Ancora livore e mistificazioni su Nino Di Matteo

 

 

Articolo ripubblicato il 22 maggio 2022 con foto di copertina sostituita e tolto il termine “demente” riferito all’arringa

Per spiegare la demente arringa, tra insinuazioni e mistificazioni, dall’avvocato Trizzino l’unica logica possibile è la cattiva fede.

Ancora livore e mistificazioni su Nino Di Matteo.ANTIMAFIA DUEMILA

 

 

Al processo depistaggio l’arringa “fake” dell’avvocato Trizzino per i figli di Borsellino

Nino Di Matteo è uno dei magistrati che hanno indossato la toga per la prima volta in una notte, quella del 24 maggio 1992, quando lui e gli altri giovani uditori giudiziari in tirocinio al Tribunale di Palermo (tra cui l’autore di questo libro) sono stati chiamati a fare il picchetto davanti ai corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, uccisi il giorno prima nella strage di Capaci. In quella notte, erano tanti i sentimenti che si agitavano nell’animo di quel gruppo di uditori: dolore, rabbia, ma anche voglia di riscatto per la propria terra, e orgoglio di far parte di una magistratura che aveva tra le proprie fila degli autentici eroi civili, capaci di dare la loro vita per lo Stato. Sono i sentimenti che hanno accompagnato in ogni giorno del suo percorso professionale Nino Di Matteo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia, prima alla Procura di Caltanissetta, poi a quella di Palermo, quindi alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Un impegno coraggioso che è continuato anche quando è stato eletto al CSM nel periodo più difficile della storia dell’autogoverno della magistratura”.

Sono queste le parole scritte dal Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo nella recente pubblicazione “Mafia. Fare memoria per combatterla” edito da “Piccola biblioteca per un paese normale – Vita e pensiero”
Non certo l’ultimo arrivato se si considera che parliamo del giudice che, da Presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta, nelle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater ha definito il depistaggio di via d’Amelio come il “più grande della storia”.
L’avvocato Fabio Trizzino (genero di Borsellino), la dott.ssa Fiammetta Borsellino, la dott.ssa Lucia Borsellino ed il commissario Manfredi Borsellinoavranno letto queste considerazioni prima di pronunciare in un’aula di tribunale falsità contro Nino Di Matteo?
Non è dato sapere.
Al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio, in corso davanti al tribunale di Caltanissetta, ci sono tre imputati: i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di avere indottrinato il falso pentitoVincenzo Scarantino per accusare degli innocenti. Fabio Trizzino, legale dei figli Borsellino, nonché genero (è il marito di Lucia) del giudice ucciso il 19 luglio 1992, al termine della sua arringa, ha chiesto la condanna per i tre imputati.

Tuttavia, in due ore di discussione, che abbiamo sentito con attenzione, sotto accusa non c’erano i poliziotti, ma i magistrati. O forse si dovrebbe dire in particolare un magistrato: Nino Di Matteo.
E’ lui l’obiettivo da colpire.
Trizzino, dopo aver elogiato il lavoro del pm Stefano Luciani ha affermato: “Mi rendo conto che è un’affermazione forte e dolorosa, ma visto il contegno tenuto nel corso del loro esame, per quanto riguarda la dottoressa Palma e Petralia come indagati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che ‘per quanto loro si possano credere assolti, riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti’, e lo dimostrerò nel corso di questa arringa la validità”.
E questa sua tesi l’abbiamo ascoltata.
Nessuno nega che sulla strage di via d’Amelio vi siano state anomalie, così come gravissime responsabilità istituzionali a cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa che, è evidente, non fu opera di uomini di mafia.

Ma i fatti vanno raccontati per quello che sono, nella loro interezza.
Non utilizzando mistificazioni e deliri, specie nel momento in cui si parla di “disegno criminoso” con chiaro riferimento ai magistrati, nonostante sia stato provato che Nino Di Matteo non ha nulla a che vedere con il depistaggio.
Sulla sua persona non è neanche stato aperto un fascicolo di indagine dalla competente Procura di Messina.
Il Gip per i due magistrati Carmelo Petralia ed Anna Maria Palma, che erano stati indagati con l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, archiviò l’indagine in quanto “sono insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell’accusa di calunnia a carico degli indagati”.

Ma torniamo a questo processo sul depistaggio e all’arringa, nella migliore delle ipotesi sconclusionata, nella peggiore inquietante e falsa.
Trizzino, confusionariamente, dapprima dice correttamente che il depistaggio ha inizio con la sparizione dell’agenda rossa e con quell’incarico investigativo dato dal Procuratore nisseno Tinebra ai servizi di sicurezza. Poi però inciampa. 
Un’anomalia che a detta di Trizzino, “si sarebbe anche potuta capire, se fosse stata l’unica anomalia”.
Un costrutto che somiglia tanto a quella normalizzazione dell’opera del Ros che, mentre esplodevano le bombe, si era recato dall’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino per capire cosa fosse “il muro contro muro”.Un’azione che diede vita all’apertura di un dialogo che non salvò vite umane, ma produsse altre stragi.

Il mondo alla rovescia
Trizzino proseguendo nell’arringa ha preso per buone le versioni dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada (“il 20 luglio si comporta correttamente e dice a Tinebra che non può fare indagini”) fino a sostenere che i Servizi, autori di due note, una ad agosto ed una ad ottobre che avvalorarono la pista Scarantino, erano quasi succubi della Squadra mobile e del gruppo investigativo Falcone-Borsellino.
Un altro passaggio che ci ha colpito è quello in cui si è voluto sottolineare (quindi imputando la colpa ai magistrati) che “se il collaboratore ha nuove dichiarazioni da fare, anche per mettere le difese nelle condizioni di poter svolgere il proprio compito, le dichiarazioni vanno verbalizzate per consentire la dialettica processuale dell’elemento costitutivo dello stato di diritto”.
Certamente questa è la regola. Ma bisogna tener conto anche di ciò che avveniva all’epoca e che è avvenuto anche con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Entrambi hanno escusso collaboratori di giustizia come Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo o Leonardo Messina. Ed oggi sappiamo che in quei colloqui vi furono anche dichiarazioni non verbalizzate.
Ci riferiamo alle parole di Mannoia su Cinà, Berlusconi e Mangano o le dichiarazioni di Mutolo su Bruno Contrada e Signorino o ancora le dichiarazioni fuori verbale di Messina sul piano che si stava portando avanti con le stragi.
Dovremmo dedurre che i due magistrati-martiri stessero compiendo anche loro atti illeciti, fuori dalle regole ordendo dei “disegni criminosi”?
Ovviamente di tutto questo non si è parlato.

Si è parlato invece del grande valore di Ilda Boccassini, la pm che avrebbe capito tutto in anticipo su Scarantino, inviando una lettera ai colleghi, assieme a Saieva, prima di andarsene da Caltanissetta. Poco importa se, come ha diversamente ricordato il legale di Salvatore Borsellino Fabio Repici, a luglio 1994 in conferenza stampa si sperticò di elogi, tanto per Tinebra quanto per il valore delle dichiarazioni del “pupo vestito” Scarantino.
Ancora una volta si è parlato della questione dei confronti tra quest’ultimo e i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera che non furono immediatamente depositati. Un leitmotiv già riferito in aula dai soliti avvocati, Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola, nonostante ciò avvenne comunque prima della fine del dibattimento Borsellino bis e nonostante il Gip di Catania, che archiviò l’inchiesta sugli allora sostituti procuratori di Caltanissetta, denunciati da parte di tre legali delle difese, valutò l’operato dei pm come privo di “comportamento omissivo”.

In ogni modo si è cercato di tirare in ballo Di Matteo anche se è un fatto noto che subentrò alle indagini a partire dal novembre 1994, così come è noto che parte delle dichiarazioni di Scarantino sono incredibilmente coincidenti con quelle di Spatuzza, come è scritto nella sentenza Borsellino Quater.
Basti ricordare, per fare un esempio, che sia Scarantino che Spatuzza “indicano le stesse persone come partecipi della fase cruciale della strage. Scarantino dice che quando la macchina viene portata nel garage per essere imbottita di esplosivo c’erano Graviano, Tagliavia e Tinnirello, così come poi dirà in perfetta coincidenza Spatuzza. Quest’ultimo dice anche che era presente un uomo che non apparteneva a Cosa nostra. Secondo le regole della mafia quando un uomo d’onore commette un reato con un altro uomo d’onore devono essere presentati a vicenda, in caso contrario si tratta di un soggetto esterno”.
In questi anni sono stati oggetto di revisione due processi sulla strage. Il Borsellino Uno ed il Bis.
E’ noto che molte condanne inflitte in quel processo – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – non sono mai state messe in discussione.
E’ noto che gli stessi pm di allora, Nino Di Matteo e Anna Maria Palma per alcuni degli ingiustamente condannati, chiesero ed ottennero le assoluzioni per il delitto di concorso in strage di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati in successivi gradi di giudizio. O si vuole far credere che anche in queste condanne successive c’era la mano dei pubblici ministeri?

Livore, odio ed accanimento
L’avversione nei confronti di quei magistrati che non hanno fatto altro che ricercare la verità sulla morte di Borsellino, concentrandosi in particolare nella ricerca di mandanti esterni delle stragi. E’ così che nel mirino è finito anche Roberto Scarpinato, su cui si punta il dito per la storia del rapporto “mafia-appalti” di cui abbiamo abbondantemente parlato in altre occasioni.
Il magistrato più citato, però, resta sempre Di Matteo. Come se fosse il “nemico pubblico numero uno” da abbattere.
Una “campagna” di isolamento e delegittimazione costante che, purtroppo, vede coinvolti anche familiari di Paolo Borsellino, nella fattispecie una delle figlie, cioè Fiammetta Borsellino che si è sempre espressa con particolare odio nei confronti del magistrato.

Tutti omettono un pezzo di storia ed ogni scusa diventa buona per colpire il magistrato.
Altrettanto grave è la conclusione dell’arringa nel momento in cui si usano le dichiarazioni di Di Matteo nella riunione del 22 aprile 2009 davanti la Direzione nazionale antimafia, in cui i magistrati delle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo erano stati convocati per una prima valutazione su quella collaborazione e per esprimere un parere sull’inserimento di Spatuzza nel programma di protezione.
In quella riunione Di Matteo intervenne e Trizzino ha letto alcuni passaggi estrapolati senza contestualizzare il momento in cui certe considerazioni erano state fatte.

Misurandosi con sentenze che comunque erano definitive è ovvio che l’approccio degli organi inquirenti è di cautela.
E’ stato omesso, però, che nel 2010 proprio Di Matteo si espose in più sedi proprio per difendere e promuovere il programma di protezione e l’attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Ma ripetiamo, tutto fa brodo per puntare il dito contro il “bersaglio”, anche un incontro di un familiare vittima di mafia con un boss stragista.

L’incontro con Graviano
E’ quello che è avvenuto nel 2018 quando la signora Fiammetta Borsellino si è incontrata con il boss stragista di Brancaccio. Lo scambio tra i due è sintetizzato in un verbale riassuntivo in cui la figlia del giudice è stata sentita nell’ambito dell’inchiesta di Messina (archiviata) contro i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.
Sentita dai magistrati messinesi, coordinati dal Procuratore capo Maurizio De Lucia, la Borsellino raccontava: “Mi ha fatto attendere (Graviano, ndr), si è presentato in vestaglia e poi ad un certo punto l’ha buttata sui magistrati della serie ‘perché viene da me a chiedere le cose, non l’ha visto che hanno fatto i depistatori, Di Matteo…’ ha fatto dei nomi pure. Senza cadere nella trappola gli ho detto guardi io non lo so quello che hanno fatto altri, non ho elementi ma l’unica cosa che mi sono limitata a dire è che spostare la responsabilità su altri non serviva deludere le sue di responsabilità soltanto questo”.

Leggendo questi atti vogliamo davvero sperare che la signora Fiammetta Borsellino sia stata in buona fede, ma è chiaro che Graviano ha colto l’assist di quell’incontro per poter attaccare, minacciare, insultare e mandare messaggi inquietanti all’esterno: colpire Nino Di Matteo.
Un’indicazione che possono cogliere gli uomini di Cosa nostra, memori di quella condanna a morte che pende sulla testa del consigliere togato al Csm ordinata dal superlatitante Matteo Messina Denaro (così come raccontato dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo) e successivamente da Totò Riina(direttamente dal carcere). Un attentato chiesto anche da quegli apparati deviati che operano direttamente accanto alla mafia nell’esecuzione delle stragi.
Lo insegnano le stragi di Capaci e via d’Amelio, dove l’ombra di mandanti e concorrenti esterni è emersa in maniera sempre più decisa da inchieste e processi.

Apparati deviati (“gli stessi di Borsellino” li definiva Vito Galatolo raccontando i contenuti delle missive di Messina Denaro nel dicembre 2012) che così come hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vorrebbero eliminare anche quei magistrati come Nino Di Matteo che, prima di insediarsi al Csm, coordinava il pool della Procura nazionale antimafia sui mandanti esterni delle stragi (ruolo che tornerà ad occupare al termine della consiliatura).
Parliamo di inchieste scomode al Sistema criminale, così come scomode in questo versante sono quelle condotte oggi dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco a Firenze e Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria.
La signora Fiammetta Borsellino in quel verbale riassuntivo ha ammesso che Graviano di nomi ne avrebbe fatti anche altri, ma la signora Fiammetta Borsellino ne ha indicato solo uno: Di Matteo appunto.

Un uomo nel mirino

Del resto, da qualche tempo a questa parte, sembra essere lui l’unico nemico da colpire.
Ed anche in quel verbale la signora Fiammetta Borsellino non manca di tirare in ballo Di Matteo con supposizioni ed illazioni, anche se il consigliere togato, come già detto, non fosse oggetto di quell’indagine e non sia stato mai indagato per il depistaggio.
In quel verbale, che alcune testate hanno riportato in passato, si parla di rapporti personali ed amicizia fraterna tra lo stesso Di Matteo e la famiglia Borsellino, nonché dei motivi per cui, si sarebbe poi giunti alla rottura.
Una versione a senso unico che in maniera ingenerosa è stata data in pasto al pubblico senza alcuna possibilità di replica, sul punto, da parte dello stesso Di Matteo. Sospetti e non nobili sentimenti emergono nel fraseggiato della Borsellino. 

A questo punto ci sorge spontanea una domanda che rivolgiamo direttamente al Procuratore Capo di Messina Maurizio De Lucia: perché si è dato spazio ad una testimone informata sui fatti, permettendole di dire una serie di illazioni che non riguardano gli indagati?
Che cosa si voleva valutare? L’attendibilità del testimone o cercare responsabilità su un soggetto che non è indagato?
Che senso ha compulsare sul punto, quasi morbosamente, alla ricerca di non si sa bene quale dettaglio?
Ma torniamo a Scarantino.
Come abbiamo detto più volte, la vicenda del falso pentito della Guadagna non è altro che “un segmento” del grande scenario investigativo nella ricerca della verità sulla strage. Parliamo di uno scenario investigativo che Di Matteo, assieme a pochi altri magistrati, ha cercato in questi anni di riportare alla luce. 

E’ per questo che Di Matteo fa paura. E’ per questo che le “menti raffinatissime” puntano a delegittimare il magistrato, approfittando anche delle esposizioni di quei familiari vittime di mafia, come la signora Fiammetta Borsellino, che con livore colpiscono il magistrato strumentalizzando anche fatti totalmente personali.
Uno stillicidio ingiustificato, pur comprendendo la rabbia per una verità completa sulla strage che manca da trent’anni.
I fatti sono evidenti e la storia racconta che proprio Di Matteo, insieme a pochi altri colleghi come lui, ha impegnato la propria vita nella ricerca della verità sulle stragi ed in particolare sui mandanti esterni che si celano dietro ad esse.
Si dimentica che Di Matteo istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter”, assieme a Maria Palma, che portarono alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale di Cosa nostra, tracciando il percorso delle indagini sui cosiddetti mandanti esterni.

Si dimenticano le inchieste pesantissime, condotte assieme al collega Luca Tescaroli, che si sono sviluppate negli anni successivi, come quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri) oppure sulla presenza in via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato). Il processo trattativa Stato-mafia, attendendo di leggere le motivazioni della sentenza di appello, ha mostrato con le condanne in primo grado uno spaccato preciso sul perché si sono consumate le stragi degli anni Novanta.
E non dimentichiamo che neanche la sentenza di appello ha messo in discussione molti dei fatti accertati dalla Procura, nonostante l’assoluzione dei soggetti istituzionali (Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno). La mancata condanna di alcuni imputati non significa che non ci sia stata la trattativa tra lo Stato e la mafia, ma che quelle condotte anomale non costituirebbero reato. E il processo ha evidenziato fatti che sono ampiamente dimostrati.
In conclusione, tornando a ciò che è avvenuto nell’aula bunker di Caltanissetta, è ovvio che per sostenere le proprie tesi un avvocato in aula può assumere legittimamente qualsiasi linea difensiva. Anche quella degli “asini che volano” e raccontare, dicendo il falso, tutte le malefatte svolte dal pm Di Matteo.
Più volte è stato chiarito dallo stesso magistrato, carte alla mano, come fu valutata la vicenda Scarantino. E’ avvenuto nelle testimonianze al Borsellino quater, ed ancora l’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, al Csm (e anche in questo processo).
Nonostante ciò si continua l’opera di denigrazione.
Per spiegare la demente arringa, tra insinuazioni e mistificazioni, dall’avvocato Trizzino l’unica logica possibile è la cattiva fede.
Visti i continui riferimenti alla sentenza del Borsellino quater, forse l’avvocato Trizzino e la signora Fiammetta Borsellino dovrebbero leggere le parole del Presidente della Corte d’Assise Antonio Balsamo, oggi Presidente del Tribunale di Palermo, che definì il depistaggio di via d’Amelio come il “più grave della storia”.
In un capitolo in cui si parla anche della condanna a morte subita da Di Matteo, raccontata in aula dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo, il giudice di fatto difende e mette in evidenza il lavoro svolto dal consigliere togato nel corso della propria storia.

Nino Di Matteo è uno dei magistrati che hanno indossato la toga per la prima volta in una notte, quella del 24 maggio 1992, quando lui e gli altri giovani uditori giudiziari in tirocinio al Tribunale di Palermo (tra cui l’autore di questo libro), sono stati chiamati a fare il picchetto davanti ai corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, uccisi il giorno prima nella strage di Capaci – scrive Balsamo nella recente pubblicazione “Mafia. Fare memoria per combatterla” edito da “Piccola biblioteca per un paese normale – Vita e pensiero” – In quella notte, erano tanti i sentimenti che si agitavano nell’animo di quel gruppo di uditori: dolore, rabbia, ma anche voglia di riscatto per la propria terra, e orgoglio di far parte di una magistratura che aveva tra le proprie fila degli autentici eroi civili, capaci di dare la loro vita per lo Stato. Sono i sentimenti che hanno accompagnato in ogni giorno del suo percorso professionale Nino Di Matteo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia, prima alla Procura di Caltanissetta, poi a quella di Palermo, quindi alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Un impegno coraggioso che è continuato anche quando è stato eletto al CSM nel periodo più difficile della storia dell’autogoverno della magistratura”.

E poi ancora si legge: “Nel corso delle elezioni del Capo dello Stato, nel gennaio 2022, già dal terzo scrutinio si è evidenziato un notevole consenso per il nuovo incarico al Presidente Sergio Mattarella, che ha ricevuto il massimo numero di voti. Dal quarto scrutinio, svoltosi il 27 gennaio, è emersa spontaneamente la tendenza di numerosi parlamentari a esprimere il proprio sostegno per Nino Di Matteo, che è risultato al secondo posto tra i più votati. Nello scrutinio finale, tenutosi il 29 gennaio, all’elevatissimo consenso raggiunto dal Presidente Sergio Mattarella (rieletto con 759 preferenze), si sono accompagnati 37 voti per Nino Di Matteo: oltre l’80% dei componenti dell’assemblea elettrice ha visto rappresentato nel modo più alto il senso dello Stato da due persone che hanno sempre assegnato una priorità assoluta al contrasto alla mafia. È la riprova di quanto l’impegno contro la mafia – con i suoi valori, la sua storia e i suoi sentimenti più intensi – sia entrato a far parte della nostra identità nazionale”.

Basterebbero questi fatti e queste considerazioni di stima per affermare, ancora una volta, che Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con depistaggi e disegni criminali. Tutto il resto sono solo falsità.
Non è la prima volta che i figli di Paolo Borsellino cadono in tranelli e vengono strumentalizzati. Un esempio è la storia di Padre Bucaro (già fondatore del Centro Paolo Borsellino) che finì coinvolto in una inchiesta giudiziaria sul riciclaggio che fu costretto a dimettersi.
Oggi, un caso perverso del destino fa sì che, anziché tendere la mano verso chi li ha amati ed ha speso parte della propria vita (se non tutta) nella ricerca della verità sugli assassini del padre e degli uomini e donne della sua scorta, i figli di Borsellino pongono in essere i sentimenti di odio ed ingratitudine.