La strage di via d’Amelio: “Paolo Borsellino e le brigate nere della Piovra”

di Giorgio Bocca 
La Repubblica 21 luglio 1992


Nel disfacimento di questo regime i mafiosi sembrano avere la parte sanguinaria e crepuscolare che nella repubblica di Salò ebbero le brigate nere

Non vedevo Paolo Borsellino da quattro anni, da quando lavorava con Falcone, Di Lello e Ayala al pool antimafia, piano terreno del Palazzo di giustizia, a Palermo, reparto di massima sicurezza e noi cronisti del continente vi entravamo con emozione e rispetto, era la prima volta che incontravamo uno Stato giovane e forte, un corpo di giudici crociati nella guerra contro la Mafia, una forte speranza nella Palermo che Durrenmatt ricorda “come rosa dalla lebbra”.

E invece, ora lo sappiamo, erano quei quattro gatti coraggiosi, invisi alla maggioranza dei quindici, gelosi della loro notorietà, preoccupati o infastiditi per la breccia che avevano aperto nella loro routine. L’ho rivisto nel dicembre scorso e in quell’incontro Borsellino mi ha spiegato le ragioni per cui è morto. Né presago né rassegnato, anzi ben deciso a battersi e persino ottimista. La prima ragione della morte sua e di Falcone è l’isolamento in cui vivono e operano i giudici coraggiosi.

Gli chiesi di come era stato combattuto e spaccato il pool antimafia e lui diceva, con quella sua capacità di storicizzare, di mettersi come fuori dalla vicenda: “Guardi, io non credo a un disegno politico che partiva da Andreotti e attraverso i Lima, i Vitalone e i Carnevale arrivava al Consiglio superiore della magistratura e da esso a Palermo. Forse è bastato il radicato vizio della corporazione, la regola principe dell’anzianità che fa grado, che ti permette di programmare una vita, che uccide il senso della responsabilità e copre tutto con la patina della routine.
Nel sangue della maggioranza dei magistrati c’è come un anticorpo per il magistrato diverso che osa, che fa, che inventa dove tutti tirano a campare. Si dice in giro che Corrado Carnevale è inviso ai giudici di merito, ai giudici giudicanti. Non è vero, è colui che gli ha suggerito gli strumenti garantisti e supergarantisti che gli consentono di atteggiarsi a giudici ‘ terzì imparziali esecutori della forma giuridica”. Già, ecco la prima ragione per cui i Borsellino e i Falcone muoiono e gli altri, molti altri, vanno avanti all’infinito senza mordere mai nel corpo velenoso della Mafia.

La seconda ragione per cui Falcone e Borsellino sono morti, Borsellino me la diceva nella sua casa, nel suo studio da notaio umbertino, da avvocato dannunziano come lo sono ancora, spesso le case degli italiani moderni e innovativi in tutto fuor che in quella scenografia casalinga, ed era l’uso dei pentiti, il passo decisivo nella lotta alla mafia che sono i pentiti. “Vede – diceva – i pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro ma vogliono che sia affidabile, che sappia davvero usarli per colpire i loro nemici. E’ un do ut des che ha i suoi rischi: loro vogliono vendetta, noi giustizia.
A Totuccio Contorno la Mafia ha ucciso quarantasei parenti, a Buscetta trentasei. Ma chi è il giudice a cui un pentito si rivolge? Un giudice tira a campare che si laverà le mani del loro caso e della loro sicurezza? No, è un giudice disposto a battersi. Ma un giudice che dispone di grandi pentiti agli occhi dei colleghi appare come un privilegiato, uno che fa un gioco scorretto. Di Falcone hanno detto addirittura che aveva fatto venire Contorno dagli Stati Uniti per uccidere i corleonesi, che lo lasciava libero perché uccidesse i corleonesi. Il giudice che sa guadagnarsi la fiducia dei pentiti è in lotta su due fronti: contro la Mafia per cui il pentito più che un testimone pericoloso è l’ eresia, l’ uscita dalla chiesa mafiosa e contro la corporazione”. Aveva perfettamente ragione Borsellino anche se non era per nulla presago, anche se era pieno di voglia di fare, di scoprire.

La terza ragione per cui Falcone e Borsellino sono stati uccisi è quella di cui ha parlato anche il presidente della Repubblica quando ha detto: lo Stato per essere credibile deve essere rappresentato da persone credibili. Ma questo non lo è, nel governo di questa Repubblica, nel Parlamento di questa Repubblica ci sono, e tutti le conoscono nome per nome, persone che sono lì per i voti della Mafia o della Camorra. Chiedevo a Borsellino: “Lei che idea si è fatta del rapporto politica- Mafia?” Diceva: “Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’ accordo.
Il terreno su cui si possono accordare è la spartizione dei beni pubblici, il profitto illegale sui lavori pubblici. Ecco perché i mafiosi e i camorristi hanno deciso di entrare nei municipi, nelle Usl, nelle province, nelle regioni e per noi giudici è sempre più difficile stare al passo di queste combinazioni, non è facile essere i difensori di uno Stato in cui molti, troppi sono amici dei mafiosi”.

Non è davvero facile. I colpi di mitra che hanno ucciso Lima e Ligato volevano dire: non si esce impunemente dalla nostra società. Le cariche di dinamite che hanno ucciso Falcone e Borsellino vogliono dire: nessuno si metta in testa in questo paese di fare sul serio la guerra alla Mafia. Nel disfacimento di questo regime i mafiosi sembrano avere la parte sanguinaria e crepuscolare che nella repubblica di Salò ebbero le brigate nere. Gli uomini di regime, i politici, tenevano pronto l’abito borghese per fuggire, avevano già trovato mezzi e amicizie per salvarsi, ma gli altri, quelli senza scampo continuavano a far strage. Sì, c’è un legame fra questo sistema che si estingue e la ferocia mafiosa.