IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO –

 

COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS

IL DEPISTAGGIO SU VIA D’AMELIO –

Quegli uomini dei servizi segreti  Un altro contributo alla ricostruzione della vicenda in esame, difficilmente compatibile con tutti quelli sopra analizzati, veniva fornito con la deposizione (in parte già anticipata) di Francesco Paolo Maggi, Sovrintendente della Polizia di Stato, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Il poliziotto era uno dei primissimi rappresentanti delle forze dell’ordine ad intervenire in via D’Amelio ed arrivava sul posto, con il funzionario di turno (dottor Fassari della Sezione Omicidi), con l’automobile di servizio (fondendone il motore), appena una decina di minuti dopo la deflagrazione. Al momento del suo arrivo, il poliziotto notava l’Agente Antonio Vullo, unico superstite fra gli appartenenti alla scorta del dottor Paolo Borsellino, in evidente stato di shock, seduto sul marciapiede, con il capo fra le mani. Il poliziotto, dunque, confidando di poter trovare qualcun altro ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti, mettendo un panno bagnato sul naso. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta: i corpi, infatti, erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. I resti del dottor Paolo Borsellino erano riconoscibili solo dai tratti somatici del viso e dai baffi. I resti di Claudio Traina erano finiti addirittura sull’albero rampicante che si trovava all’ingresso dello stabile di via D’Amelio, mentre Eddie Walter Cosina era carbonizzato dentro l’automobile. I resti di Emanuela Loi erano riconoscibili unicamente per un seno rimasto intatto, mentre i resti delle altre due vittime della Polizia di Stato, vale a dire Agostino Catalano e Vincenzo Li Muli erano irriconoscibili. Il Sovrintendente Maggi si metteva alla ricerca di eventuali tracce o reperti, anche scavalcando un muretto di recinzione posto alla fine (del lato chiuso) della via D’Amelio. Nel frattempo, le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio. Uno di questi interessava proprio la Croma blindata del Magistrato. Mentre si diradava il fumo, si potevano notare quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenariodella strage, anche nei pressi della predetta blindata: si trattava, a dire del teste (come già anticipato nel precedente paragrafo), di appartenenti ai Servizi Segreti, alcuni dei quali conosciuti di vista da Maggi e già notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci (come detto, la circostanza, prima della deposizione dibattimentale era assolutamente inedita, nonostante le diverse audizioni precedenti del teste, in fase d’indagine preliminare). Un vigile del fuoco, non meglio identificato (dell’età di circa quarant’anni), seguendo le disposizioni di Maggi, spegneva il focolaio d’incendio che interessava la Fiat Croma blindata, che aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. Il fuoco cominciava ad attingere anche la borsa che era all’interno dell’abitacolo, in posizione inclinata, fra il sedile anteriore del passeggero e quello posteriore. La borsa, bruciacchiata ma integra, veniva prelevata (quasi sicuramente) dal predetto vigile del fuoco, che la passava a Maggi. Nei pressi non vi era il dottor Giuseppe Ayala (pure notato e riconosciuto dal teste, prima di allontanarsi dalla via D’Amelio). Il poliziotto poteva constatare che la borsa era piena, anche se non ne controllava il contenuto all’interno. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, rimasto all’inizio della Via D’Amelio (lato via Dell’Autonomia Siciliana) a comunicare, via radio, con gli altri funzionari. Quest’ultimo funzionario (trattasi del menzionato dottor Fassari della Sezione Omicidi) teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile (“Ancora qua sei? -dice- Piglia ‘sta borsa e portala alla Mobile”). Così faceva il Maggi, che la portava dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera (dove entrava con l’aiuto dell’autista del dirigente), lasciandola sul divano dell’ufficio.

Stralcio della relativa deposizione, dalla quale risulta anche che la relazione di servizio sulla propria attività di polizia giudiziaria (come appena visto, tutt’altro che secondaria), veniva redatta soltanto 5 mesi più tardi, su esplicita richiesta del dottor Arnaldo La Barbera ed unicamente in vista dell’audizione (pochi giorni dopo) del teste davanti al Pubblico Ministero di Caltanissetta, dottor Fausto Cardella:

  • P.M. Dott. GOZZO – Sovrintendente, perfetto. Le volevo chiedere se lei ebbe modo, il 19 luglio del 1992, di intervenire presso via D’Amelio.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, le spiego: io quel giorno non dovevo lavorare, mi hanno chiesto un turno di servizio perché periodo di ferie e quindi ho acconsentito a questa cosa. Mi trovavo negli uffici dove noi espletavamo servizio normalmente, a disposizione del funzionario di turno, di…
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi stiamo parlando, mi scusi, degli uffici della Squadra Mobile di Palermo?
  • TESTE MAGGI F.P. – Della Squadra Mobile di Palermo. Ora non ricordo bene l’orario, all’incirca è quello che sappiamo tutti, la… quando sono successi i fatti. Ho sentito un po’ di trambusto e quindi… la cosa era abbastanza grave, perché c’erano colleghi abbastanza concitati, chi
  • correva a destra. Io, così, istintivamente presi le chiavi e mi recai subito a prendere il funzionario di turno; quel giorno era il dottor Fassari della Sezione Omicidi, e subito mi recai sul posto, presi contatto con la Sala Operativa, gli dissi che avevo il funzionario a bordo e quindi mi portavo in via… in via D’Amelio. Avrò messo pochissimo, Signor Presidente, ora non riesco a quantificare, fatto sia che il Ministero addirittura mi voleva addebitare l’auto, in quanto ho bruciato il motore e quindi… saranno passati minuti, non… Arrivato, giunto sul posto, notai subito che c’erano i Vigili del Fuoco che già stavano operando, una coltre di fumo e ancora vetri che… che saltavano in aria, macchine andate a fuoco. Mi addentrai per vedere, cioè, se c’era qualcosa da fare; subito mi sono reso conto che per i colleghi purtroppo non c’era niente da fare e mi misi alla ricerca subito di prove, di qualche indizio che poteva servire. Non potendo fare altro, feci quello; solo che lo feci in più riprese, perché il fumo era così denso che non mi permetteva di permanere molto tempo sul posto e quindi trovai uno straccio, lo bagnai e mi feci spazio. Arrivato a un certo punto, notai… presumo che era l’auto del magistrato, una Croma azzurra. I miei ricordi sono sfuocati, la mia relazione di servizio al tempo è abbastanza dettagliata.
  • P.M. Dott. GOZZO – Eh, ma siccome non si può acquisire, io, Presidente, chiederei, visto che è una nota a firma proprio del… del 21 dicembre ’92, di mostrarla al teste.
  • P.M. Dott. GOZZO – Perfetto. E allora, la prima domanda che le vorrei fare, perché adesso vorrei che… lei già ha dato, diciamo così, una prima descrizione dei fatti come li ricorda. Io le volevo chiedere, ma è un dato, diciamo, che salta agli occhi: questa nota ha una data, che è quella del 22 dicembre del 1992, stiamo parlando del 21 dicembre 1992, stiamo parlando, quindi, di -mi scusi- cinque mesi dopo i fatti. Può specificare alla Corte per quale motivo venne fatta questa relazione (….) tutto questo tempo dopo?
  • TESTE MAGGI F.P. – …al momento poi io subentrai a far parte del gruppo di lavoro Falcone – Borsellino, che è stato instaurato. ‘Sta relazione non so perché non… non la feci al momento, l’ho fatta successivamente e la consegnai al dottor La Barbera personalmente, il capo della…
  • P.M. Dott. GOZZO – Ecco, infatti, questa è un’altra cosa che le volevo chiedere: la relazione è diretta al signor dirigente della Squadra Mobile sede. Ebbe una richiesta in questo senso da parte del dottore La Barbera?
  • TESTE MAGGI F.P. – Una richiesta in che senso? Mi scusi.
  • P.M. Dott. GOZZO – Una richiesta di redigere dopo tutti questi mesi, insomma…
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, magari lui si… si incavolò su questa cosa, dice: “Come mai ancora non l’hai fatta la relazione?” “Dottore, fra una cosa e un’altra mi… non l’ho fatta”, mi… mi giustificai così.
  • P.M. Dott. GOZZO – E si ricorda, appunto, quali erano i motivi per cui le venne chiesta la relazione? Si ricorda se in quei giorni…?
  • TESTE MAGGI F.P. – E perché dovevo essere sentito a… al tempo mi sentì il dottor Garofalo, mi pare, se non…
  • P.M. Dott. GOZZO – Il dottore Cardella.
  • TESTE MAGGI F.P. – Cardella, mi scusi, Cardella.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi doveva essere sentito il 29 dicembre dal dottore Cardella. (…) Quindi fu questo il motivo.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – E il dottore La Barbera lo sapeva, evidentemente, e quindi…
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, esatto.
  • P.M. Dott. GOZZO – …le chiese di fare questa relazione.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, lei ricorda… ecco, lei già ha riferito su quello che ricordava oggi, diciamo, relativamente a quello che le venne detto quando avvenne lo scoppio. Lei ricorda, in particolare, se venne detto dove vi era stato questo scoppio? Subito, diciamo così.
  • TESTE MAGGI F.P. – No, subito no, lo appresi tramite… tramite radio, dando la mia sigla radio, ho chiesto più… più informazioni alla Sala Operativa e… mi specificò che c’era stata una deflagrazione, si presume che fosse la scorta del dottore Borsellino.
  • P.M. Dott. GOZZO – Ma visto che lei si è recato a prendere il dottore Fassari, doveva avere un’idea su dove recarsi. (…) Dico, è sicuro? E’ sicuro, e per questo. (…) a suo ricordo, la invito a leggere la sua relazione, che inizialmente non venisse riportata, anche se genericamente, la zona in cui era avvenuta l’esplosione?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, qua io lo menziono che lo apprendevo dalla Sala Operativa che… (…) Via Autonomia Siciliana.
  • P.M. Dott. GOZZO – Via Autonomia Siciliana, perfetto. Poi, successivamente, in macchina apprendeste di via D’Amelio.
  • TESTE MAGGI F.P. – E’ chiaro, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Avete appreso proprio che si trattava di via D’Amelio.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, e quand’è che ha avuto la consapevolezza che si trattava, ecco, di una blindata, che si trattava di un magistrato, che si trattava del dottore Borsellino e degli uomini della scorta del dottore Borsellino?
  • TESTE MAGGI F.P. – Subito, subito, nell’immediatezza, quando sono arrivato.
  • P.M. Dott. GOZZO – Cioè che cosa attirò la sua attenzione?
  • TESTE MAGGI F.P. – Io quando… quando arrivai sul posto, ho visto davanti all’ingresso del… dell’edificio dei corpi smembrati; tutti i corpi presentavano mutilazioni sia degli arti superiori che degli arti inferiori, a terra c’erano solo tronchi. Riconobbi subito il dottor Borsellino, perché i dati somatici del viso erano rimasti intatti, anche se il corpo era carbonizzato lo riconoscevo, l’ho riconosciuto dai baffetti, e quindi senza ombra di dubbio ho riconosciuto il dottor Borsellino. I colleghi un po’ meno, erano più dilaniati.
  • P.M. Dott. GOZZO – Sì. Lei poco fa ha detto, appunto, che la prima cosa che ha fatto non appena è arrivato, prima di tutto ha visto i Vigili del Fuoco che già spegnevano…
  • TESTE MAGGI F.P. – Prima… prima mi accertavo che… di quello che era successo, se c’era ancora qualche… qualcuno che bisognava aiuto, che… subito dopo mi sono reso conto che per i colleghi non c’era… e per il dottore non c’era più niente da fare.
  • P.M. Dott. GOZZO – Ma erano già presenti i Vigili del Fuoco?
  • TESTE MAGGI F.P. – Mi pare… erano presenti, un’autopompa già era presente quando sono arrivato.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi quando lei è arrivato, anche per collocare temporalmente, diciamo, il suo arrivo, erano arrivati già i Vigili del Fuoco.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, un’autopompa me la ricordo benissimo.
  • P.M. Dott. GOZZO – Perfetto. Ricorda se c’erano delle Volanti presenti, oltre a voi?
  • TESTE MAGGI F.P. – Questo non lo so, non glielo so dire, dottore, perché io, come ripeto, mi sono proiettato immediatamente sul posto dove è successo l’attentato e quindi davanti a me… cioè cercavo solo tracce e non… Subito dopo che…
  • P.M. Dott. GOZZO – Perfetto. E allora, andiamo su queste cose, anche per cercare di quantificare il periodo di tempo che lei ha speso, diciamo, prima di arrivare sulla macchina del Procuratore Aggiunto Borsellino. Nella fattispecie le volevo chiedere: quindi, lei ha detto che la prima cosa che ha fatto è verificare se c’erano, appunto (…) le condizioni dei colleghi. Anche perché c’era un collega vivo lì presente, lei lo ricorda?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, era… era all’ingresso del… di via D’Amelio, con le mani giunte sul capo, seduto sul marciapiede, sconvolto, non… Non mi sono preoccupato di fargli domande, perché ho capito lo stato in cui versava e quindi (…) non c’ho fatto caso. Cioè ho riconosciuto il collega Vullo, però ho tirato avanti e…
  • P.M. Dott. GOZZO – E quindi ha fatto questa prima verifica sui corpi. Li ha rinvenuti tutti? Cioè…
  • TESTE MAGGI F.P. – Mancava solo Traina, perché era rimasto attaccato, quel che restava del collega, in un albero; forse era un rampicante che adornava l’ingresso dell’edificio, era…
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi, diciamo, non vorrei sembrare macabro, ma è sempre per calcolare il tempo necessario. (…) Lei è riuscito a trovare sei corpi.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, gli altri… Cosina era dentro l’auto, carbonizzato, mi ricordo. Poi c’era Manuela Loi che a terra era proprio… l’ho riconosciuta che era rimasto un seno intatto e ho capito che si trattava della ragazza. Gli altri, Catalano e gli altri, non… non riuscivo a distinguerli; ho riconosciuto il dottore Borsellino, come gli ho detto, che il viso proprio era… era solo carbonizzato, però si vedeva che era il dottore Borsellino, dai dati somatici, ecco.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, per riuscire a comprendere: in tutto questo lei seguiva il dottore Fassari oppure era per i fatti suoi?
  • TESTE MAGGI F.P. – No, il dottor Fassari l’ho perso di vista, perché il dottor Fassari aveva acciacchi. Io mi… mi sono dato molto da fare, non… non so che fine ha fatto il dottor Fassari. (…) Ah, faccio una premessa: subito dopo il mio istinto mi ha portato… via D’Amelio è una strada chiusa, confina con un giardino. Qualcosa mi faceva dire che se… qualcuno che aveva progettato tutto questo fosse ancora là e quindi, così, magari inconsciamente, magari subito dopo mi sono reso conto di quello che stavo facendo. Mi sono addentrato pure dentro il giardino, a rischio e pericolo mio; poi sono ritornato sui miei passi, sono ritornato ancora sul posto dell’accaduto, dell’attentato.
  • P.M. Dott. GOZZO – E ha visto qualcosa di interessante all’interno del giardino?
  • TESTE MAGGI F.P. – Non ho visto niente, anche perché la vegetazione era fitta, c’erano spine, non mi permetteva più di andare avanti.
  • P.M. Dott. GOZZO – Mi scusi se a questo punto intervengo su questo punto, ma il cancello era aperto? Quindi lei è riuscito ad entrare.
  • TESTE MAGGI F.P. – Non lo so, perché io ho scavalcato una recinzione, mi sono strappato il pantalone. (…) non sono entrato da un ingresso.
  • P.M. Dott. GOZZO – Glielo chiedo perché nelle fotografie il cancello appare aperto, quindi volevo capire se lei aveva (…) Se lei mi dice che ha scavalcato (…) evidentemente non era aperto. Ricorda
  • anche se c’era un muro oltre al cancello? Forse è passato dal muro.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, mi pare che c’è un muro di contenimento.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi forse sarà passato da là.
  • TESTE MAGGI F.P. – Non sono sicuro, ma mi pare… mi sembra di sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, quindi, per riuscire a comprendere, lei arriva quando ci sono già i Vigili del Fuoco, quindi siamo…
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Questo lo data, da quello che sono le sue conoscenze (…) una decina di minuti dopo il fatto. (…) Già stavano spegnendo, quindi forse qualcosa di più.
  • TESTE MAGGI F.P. – Stavano spegnendo le auto.
  • P.M. Dott. GOZZO – E poi ha visto tutte queste persone, quindi aggiungo un’altra… Quindi possiamo dire che a questo punto siamo a circa venti minuti dal fatto e lei comincia a verificare che cosa c’è…
  • TESTE MAGGI F.P. – Qualche minuto prima, un quarto d’ora. Eh, ma ero
  • molto concitato io, non (…) tutto quello che… che mi si mostrava agli occhi era una cosa proprio…
  • P.M. Dott. GOZZO – Sconvolgente.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì. (…) Ma io in quel momento cercavo un qualcosa di utile, perché non c’era più niente da fare là, e l’unica cosa era la ricerca di prove, di indizi, di qualcosa, va’.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, e quindi dopo avere cercato, diciamo così, i colleghi e il magistrato che erano state vittime di questo fatto, lei che cosa ha fatto?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, ho visto il… il vigile del fuoco che stava spegnendo l’auto, l’auto azzurra, presumo che era quella del magistrato.
  • P.M. Dott. GOZZO – Si ricorda dov’erano le fiamme? Cosa stava spegnendo?
  • TESTE MAGGI F.P. – Già era quasi spenta l’auto, perché già l’aveva domato.
  • P.M. Dott. GOZZO – Ricorda se la macchina era aperta o era chiusa?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, la portiera era aperta.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quale era aperta?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sennò non potevo vedere la borsa.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quale portiera era aperta?
  • TESTE MAGGI F.P. – Lato sinistro, lato di… del guidatore, posteriore… no, sinistro, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi non quello del guidatore, l’altro sarebbe quello di sinistra.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, quello… quella dietro, la portiera dietro. (…) E scorsi la borsa. Gli dissi ai Vigili del Fuoco di indirizzare… siccome era fumante, quella borsa mi sembrò l’unica cosa che potevo recuperare.
  • P.M. Dott. GOZZO – Dov’era posizionata la borsa esattamente? Se lo ricorda.
  • TESTE MAGGI F.P. – La borsa non era posizionata come di solito uno entra in auto e poggia la borsa e la fa poggiare nello schienale; la borsa era riversa di mezzo lato tra il sedile anteriore e posteriore, come se fosse caduta la borsa, inclinata.
  • P.M. Dott. GOZZO – (…) Senta, quindi poi, effettivamente,il vigile del fuoco bagnò la…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, seguì le mie indicazioni.
  • P.M. Dott. GOZZO – Lei ricorda se la borsa era vuota, piena? Come le sembrava?
  • TESTE MAGGI F.P. – La borsa, sì, già mi è stata fatta più volte quella (…) La borsa era piena, sicuramente, e abbastanza pesante, perché questo me lo ricordo, va’, non è che… è normale che me lo ricordo. La borsa, sì, conteneva materiale all’interno.
  • P.M. Dott. GOZZO – Conteneva materiale all’interno. Lei ha avuto modo di aprirla?
  • TESTE MAGGI F.P. – No, non… non mi è passato, dottore, perché a me mi interessava nell’immediatezza, cioè, recuperare la borsa e quindi avvertire
  • il funzionario che… del rinvenimento della borsa, e poi prodigarmi assieme agli altri a prestare sempre là assistenza a chi… C’erano persone che sgombravano, bambini, mi trovai con un neonato in mano, gente che urlava, si può immaginare le scene. (…) Una bambina di… di un paio di mesi, io l’avevo in braccio, l’ho portata all’ambulanza.
  • P.M. Dott. GOZZO – Questo prima o dopo la borsa? Se lo ricorda.
  • TESTE MAGGI F.P. – Dopo la borsa.
  • P.M. Dott. GOZZO – Dopo. E’ sicuro di questo?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, perché poi fui avvicinato dal funzionario, dice: “Ancora qua sei? – dice – Piglia ‘sta borsa e portala alla Mobile”.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi lei aveva avuto modo di interloquire sul fatto della borsa con il funzionario?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – E che cosa vi siete detti, diciamo, relativamente alla borsa?
  • TESTE MAGGI F.P. – Niente, e… di portare la borsa alla Mobile e consegnarla al… all’ufficio del dottore La Barbera.
  • P.M. Dott. GOZZO – Fu una disposizione del funzionario di non aprire la borsa e di portarla immediatamente in…?
  • TESTE MAGGI F.P. – No, non ci furono disposizioni in tal senso, ma a me non mi… non mi passava proprio per la testa di aprirla, non…
  • P.M. Dott. GOZZO – Sì. Senta, e una volta che lei poi si è… Quindi, se ho capito bene, mi corregga se sbaglio, la successione degli eventi, voi arrivate quando ci sono già i Vigili del Fuoco in operazione; lei prima vede i corpi, poi vede la borsa.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Poi la bambina e poi Fassari le dice: “Ma ancora qua sei? Vai”.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – A questo punto lei va via, quindi, diciamo, siamo all’incirca mezz’ora – tre quarti d’ora dopo l’evento, diciamo.

(pagg 908-939)

Il grande depistaggio su Borsellino e il caso di Gaetano Murana.Per la prima volta, ecco tutta la storia del netturbino Gaetano Murana ingiustamente accusato dell’omicidio di Paolo Borsellino e tenuto in prigione per 18 anni, un estratto da Patria 2010-2020, l’ultimo libro di Enrico Deaglio

  • Gaetano Murana è un netturbino di 51 anni, accusato dal pentito Vincenzo Scarantino di aver avuto un ruolo chiave nell’omicidio di Paolo Borsellino.
  • Accusato di strage, viene condannato all’ergastolo e trascorrerà in carcere 18 anni.
  • La sua vicenda si incrocia con quella di ambasciatori, ambigui generali e uomini delle forze speciali.

Murana, in questo 2010, ha 51 anni. Disorientato, molto magro, molto povero. Solo adesso comincia a farsi vedere in giro: aule di processi a Palermo o Caltanissetta, lo studio del suo avvocato Rosalba Di Gregorio, l’unica persona che – letteralmente con le unghie – l’ha strappato all’inferno. Murana era condannato all’ergastolo e si è fatto 18 anni di carcere, di cui molti a Pianosa, al famoso 41-bis, di cui tutti parlano ancora adesso: legnate e perquisizioni anali, microspie e preservativi dentro la minestra. Era il 1994, la sera del 17 luglio. Gaetano Murana e sua moglie Antonella erano seduti sul divano del loro modestissimo appartamento nel modestissimo quartiere della Guadagna, a Palermo. Sono sposini, il loro figlio di un anno, Giuseppe, dorme nella culla. Guardano – come tutti gli italiani, anzi come tutto il pianeta – la finale della Coppa del Mondo. Si gioca, nel caldo torrido del Rose Bowl di Pasadena, Usa, la finale tra l’Italia di Roberto Baggio allenata da Arrigo Sacchi e il Brasile di Rómario. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo (siamo sullo 0 a 0), il Tg5 trasmette un breve telegiornale. Tra le poche notizie, una che fa sobbalzare Murana: «Vincenzo Scarantino, piccolo mafioso di Palermo, ha reso piena confessione e si è autoaccusato della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta». «Scarantino! Ma pensa tu!» Murana lo conosce: abita a cinquanta metri da casa sua. La partita finisce 0 a 0, anche i supplementari finiscono 0 a 0. Si va ai rigori, che, come tutti ricordano, sono infausti per noi. I coniugi Murana vanno a letto amareggiati. La mattina Gaetano deve alzarsi presto, lavora a tempo pieno, assunto con concorso – all’Amia, nettezza urbana. Esce di casa, sale in macchina; visto che non c’è nessuno fa cento metri in senso vietato e – mannaggia – una civetta della polizia lo ferma. Documenti, Murana pensa di cavarsela con una multa, ma non è così. Arrivano altre volanti, lampeggianti, sirene, sgommate, clacson e in corteo verso la Squadra Mobile della Questura. Murana non capisce cosa sia successo. «Un regalo che ci ha fatto Scarantino», gli dice un agente. Lo portano nello stanzone della Squadra Mobile, che ha una brutta fama. Gli mettono in mano un foglio con le accuse che gli vengono rivolte: “Strage, l’omicidio del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta”. I palermitani del popolo certe volte sono buffi quando nella loro parlata lenta e greve storpiano i nomi importanti. E così a Murana, scappa di dire: «A mia?… Ucciso al dottore Buorselline? Ma che siamo su Scherzi a parte?». E qui gli arriva la prima scarica di legnate. La prima di una lunga serie. Diciotto anni di galera, accusato dal “falso pentito” Scarantino di aver fatto da staffetta, in motorino, la mattina del 19 luglio 1992, alla Fiat 126 imbottita di tritolo della strage di via D’Amelio. Che Scarantino fosse falso lo sapevano tutti, che Murana fosse innocente, pure. Ambedue facevano però parte della Storia, un’incredibile storia italiana che continua a scorrere ancora oggi, un po’ nascosta, un po’ affiorante, perché il passato non è mai morto, anzi non è neanche mai passato. Sembra la trama di un romanzo di appendice. Il primo a comparire sulla scena è un importante ambasciatore.

L’AVVENTURA DELL’AMBASCIATORE  Il 4 agosto 1993 Francesco Paolo Fulci, ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, salì sul volo Alitalia New York-Milano per una missione urgente. Secondo quanto raccontato dallo stesso Fulci ai magistrati, si recò all’Hotel Principe di Savoia dove lo aspettava il comandante generale dei carabinieri Luigi Federici. Fu un incontro breve, durante il quale Fulci consegnò al generale, di cui era amico, una lista di 16 nomi. Poi tornò in aeroporto e prese lo stesso volo Alitalia che lo riportò oltre-Atlantico, tra lo stupore dell’equipaggio, il medesimo dell’andata. Quei giorni erano fra i più tesi e drammatici della storia della Repubblica. Dopo le paurose bombe di Palermo del 1992, l’Italia ora assisteva al bombardamento delle Gallerie degli Uffizi di Firenze e agli attentati di Milano e Roma. Altri attentati erano stati sventati o non divulgati; la sede del governo, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, era stata colpita da un black-out molto minaccioso. A Milano , il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si era suicidato nel carcere di San Vittore, e il potente industriale Raul Gardini era stato trovato con un colpo alla tempia nel suo letto. Il ruolo di ambasciatore alle Nazioni Unite faceva di Fulci il più importante diplomatico italiano in un Paese, il cui principale quotidiano, il New York Times, commentando le bombe italiane, parlava di «clima da colpo di stato» e del coinvolgimento di «servizi segreti deviati». E Fulci qualcosa sapeva: dopo essere stato ambasciatore alla Nato a Bruxelles ai delicati tempi delle rivelazioni su Gladio, l’ambasciatore aveva appena terminato un incarico che era stato per lui molto drammatico. Cossiga, capo dello Stato, e Andreotti, presidente del Consiglio, due anni prima gli avevano pressantemente chiesto di assumere la carica di direttore del Cesis, l’istituzione che sovraintendeva ai nostri due servizi segreti, Sisde e Sismi. Il biennio passato in quel posto fu, per Fulci, tumultuoso e molto pericoloso. Venne immediatamente minacciato di morte, spiato e intimidito con microspie fino in camera da letto, scoprì che la misteriosa sigla “Falange armata” che rivendicava telefonicamente tutti i fatti di sangue in Italia (oltre che firmare le minacce alla sua persona) lo faceva direttamente dagli uffici periferici dei servizi, e in orario d’ufficio. Fulci conduce un’inchiesta e fa arrestare per malversazioni miliardarie una potente struttura che aveva conquistato i vertici del Sisde, i cui personaggi sono legati all’estrema destra. Lascia (con proprio grande sollievo) il posto di direttore del Cesis nell’aprile del 1993 per assumere il nuovo incarico all’Onu e prende possesso della sua nuova residenza a Manhattan. Sistemando i libri nella biblioteca, ne mostra uno alla moglie Claris, tra le cui pagine aveva inserito un foglietto: «Se un giorno mi dovesse succedere qualcosa, ricordati di questa lista di nomi». Erano, ovviamente, i 16 nomi che ora aveva in mano il generale Federici. Chi sono? Sono militari di diverso grado, in forza al Sismi, esperti in sabotaggio ed esplosivo, molti provengono dalla divisione Folgore; formano l’Ossi (Organizzazione speciale servizi italiani), che fa parte della VII divisione del Sismi, con sede a Cerveteri, hanno partecipato, all’estero, ad alcune operazioni molto riservate. Fulci chiede a Federici di svolgere un’indagine interna «per escludere che queste persone siano state nei paraggi degli attentati alle date degli stessi e rendere quindi onore ai nostri servizi segreti» (è un po’ come dicono i medici coscienziosi: «Facciamo una Tac per escludere…»); ma è con qualche stupore che il giorno dopo, tornato a New York, riceve una telefonata dal presidente Scalfaro che si mostra al corrente di tutto e gli chiede di dare la lista anche al capo della polizia Vincenzo Parisi. L’ambasciatore Fulci provvede, il capo della polizia lo informa di aver incaricato la magistratura di svolgere le indagini con assoluta urgenza. Immagino che adesso il lettore vorrà sapere tantissime cose: chi erano quei tipacci? Erano davvero loro ad aver messo le bombe? Addirittura c’entravano con la morte di Falcone e Borsellino? O la Tac richiesta dall’ambasciatore Fulci aveva fortunatamente salvato l’onore dei servizi segreti italiani? E soprattutto: questa spy story cosa a che fare con le vicende del povero Gaetano Murana?

MIO CUGINO NINO GIOÈ. Antonino Gioè detto Nino è una persona importante in Cosa Nostra. Viene dal paese di Altofonte, sopra Palermo, tra i boschi, un posto scosceso di vecchie case dai balconi di ferro, sede di una famiglia, i Di Carlo, che ha i quattro quarti della nobiltà mafiosa. Ha un cugino importante, lui stesso ha buone relazioni, è stato paracadutista nella divisione Folgore. Nel 1993 lo hanno beccato a Palermo, una soffiata: in un appartamento dove si nascondeva, peraltro pieno di microspie. Si è scoperto che è stato lui – materialmente – a sistemare l’esplosivo sotto l’autostrada a Capaci, lo hanno portato al 41-bis a Rebibbia. Dicono che voglia collaborare…Nella notte tra il 28 e il 29 luglio 1993 lo trovano morto impiccato in cella, il corpo accartocciato su un tavolino, tutto il peso è retto dai lacci delle scarpe che ha appeso alla grata della finestra… C’è una persona che si turba moltissimo alla notizia proveniente da Rebibbia. Un po’ si sente responsabile di quella morte, un po’ pensa che forse la stessa cosa possa succedere a lui. Si chiama Francesco Di Carlo, è il cugino di Nino Gioè, il vero capo della famiglia di Altofonte, trafficante internazionale di droga, da dieci anni rinchiuso nelle carceri inglesi, per aver organizzato un import-export di eroina e cannabis per la bella cifra di 350 miliardi di sterline. Ma Di Carlo è custode di molti segreti e per questo motivo non è al carcere duro; lo tengono nella prigione di Full Sutton, su al Nord, nello Yorkshire, dove ha una certa libertà. Può telefonare, ricevere la posta, spedire lettere, e può anche ricevere visite. Un giorno del 1988 vennero da lui tre distinti personaggi per una chiacchierata. Due italiani e un inglese, ma parlarono solo quelli che si chiamavano Giovanni e Nigel, il terzo se ne stette molto taciturno. Gli chiedevano, in sostanza, se poteva fare qualcosa per la situazione che si era venuta a creare a Palermo; c’era questo giudice, Giovanni Falcone, che stava esagerando con le indagini… Bisognava fare qualcosa; no, non ucciderlo, ma fargli capire… Conosceva qualcuno di fidato cui rivolgersi? Di Carlo diede il nome di suo cugino Nino Gioè. Tempo dopo Gioè gli fece sapere che aveva incontrato i suoi amici: «Hanno mezza Italia tra le mani, possiamo fare tante cose». Di Carlo rispose: «Sì, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre». Adesso il lettore vorrà sapere chi era quel tipo taciturno che stava insieme a Giovanni e Nigel. O sapere come mai, intorno alle stragi, si addensano liste di nomi di ufficiali paracadutisti della Folgore.

Le falle della sicurezza e la mancata protezione del procuratore

«Come ci si può sorprendere che ci siano stati depistaggi se all’inizio non c’è stata protezione nei confronti di Paolo Borsellino?», è il commento dell’ex Ministro Claudio Martelli
Lo ha detto senza mezzi termini dinanzi questa Commissione l’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli: come ci si può sorprendere che ci siano stati depistaggi se all’inizio non c’è stata protezione nei confronti di Paolo Borsellino?
Non è la prima volta che Martelli propone una considerazione di questo tipo. Era già successo durante le indagini sulla strage di via D’Amelio quando, nella veste di testimone, viene sentito dal Procuratore di Caltanissetta Tinebra e dai suoi sostituti.
MARTELLI, già Ministro della Giustizia. La cosa che mi colpì è che anche a loro prospettai la questione della mancata protezione, della mancata tutela di Borsellino, ma la cosa lasciò Tinebra del tutto… «sì, sì», come se fosse un aspetto trascurabile e tutto l’interrogatorio poi che mi riguardò… mi ha dato la sensazione di essere un rito puramente formale, insomma, che non è che cercasse neanche spunti investigativi, suggestioni, fantasie o qualche fatto. Il fatto più grave l’avevo bello che sciorinato, ma su quello non s’è dato pena di fare alcun approfondimento.
Secondo quanto riferito da Martelli, dunque, il fatto che il dispositivo di sicurezza intorno a Borsellino presentasse più di una criticità non costituiva in quel momento per la procura nissena un elemento da approfondire e comunque da suggerire piste investigative degne di rilievo. Come se si fosse trattato solo di semplici disguidi. Aggiungiamo, come se attorno a Paolo Borsellino in quelle settimane tra Capaci e via D’Amelio non si fossero addensati presagi, avvertimenti, minacce, disvelamenti che avevano tutti (come vedremo nelle pagine che seguono) un comune denominatore: attentare alla vita del magistrato palermitano.
Facciamo un passo indietro e torniamo a sabato 23 maggio 1992. Una sola certezza riesce a farsi strada tra le macerie fumanti dell’autostrada A29: con l’uccisione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino diventa agli occhi dell’opinione pubblica, dei suoi colleghi, del governo, delle forze dell’ordine “il prossimo della lista”: se qualcosa accadrà, sanno e temono tutti, avrà come obiettivo il giudice Borsellino. E allora cosa succede? Niente! Parte soltanto un silenzioso conto alla rovescia che durerà per cinquantasette giorni. Fino a metà giugno, ci spiega Antonio Vullo, la scorta di Borsellino non ebbe alcun rafforzamento.

SENZA NEANCHE VIGILANZA FISSA

  • FAVA, presidente della Commissione. Ci furono procedure particolari di sicurezza adottate (per Borsellino) dopo la strage di Capaci?
  • VULLO, componente della scorta del giudice Paolo Borsellino. Quando ho preso in custodia il giudice Borsellino siamo andati subito in via Cilea (dov’era l’abitazione del giudice, ndr.). Io immaginavo di trovare un bunker perché dopo la strage di Capaci pensavo che tutelare il giudice Borsellino fosse doveroso anche perché sapevamo tutti che dopo Falcone toccava a Borsellino, lo sapeva anche la gente comune. Solo che quando siamo arrivati… non c’era la vigilanza fissa e questo ci ha dato molto da pensare: eravamo solo un’auto con tre componenti e dovevamo controllare il box interno all’edificio dove abitava il giudice, l’androne, le scale, l’ascensore e tre uomini non sono sufficienti. (…) Difatti il giorno successivo chiedemmo l’ausilio della volante per fare la bonifica quando si arrivava all’abitazione del giudice Borsellino… Poi si sono fatte relazioni perché c’era bisogno della vigilanza fissa, e credo intorno al 16 o 17 di giugno sia stata messa sia la vigilanza fissa del reparto mobile di Palermo e sia una seconda auto che faceva un turno in seconda, ossia 8-14 e 14-20, mentre la scorta, di cui io facevo parte, faceva anche la sera e la notte.
  • FAVA, presidente della Commissione. Quindi dal 16 o 17 giugno eravate due auto più quella del dottore Borsellino che però aveva un autista del Ministero.
  • VULLO, componente della scorta del giudice Paolo Borsellino. Un autista giudiziario, sì, però il sabato pomeriggio e la domenica guidava sempre lui.
  • FAVA, presidente della Commissione. L’autista non era in servizio?
  • VULLO, componente della scorta del giudice Paolo Borsellino. Non era in servizio.
  • Riepiloghiamo: muore Giovanni Falcone ma il dispositivo di protezione nei confronti di Paolo Borsellino per diverse settimane non viene modificato: una sola auto, nessuna bonifica a casa, nessun posto fisso sotto l’abitazione, nessun divieto di sosta davanti all’abitazione della madre in via D’Amelio… Alcune di queste misure verranno successivamente migliorate ma solo per le relazioni di servizio che gli agenti di scorta si impuntano a trasmettere ai loro uffici. Se non fosse stato per loro, e per le premure del collega Gioacchino Natoli1, il livello di protezione sarebbe rimasto minimo.
  • Resta inspiegabilmente priva di qualsiasi vigilanza l’abitazione materna di via D’Amelio, nonostante fosse una delle poche frequentazioni abituali del giudice Borsellino, come ha avuto modo di spiegare la moglie Agnese durante il processo di primo grado del “Borsellino 1”:
  • TESTE PIRAINO A.: Credo che il punto più vulnerabile era proprio questo dove abitava la mamma.
  • P.M. dott.ssa PALMA: Perché ci dice così?
  • TESTE PIRAINO A.: Perché i suoi spostamenti erano limitatissimi e sempre gli stessi: il Palazzo di Giustizia, la chiesa di fronte casa nostra e la mamma, dove lui andava sia per vederla sia per prestare quell’assistenza che era necessaria allorquando lei non stava bene. (…) E tutte le domeniche andava dalla mamma a trovarla. Sempre.  

 

 Prove di depistaggio, l’agenda rossa scomparsa e il falso pentito

Un’ulteriore prova del fatto che tutto avviene negli attimi immediatamente susseguenti allo scoppio è rappresentata, secondo Scarpinato, dagli strani movimenti che quel giorno fa l’allora capitano Giovanni Arcangioli: prende la borsa, fa qualche metro, e poi ritorna indietro rimettendo il tutto all’interno del mezzo le cui fiamme non sono state ancora del tutto domate. Perché?

Un’ulteriore prova del fatto che tutto avviene negli attimi immediatamente susseguenti allo scoppio è rappresentata, secondo Scarpinato, dagli strani movimenti che quel giorno fa l’allora capitano Giovanni Arcangioli: prende la borsa, fa qualche metro, e poi ritorna indietro rimettendo il tutto all’interno del mezzo le cui fiamme non sono state ancora del tutto domate. Perché?

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Il capitano Arcangioli prende la borsa dall’interno della macchina, percorre sessanta metri fino a raggiungere via Autonomia Siciliana e fin qui niente di strano: è un capitano… che prende la borsa che può consegnare ai magistrati, alla polizia… Quello che è inspiegabile è che il capitano Arcangioli ritorna indietro con la borsa… la macchina in quel momento ha un ritorno di fiamma… prende la borsa, la rimette nella macchina e la borsa non prende fuoco solo perché un vigile del fuoco getta l’acqua con la pompa. Il capitano Arcangioli non è riuscito a spiegare questo comportamento. Ha detto che ha aperto la borsa e che dentro non c’era niente: c’era un crest, un costume bagnato, alcuni fogli appuntati con una graffetta. I casi sono due: o mente o qualcuno era arrivato prima di lui. Comunque sia l’agenda viene sottratta nei pochi minuti susseguenti alla esplosione…

Non possiamo dare una risposta al quesito di Scarpinato, anche perché sulla posizione di Arcangioli, come è noto, si è già espressa l’Autorità Giudiziaria con sentenza di non luogo a procedere. Ciò che è certo, e che qui va ribadito, è l’anomalo interesse, in quei primi momenti di assoluta concitazione, che esponenti delle istituzioni mostrano, più che per le sorti delle vittime, per gli appunti raccolti dal giudice Borsellino tra le pagine della sua agenda.

E proprio sul valore investigativo di quest’agenda, e sull’imbarazzante sottovalutazione di taluni inquirenti, è utile riferire lo stralcio di un’intervista rilasciata un anno dopo la strage dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra:

TINEBRA, già procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Posso dire che non abbiamo elementi per ritenere che sia stata sottratta e soprattutto per stabilire chi l’abbia potuta prendere. Posso affermare solo che non l’abbiamo trovata.

Il passo successivo sarà la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino.

Il Colonnello Arcangioli è stato prosciolto dall’accusa di furto dell’agenda rossa, aggravato dalla finalità mafiosa (nell’ambito del procedimento penale n° 287/2008 RGNR) con sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup presso il Tribunale di Caltanissetta il 1° aprile 2008, confermata dalla Corte di Cassazione  


I suggerimenti e le imbeccate del questore Arnaldo La Barbera

Vincenzo Pipino ha anche raccontato: «Dopo due-tre anni, quando Scarantino si è pentito, tra virgolette, raccontando un sacco di bugie, sono venuti a trovarmi quei tre che mi avevano accompagnato… mi hanno portato i saluti di La Barbera dicendomi sempre di star tranquillo, questa storia qui di tenermela per me, che era una cosa mia che mi ero inventato…»

Torniamo a Pipino, alla sua missione per conto di La Barbera. E al momento in cui riferisce al questore di Palermo le sue impressioni su Scarantino.

PIPINO. Quando è venuto La Barbera, gli ho detto «gira la testa dall’altra parte che questa è una persona completamente innocente», e lui mi ha detto «Tienitela per te, non dirlo a nessuno, sappi che questa è una tua deduzione», «Sì, sì, come vuoi, mi faccio gli affari miei. Ho un processo delicato, me ne vado in carcere, devo curarmi il mio processo», e ci siamo mollati, diciamo così.

«Tienitela per te», dice il questore La Barbera, dominus delle indagini in quel 1992: un altro tassello per irrobustire (in questo caso per proteggere) l’impianto di falsità che da lì a poco Scarantino avrebbe dovuto interpretare in sede processuale. La missione di Vincenzo Pipino non ha prodotto il risultato sperato, il detenuto incaricato conferma l’idea che tutti quelli che verranno a contatto con Scarantino (e che non siano accecati dall’ansia di un risultato, qualunque esso sia) comprenderanno dopo poche battute: quel ragazzo è un poveraccio, terrorizzato, confuso, ignorante, certamente incapace di recitare il ruolo dentro Cosa nostra che altri gli hanno ritagliato addosso. Eppure il capo del cosiddetto gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” liquida la faccenda rimandando Pipino a Roma con quel messaggio che non ammette obiezioni: «Tienitela per te».

E a Pipino il “suggerimento” viene ribadito qualche anno dopo:

  • PIPINO. Poi, dopo due-tre anni, quando Scarantino si è ‘pentito’, tra virgolette, raccontando un sacco di bugie, sono venuti a trovarmi quei tre che mi avevano accompagnato… mi hanno portato i saluti di La Barbera dicendomi sempre di star tranquillo, questa storia qui di tenermela per me, che era una cosa mia che mi ero inventato… Non c’è problema, gli dissi di salutarmelo e finiamola qua.

IL RACCONTO DI VINCENZO PIPINO 

  • PIPINO. Ero a Prato (in carcere, ndr.), ad un certo momento vedo Scarantino che stava parlando su Italia Uno e mi è scappato dire “guarda questo brutto pezzo di merda, un pentito manovrato dai servizi segreti, con la compiacenza di qualche magistrato”. Non l’avessi mai detto! In quella cella c’erano i Gionta, c’erano personaggi molto importanti della malavita e anche un siciliano che era proprio del quartiere di Scarantino, che ha ascoltato questo mio discorso…
  • FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, si ricorda come si chiamava?
  • PIPINO. No, non mi ricordo… Comunque, al mattino mi si avvicina questo soggetto e mi dice: «ma come fai a dire queste cose, che è un pentito manovrato dai Servizi segreti con la compiacenza di qualche magistrato». Dico: «è una deduzione, una cosa mia. Penso che sia così perché sono stato in cella con lui…». Cosa fa questo? Scrive a Vigna, al Procuratore antimafia, e mi trovo processato per aver detto queste cose. Interrogato dal giudice, dissi: «guardi, è una mia deduzione, non è nulla di confermato», e sono stato assolto. Ma li ho avuti sempre addosso, purtroppo qui a Venezia ho avuto problemi seri perché La Barbera qui lo conoscevano come un mito, era un personaggio molto conosciuto e ho avuto delle conseguenze, ecco…
  • FAVA, presidente della Commissione. Quanto tempo siete rimasti insieme in cella con Scarantino?
  • PIPINO. Sette giorni. Poi io dissi di mandarmi a Roma e chiamai il comandante del carcere dicendogli di chiamare La Barbera perché volevo dirgli una cosa. Lui me lo chiamò e gli dissi: «guarda, gira la testa dall’altra parte e portami a Roma».
  • SCHILLACI, componente della Commissione. Perché lei all’inizio di questa audizione ha riferito che secondo lei La Barbera era soltanto un esecutore di ordini? Mi faccia capire questa sensazione.
  • PIPINO. Io ho avuto questa sensazione, cioè non sono un mago… però, da esperienze, conoscendo La Barbera e non solo lui, ma tutti i commissari di Venezia perché io ho passato la mia vita a lottare con questi poliziotti, mi è venuto il forte dubbio che fosse lui l’autore di questa oscura trama giuridica. Perché è talmente strano che un detenuto sottoposto ad una vigilanza così stretta, come era Scarantino, che dopo sette giorni non era ancora stato interrogato né dai magistrati né sentito dai suoi avvocati… che arrivasse addirittura in carcere a Venezia, che è un carcere aperto, perché io lo portavo in sala giochi, si giocava a bigliardino… secondo me non era tanto facile che a organizzare un’operazione del genere fosse una persona sola… questo voglio dire, che non sia stata un’idea di La Barbera.
  • DE LUCA, componente della Commissione. Nella sua vita ha mai avuto contatti con apparati dei Servizi segreti, a livello di confidenze, di richiesta di informazioni dato che lei aveva questa ampia confidenza col tessuto carcerario?
  • PIPINO. Io sono stato in contatto con Servizi segreti forse inconsciamente, perché ho fatto tante cose sulla giustizia.
  • DE LUCA, componente della Commissione. Si è mai stato chiesto perché lei viene scelto da La Barbera per essere tradotto in questo carcere ed essere posizionato al fianco di Scarantino?
  • PIPINO. No. A me è parso molto strano che La Barbera abbia scelto me sapendo che io, per quanto riguarda collaborazioni e cose varie, non le ho mai accettate nella mia vita, io preferisco morire piuttosto che fare la spia a qualcuno.  

L’agenda rossa e le “numerose contraddizioni” dei testimoni

Secondo il procuratore generale Roberto Scarpinato, «Borsellino ha capito cosa c’è dietro la strage di Capaci. Ha capito che dietro la strage di Capaci ci sono entità esterne a Cosa nostra, ci sono spezzoni dei servizi, pezzi deviati dello Stato e annota tutto questo nella sua agenda rossa con uno sgomento che è progressivo».

Prima di proseguire nella nostra trattazione, è importante rileggere – facendo tesoro di quanto riferito nel precedente paragrafo – le motivazioni della sentenza di secondo grado del Borsellino Quater, laddove si fa riferimento alla “scomparsa” dell’agenda rossa.

Sono state, inoltre, ricostruite da parte dei primi giudici le “zone d’ombra” esistenti sulla “sparizione” dell’agenda rossa, smaterializzata dal luogo infuocato della strage dalla borsa del magistrato, ricomparsa dopo alcuni mesi nelle mani del dott. La Barbera che la riconsegna alla moglie del magistrato. Non può dimenticarsi che le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi – intervenuti nell’immediatezza della terribile esplosione nella via D’Amelio, fra fumi e macerie e con lo sconcerto per il terribile fatto accaduto – hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione, “in giacca” nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine, e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nell’immediatezza come “appartenenti ai servizi segreti”. E tale ultimo particolare appare ancora più inquietante se si considera che di “un uomo estraneo a Cosa Nostra” ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios quando, come già detto, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la FIAT 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo.

Delle “numerose contraddizioni” cui accennano i giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta abbiamo già riferito nella relazione conclusiva della prima inchiesta, cui espressamente si rinvia. Quello che qui ci preme comprendere meglio è l’importanza dell’agenda rossa, nella prospettiva dell’organizzazione e della pianificazione del depistaggio stesso.

Cruciale, a tal riguardo, è stata l’audizione del procuratore generale Roberto Scarpinato, il quale preliminarmente ci dà una sua lettura sul perché quell’agenda abbia, per coloro che l’avrebbero sottratta, un’importanza vitale.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Borsellino ha capito cosa c’è dietro la strage di Capaci. Ha capito che dietro la strage di Capaci ci sono entità esterne a Cosa nostra, ci sono spezzoni dei servizi, pezzi deviati dello Stato e annota tutto questo nella sua agenda rossa con uno sgomento che è progressivo.

APPUNTI E DETTAGLI

Borsellino prende nota di tutto. Al momento debito riverserà tutte le sue informazioni all’Autorità giudiziaria competente. Bisogna fermarlo a tutti i costi. Ed è qui che la fase esecutiva della strage si interseca, ed armonizza, con il furto dell’agenda.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Non basta uccidere Borsellino. Perché se tu lo uccidi, vabbè, Cosa nostra ha fatto quello che doveva fare. Ma se l’agenda rossa nella quale Paolo Borsellino aveva annotato tutti i dialoghi informali e così via finisce nelle mani della magistratura è finita. È finita perché… le chiavi che lo avevano sgomentato sono in grado di aprire scenari che non colpiscono soltanto gli interessi di Cosa nostra ma colpiscono e portano ad individuare i mandanti ed i complici esterni di quella strage.

Scarpinato è categorico: i fatti riportati all’interno dell’agenda sono tali da determinare un terremoto che potrebbe risultare letale non solo per Cosa nostra ma anche per quel sistema di deviazione istituzionale che in questa vicenda gioca un ruolo centrale. Una ricostruzione in aperto contrasto col tentativo di Avola di ricondurre il tutto ad una visione semplificata e confortante: fu solo mafia.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. È estremamente interessante la sequenza della sparizione dell’agenda che io credo che il pubblico non conosca bene… Il pubblico ritiene che viene sottratta la borsa, viene portata negli uffici di polizia, e poi l’agenda scompare: non è così! L’agenda viene prelevata pochi minuti dopo l’esplosione e qui notate la cooperazione tra mafiosi e soggetti esterni: i mafiosi fanno esplodere la bomba ma non si possono incaricare, dopo l’esplosione, anche di prelevare l’agenda perché è troppo pericoloso. Questo compito può essere assolto soltanto da soggetti insospettabili, perché hanno la veste istituzionale per andare sul luogo e fare questa operazione di prelievo… E poi il carattere selettivo dell’intervento perché nella borsa ce n’erano due agende: c’era l’agenda rossa e l’agenda marrone, ma l’agenda marrone viene lasciata lì dentro. Quindi non è un’operazione protocollare dei servizi: perché l’operazione protocollare dei servizi è che per esigenze di Stato si prende tutto e poi si vede. Invece l’agenda marrone viene lasciata e viene tolta l’agenda rossa.


 

Quegli uomini in giacca e cravatta nell’inferno di Via D’Amelio

Il sovrintendente Francesco Paolo Maggi e il vice sovrintendente Giuseppe Garofalo sono tra i primi poliziotti ad accorrere sul luogo della strage. Ma non sono i soli ad arrivare tempestivamente: perché, quella domenica pomeriggio, si aggirano indisturbati tra le macerie di via D’Amelio anche soggetti che si qualificheranno come appartenenti ai servizi

Ci siamo già soffermati, nel corso della precedente inchiesta di questa Commissione, sulla rilevanza delle testimonianze rese nell’ambito del processo di primo grado del “Borsellino quater” da parte del sovrintendente Francesco Paolo Maggi, all’epoca in servizio presso la squadra mobile di Palermo, e del vice sovrintendente Giuseppe Garofalo del reparto volanti della locale questura.

I due poliziotti, lo ricordiamo, sono tra i primi ad accorrere sul luogo della strage. Ma non sono i soli ad arrivare tempestivamente: perché quella domenica pomeriggio si aggirano indisturbati tra le macerie di via D’Amelio anche soggetti che si qualificheranno come appartenenti ai servizi.

Maggi ne nota più d’uno: (“quattro o cinque”, “gente di Roma” dirà al dibattimento). Garofalo ne incrocia uno soltanto. Coincide la descrizione: rigorosamente in giacca e cravatta (nonostante fosse il 19 luglio!), non sembrano per nulla scioccati e neppure interessati a prestare soccorso ai residenti feriti.

Qual è allora il motivo della loro presenza? Probabilmente il contenuto della cartella di Paolo Borsellino, rimasta all’interno della Fiat Croma che il magistrato guidava quel pomeriggio (l’autista ministeriale non era in servizio).

La loro è una corsa contro il tempo: bisogna far presto prima che altri possano mettere le mani sull’inseparabile agenda rossa del giudice e magari venire a conoscenza di tutte quelle informazioni che il procuratore aggiunto di Palermo ha scrupolosamente raccolto fino al momento della sua tragica uccisione.

Abbiamo provato a ricostruire quei momenti con uno dei due testimoni, Giuseppe Garofalo, oggi ispettore superiore della Polizia di Stato, all’epoca capo pattuglia della volante 32.

  • FAVA, presidente della Commissione. Torniamo a quello che è successo il 19 luglio. Voi eravate in servizio da quanto tempo quella mattina?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Noi facevamo l’orario 13 – 19. Quindi, dalle 13, dall’una alle sette del pomeriggio.
  • FAVA, presidente della Commissione. Avevate un settore della città?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì, la volante 32 si occupava di quella zona lì, ma anche della zona Mondello, insomma, abbastanza larga come zona.
  • FAVA, presidente della Commissione. Venite avvertiti dalla sala operativa o andate perché sentite il rumore dell’esplosione?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Noi siamo stati allertati dalla sala operativa anche se il botto si è sentito… All’inizio si è pensato all’esplosione di una bombola del gas, qualcosa del genere, solo che poi quando le notizie sono iniziate a confluire parlando della via D’Amelio abbiamo capito che c’era qualcosa, insomma, che era collegata al dottore Borsellino. E quindi, immediatamente abbiamo fatto strada… eravamo in zona, a Mondello, tenga presente che abbiamo messo pochissimo ad arrivare perché non c’era traffico.
  • FAVA, presidente della Commissione. Pochi minuti?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì, sì, non c’era traffico quindi siamo arrivati subito, abbiamo trovato già la volante 21 che era già arrivata, però oltre alla 21 ancora non c’era nessuno.

LA “VOLANTE” 32

La volante 32 ci mette poco ad arrivare. Sul posto ci sono già i colleghi della 21. Ed è in quel momento che, a pochi metri dall’autovettura di Paolo Borsellino, Garofalo si imbatte in uomo che si qualifica come appartenente ai servizi. Afferma di essere in cerca della borsa del giudice o, addirittura, Garofalo non lo rammenta bene, ne è già entrato in possesso.

  • GAROFALO, ispettore di Polizia. C’è stato questo momento che ripeto all’inizio pensavo fosse qualcosa di immaginario…
  • FAVA, presidente della Commissione. Si ricorda se l’uomo le mostrò un distintivo, un tesserino?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Allora, su questo non ho dubbi perché se non fosse stato così, ovviamente, io l’avrei immediatamente bloccato quanto meno controllato o identificato.
  • FAVA, presidente della Commissione. Per cui ha mostrato qualcosa?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì, sì, sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. E lo vide vicino all’auto del giudice… a quello che restava dell’auto del giudice?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Allora, consideri che in quel momento lì io lo ricordo sempre come una scena di un film di guerra perché vi erano i palazzi con le vetrate sfondate, le auto incendiate, fumo, fiamme… lo shock emotivo è stato enorme… vero è che (l’incontro, ndr.) è durato un secondo perché poi l’obiettivo era quello di aiutare le persone che erano rimaste all’interno delle abitazioni, perché ci siamo resi conto che chi era sulle macchine o era fuori purtroppo era già deceduto. Quindi, sì, questo soggetto lo incontro proprio, c’era la macchina di Borsellino, e ho avuto questo incontro.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lo vede in abiti civili.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Abito civile, vestito con una giacca, ecco, la cosa che ha attirato la mia attenzione è stata proprio che aveva una giacca e in estate nessuno porta la giacca e questo è stato il momento in cui io ho avuto un minimo di attenzione… ma anche perché era lì, ora non ricordo se mi ha chiesto della borsa del dottore Borsellino, o piuttosto era in possesso della borsa.
  • Fermiamoci un istante perché dietro a quello che può apparire come un ricordo sfuocato potrebbe celarsi la fase embrionale del depistaggio. Ossia – così come avrà modo di chiarirci meglio il procuratore generale Roberto Scarpinato – il momento in cui l’agenda rossa di Paolo Borsellino scompare (o, per meglio dire, viene fatta sparire) dalla scena del crimine.
  • FAVA, presidente della Commissione. Il suo ricordo è che in qualche modo c’entra questa valigetta.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. …perché lui le ha chiesto dove fosse o perché lei lo ha visto con la valigetta.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Ma parliamo sempre di attimi, di frazione di secondo, istanti.
  • FAVA, presidente della Commissione. Però certamente c’è un interesse di questa persona: perché la valigetta ce l’ha già o perché chiede a lei dove si trovi.
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Sì. In ogni caso doveva comunque far parte dell’entourage, delle indagini, perché in quel momento lì…
  • FAVA, presidente della Commissione. Di questo incontro lei ha fatto menzione in una relazione di servizio?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. No.
  • FAVA, presidente della Commissione. Nemmeno verbalmente?
  • GAROFALO, ispettore di Polizia. Allora non ho fatto menzione nella relazione perché di fatto alla fine, visto che si trattava di personale dei Servizi non c’era motivo di riportare in quel momento lì un fatto che era normale per Palermo, io ho lavorato alla sezione omicidi per un paio di anni qui a Palermo, quindi, capitava sovente che sui luoghi, sui posti dove c’era stato un omicidio piuttosto che qualcosa di particolare vi era personale dei servizi…

LE DICHIARAZIONI DI MAGGI

Anche in questa sede è tuttavia utile riportare alcuni stralci della deposizione di Francesco Paolo Maggi dinanzi la Corte di Assise del Tribunale di Caltanissetta nel dibattimento del Borsellino Quater (udienza del 20 maggio 2013, pp. 72, 77-79):

  • TESTE MAGGI F.P. – Cioè la cosa strana è che io notai molta gente che si aggirava giacca e cravatta dei Servizi. Ho detto: “Ma questi come hanno fatto a… a sapere già…?”, Ma dopo dieci minuti io già ne avevo visto un paio là che gironzolavano.
  • P.M. Dott. GOZZO – Lei ha ricostruito che si trattasse dei Servizi o…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, perché un paio li conosco, di Roma. Io ho lavorato sette anni a Roma.
  • P.M. Dott. GOZZO – E a questo punto la invito a fare i nomi di queste persone, se li riconosce.
  • TESTE MAGGI F.P. – E non li conosco, conosco di… di faccia, è gente questa che… manco ti dà confidenza.
  • P.M. Dott. GOZZO – E quando ha notato queste persone? Dal punto di vista del timing, diciamo così.
  • TESTE MAGGI F.P. – Dopo dieci minuti che era avvenuto tutto il fatto.
  • P.M. Dott. GOZZO – E quindi quando siete arrivati voi, praticamente.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, sì, subito dopo. Io uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa.
  • TESTE MAGGI F.P. – … ripeto, io sono stato uno dei primi ad arrivare là. E poi in questo andirivieni, che saranno passati cinque – dieci minuti, forse pure un quarto d’ora, non riesco a quantificare i minuti, notavo questa gente giacca e cravatta che… che si avvicinava, che cercava, che… Cioè non.. (…) In primo tempo mi volevo avvicinare a queste persone per chiedere: “Ma voi che state facendo? Che state cercando?” Poi ho visto che era gente di Roma, perché li conoscevo di vista, e ho lasciato perdere.
  • P.M. Dott. GOZZO – Eh, ma mi scusi, ecco, allora a questo punto esploriamo meglio questa cosa. Stavano cercando cosa? Cioè non dico che lei sapesse cosa stavano cercando, dico, ma cosa facevano?
  • TESTE MAGGI F.P. – No, tipo che si aggiravano in tutto… in tutta la… come vogliamo dire.
  • P.M. Dott. GOZZO – In tutta l’area.
  • TESTE MAGGI F.P. – In tutta l’area, sì.
  • P.M. Dott. GOZZO – Attorno al cratere, diciamo.
  • TESTE MAGGI F.P. – Ecco, nelle macchine parcheggiate.
  • P.M. Dott. GOZZO – Anche vicino a questa macchina azzurrina che lei…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Certo, qualcuno si avvicinò pure là. Va beh, si avvicinarono quando il fumo già forse era un po’
  • meno, sennò i vestiti si sporcavano.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quindi forse cercavano qualche traccia, come stava facendo lei.
  • TESTE MAGGI F.P. – E penso di sì, essendo… essendo poliziotti pure loro.
  • P.M. Dott. GOZZO – Ecco, essendo lei un poliziotto può capire anche l’atteggiamento che si…
  • TESTE MAGGI F.P. – Non è che gli posso dire a un collega: “Oh, ma che stai facendo? Che fai qua?” Non glielo posso
  • dire.
  • P.M. Dott. GOZZO – Diciamo che ha notato, ha registrato questa presenza, ma chiaramente non ha fatto altro.
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, ho detto: “Ma chissi… ma che ci avevano la radio?” Non lo so io, va’, mi sono posto questa domanda, ho detto: “Ma come mai?” E me la sono posto ora. Ai tempi non lo so perché, forse ero troppo giovane, ora, con il tempo, ‘sta cosa.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, a questo punto, visto che lei ha un ricordo abbastanza nitido, mi pare, se può specificare, ecco, adesso quante sono queste persone, se può in qualche modo quantificarle.
  • TESTE MAGGI F.P. – Perché arrivavano man mano, diventarono poi un esercito.
  • P.M. Dott. GOZZO – Allora, diciamo, nell’immediatezza lei già ha individua…?
  • TESTE MAGGI F.P. – Quattro o cinque potevano essere.
  • P.M. Dott. GOZZO – Quattro o cinque persone.
  • TESTE MAGGI F.P. – E c’era qualcuno pure che non conoscevo, ah? Solo che parlavano tra di loro e ho detto: “Mi’, su’
  • puru colleghi”, erano vistuti uguali, avevano ddocu ‘a spilletta, perché poi…
  • P.M. Dott. GOZZO – Avevano anche la spilletta di riconoscimento?
  • TESTE MAGGI F.P. – Penso del Ministero degli Interni o…
  • P.M. Dott. GOZZO – Del Ministero degli Interni.
  • TESTE MAGGI F.P. – …dell’ufficio che facevano parte questi, non lo so.
  • P.M. Dott. GOZZO – Senta, riesce a descriverli, cioè a dire com’erano, insomma, che…? Oppure ha un ricordo semplicemente numerico, diciamo così?
  • TESTE MAGGI F.P. – Sì, grossomodo è numerico, dottore, io non… non riesco a vedere… a riconoscere i visi. Mah,

statura normale, tipo la mia. 


Il mistero degli agenti “invisibili” sul luogo della strage

Di fronte al dato incontrovertibile della loro presenza, confermato da più testimonianze, quei funzionari dei servizi erano in via D’Amelio in via ufficiale o no? La risposta di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del SISDE, è inequivocabile: il primo a metter piede in via D’Amelio per conto del SISDE fu lui alle 22.30 di quel 19 luglio 1992

Durante la sua audizione, l’ispettore Garofalo ci riferisce che quell’uomo avrà avuto «quaranta cinquant’anni». Ad oggi costui non ha ancora un volto. Svelare la sua identità significherebbe provare a far luce su uno dei momenti più controversi di quel pomeriggio del 19 luglio. E soprattutto permetterebbe di capire a che titolo, nell’immediatezza dell’esplosione, uno o più appartenenti ai servizi segreti si trovavano in via D’Amelio alla ricerca della borsa del dottor Borsellino. In altri termini, di fronte al dato incontrovertibile della loro presenza, confermato da più testimonianze, quei funzionari dei servizi erano in via D’Amelio in via ufficiale o no? La risposta che ci ha fornito Bruno Contrada, all’epoca numero tre del SISDE, è inequivocabile: il primo a metter piede in via D’Amelio per conto del SISDE fu lui alle 22.30 di quel 19 luglio 1992: è quello l’orario dell’ingresso ufficiale in scena dei servizi.

Ma allora, l’uomo dei servizi che viene identificato pochi minuti dopo la strage da chi era stato mandato in via D’Amelio? E a fare cosa?

  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Verso le dieci e mezzo di sera io andai sul posto, in via D’Amelio… Ricordo che contemporaneamente a me arrivò il Ministro della difesa, l’onorevole Salvo Andò, attorniato da quattro o cinque generali, due generali dei Carabinieri, gli altri dell’Esercito…
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei sa se fu mandato subito del personale dei servizi, parliamo di dieci-dodici minuti dopo l’esplosione, in via D’Amelio? Da parte di Narracci, visto diciamo che era lui che aveva la gestione operativa del Centro di Palermo?
  • CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del SISDE. Io ritengo di no. Ritengo che il primo intervento sul luogo sia stato quello mio e di Narracci (alle 22.30, ndr.), perché mi accompagnò il dottore Narracci…
  • Contrada, dunque, esclude che qualcuno abbia dato a funzionari del SISDE l’ordine di intervenire tempestivamente sul teatro della strage: fu lui il primo. Resta, però, l’immagine che Francesco Paolo Maggi consegna al Corte di Assise di Caltanissetta nel corso della sua deposizione del 20 maggio 2013.
  • TESTE MAGGI F.P. – Non mi ricordo i volti, perché… non lo so, non mi interessava. Poi la mente elabora con il tempo, ti fai tante domande, acquisisci magari attraverso i giornali riscontri, e quindi ti fai pure tu delle domande. Dico: ma se la chiamata arrivò al 113, questi qui… Minchia, ma erano belli freschi, proprio senza una goccia di sudore, proprio come se erano dietro l’angolo… Da chi hanno appreso la notizia questi? Dopo dieci minuti sul posto… vularunu? Chissi di Roma vularunu?

Freschi, in giacca e cravatta, senza una goccia di sudore, mentre tutt’attorno via D’Amelio è un inferno di fiamme. Come se fossero stati comodamente ad aspettare dietro l’angolo, commenta Maggi. Non possono non tornare alla mente le considerazioni fatte da Salvatore Borsellino, fratello del magistrato e fondatore del movimento Agende Rosse, nel corso di un’intervista del 3 luglio 2018:

C’era qualcuno, al corrente di quanto sarebbe successo, che attendeva di potersi avvicinare alla macchina di Paolo e prendere la borsa dove era stata contenuta l’agenda.

Qualcuno, ci spiegherà il procuratore generale Scarpinato, talmente ben mimetizzato nella sua veste istituzionale da risultare invisibile. 


Dopo diciassette anni di falsità, Gaspare Spatuzza smaschera il pupo

Il collaboratore di giustizia che consente di smontare le falsità di Scarantino e l’impostura di un depistaggio durato diciassette anni, che aiuta ad individuare nel garage in cui viene preparata l’autobomba la presenza di un soggetto estraneo a Cosa nostra, che offre indicazioni certe e riscontri puntuali sulla strage di via D’Amelio, fatica ad ottenere ascolto.

Gaspare Spatuzza è uno dei personaggi chiave di questa storia. “Reggente” della famiglia Graviano dopo il loro arresto, catturato a Palermo il primo luglio 1997, reo confesso subito dell’omicidio di don Pino Puglisi e del rapimento del piccolo Di Matteo, nel 2008 si autoaccusa anche del furto della Fiat 126 usata per la strage di via D’Amelio. Ed è stata quest’ultima rivelazione a far crollare il “teorema Scarantino” che reggeva da 17 anni.

Sempre in quel periodo si è scoperto, per caso, che Spatuzza aveva già reso – dieci anni prima – amplissima testimonianza davanti ai giudici Vigna e Grasso (all’epoca, capo e vice della procura nazionale antimafia) che lo avevano interrogato nel 1998 nel carcere di Tolmezzo. Alla fine di quel lungo colloquio investigativo, Spatuzza però si era rifiutato di firmare il verbale, rendendolo inutilizzabile e, di fatto, permettendo al “teorema Scarantino” e alla detenzione al 41 bis di molti innocenti di durare un altro decennio (ne abbiamo riferito ampiamente nella precedente relazione di questa Commissione).

UNA DIFFICILE COLLABORAZIONE

Anche la “certificazione” dell’attendibilità di Spatuzza come collaboratore di giustizia, e il suo inserimento nel programma speciale di protezione, non hanno avuto un percorso facile: ed è ciò che ha voluto approfondire in questa indagine a Commissione Antimafia. Questa è la testimonianza offerta dall’avvocato Valeria Maffei, legale di Gaspare Spatuzza.

  • FAVA, presidente della Commissione. A proposito del colloquio investigativo che Spatuzza ebbe nel carcere dell’Aquila, con Vigna e Grasso, rispettivamente Procuratore Capo e Vice Procuratore della DNA… ebbe modo di capire, di approfondire la ragione per cui il suo assistito decise di non firmare quella deposizione, di rinviare di dieci anni abbondanti l’inizio della sua collaborazione sulla strage di via D’Amelio?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Lui mi ha sempre detto che la decisione della moglie di non seguirlo sotto protezione in quel momento fu assolutamente dirimente, lui non avrebbe mai iniziato una collaborazione all’epoca senza la moglie. Successivamente, dieci anni dopo, avendo fatto anche un percorso religioso, ha deciso di farlo indipendentemente dalla decisione della moglie… Non credo che sia stato dovuto ad altre circostanze.
  • FAVA, presidente della Commissione. La collaborazione inizia nel 2008 e il 15 giugno del 2010, la Commissione centrale del Viminale che si occupava della definizione e dell’applicazione delle misure speciali di protezione, presieduta all’epoca dall’onorevole Mantovano, decide di revocare il programma di protezione nei confronti di Spatuzza.
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Più che altro di non dargli un programma definitivo. Spatuzza aveva un programma provvisorio. Quando la Commissione si riunisce per valutare se dargli il programma definitivo, decide di non continuare il programma e quindi lui non ha più il programma di protezione, gli revocano quelli che sarebbero stati eventualmente i benefici, qualunque cosa. In sostanza decisero di non dargli un programma di protezione.
  • FAVA, presidente della Commissione. Il rilievo che fu mosso dalla Commissione fu che il riferimento a Berlusconi non sarebbe avvenuto all’interno dei 180 giorni, per questa ragione avrebbero revocato il programma.
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Però, Presidente, noi ci stupimmo, perché a fronte di moltissimi interrogatori che aveva sostenuto Spatuzza, che aveva parlato del più e del meno, aveva parlato di qualunque argomento, aveva ribaltato tutto quello a cui si era arrivato nell’arco di tantissimi processi …
  • FAVA, presidente della Commissione. Stiamo parlando di via D’Amelio…
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì, certo ovviamente, mi riferisco a via D’Amelio, mi riferisco a quello a cui si era arrivati, che non era la verità, e quello che Spatuzza cambiava, insomma riportava la verità. Noi la inquadrammo come una punizione… Non c’era un vero e proprio programma di protezione, solo era stato concesso il programma provvisorio dopo un anno e tre mesi che Spatuzza stava parlando… e questo programma provvisorio gli viene tolto. Quello che noi pensiamo in quel momento che è una punizione.
  • FAVA, presidente della Commissione. La sua sicurezza era garantita?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Lui era super protetto, questo sì, il problema fu che lui non ebbe modo di contrattare la famiglia, di dare una sicurezza alla propria famiglia… non aveva un euro, nessun contributo, Presidente, per un anno e tre mesi non ha percepito alcun contributo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Cosa disse poi il TAR quando raccolse il vostro ricorso e annullò la decisione della Commissione?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Più o meno quello che le sto dicendo. Che a fronte di una frase che lui non aveva detto… semplicemente per un timore del momento, perché in quel momento, il Presidente del Consiglio era la persona che lui nominava…
  • FAVA, presidente della Commissione. Facciamo un passo indietro. Il 22 aprile del 2009 viene convocata una riunione dalla Direzione Nazionale Antimafia fra i rappresentanti di diverse procure. Spatuzza sta collaborando già da tempo, giusto?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. La sua collaborazione inizia subito ricostruendo un’ipotesi investigativa completamente diversa su via D’Amelio, giusto?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Esatto.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe modo poi di apprendere di questa riunione?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Noi sappiamo dopo di questa riunione, non veniamo invitati… Sappiamo che Palermo non era d’accordo sul programma. E che Caltanissetta non era d’accordo sul programma.
  • FAVA, presidente della Commissione. Palermo e Caltanissetta non erano d’accordo.
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. È così. Io vado a Palermo, parlo anche con il procuratore Messineo il quale mi fa capire che loro non sono contenti, non sono soddisfatti di questa collaborazione che tutto sommato lui a Palermo ha offerto poco o niente. Stessa impressione parlando con Caltanissetta… Spatuzza percepisce durante gli interrogatori una mancanza di fiducia, percepiamo che c’è qualcuno che ci rema contro…
  • FAVA, presidente della Commissione. E questo è il clima che lei trova sia a Palermo che a Caltanissetta?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì. E che non troviamo invece a Firenze. Assolutamente.
  • FAVA, presidente della Commissione. Quand’è che c’è un cambio di clima a Caltanissetta su Spatuzza? Quand’è che cominciano a credergli?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Quando ritrovano i reperti della macchina.
  • FAVA, presidente della Commissione. Senta, sull’arresto di Spatuzza c’è un particolare che ci è stato riferito anche dal dottor Grasso, quando l’abbiamo ascoltato nel 2018. Grasso dice che Spatuzza gli spiegò, durante quel colloquio investigativo, fatto pochi mesi dopo l’arresto, «…io non avevo intenzione né manifestavo alcuna volontà di resistere all’arresto, eppure sono stato preso a “pistolettate”». Spatuzza le ha mai parlato dell’episodio del suo arresto?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì, nel senso che lui non oppose resistenza. E che fu un arresto molto violento, questo me lo ha detto.
  • SCHILLACI, componente della Commissione. Spatuzza le parlò mai di figure estranee a Cosa nostra nel garage di via Villasevaglios?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Nel garage, sì, lui vede una figura che non gli torna, che non collega a personaggi che conosceva. Lui l’ha sempre definita un’ombra, una persona non appartenente alla cerchia.

SPATUZZA CONTRO SCARANTINO

La testimonianza dell’avvocato Maffei è preziosa nel restituirci la narrazione di un percorso insolitamente travagliato: perché Spatuzza non viene creduto. Non subito, almeno. Il collaboratore di giustizia che consente di smontare le falsità di Scarantino e l’impostura di un depistaggio durato diciassette anni, che aiuta ad individuare nel garage in cui viene preparata l’autobomba la presenza di un soggetto estraneo a Cosa nostra, che offre indicazioni certe e riscontri puntuali sulla strage di via D’Amelio, fatica ad ottenere ascolto. Al punto che la Commissione ministeriale gli nega in prima battuta il programma speciale di protezione, che gli verrà – nei fatti – garantito comunque dall’amministrazione penitenziaria, come ricorda in Commissione il dottor Sebastiano Ardita, oggi consigliere togato del Csm, all’epoca dei fatti Direttore dell’Ufficio detenuti del Dap.

  • ARDITA, Consigliere del CSM. Credo Spatuzza non dava adito a possibile, come dire, fraintendimento circa la sua propensione a una sincera e spontanea collaborazione con la giustizia. Lui disse sostanzialmente “avevo cominciato a dire delle cose che riguardavano la mia sfera di competenza, la mia dimensione di responsabilità e quella del mio gruppo prima di crescere di livello volevo avere la certezza di essere creduto”, che non è una risposta malvagia per uno che collabora con la giustizia.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ci furono ripercussioni istituzionali con il Viminale dopo la vostra decisione dal Dap di non trasferirlo nel circuito carcerario normale?
  • ARDITA, magistrato. Guardi, non ce ne furono perché loro, secondo me, capirono perfettamente che non c’era dubbio sul fatto che noi dovessimo tenere quella linea. Nel senso che la competenza a mantenere le misure interne è proprio una competenza del Dipartimento penitenziario… Io ho agito come dovevo agire, ho assicurato gli organi giudiziari che avrei mantenuto le misure di prevenzioni integrali, intatte, dopodiché se avessero avuto qualcosa da ridire l’avrebbero detto al mio Ministro e il Ministro mi avrebbe dovuto, come dire, ascoltare su questo tema, come è avvenuto tantissime altre volte e devo dire quasi mai, ricordo, che di fronte ad una posizione tecnica sono stato smentito.

Ma l’incidente di percorso con la Commissione del Viminale (che è del 2010) ha un pregresso significativo.

Siamo nella primavera del 2009, Spatuzza collabora già da un anno. A partire dal 26 giugno 2008, la sua versione sui fatti di via D’Amelio, che smonta radicalmente il teorema Scarantino, è già stata offerta ai magistrati di Firenze, Caltanissetta e Palermo. Scarantino ha cominciato a riscrivere la storia della strage di via D’Amelio quando (quasi un anno dopo, il 22 aprile 2009) la DNA riunisce i magistrati di cinque procure (Firenze, Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria e Milano) per una prima valutazione su quella collaborazione e, soprattutto, per esprimere un parere sull’inserimento definitivo di Spatuzza nel programma di protezione. Il tenore di quella discussione è riportato nella richiesta di archiviazione della procura di Messina – poi accolta dal GIP – per i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Leggiamo:

La circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992”, svoltasi presso la DNA il 22.04.2009. Il motivo di quella riunione (…) era rappresentato dalla necessità di valutare l’opportunità di richiedere un programma speciale di protezione a favore dello stesso Spatuzza e dei suoi familiari. In quel verbale sono riportati due interventi del dottor Di Matteo.

Nel primo si legge: “Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che la collaborazione di Spatuzza, a suo giudizio, non è di particolare rilevanza (…)”.

Nel suo secondo intervento, sempre alla riunione del 22.04.2009, si legge: «Il dott. Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alle dichiarazioni di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza potrebbero mettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, ormai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori della giustizia».

Rileggere questi verbali oggi, con la consapevolezza di quale castello di menzogne si fosse costruito muovendo dalle dichiarazioni di Scarantino, è allarmante. Si ritiene di non dover concedere il programma di protezione a Spatuzza perché la sua collaborazione «non è di particolare rilevanza» e soprattutto perché «potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti». Che è esattamente ciò che era accaduto. E che proprio Spatuzza stava aiutando a svelare.

Non solo diciassette anni spesi ad inseguire e legittimare processualmente le fantasie d’un collaboratore di giustizia indottrinato, scegliendo di non fermarsi di fronte ad una incredibile progressione di contraddizioni (su cui abbiamo lungamente scritto nella precedente relazione); ma anche il tentativo di archiviare Spatuzza come un soggetto poco credibile, perfino dannoso nel momento in cui contribuisce a mettere in discussione verità ormai acclarate: il sospetto che quelle verità fossero una somma di mistificazioni continua ad essere un pensiero rimosso, fastidioso, dannoso. Che potrebbe gettare «discredito sulle istituzioni dello Stato».

A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, se discredito si è accumulato, è proprio per quel depistaggio che, ieri come oggi, puntava a fornire una lettura rapida e confortevole (solo mafia!) sulla morte di un magistrato e di cinque agenti di polizia. DOMANI 8.11.2021


La Dia sospetta interessi economici dietro le stragi ma incastrano il pupo  COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS  – Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, nel fornire un quadro generale di quella stagione, ha parlato di un rapporto della DIA, di fine 1993, in cui si delineava il quadro “economico politico finanziario” delle stragi, inviato alle procure di Palermo, Roma, Milano e Firenze. Si tratta del “Rapporto Oceano”, mai citato ed utilizzato nelle decine di inchieste che si sono succedute.

È utile, in appendice della nostra indagine, esaminare un’altra particolarità del depistaggio su via D’Amelio, che forse ne è anche la principale ragione: l’assenza, nella spiegazione del delitto Borsellino, di qualsiasi motivazione economica.

La procura di Caltanissetta dell’epoca, facendo sua, e imponendola all’opinione pubblica, la versione di Vincenzo Scarantino, ha fornito una ricostruzione dei fatti che spiega la strage di via D’Amelio unicamente con la volontà bestiale di vendetta di Cosa Nostra. E che Cosa nostra si sentiva talmente forte da poter affidare parte dell’organizzazione di quell’eccidio ad un soggetto marginale, praticamente analfabeta, con forti turbe psicologiche.

Ci sono voluti quasi vent’anni perché questa interpretazione dei fatti fosse smontata. Oggi il “versante economico” in cui avvennero le stragi è una delle ipotesi prese in considerazione.

Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avessero al centro dei loro interessi investigativi la potenza economica e finanziaria di Cosa nostra è da lungo tempo assodato. Falcone era intervenuto con forza del processo – fatale per la mafia americana – Pizza Connection (prestando all’Fbi sia Buscetta che Contorno che si rivelarono testimoni fondamentali); aveva pubblicamente denunciato la “finanziarizzazione” di Cosa Nostra (l’entrata in borsa nel gruppo Gardini); seguiva con attenzione le vicende del grande flusso di denaro che Cosa Nostra aveva investito a Milano (era stato il tema del suo incontro con la procuratrice svizzera Carla Del Ponte, già nel 1988) ed era, ovviamente, molto interessato al rapporto dei Ros su mafia e appalti, che approfondiremo in questo capitolo e che apriva uno scenario: la conquista da parte di Cosa Nostra di una posizione quasi monopolistica nel settore del cemento e del calcestruzzo, con il coinvolgimento delle maggiori imprese italiane, da Calcestruzzi alle cooperative ravennati, da Italcementi a De Eccher, ad Astaldi, a Tordivalle, a Lodigiani, a Cogefar.

Eppure, la procura di Caltanissetta, nelle indagini sulle possibili cause della strage di via D’Amelio non è mai stata interessata a questi aspetti. Ha preferito perseguire, con tenacia e in spregio alla logica, l’assurda pista Scarantino

Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, nel fornire un quadro generale di quella stagione, ha citato a questa Commissione un rapporto della DIA, di fine 1993, in cui si delineava il quadro “economico politico finanziario” delle stragi, che venne inviato alle procure di Palermo, Roma, Milano e Firenze. Si tratta del “Rapporto Oceano”, mai citato ed utilizzato nelle decine di inchieste che si sono succedute.

La nostra Commissione lo ha acquisito e qui ne riassume alcuni punti.

Nel marzo 1994, a poche settimane dal voto, in forma “strettamente riservata” e soggetti a un “rigoroso segreto istruttorio”, la Dia spediva a quattro procure (Palermo, Roma, Milano e Firenze) i risultati investigativi dell’operazione “Oceano”.

La Dia – Direzione investigativa antimafia – era la “Fbi italiana”, la struttura di polizia, alle dipendenze del ministero dell’Interno in cui per la prima volta si centralizzavano le indagini antimafia. Era stato il sogno di Giovanni Falcone ed era stata formata appena dopo la sua morte, per decreto del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Capo della polizia era allora Vincenzo Parisi; ministro dell’Interno, Nicola Mancino. A firmare il rapporto, il capo reparto investigazioni giudiziarie Pippo Micalizio.

Il testo è di settanta pagine ed esamina lo stato delle indagini sulle stragi del 1992 e 1993. È densissimo di nomi, testimonianze e ricostruzioni che portano ad alcune certezze di fondo, che qui si sintetizzano.

Dietro le stragi di Firenze, Roma e Milano c’è sicuramente “la mano della Cosa nostra siciliana”, in associazione con altre organizzazioni mafiose, soprattutto la ’ndrangheta calabrese. Non solo Palermo, dunque, ma molto appoggio da Reggio Calabria, da Catania e soprattutto da Milano. L’obiettivo era “seminare il terrore e il panico” e indurre il governo ad allentare il 41 bis e a chiudere le carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara.

Diversa, nel rapporto, la motivazione degli omicidi di Falcone e Borsellino: “richiesti” a Salvatore Riina da “personaggi importanti”, in cambio della promessa di una revisione del maxiprocesso che li aveva visti condannati. Cosa nostra, accettando l’offerta, sapeva benissimo di correre un rischio molto grande, data la prevedibile reazione dello Stato; ma la sua situazione interna era talmente drammatica da non poterla rifiutare. 


Indagini, archiviazioni e quei nomi eccellenti che “spuntano” con ritardo – COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS  – A febbraio del 1991 i Ros depositano una corposa informativa all’interno della quale, però, non ci sono nomi di politici. Partono le indagini ed arrivano i primi arresti. Ma già a giugno, la stampa aveva dato alcune anticipazioni su alcune intercettazioni che avrebbero riguardato soggetti politici. Quelle carte, spiega Scarpinato, non erano tra gli atti in possesso della Procura che di quei nomi eccellenti verrà a conoscenza solamente con la seconda informativa dei Ros, a settembre del 1992

«Dobbiamo fare presto» dice Borsellino a Di Pietro, senza fare, però, espresso riferimento all’inchiesta mafia-appalti. Più netta, sul punto, la testimonianza del dottor Alberto Di Pisa.

  • DI PISA, già magistrato. Io ricordo che in occasione della camera ardente allestita al Palazzo di Giustizia dopo la strage di Capaci ebbi con Borsellino un breve colloquio dinanzi alle bare di Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. Io dissi a Borsellino che questa strage secondo me aveva una finalità destabilizzante. Borsellino mi corresse e mi disse «No, questa non è una strage destabilizzante, ma è una strage stabilizzante» nel senso che mirava a mantenere il sistema attuale e poi aggiunse: «Io intendo riaprire le indagini su mafia e appalti», quasi a volere stabilire un collegamento tra la strage e l’indagine sugli appalti…
  • A proposito della frenetica attività di Borsellino in quei 57 giorni, torniamo sull’audizione di Antonio Ingroia davanti a questa Commissione.
  • FAVA, presidente della Commissione. Perché c’era questa particolare attenzione di Borsellino sul dossier dei Ros?
  • INGROIA, già magistrato. Per i famosi diari (di Falcone, ndr.). Borsellino diceva: «Intanto sono sbalordito che Giovanni Falcone, che tanto aveva criticato post mortem Rocco Chinnici perché teneva i diari, anche lui avesse preso questa abitudine». Poi anche lui, Paolo, con l’agenda rossa… Evidentemente accade quando ci si trova in una situazione…
  • FAVA, presidente della Commissione. …di solitudine, forse.
  • INGROIA, già magistrato. Solitudine, o forse la sensazione della morte incombente… Insomma, Paolo mi dice: «se Giovanni lo ha fatto, evidentemente si tratta di cose particolarmente gravi e quindi io voglio approfondire. Se non lo farà la procura di Caltanissetta, lo faccio io informalmente e poi riporterò a Caltanissetta – questa era la sua idea – rigo per rigo, ogni cosa». E siccome ci sono passaggi nel diario di Falcone relativi al rapporto mafia-appalti, lui trova un motivo in più, che si aggiungeva già alle ragioni che aveva acquisito da Marsala, perché a Marsala lui aveva avuto la netta sensazione che a Palermo lo stavano insabbiando.

Sentiamo quale ricordo custodisce Ingroia su quella riunione del 14 luglio 1992.

  • INGROIA, già magistrato. I titolari di quel procedimento erano, la stragrande maggioranza, tutti delfini di Giammanco e quindi Borsellino doveva stare alla larga da quel tipo di indagine, che riguardava politica, mafia e appalti. Ricordo una battuta che Paolo fece a uno dei fedelissimi di Giammanco del tempo – non ricordo se era Pignatone o Lo Forte – disse: «voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei ROS». E aveva ragione.

DUE VERSIONI DELLO STESSO DOSSIER?  Borsellino è interessato per varie ragioni alla vicenda mafia-appalti. Ma davvero non si fida del lavoro svolto dai colleghi?

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Secondo me la scarsa fiducia c’era, perché c’erano cose che non si capivano, c’erano articoli di stampa che dicevano che c’erano nomi come De Michelis, come Mannino… e allora è chiaro che Paolo Borsellino diceva: «c’è qualcosa che non mi raccontate…». Non solo era un clima di sospetto di Paolo Borsellino ma un po’ di tutti i sostituti ed eravamo in difficoltà noi stessi, cioè, non è che ci è sfuggito qualche cosa? Non è che magari c’è qualche carta che non ci siamo letta? Qualcosa c’era, perché la stampa quando dava notizie, diceva cose vere, solo che quegli atti erano nell’ufficio dei Ros, non erano alla Procura di Palermo… a giugno c’è un articolo su De Michelis, e tu stampa come fai a sapere una cosa che io non so? C’è un articolo su Mannino nel luglio… e tu come fai a sapere una cosa che io non so? Qualcuno passava, dentro il Ros, notizia alla stampa. Notizie che rispondevano alla realtà perché quegli atti c’erano ma non erano alla Procura di Palermo… Proviamo a riassumere. A febbraio del 1991 i Ros depositano una corposa informativa all’interno della quale, però, non ci sono nomi di politici. Partono le indagini ed arrivano i primi arresti.  A luglio dello stesso anno, la procura conferisce ai Ros, e segnatamente al capitano De Donno, un’altra delega avente ad oggetto la Sirap. Ma già a giugno, la stampa aveva cominciato a fornire una serie di anticipazioni su alcune intercettazioni che avrebbero riguardato soggetti appartenenti al mondo della politica.  Quelle carte, spiega Scarpinato, non erano tra gli atti in possesso della Procura che di quei nomi eccellenti verrà a conoscenza solamente con la seconda informativa dei Ros, a settembre del 1992, dopo che a Palermo è successo veramente di tutto.  Ma come si spiega, allora, che la stampa fosse al corrente del coinvolgimento di alcuni soggetti ancor prima che tale circostanza fosse nota alla procura di Palermo? È un quesito che nel febbraio ’99, l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giancarlo Caselli aveva condiviso con la Commissione nazionale antimafia attraverso la relazione redatta dai suoi sostituti.  Sembrano essere esistite due versioni dell’informativa mafia-appalti, e precisamente: una versione ufficiosa, oggetto di indiscrezioni giornalistiche e di illecite fughe di notizie, contenente specifici riferimenti ad esponenti politici di importanza nazionale, ed in particolare agli on. Salvo Lima, Rosario Nicolosi e Calogero Mannino; una versione ufficiale, quella consegnata il 20 febbraio 1991 nelle mani del dott. Giovanni Falcone, allora Procuratore aggiunto a Palermo; versione priva del benché minimo riferimento ai suddetti esponenti politici.

  • Chi poteva avere insieme la possibilità e l’autorità di epurare l’informativa, espungendo le fonti di prova riguardanti i politici De Michelis, Lima, Nicolosi, Mannino, Lombardo, prima che venisse consegnata, così epurata, alla Procura di Palermo?
  • Perché qualcuno ha deciso di operare queste omissioni?

IL RICORDO DI SCARPINATO  A distanza di ventidue anni abbiamo rivolto la stessa domanda al procuratore generale Scarpinato.

  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando noi abbiamo l’informativa, nel febbraio ’91, non sappiamo che c’è una intercettazione tra Lima e un soggetto coinvolto negli appalti. Viene ucciso Lima, i Carabinieri non ci dicono niente, non ci dicono che esiste una intercettazione che riguarda Salvo Lima neppure dopo l’omicidio. Questa cosa come si spiega secondo lei? Nell’informativa del 1991, ben 900 pagine, non si citano queste intercettazioni: spuntano soltanto nel settembre del 1992 dopo che ci sono stati gli articoli di stampa in cui dice che la Procura di Palermo è insana… Cosa hanno fatto i Carabinieri? Quale è la scelta che hanno fatto? Io, sinceramente, questo non lo so. Quello che è inammissibile è che da parte di alcuni si spaccia l’archiviazione temporanea con l’archiviazione dell’inchiesta, tutta, che è un falso perché l’inchiesta non fu mai archiviata, continuò…

Scarpinato aggiunge che aveva informato personalmente Borsellino degli sviluppi dell’indagine. Lecito chiedergli se il procuratore aggiunto fosse stato messo a conoscenza o meno della richiesta di archiviazione avanzata il giorno prima della riunione del 14 luglio 1992. La risposta è affermativa.

  • FAVA, presidente della Commissione. Lei non c’era, ma i colleghi che erano presenti fecero sapere a Paolo Borsellino che alcune posizioni sarebbero state archiviate?
  • SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Glielo avevo detto io: «abbiamo deciso di concentrarci su quelle posizioni forti in modo da avere la legittimazione della Corte di Cassazione…». Il problema quale era? Archiviare venti posizioni che poi si potevano riaprire in qualsiasi momento, perché la archiviazione è momentanea? Si disse dell’archiviazione di mafia-appalti: ma quando mai è stata archiviata mafia-appalti?

Lo avevamo detto in premessa: è una storia complessa, quella dell’inchiesta mafia-appalti. Del contrasto tra il Ros e la Procura della Repubblica di Palermo, se ne occuperà negli anni, a più riprese, l’Autorità di Giudiziaria di Caltanissetta. La vicenda si concluderà definitivamente soltanto il 15 marzo 2000 con l’ordinanza di archiviazione pronunciata dalla compianta dottoressa Gilda Loforti. È l’atto giudiziario che mette la parola fine allo scontro che il giornalista Felice Cavallaro racconta così in un suo pezzo. La guerra fra un pezzo della Procura di Palermo e un’ala del Ros dei Carabinieri, la guerra che per anni ha fatto sussultare i palazzi delle istituzioni, è finita ieri pomeriggio al sesto piano del tribunale di Caltanissetta con una sofferta archiviazione… è stata Gilda Loforti, il giudice delle indagini preliminari, a decidere che non si farà un processo né contro il capitano Giuseppe De Donno, né contro Guido Lo Forte, il magistrato un tempo vicino al procuratore Pietro Giammanco, poi vice di Caselli, e adesso di Pietro Grasso… Non ci sono né vincitori né vinti Ma perde certamente il pentito Angelo Siino, il “signore degli appalti” che è riuscito a trasformare in nemici De Donno e Lo Forte. Annullata, da una parte, la querela di quest’ultimo contro il capitano. E dall’altra, l’accusa di corruzione estesa, oltre che a Lo Forte, a tre suoi colleghi coinvolti dal ’91 in una telenovela giudiziaria dal canovaccio sempre più confuso: lo stesso Giammanco, Giuseppe Pignatone e Ignazio De Francisci. La materia dello scontro resta di una gravita assoluta. Il braccio di ferro ruota infatti sul nome della “talpa” che nel ’91 consegnò alla mafia e al leader democristiano Salvo Lima il rapporto dei carabinieri sugli appalti gestiti da Cosa nostra. La domanda ancora priva di risposta con questa archiviazione è semplice: chi fece uscire il dossier? I magistrati o gli stessi carabinieri? Questo il commento finale del procuratore generale Scarpinato, nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Una serie di falsità su questa storia è stata messa in giro proprio per creare un’artificiosa connessione di questa vicenda con la strage di via D’Amelio. Questo risponde all’interesse difensivo di alcuni imputati, e questo è pienamente legittimo, ma io credo che corrisponda all’interesse ulteriore di molti che hanno interesse a blindare la causale della strage di Via D’Amelio dentro Cosa nostra, tagliando fuori invece tutti pezzi deviati dei Servizi. 


Un depistaggio iniziato ancora prima della morte di Paolo Borsellino  Il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio presenta, però, una caratteristica che lo rende diverso rispetto a tutti gli altri: è stato, sebbene solamente in parte, svelato. Ed è proprio ciò che lo rende, come ha evidenziato durante la sua audizione il procuratore generale Scarpinato, più che mai attuale.  La parola depistaggio è entrata a pieno titolo nel dizionario delle stragi di questo Paese, quale perfetto contrario dei termini verità e giustizia.  Il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio presenta, però, una caratteristica che lo rende diverso rispetto a tutti gli altri: è stato, sebbene solamente in parte, svelato. Ed è proprio ciò che lo rende, come ha evidenziato durante la sua audizione il procuratore generale Scarpinato, più che mai attuale.  Non deve stupire che oscuri meccanismi, oggi, si pongano strenuamente in difesa della ricostruzione falsa e consolatoria proposta da Scarantino e dai suoi suggeritori: allargare lo sguardo su cosa accadde in quei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, sulle inquietudini del giudice Borsellino, su ciò che aveva intuito o saputo e che si preparava a dire; raccontare quella strage non come un ultimo disperato colpo di coda di Cosa nostra ma come il punto d’arrivo di un disegno più ambizioso e devastante per i destini del Paese: insomma, parlare di via D’Amelio sapendo di non poter parlare solo di mafia è cosa che fa ancora paura. A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, si preferisce che la corda pazza di quella strage non venga sfiorata. E i depistaggi, ieri come adesso, sono lo strumento più efficace. Come si costruisce una menzogna alla quale tutti – o comunque troppi –finiscono per credere? È stata la domanda che ci siamo posti all’atto di avviare questa seconda inchiesta. E qui ci siamo misurati con il significato plurale della parola “depistaggio”: non una trama sinistra ordita da uno sparuto manipolo di soggetti, ma un pensiero organizzato, spregiudicato, capace di una sua continuità ed impunità nel tempo, coperto da inconfessabili complicità. È grave che l’intelligence italiana abbia accettato – e continui ad accettare – di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia. Un rischio collaterale sopportabile, a quanto pare. Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa.

Vent’anni dalla strage di Capaci  Ma fu depistaggio anche tutto ciò che precedette quella maledetta domenica. Come il progressivo e calcolato isolamento, professionale e umano, cui fu sottoposto Paolo Borsellino. Aspetti, quelli legati ai rapporti con Giammanco e alla carenza del dispositivo di sicurezza intorno al magistrato, che avrebbero preteso puntuali approfondimenti da parte dell’Autorità Giudiziaria – come abbiamo evidenziato in molte pagine di questa relazione – ma che l’“invenzione” di Scarantino oscurò del tutto. E non si può, infine, tacere il senso di rassegnazione con cui in troppi hanno accolto ed accettato i silenzi di questi 29 anni, i ripetuti furti di verità, le forzature istituzionali, le ansie di carriera, i silenzi di chi avrebbe potuto dire. Come se davvero su questa storia e sulle responsabilità (non solo penali, lo ripetiamo!) che l’hanno accompagnata, occorresse rassegnarsi al silenzio. Questa seconda relazione della Commissione Antimafia dell’Ars – come la precedente – vuole essere anche questo: una sollecitazione civile a non abituarsi all’idea che la verità ci sia negata per sempre.

fonte: DOMANI BLOG MAFIE