Dal 28 giugno.
Piero Melati, giornalista e scrittore è nato a Palermo. È viceredattore capo del “Venerdì di Repubblica” e si occupa di attualità e cultura. Ha seguito per il giornale “L’Ora” di Palermo la guerra di mafia e il primo Maxiprocesso a Cosa Nostra. PIERO MELATI
Trent’anni in cerca della verità. Trent’anni nel nome di un’idea di giustizia da rivendicare con fermezza. Queste parole potrebbero riassumere la battaglia portata avanti dalla moglie di Paolo Borsellino, Agnese, e dai figli Lucia, Manfredi e Fiammetta per fare luce su uno degli avvenimenti più bui della nostra storia recente. Dopo la strage di via D’Amelio, infatti, al dolore per la perdita del grande magistrato e della sua scorta si è aggiunto l’ignobile capitolo del depistaggio nelle indagini sugli esecutori materiali del crimine, al quale ha fatto seguito un iter processuale lungo e tortuoso.
Anni di lacune e omissioni, bugie e negligenze. Eppure, i figli di Paolo Borsellino hanno affrontato questo difficile percorso con dignità e determinazione, rimanendo spesso lontani dai riflettori e prendendo le distanze dalle celebrazioni che si sono succedute nel corso dei decenni. Lo hanno fatto con sobrietà e rispetto delle istituzioni, fedeli ai princìpi e agli insegnamenti appresi da un uomo, e da un padre, che ha dedicato la sua vita alla lotta alla mafia. In queste pagine c’è la storia di una famiglia e del suo impegno per l’affermazione del «diritto alla verità», ma c’è anche un ritratto corale del giudice che Piero Melati tratteggia con l’aiuto di molte testimonianze, tra le quali spiccano i contributi inediti di Lucia e Fiammetta Borsellino.
Cucendo insieme ricordi e punti di vista diversi, questo libro illumina la figura di Paolo Borsellino da una prospettiva nuova e racconta – attraverso la voce dei protagonisti – «una delle pagine più vergognose e tragiche della storia giudiziaria italiana». E in questo modo ci esorta a raccogliere un’eredità preziosa, a partecipare attivamente alla ricerca della verità e all’affermazione della giustizia. Perché la storia di Paolo Borsellino e della sua famiglia è anche la nostra storia.
Incontro con Piero Melati, autore de “La notte della civetta. Storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia”? A Palermo Piero Melati ha presentato il suo ultimo saggio “La notte della civetta” (Zolfo, 2020).
Si è tenuto nei giorni scorsi un evento di interesse all’interno della manifestazione “I librai incontrano gli autori a Villa Filippina” a Palermo, iniziativa promossa dalla Associazione Librai Italiani diretta a rilanciare le librerie dopo i mesi della pandemia, in cui non si sono potuti organizzare manifestazioni. Piero Melati, giornalista affermato, già autore di Giorni di mafia (Laterza, 2017), vicedirettore de “Il Venerdì” di Repubblica, ha presentato il suo ultimo libro, La notte della civetta (Zolfo, 2020) insieme alla figlia del giudice Paolo Borsellino, Fiammetta, con la quale si è confrontata per i contenuti del volume. Contenuti amari di una realtà su cui ci si è interrogati spesso ma senza porsi le domande corrette e senza ottenere alcuna risposta, perché i fatti non sono stati osservati da una giusta prospettiva.
La notte della civetta è un libro che tratta eventi passati, ma inducendo a riflessioni sul presente. Quando si discute delle stragi di vittime di mafia, si trascurano quelle del periodo in cui la mafia compì quel salto di qualità con il commercio di eroina e la Sicilia divenne allora la raffineria mondiale di questa droga. Si tratta di un volume attuale, in quanto i temi trattati sono ancora presenti anche se non se ne discute quasi per nulla, seppure nel tempo sono mutate le diverse tipologie di droghe.
Quanto narrato è stato vissuto dall’autore prima come semplice cittadino e successivamente come cronista de “L’ORA”, che ha seguito la guerra di mafia e il primo Maxiprocesso a Cosa Nostra, gli omicidi eccellenti e quanto accaduto dopo le stragi. Nella prima parte, ragazzo degli anni Settanta, Melati assiste a un incrocio di eventi legati alla mafia e al terrorismo in anni in cui non si riesce a distinguere con nitidezza i rispettivi campi di azione. Melati ha raccontato come si sia imbattuto in una lettura di una ristampa dei discorsi del consigliere istruttore Rocco Chinnici, ucciso dalla Mafia con l’attentato clamoroso di stampo libanese, con un’autobomba davanti a casa sua in via Pipitone Federico. Occorre ricordare come il giudice Chinnici sia stato il fondatore del pool antimafia con Falcone e Borsellino ed è stato il primo a promuovere le inchieste sui livelli alti della mafia. Ma ebbe anche la prima idea che vi fosse dalla Sicilia un grande traffico internazionale di droga, osservando come alle fontanelle i ragazzi riempivano di acqua le siringhe con cui si sarebbero iniettata la droga. Inizia così a parlarne pubblicamente, ma viene considerato come un uomo ossessionato da questo fenomeno e ne parlava con i ragazzi nelle scuole e in vari consessi ove partecipava. Ma non veniva preso sul serio ed allora affermò decisamente come questi ragazzi, che prendevano la droga restando spesso vittime, erano da considerarsi anch’esse come vittime di mafia quanto gli uomini che sono stati uccisi direttamente dalla mafia.
Negli anni Settanta in Sicilia alla mafia venne l’idea di spostare nell’Isola le raffinerie che erano a Marsiglia. È un traffico internazionale che non viene scoperto e va avanti per anni e la Sicilia vive di un arricchimento indotto. Ecco che a un certo punto succede qualcosa: cominciano le prime inchieste, specie quelle di Boris Giuliano che scoprono l’esistenza di questo traffico.
Si era trasformato il modesto traffico di sigarette in qualcosa di più grosso quale il traffico internazionale di droga; ma il passaggio che cambia le cose in Sicilia, in Italia e in Europa avviene quando che si intercettano i primi carichi con l’America. Ecco allora che nasce l’idea di non rischiare più, investendo soldi per vendere questo prodotto negli States che rischia di essere intercettato negli aeroporti. Ci si chiede perché non diffonderlo nelle piazze dove si vive e questa idea o meglio consiglio o ordine lo danno dall’interno i Corleonesi, Totò Riina. Questi induce anche gli altri a seguirlo su questa strada, facendo prospettare i grossi guadagni, in ragione dei pochi che svolgono questo “affare” e per la vastità del mercato.
Quella che compie la mafia è un’operazione molto semplice: deve imporre il suo prodotto e fa sparire ogni altra droga dal mercato per cui si trova solo eroina spacciata solamente da quelli di Cosa Nostra. Ci si chiede quanti morti, che sono stati considerati vittime della guerra di Mafia, erano invece dei piccoli spacciatori eliminati in quanto non aderenti a Cosa Nostra.
Cosa Nostra inventa questo traffico con nuovo prodotto e si trova davanti a una generazione disillusa dalla politica, dai movimenti studenteschi, dalle occupazioni del 1977. È una generazione che certamente faceva già un uso irresponsabile di queste sostanze, vivendo nel periodo di Woodstock, dei Rolling Stones, del fascino della musica, dell’Oriente.
Ci si è lasciata alle spalle una storia che è diventata privata, quella di migliaia di ragazzi morti per overdose o per le conseguenze di quella stagione sulla loro salute cioè l’epatite, l’Aids. Sono malattie impronunciabili di cui ci si vergogna, come pure dei suicidi. Una vicenda storica e sociale che ha riguardato migliaia di famiglie in tutta Italia, è diventata una storia privata di ogni singola famiglia di cui vergognarsi.
Ritornando agli scritti di Chinnici, dovrebbero invece vergognarsi coloro che non guardano a quella storia per le conseguenze che ha ancora oggi. Migliaia di ragazzi sono morti in quella stagione o per le conseguenze sulla loro salute di quella stagione. A Palermo, la droga scorreva e fluiva a fiumi e non si trovava altro nella piazza che questo. Questo era lo scenario di cui si accorge, unico al mondo, il giudice Chinnici, ma dopo quella autobomba nessuno ne parlò più. In quel momenti, nessuno sapeva che cosa fare per il gran numero di tossici e migliaia di giovani sono morti in silenzio.
Dal libro si evince la sofferenza dell’autore che si è allontanato poi dalla Sicilia ed emerge il conflitto interiore tra l’amore per questa terra che al contempo respinge altrove. A Palermo si è sopravvissuti per caso, anche tanti poliziotti che non sono stati uccisi per pura fatalità. Sopraggiunge come un senso di colpa del sopravvissuto e si è davanti a una deriva davanti a un’antimafia religiosa più che una che fa i fatti. Vi è una liturgia dell’antimafia, un’adorazione dei devoti con grandi star ed icone che hanno cavalcato tutto questo.
Occorre ricordare almeno con una targa le migliaia di ragazzi morti per l’eroina di Cosa Nostra. Arriverà un giorno che ci sarà uno storico che metterà ordine su fatti che non hanno nemmeno statistiche; non si sa con esattezza il numero delle vittime di droga tra gli anni Settanta e Ottanta. I depositi erano proprio a Palermo nei quartieri Kalsa, con la morfina base e poi dell’eroina già lavorata. Si ricorda il personaggio di Don Masino Spadaro, boss della Kalsa, una persona a suo modo anche spiritosa, di cui si fece persino un’epopea. Era un uomo che incontrava anche assessori, sindaci e questo da latitante che girava nel suo quartiere tranquillamente. Si era in una città in cui un ragazzo tossico era un criminale mentre i latitanti come Riina stavano a casa loro.
Strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino: “Non smetterò di chiedere la verità”
La figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 ripercorre il suo percorso di ricerca della verità, che l’ha portata a incontrare in carcere anche i boss Giuseppe e Filippo Graviano, e arriva a una conclusione molto severa: «Mai come oggi la ricerca della verità appare difficile, perché mai come oggi è connessa alla ricerca delle ragioni della disonestà di chi questa verità doveva scoprirla. Io non smetto di chiederla. Il contributo di onestà non lo devono dare solo i mafiosi ma anche le persone delle istituzioni che sanno».
Il punto nodale è quello che porta al falso pentito Vincenzo Scarantino. Fiammetta Borsellino chiama in causa non solo i poliziotti che crearono il grande depistaggio ma diversi magistrati che sin dalle prime battute avrebbero avallato le tante deviazioni, dal procuratore di Caltanissetta del tempo Giovanni Tinebra ai pm Anna Maria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo. Questi magistrati «sono stati loro stessi autori di un processo caratterizzato da anomalie anche grossolane». Tanti punti oscuri avrebbero meritato risposte rapide e precise. E invece «neanche il Csm» ha saputo farlo.
Nei 57 giorni che passarono tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio si mossero varie forze lungo l’asse dei rapporti tra mafia e politica. Per sostenere questa tesi Fiammetta Borsellino cita una frase ripetuta dal padre in quei giorni: “Mafia e politica o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. In quei giorni – dice – evidentemente si misero d’accordo mentre tutti sussurravano a mio padre che il tritolo per lui era già arrivato. Lo sapeva anche il procuratore Pietro Giammanco che però non lo avvertì. E nessuno ha mai sentito il bisogno di sentirlo».
Qualche cambiamento si avverte. «Le Procure – ammette – vogliono andare a fondo. C’è stato anche il processo per la trattativa, un momento importante che però arriva dopo 25 anni. Non mi piace fare il tifo da stadio ma certe persone andavano cercate molto prima». E l’antimafia deve ripensare se stessa: “E’ un momento di grandi proclami ma vuoto di contenuti. Molti che così spesso dicono di essere sotto minaccia farebbero bene a non recitare la parte dei martiri». 8.6.2018 GDS
La foto d’archivio, risale a metà degli anni Ottanta sei, sette anni prima delle stragi del 1992,e raffigura alcuni dei cronisti del “pool antimafia” di Palermo che, pur lavorando per giornali diversi, avevano l’abitudine di riunirsi in strada, prima di pranzo, davanti la sede del giornale “L’Ora” per fare il punto della situazione e perché nella Palermo di allora si viveva non alla giornata, ma di ora in ora e si sentiva il costante bisogno di confrontarsi. Poi ognuno di loro avrebbe preso la sua strada per redigere gli articoli del giorno.
Da sinistra Vitale, Lodato, La Licata, Melati, Bolzoni
Vivi da morire
Piero Melati, Francesco Vitale
GIORNI DI MAFIA
Dalla strage di Portella della Ginestra fino alla morte di Bernardo Provenzano, i cento giorni che hanno cambiato per sempre il volto della Sicilia e dell’Italia intera. Tutta la nostra storia repubblicana può essere letta anche attraverso la chiave dei fatti di mafia perché molti dei nodi irrisolti dell’attualità italiana trovano lì la loro radice. I cento giorni raccontati in questo libro ne sono la prova. Pagina dopo pagina scorrono decenni di delitti e stragi in gran parte perpetrati in Sicilia, ma emergono intrecci che superano decisamente i confini regionali: dall’omicidio come strumento di pressione al traffico internazionale della droga, dalla corruzione elevata a sistema alle speculazioni urbanistiche, dal rapporto conflittuale tra magistratura e politica alle lotte intestine tra apparati dello Stato, dall’uso criminale dell’economia e della finanza al ruolo delle sette segrete, per arrivare al voto di scambio e all’uso spregiudicato dei media. Al centro del libro non ci sono solo cadaveri eccellenti e grandi processi, ma anche figure spesso trascurate, i romanzi, i film, il costume, il cibo, il gergo, gli avvenimenti politici, sociali e di ‘colore’ che, legati cronologicamente ai grandi fatti di criminalità organizzata, ne sono stati la cornice o hanno rappresentato la ricetta per il suo contrasto. La storia sanguinaria della mafia può essere infatti compresa solo in uno sguardo più ampio che comprenda l’intera vita politica, istituzionale e culturale italiana. Una rilettura originalissima che sollecita a riflettere ancora sui grandi misteri, sui segreti ben custoditi, sui gialli mai risolti che costellano la nostra storia recente.