di Palermo Petro Giammanco non gli aveva dato la delega. Quest’ultima – come ha detto anche il legale della famiglia Borsellino durante il processo d’appello Borsellino Quater – gli sarebbe stata data da Giammanco, tramite una telefonata, la domenica mattina presto. Lo stesso giorno in cui verrà ucciso dalla mafia.

Ma ritorniamo alla testimonianza di Di Pietro. «Il primo che mi disse di fare presto – ha spiegato l’ex pm – e di chiudere il cerchio fu Paolo Borsellino. In quell’incontro, il giorno del funerale di Falcone, eravamo d’accordo di rivederci per stabilire dei collegamenti d’indagine». Poi ha sottolineato che «era presumibile che anche soggetti politici e istituzionali del Sud fossero coinvolti».

La conferma del collegamento affari- mafia, Di Pietro ha spiegato che l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini, una provvista da 150miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima». La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui.

Da ricordare l’intervista che gli fece Luca Rossi, quando parlò di una possibile connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cuiil primo era stato in qualche modo coinvolto e che il secondo stava studiando. Ma anche il nome di Gardini, in realtà, già appare proprio nel dossier mafia appalti, quando controllava la Calcetruzzi Spa, identificata dai Ros come quella collegata con la spartizione degli appalti tra mafia, imprese e politica. Imprese, appunto, che erano anche del Nord.

Tutto ciò trova conferma anche nella sentenza della Cassazione del 2012 che respinse la revisione del processo Panzavolta, ex ad della Calcestruzzi condannato per aver favorito i boss. La sentenza riporta in primo piano proprio i rapporti tra Gardini e Cosa nostra. Poi Gardini, già indagato per tangentopoli, si suicidò. Il suo gesto, ha spiegato durante il processo Di Pietro «è il dramma che mi porto dentro».

Nel luglio del 1993 «l’avvocato di Raul Gardini, che all’epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell’interrogatorio l’imprenditore tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l’arresto. E io dissi di aspettare», ha raccontato Di Pietro. La mattina dopo si uccise con un colpo di pistola.

L’esame di Di Pietro, come detto, ha ruotato soprattutto sul famoso dossier mafia appalti, e sui colloqui che ebbe con Paolo Borsellino prima e dopo la strage di Capaci. E su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruzione politico- amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché in quel dossier comparivano imprese del Nord, coinvolti nell’inchiesta Mani pulite.

Inchiesta che, all’epoca, lo porta ad avere «colloqui frequenti e approfonditi» con entrambi i magistrati uccisi nel ‘ 92. I primissimi rapporti sono stati con Falcone, che gli dice di puntare molto sulle rogatorie internazionali, «materia per me all’epoca sconosciuta – ha rivelato -. Lui mi fece un po’ da insegnante in questa prima fase, per poter realizzare al meglio queste rogatorie». Che sono importanti perché rappresentano «l’unico modo per ritrovare la provvista». Mani pulite, infatti, poggia su un presupposto nuovo per l’epoca: non indagare su chi prendeva la tangente, non solo almeno, ma su come si formava, a monte, la “provvista”.

E fu Giovanni Falcone, come ha rivelato l’ex pm, a dirgli: «Ma se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli appalti in Sicilia». Poi Falcone è stato ucciso a via Capaci, e Di Pietro continuò il discorso con Borsellino: «Dobbiamo fare presto, dobbiamo sbrigarci, dobbiamo andare di corsa», ha testimoniato sempre Di Pietro. Si accorda con Borsellino per incontrarsi e iniziare a coordinare le indagini che riguardavano tutto il territorio nazionale.

«Con Borsellino parlai poco, ma ho capito che stava andando in quella direzione. Anche se non sapevo dei suoi colloqui con Mutolo e del rapporto del Ros del ‘ 91. Io il bandolo della matassa l’ho ritrovato dopo, all’epoca del suicidio di Gardini», ha sottolineato l’ex pm di Mani Pulite. «Dopo la morte di Borsellino rimasi scosso – ha proseguito l’ex pm – avevo capito la diffusione del sistema, mi chiusi in me e continuai a indagare. Intanto, era arrivata una segnalazione del Ros, per una minaccia di attentato nei miei confronti. E con un ufficiale del Ros, di cui non ricordo il nome, andai a parlare in carcere con l’ex capo area della Rizzani De Eccher in Sicilia, il geometra Giuseppe Li Pera». Quell’ufficiale era l’allora capitano Giuseppe De Donno, rivela in aula il suo legale, l’avvocato Francesco Romito.

Di Pietro – incalzato dall’avvocato Basilio Milio, legale degli ex ros -, ha raccontato di aver subito delegittimazioni attraverso indagini contro di lui. «Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm», ha sottolineato Di Pietro. Il magistrato Salamone, fratello di Filippo più volte definito come il “re degli appalti”: quest’ultimo compariva anche nel famoso dossier dei Ros nato sotto l’impulso di Giovanni Falcone e al quale era interessato Borsellino.

La corte d’assise d’appello ha convocato Silvio Berlusconi che dovrà presentarsi, come chiesto dalla difesa di Marcello Dell’Utri, ma potrà avvalersi della facoltà di non rispondere.