PAOLO BORSELLINO – I dossier di Famiglia Cristiana

 


 
ALESSANDRA DOLCI: “NEL LORO SACRIFICIO LA FORZA PER CONTINUARE”

19/07/2018  Il capo della direzione distrettuale antimafia di Milano: “Troppi ragazzi che incontro non sanno chi siano Falcone e Borsellino. Ma un Paese senza memoria non ha futuro. Se vogliamo contrastare la mafia dobbiamo remare tutti insieme”.

Elisa Chiari

L’ autorevolezza si coglie nella rapidità cortese con cui smista, senza negarsi a nessuno, le numerose interruzioni che si affacciano, bussando o trillando via telefono, al suo ufficio al sesto piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Alessandra Dolci è da qualche mese al vertice della Direzione distrettuale antimfia (Dda) e solo alla quarta volta che non riesce a finire una frase, sbuffa tra sé ridendo: «Sembra il call center di un supermercato».

Dietro la scrivania assieme a un poster di Castel Del Monte, emblema architettonico di una solida razionalità che le corrisponde, e ai crest araldici, omaggio delle forze dell’ordine, la foto sorridente di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il manifesto simbolo dei magistrati uccisi nell’esercizio delle funzioni: due rose spezzate e l’elenco con i 27 nomi. Il senso di averli lì lo ha spiegato in pubblico, il 18 luglio 2018, commemorando al Pirellone alla Commissione antimafia di Milano, Paolo Borsellino e gli agenti caduti a via D’Amelio: «Capita nel nostro lavoro, di provare momenti di stanchezza, che di solito arriva dopo i periodi di massima tensione, di sentire lo sconforto per un risultato non raggiunto, per una sentenza che non condividi. In quei momenti mi volto, vedo le rose spezzate e sento tornare l’energia e la passione per il lavoro».

La storia di Alessandra Dolci, pur poco nota ai più fin qui, dice che non le manca nulla per tenere il vortice sotto controllo: non l’esperienza, 32 anni di magistratura, molti in antimafia, portati benissimo; non le phisique du rôle, per guidare uno degli uffici più esposti.

Dottoressa Dolci, la mafia è un nemico che si rigenera. Pensa mai: “Chi me lo fa fare?” «Mai. Amo questo lavoro bello e nobile, cerco di farlo al meglio: mi muove questo, non la certezza della vittoria sul crimine organizzato».

Difficile dare fiducia ai cittadini? «No, ma è importante che capiscano che si deve remare tutti nella stessa direzione. La legalità è faticosa: significa chiedere lo scontrino all’idraulico invece che accordarsi per non pagare l’Iva; significa rispettare le regole del vivere civile, non solo il Codice penale: in questo Paese si va affermando l’idea che tutto ciò che è penalmente lecito sia eticamente corretto, non è così».

Negli anni siamo peggiorati? «Quando ho iniziato avvertivo più senso solidaristico, specie nelle comunità medio-piccole. Ora vedo una sorta di rassegnazione all’illecito. Le indagini ci dicono che spesso sono gli imprenditori lombardi a chiedere protezione e favori alla ’ndrangheta. Le tre grandi aree di devianza del Paese, crimine organizzato, corruzione ed evasione, a Milano si sono sposate».

Il processo noto come “Infinito”, cui ha lavorato a lungo, ha dato ai cittadini coscienza della ’ndrangheta al Nord e a voi? «Lo dico sentendomi piccola: dal punto di vista processuale rappresenta qualcosa di simile al maxiprocesso di Palermo per Cosa nostra. L’aver dimostrato che la ’ndrangheta è unitaria, anche se in modo diverso da Cosa nostra e non parcellizzata in ’ndrine separate, permette a chi fa i processi dopo “Infinito” di non dover provare ogni volta che chi appartiene al singolo “locale” di ’ndrangheta si avvale del metodo mafioso, basta provarne l’appartenenza. Le istituzioni non possono dire non sapevo, come facevano prima nonostante le indagini della Procura di Milano negli anni ’90. Anche i cittadini sono più attenti, vogliono capire». 

Secondo i dati emersi dalla ricerca presentata da Nando Dalla Chiesa e dalla sua squadra di ricrcatori, la Lombardia è la quinta regione per beni confiscati alla criminalità organizzata, tra i beni capita che ci siano  aziende, si pone il problema dei posti di lavoro? «Se lo è posto anche il legislatore, che nel testo unico ha previsto un fondo di garanzia per le imprese sequestrate al crimine organizzato. Da un lato la riemersione nella legalità costa, perché le aziende mafiose fanno concorrenza sleale con prezzi al di sotto del mercato e vivono per questo: ci si chiede se sia giusto che il costo della riemersione gravi sulla collettività. Dall’altro lato, però, la confisca delle aziende ha un significato anche simbolico: non può passare l’idea che dove arriva lo Stato si perdono posti di lavoro. Riadattare gli immobili confiscati per destinarli a fini sociali è impegnativo per i Comuni, ma ci sono begli esempi: a Rescaldina un ristorante confiscato alle ’ndrine ora è gestito da una cooperativa sociale che dà lavoro a persone con disabilità, fantastico».

È lombarda d’origine e di studi, com’è arrivata all’antimafia? «Destino credo. A Monza durante il mio primo turno esterno da pubblico ministero, avevo 26 anni, la Polizia trovò sette chili e mezzo di esplosivo al plastico in capo a soggetti calabresi. Io da giovane magistrato interrogai subito il proprietario dell’area in cui era stato trovato il bidone, ma mentre parlava con me gli andò a fuoco casa. Quel processo finì perché tutti gli imputati furono vittima di due distinti agguati in una guerra tra famiglie».

Succede di aver paura? «A me non è mai capitato, forse sono incosciente. Ma è vero che serve forte carica ideale per fare questo lavoro senza provare timore, io mi sento un po’ un soldato. Mi ripeto una citazione di Tacito: “Nel momento della prova ricordatevi di chi vi ha preceduto e pensate a chi verrà dopo di voi” (indica dietro la scrivania la foto di Falcone e Borsellino e l’elenco dei 27 magistrati italiani uccisi, ndr), per questo vado nelle scuole: se nessuno li racconta ai ragazzi, sono morti per niente».

Ha figli? «No, ma penso ai figli degli altri: un Paese senza memoria non ha futuro».

Milano è l’unica Dda che abbia visto fin qui due donne avvicendarsi al vertice, è stato complicato prendere il posto di una personalità forte e conosciuta come Ilda Boccassini? «Sono legata a Ilda Boccassini da grande stima e amicizia, abbiamo vissuto anni di magnifica collaborazione in questo ufficio che ha ancora bisogno di contare sulla sua esperienza. È una successione nel segno della continuità, ma avverto la responsabilità, spero di essere all’altezza dei predecessori».

Il testo unico ha riordinato di recente le leggi antimafia. Aiuta? «È un ottimo strumento contro la criminalità organizzata e dà profitto: non solo mafiosi, anche corruttori, evasori, bancarottieri, truffatori seriali».

Sono crimini transnazionali, l’Europa fa passi avanti? «Lentamente cresce la collaborazione, il mandato d’arresto europeo è un netto miglioramento».

Da donna e magistrato che effetto le ha fatto il caso del corso per aspiranti magistrati in cui si chiedeva alle donne un “dress code” a base di minigonne in cambio di borse di studio? «Sono rimasta un po’ sorpresa dall’atteggiamento poco reattivo delle allieve del corso, spero sia dipeso dalla giovane età, spero che se sono diventate magistrati abbiano strutturato il carattere nei valori fondamentali: indipendenza ed equilibrio. Al magistrato servono schiena dritta e cuore saldo, deve resistere alle pressioni».

Il carattere c’è o si impara? «L’esperienza aiuta: a 23 anni ero molto diversa da ora, ma, per com’ero, avrei mandato a correre chi mi avesse proposto una borsa di studio con un contratto improprio, anche se venivo da una famiglia che non poteva mantenermi a lungo. L’articolo 54 della Costituzione dice che le funzioni pubbliche si esercitano con disciplina e onore. La toga “si porta” anche nel privato: non solo per motivi disciplinari o penali, ma anche di opportunità».

Ha indagato colleghi alla fine condannati. Che effetto fa? «Vorrei tanto che non mi capitasse mai più».


BORSELLINO, UN MISTERO LUNGO 20 ANNI

19/07/2012  Il giudice Paolo Borsellino è stato ucciso 20 anni fa, il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio, a Palermo, con gli uomini della scorta. Intervista con la sorella del magistrato.

Paolo Borsellino avrebbe oggi 72 anni. È stato ammazzato vent’anni fa, il 19 luglio 1992, mentre andava a trovare sua madre in via D’Amelio a Palermo. Lo hanno fatto saltare in aria insieme agli agenti della scorta: Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta. Borsellino era consapevole, dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone, di essere solo, di avere troppi nemici non solo fuori, ma anche dentro la magistratura. Sapeva che stava correndo contro il tempo per tentare di individuare gli assassini di Falcone. «La mia morte» disse una volta «non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».

Viveva dal 1980 sotto la tutela di una scorta armata. Una condizione difficile, che costringeva anche la sua famiglia a convivere con il sentimento della paura.  «La paura» raccontava ancora Borsellino «è normale che ci sia, c’è in ogni uomo. L’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti». Aveva un rapporto molto intenso con gli studenti, che cercava di incontrare il più possibile. Il 19 luglio 1992, alle cinque della mattina, dodici ore prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo facesse a pezzi lui e i ragazzi della scorta, stava proprio scrivendo la risposta a una lettera di alcuni studenti di Verona. Una lettera (Clicca qui per leggerla) rimasta incompleta, ma che testimonia quanto Borsellino credesse nella formazione delle coscienze civiche delle nuove generazioni.

L’intervista con Rita Borsellino

E’ la sorella del magistrato assassinato. Rita Borsellino da tanti anni ha deciso di portare la propria testimonianza ed il proprio impegno nelle scuole e nella società, cercando di proseguire il lavoro interrotto da Paolo. Nell’intervista che ci ha concesso, racconta cosa è successo in questi vent’anni.

– Dagli ultimi atti processuali sulla strage di via D’Amelio è ormai emerso in modo molto netto come la matrice della strage in cui perse la vita suo fratello sia di carattere politico-terroristica. A che punto è arrivata la ricerca della verità?

“Ho accolto con soddisfazione il fatto che si vada verso la revisione del processo e che finalmente si inizi a parlare di una verità diversa da quella che fino ad oggi ci è stata fornita. Questo cambio di approccio mi ha dato nuova energia e un rinnovato senso di fiducia, ma contestualmente anche un grande disorientamento: ci sono istituzioni che hanno remato contro nello svolgimento dei vari passaggi processuali, mentre altre cercavano di individuare le responsabilità e raccontare la verità dei fatti. Si è creato un vero e proprio scontro tra istituzioni che in alcuni casi tramavano una contro l’altra. Oggi mi chiedo a chi sia servito tutto questo e chi sia stato il regista di una operazione così complessa che ha mirato a ritardare la ricerca della verità”.

In molti sostengono che chi ha ideato le stragi sia ancora a piede libero e ricopra posizioni di potere. Non teme, proprio nell’anno in cui ricorre il ventennale della strage, di dover stringere qualche mano che non vorrebbe mai stringere?

“Ho sempre pensato che vi fossero troppi aspetti nascosti, troppe ambiguità nella vicenda della morte di mio fratello. Oggi mi dico che ho fatto bene a non fidarmi di nessuno, perché ci sono stati troppi depistaggi, troppe deviazioni nel corso dei vent’anni processuali. In questo senso davvero non so a chi dover stringere la mano, troppi sono i dubbi”.

Negli atti processuali emergono diversi elementi che probabilmente accelerarono la decisione di Cosa nostra di uccidere Paolo Borsellino. Tra gli altri, la trattativa avviata con Cosa nostra, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, da parte dei Ros dei Carabinieri. Forse Paolo pagò in particolare la sua contrarietà a quella trattativa?

“Riteniamo che la trattativa mafia-Stato sia stato il fattore più di altri ha accelerato l’eliminazione di mio fratello: Paolo aveva un nemico, la mafia, che combatteva in nome dello Stato e intanto dall’altro lato c’era una parte dello Stato che scendeva a patti con la stessa mafia pensando così di renderla inoffensiva”.

Il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine ha portato a quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere e alla scarcerazione, dopo 17 anni, di sei innocenti, condannati all’ergastolo dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. La nuove dichiarazioni di Gaspare Spatuzza cambiano la prospettiva delle stragi di via D’Amelio e di altri avvenimenti accaduti in quel periodo: Spatuzza ha fornito una versione totalmente diversa dell’esecuzione di Borsellino, del tutto incompatibile con le precedenti acquisizioni processuali. Ciò ha implicato la necessità, per la Procura e la Dia, di riscrivere 13 anni di stragi e di processi, nonché di ricercare nuovi elementi di prova e di individuare eventuali nuove responsabilità. Che ruolo hanno avuto nella vicenda giudiziaria i collaboratori di giustizia?

“Quando Scarantino iniziò a collaborare, si percepiva chiaramente che era una figura ambigua, paradossale. Spesso non diceva, ritrattava, modificava le versioni fornite.  Oggi finalmente si ipotizzano delle accuse a Scarantino per la sua testimonianza costruita a tavolino, ma viene spontaneo porsi delle domande che gettano un’ombra inquietante sui processi svolti fino a questo momento: come è stato possibile che quella testimonianza abbia avuto tutto quel credito? I riscontri sull’attendibilità di Scarantino non furono fatti perché non ci furono le capacità o non vennero fatti perché non si dovevano fare?”.

Uno dei tanti misteri di via D’Amelio è la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, nella quale erano appuntati tutti gli incontri che suo fratello aveva fatto o aveva in programma e molti preziosi appunti. È nato anche un movimento che ogni anno porta centinaia di agende rosse in via D’Amelio. Lei ha dichiarato che in quella agenda scomparsa c’è scritto il motivo per cui Paolo è stato ucciso. Perché ne è così convinta?

 “Per un motivo semplicissimo: in caso contrario, l’agenda rossa non sarebbe sparita. Addirittura qualcuno ha cercato di ipotizzare che questa agenda non fosse mai esistita, offendendo tutti i familiari di Paolo: ho in testa costantemente l’immagine di quella borsa che conteneva l’agenda rossa e che mio fratello aveva sempre con sé. Se l’agenda è stata fatta sparire, è proprio perché vi erano appuntati dei fatti e delle circostanze che non potevano essere conosciuti. Chi oggi la possiede ha un potere ricattatorio enorme nei confronti di politici e rappresentanti istituzionali”.

Paolo Borsellino aveva uno straordinario rapporto con gli studenti. Non solo li incontrava in moltissime scuole, ma teneva con molti di loro rapporti epistolari. Cosa direbbe ai ragazzi che sembrano avere oggi una grande sete di verità e di giustizia?

“Preferisco non dire o pensare a cosa direbbe o farebbe Paolo oggi. Mi piace ricordare cosa diceva allora ai ragazzi: sono comunque argomenti di una attualità sconcertante. Quell’incontro con gli studenti di Bassano del Grappa nel 1989 (http://urly.it/1c5x) resta ancora oggi una lezione civica straordinaria sul rapporto tra mafia, istituzioni e politica”


BORSELLINO: «LA MAFIA OCCUPA I PIANI ALTI DELLO STATO»

01/03/2014  “Contro la mafia non stiamo zitti!”. Questo il titolo della serata organizzata dalla Carovana Antimafia Ovest Milano ad Abbiategrasso, col patrocinio del Comune e l’adesione di numerose associazioni del territorio. Oltre al fratello del magistrato ucciso, sono intervenuti il Gip Giuseppe Gennari, David Gentili, presidente della Commissione Consiliare Antimafia, Don Virginio Colmegna, della Fondazione Casa della Carità e Gianpiero Sebri, della Carovana.

Ester Castano

“La mafia è il peccato originale della nostra Italia e occupa i piani alti dello Stato”: le parole di Salvatore Borsellino risuonano solenni nel grande salone dell’ex convento dell’Annunciata di Abbiategrasso, cittadina immersa nel Parco del Ticino a 15 km da Milano.

Affreschi, ampie volte, le colonne illuminate del chiostro: il 27 febbraio la sacralità intrinseca del luogo aiuta a soppesare ogni parola pronunciata dai relatori dell’incontro pubblico ‘Contro la mafia non stiamo zitti!’ organizzato dalla Carovana Antimafia Ovest Milano col patrocinio del Comune e l’adesione di numerose associazioni del territorio.
Ospiti della serata, oltre al fratello del magistrato Paolo ucciso da Cosa Nostra nel 1992, il Gip Giuseppe Gennari, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, David Gentili, presidente della Commissione consiliare Antimafia e don Virginio Colmegna, della Fondazione Casa della Carità del capoluogo lombardo. Introduce il dibattito, moderato dal giornalista Luciano Scalettari, Gianpiero Sebri della Carovana.
Sebri pronuncia i nomi delle famiglie di ‘ndrangheta residenti nel territorio: Barbaro, Papalia, Morabito, Di Grillo, Mancuso, Musitano. I capostipiti arrivarono al Nord, nel magentino e abbiatense, a partire dagli anni ’70 con il provvedimento del soggiorno obbligato, i figli e nipoti tutt’oggi riempiono le pagine dei giornali con le notizie dei continui arresti.
E il motivo, come spiegherà ciascun relatore, è sempre lo stesso: racket, usura, traffico di sostanze stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco proveniente da illeciti in edilizia e gioco d’azzardo, collusione con la politica e con le pubbliche amministrazioni. Ultimo caso eclatante: Sedriano, primo comune lombardo sciolto per mafia lo scorso ottobre.

Una piaga per il territorio, quella dell’infiltrazione della criminalità organizzata di origine calabrese, talmente radicata da aver coinvolto l’intera società.
David Gentili cita l’esempio di Carlo Antonio Chiriaco, ex direttore della Asl di Pavia condannato per mafia in primo grado nel dicembre 2012 all’interno del maxi processo Infinito assieme a Pino Neri, l’avvocato tributarista laureato in giurisprudenza con una tesi sulla ‘ndrangheta e arrestato nel 2010 dalla procura di Milano e Reggio Calabria assieme ad altri trecento affiliati. Due insospettabili, il direttore sanitario e il legale. Due professionisti al servizio delle cosche. Celebre il summit svoltosi al circolo Arci Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano. Al centro della scena Pino Neri, attorno a lui gli esponenti delle famiglie mafiose trapiantate in Lombardia intente a spartirsi il potere dopo l’uccisione nel 2008 di compare Carmelo Novella, il cosiddetto ‘boss secessonista’. Le immagini registrate dagli inquirenti parlano da sole.
Ma se le immagini che ritraggono i mafiosi all’opera, grazie al lavoro di magistrati e forze dell’ordine, hanno raggiunto un numero consistente, a mancare al Nord sono le denunce dei cittadini: “L’omertà in Lombardia ha raggiunto livelli quasi superiori a quelli di regioni del sud comunemente considerate mafiose – afferma il Gip Gennari, autore del libro ‘Le fondamenta della città’ (Mondadori) – ad esempio in una recente indagine sui venditori ambulanti di panini, quelli che si mettono a bordo delle strade o subito fuori dai locali notturni, è emerso che tutti o quasi pagano il pizzo e pochissimi hanno il coraggio di denunciare”.
Salvatore Borsellino, costretto a casa da una forte influenza, segue l’intero incontro tramite collegamento video. Lui il nord lo conosce bene, si è trasferito qui poco dopo gli studi superiori. Ma conosce molto da vicino anche la Trattativa Stato-mafia, i giochi di potere e le macchinazioni politiche che hanno portato al rallentamento del processo e all’isolamento a Palermo dal pm Antonino Di Matteo, a cui la Carovana ha dedicato la serata.
Al termine del suo intervento la platea esplode in un applauso sincero e Salvatore commosso ringrazia: “La lotta alla criminalità organizzata è affare quotidiano che va oltre alla mera commemorazione delle stragi: grazie Carovana, e voi tutti cittadini dovete stare al fianco di queste persone preziose che si spendono per estinguere il male mafioso”.
Un male che nasce anche come devianza giovanile e attrazione ai facili guadagni, spiega don Colmegna. Il prete ama definirsi “un cattolico illegale, perchè se illegale è dare un piatto caldo a quelli che chiamiamo clandestini, uomini donne e bambini, allora noi portatori di umanità siamo tutti clandestini illegali”.
Dal pubblico interviene a sorpresa Don Aniello Manganiello, in visita al Nord per parlare alle scuole milanesi di ciò che accade a Napoli e Scampia, terra dilaniata dalla camorra in cui compie la sua concreta opera di evangelizzazione. La serata è conclusa, l’ex convento dell’Annunciata colmo di gente pian piano si svuota: i ragazzi delle scuole seduti per terra, tutte le sedie occupate dagli adulti che probabilmente hanno recepito ancora di più l’urgenza al Nord di parlare di mafia.


BORSELLINO: QUELLE VOCI CHE RICORDANO UN MAGISTRATO, UN PADRE, UN AMICO

19/07/2017  Ritratto inedito di un uomo giusto, ironico e sorretto da una fede forte e viva

Annachiara Valle

«C’è l’elicottero sulle nostre teste, ci sono guardie ovunque. Mi chiede di accompagnarlo in macchina a prendere le sigarette e mi dice una frase che non dimenticherò mai, a freddo: “Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina”».

Diego Cavaliero, oggi giudice d’appello a Palermo e primo sostituto procuratore di Paolo Borsellino a Marsala, ricorda i giorni che seguirono all’omicidio di Falcone e della sua scorta. Le parole di Paolo. Non un presagio astratto, ma una certezza. Parla per la prima volta, così a lungo, della sua vita accanto a quel magistrato con il quale lavorò fianco a fianco per due anni e otto mesi e al quale restò legato tutta la vita.

Non è l’unica testimonianza inedita che Alessandra Turrisi ha raccolto per il volume Paolo Borsellino. L’uomo giusto (San Paolo). «Grazie al figlio del giudice, Manfredi», spiega la giornalista palermitana, «mi sono potuta avvicinare a questo coro di voci che per 25 anni ha custodito dentro di sé il ricordo soprattutto umano di Borsellino. Persone che finora avevano parlato soltanto nelle aule giudiziarie, durante i processi». Era giovane, Alessandra, quando la mafia uccideva magistrati, poliziotti, forze dell’ordine, quando si consumava il “sacco di Palermo” e la città stentava a reagire. «Poi venne la Primavera di Palermo, esplose Mani pulite, uccisero Falcone e Borsellino, cominciò la presa di coscienza della società civile. E oggi c’è un modo diverso di vivere la città, una maggiore responsabilità». C’è tutto questo, in controluce, nel racconto lucido e caldo della vita – e della morte – di Paolo Borsellino. C’è un giudice, un uomo «che non ha mai sottovalutato ciò che faceva, l’ambiente in cui era, il rischio che correva, ma che è sempre stato consapevole di dover fare comunque il proprio dovere».

C’è la fede, in questo libro, il Borsellino «credente, cristiano. Un aspetto forse un po’ tralasciato in passato», spiega l’autrice, «e che invece, secondo me, è il dato unificante della persona. Sono sicura che il giudice Borsellino ha potuto affrontare le prove che la vita gli ha messo davanti soprattutto perché aveva una solidità interiore sostenuta anche da questa fede molto forte, anche un po’ tradizionale».

E c’è il racconto di un destino spesso imperscrutabile, e sul quale ancora si interrogano alcuni dei “sopravvissuti”: il cardiologo della mamma, al quale si rompe l’auto e che, per questo, non riesce a raggiungere via D’Amelio in quel pomeriggio di tritolo e sangue; l’agente di scorta Benedetto Marsala, oggi in pensione, che sarebbe stato di turno senza la licenza matrimoniale; la vicina di casa a letto da mesi per una gravidanza a rischio che, proprio quel giorno, ha voglia di aria fresca e sole. «Un intero pezzo d’infisso, con i frammenti di vetro ancora attaccati, si schianta sul letto dei miei genitori, proprio nel punto in cui mia madre, e io dentro di lei, stava coricata tutto il giorno, ma non quel giorno», racconta oggi Fabrizio. Che, con sua madre Rosaria, aggiunge nel libro: «Nelle nostre preghiere, i nomi delle vittime ci sono sempre, ci affidiamo a loro».

Spaccati di vita, indagini giudiziarie, nodi irrisolti. La Turrisi ricorda l’agendina rossa da cui Borsellino non si separava mai e della quale non è rimasta traccia nella borsa che il giudice aveva con sé quel giorno e nella quale tutto il resto, invece, era intatto, «compreso il costume ancora umido del bagno a mare di qualche ora prima». Ricorda gli interrogatori con i collaboratori di giustizia, il suo modo di condurre le indagini. Ma il volume ricostruisce soprattutto il clima, l’ironia dissacrante del giudice e la sua grande capacità di lavoro, restituendoci l’umanità di «un uomo che riesce a essere sempre sé stesso quando è magistrato e quando è padre di famiglia, quando è amico, quando è collega, quando interroga un criminale. Quando incontra un politico e quando si confronta con la moglie di un uomo che è stato ucciso in un agguato mafioso,una povera donna che addirittura gli chiede un aiuto economico», conclude la Turrisi. «E io mi sento una privilegiata per essere diventata, in qualche modo, cassa di risonanza di queste voci che lo hanno raccontato, permettendo di compiere un tuffo in una memoria condivisa che fa emergere anche “l’uomo giusto”, l’interiorità di un personaggio così caro alla Sicilia, a Palermo, all’Italia intera».


CHI ERA EMANUELA LOI, AGENTE DI SCORTA DI BORSELLINO

19/07/2016  Nel giorno in cui, il giudice Paolo Borsellino fu ucciso a Palermo con la sua scorta, 19 luglio 1992, ripercorriamo la vicenda di uno dei cinque agenti, ricostruita in un libro edito da Einaudi ragazzi.

Fulvia Degl’Innocenti

Ci voleva un libro per ragazzi per ricordare la storia dell’agente Emanuela Loi, uno dei cinque membri della scorta di Paolo Borsellino che saltarono in aria il 19 luglio 1992 in via d’Amelio. Nata a Sestu (Cagliari), non aveva ancora 25 anni e fu la prima donna poliziotto a morire per mano mafiosa. Il libro Io, Emanuela agente della scorta di Paolo Borsellino (Einaudi ragazzi), scritto da Annalisa Strada, versatile e prolifica autrice, ripercorre in prima persona la vicenda della giovane da quando frequentava l’Istituto magistrale e studiava con la sorella Claudia.  Con il sogno di diventare maestra, fu tentata dal concorso in polizia. Si preparano insieme le due sorelle, ma solo la più diligente Emanuela passò con il massimo dei voti, e fu ammessa ai sei mesi di addestramento a Trieste. Poco più che ventenne affrontò il primo distacco dalla famiglia, a cui era molto legata. Ma fu ancora più doloroso quando, invece di tornare nella sua Sardegna, dai genitori, i fratelli e il fidanzato, fu destinata a Palermo. Al disappunto per dover restare ancora lontana da casa, si univa la paura per una terra martoriata dagli attentati, e in cui le forze dell’ordine insieme con la magistratura erano le vittime. A Palermo dovette scontrarsi anche con gli sfottò dei ragazzini, che irridevano la divisa addosso a una donna. Mentre cercava di adattarsi al suo incarico di piantone, e socializzava con i colleghi, compilava continuamente  domande di trasferimento e approfittava dei week end per imbarcarsi sul ferry boat e tornare a casa. La notizia del tremendo attentato in cui persero la vita Falcone, la moglie e tre uomini di scorta scosse profondamente i poliziotti, che si sentivano ancora più vulnerabili. E la paura insieme al senso del dovere assalì Emanuela quando le comunicarono che sarebbe entrata a far parte delle scorte. A un amico che impensierito le raccomandava di stare attenta disse: «Maddai, finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun rischio. Solo con lui mi possono ammazzare». E invece, il 17 luglio, di rientro da un periodo di ferie in Sardegna, fu assegnata proprio a Paolo Borsellino, che nell’incontrarla  disse  «E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei».
Il primo giorno di scorta andò liscio. Il secondo no. Erano le 16,58 quando in via d’Amelio, dove  Paolo Borsellino si era recato per andare a salutare l’anziana madre, proprio nel momento in cui il giudice ed Emanuela scesero dall’auto, una Fiat 126 esplose. Sono pagine molto belle quelle in cui Annalisa Strada ricostruisce gli ultimi istanti della vita di Emanuela.  «Ho provato  una mostruosa nostalgia per chi stavo lasciando, per quello che avrei potuto fare, per tutto ciò che lasciavo in sospeso.  Non era giusto che andasse così».


ECCO L’INNO PER FALCONE E BORSELLINO

21/06/2012  In occasione dei vent’anni della morte di Falcone e Borsellino, un inno canta le gesta dei due magistrati. A Palermo lo ha presentato un coro di voci bianche.

Tra le tante iniziative e gli omaggi voluti in occasione dei vent’anni della morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino c’è anche questo Inno a loro dedicato scritto da Agata Reitano Barbagallo, insegnate e scrittrice per ragazzi, musicato da  Marcello Biondolillo.
A a Palermo lo scorso 23 maggio il Coro delle voci bianche del Conservatorio Vincenzo Bellini lo ha cantato per la prima volta davanti al pubblico riunito a Palazzo dei Normanni.


FALCONE E BORSELLINO, QUELL’ESTATE ALL’ASINARA

23/05/2016  Esce nelle sale il 23 e il 24 maggio il film “Era d’estate”, che rievoca il periodo trascorso all’Asinara dei due giudici e delle loro famiglie

Fulvia Degl’Innocenti

La loro storia è già stata raccontata più volte al cinema e in Tv.  Ma Era d’estate di Fiorella Infascelli mostra i due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, interpretati rispettivamente da Beppe Fiorello e Massimo Popolizio, in una prospettiva inedita.  Il film si concentra sull’estate del 1985, quando, a seguito di una serie di minacce nel corso del maxiprocesso alla mafia (Beppe Montana e Ninni Cassarà erano stati appena uccisi) i due giudici e le loro famiglie su ordine di Ant onino Caponnetto vennero costretti a trovare rifugio presso l’isola-bunker dell’Asinara. È un’estate calda,  e nella piccola foresteria di Cala d’Oliva, i due magistrati e le loro famiglie  vivono completamente isolati dalla piccola comunità di civili dell’Asinara, controllati a vista da una pilotina e dalle guardie penitenziare. Una situazione che genera insofferenza in Lucia, la figlia più grande dei Borsellino, che sta così male che il padre Paolo la riaccompagna a Palermo. E il fratello Manfredi si avventura in una fuga senza meta alla scoperta dell’isola, e verrà ritrovato in mezzo ai detenuti che distribuisce nutella e racconta barzellette.
Il lungo mese fatto di affetti e di lavoro rappresenta un momento intimo della vita dei due magistrati, che ci restituisce l’umanità di questi eroi così consapevoli dei rischi che correvano ma altrettanto determinati a proseguire nel loro lavoro. Nel cast, Valeria Solarino nel ruolo di Francesca Morvillo, la moglie di Falcone,  e Claudia Potenza (Agnese Borsellino). Il film sarà nelle sale solo il 23 e il 24 maggio, in concomitanza con le celebrazioni dell’anniversario dell’attentato a Falcone, avvenuto il 23 maggio 1992.
Ha dichiarato la regista: «Ogni volta che guardavo le loro fotografie, quelle che tutti conosciamo, la cosa che mi colpiva era la loro complicità, il loro modo di guardarsi ridacchiando, la loro ironia, spesso dimenticata, e che invece era una parte così importante della loro vita. Ecco ho provato a portare queste cose nel film».


FIAMMETTA BORSELLINO: «HANNO TRADITO PAPÀ ANCHE DA MORTO»

17/07/2019  La figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 ricorda la figura paterna e denuncia i depistaggi. «Per me quella di via D’Amelio fu una strage di stato. Non a caso la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta del 2017 dice che indagini e processi sono stati caratterizzati da gravissime anomalie»

Nicola Lavacca

La verità sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta è ancora nascosta nel buio fitto di un mistero infinito. Da quella tragica domenica (era il 19 luglio 1992), diventata la data di uno dei più sanguinosi attentati mafiosi, la famiglia del magistrato diventato il simbolo, con Giovanni Falcone, della lotta contro Cosa Nostra, continua a cercare la verità. Una verità disattesa e forse “scomoda”, che sarebbe purificatrice delle coscienze e sedimento civile per onorare il sacrificio di uomini che hanno servito lo Stato.

Fiammetta Borsellino, 46 anni, porta nell’animo lacerato il profondo dolore per la morte di suo padre e le inquietudini, i turbamenti per una giustizia talvolta inquinata e perversa, non sempre fedele ai principi di equità e uguaglianza. «Le indagini e i processi sono stati caratterizzati da depistaggi e da gravissime anomalie sia da parte di alcuni poliziotti che di certi giudici», dice la figlia più piccola del magistrato che nel maggio scorso ha ricevuto a Massafra, in provincia di Taranto, il premio “Eccellenza Franco Salvatore” nell’ambito del Magna Grecia Awards, un progetto ideato e diretto dallo scrittore regista Fabio Salvatore, giunto alla sua 22esima edizione. «La sentenza Borsellino quater, nel 2017, pronunciata dalla Corte di Assise di Caltanissetta, ha definito quella di via D’Amelio (per me una strage di Stato) uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria del Paese», puntualizza Fiammetta Borsellino. «Questa è una grande offesa non soltanto della nostra famiglia ma anche dell’intero popolo italiano. Ma non bisogna arrendersi. Oggi grazie al lavoro di nuove Procure, come quelle di Messina e di Caltanissetta, si sta cercando di dipanare l’ingarbugliata matassa e di capire attraverso ulteriori approfondimenti e accertamenti perché tutto questo sia avvenuto. C’è stato un tradimento nei confronti di mio padre quand’era in vita che poi è continuato anche dopo la sua morte».

Paolo Borsellino lasciato solo, come lo fu anche Giovanni Falcone. «Le menti raffinate della mafia avevano deciso di colpire mio padre, ma chi doveva fungere da sentinella della giustizia per proteggerlo, mi riferisco ai magistrati e ai poliziotti, non lo ha fatto. Non c’è stato solo il braccio armato a compiere la strage, ma anche elementi esterni a Cosa Nostra come alcuni politici. Tutto questo getta ombre inquietanti sull’intera vicenda. Mio padre ripeteva spesso: “La mafia mi ucciderà quando mi avranno isolato”. Una consapevolezza sconvolgente, quasi un segno premonitore di quello che poi sarebbe accaduto».

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme ai colleghi magistrati del pool, con coraggio e determinazione, allargarono il fronte delle indagini sul malaffare squarciando il velo omertoso sulle connessioni tra mafia e politica per la gestione della cosa pubblica. «Nello Stato italiano, parallelamente alle istituzioni, cammina una parte malata e malvagia che si nutre di un indissolubile connubio tra la politica, poteri forti, potentati economici e mafia. Mio padre diceva che “la mafia e la politica sono due poteri che agiscono per il controllo dello stesso territorio; di conseguenza o si fanno la guerra oppure si mettono d’accordo attraverso il voto di scambio e la gestione illegale degli appalti”. Il mafioso da tempo si è introdotto nelle istituzioni. Cosa Nostra non va più identificata con la coppola e la lupara. Ormai ha assunto una sua elevata capacità di occupare posti chiave all’interno della pubblica amministrazione allargando da tempo i suoi interessi anche nel Nord Italia. Di fatto ha raggiunto un altissimo livello di continuità e di contiguità con il potere politico ed economico».

Le organizzazioni criminali alzano il tiro per incrementare gli affari illeciti. Si alimentano e proliferano facendo proseliti tra i giovani che spesso vivono nell’emarginazione e nel disagio sociale. «La lotta alla criminalità organizzata richiede un forte impegno civile da parte di tutti. Dopo la morte di Falcone e di mio padre è sbocciata quella rivoluzione culturale e morale che lui stesso auspicava. Solo quando le nuove generazioni negheranno il consenso alla mafia, ci saranno più possibilità per sconfiggerla».

Fiammetta Borsellino, che ha dedicato il premio Magna Grecia Awards a insegnanti e docenti, è diventata la paladina di una battaglia civile per la giustizia e l’equità. «Cerco di trasmettere ai giovani l’esempio di mio padre. Condivido con loro la mia esperienza personale che sento come un dovere civile. La scuola è un importante avamposto educativo dove far lievitare la consapevolezza della legalità e del rispetto delle regole. Quando parlo ai ragazzi colgo la loro attenzione, il loro desiderio di costruire una società migliore. Vado spesso anche nelle parrocchie che aprono le loro porte ai cittadini perché credo sia indispensabile poter dialogare nella maniera più ampia possibile per scuotere le coscienze e arrivare al cuore della gente. Bisogna abbattere il muro dell’omertà, della paura». L’eredità lasciata da Paolo Borsellino ha tracciato un solco indelebile per edificare un futuro migliore, nell’attesa che venga fatta chiarezza sui punti oscuri che ancora avvolgono la strage di via D’Amelio. Fiammetta con un filo di emozione dice: «I lunghi anni delle indagini e dei processi hanno scandito l’inesorabile passare del tempo, che in casi come questo compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità. Ma non si deve smettere di tendere a essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. Non è ammissibile. Mio padre era un cristiano vero, un fervente cattolico, ma soprattutto era una persona credibile, che ha fatto dell’impegno costante e quotidiano nell’antimafia la sua ragione di vita. Io porto dentro i valori positivi che mi ha insegnato: il senso di giustizia, la legalità, la comprensione dell’uomo. È questa la vera strada da seguire per diffondere e far sentire il fresco profumo della libertà a chi si oppone all’onestà».


LO STATO SCENDE A PATTI CON LA MAFIA

21/04/2018  Dopo più di cinque anni di processo sui fatti di sangue della stagione 1992-1993, dalle stragi di Falcone e Borsellino agli attentati di Roma, Milano e Firenze, condannati dalla Corte d’assise di Palermo in primo grado Mori, De Donno, Dell’Utri e Bagarella. Assolto Mancino, perché il fatto non sussiste. È enorme la rilevanza della sentenza: non solo, dicono i giudici, la Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato c’è stata, ma l’hanno condotta da un lato i boss mafiosi dall’altro tre alti ufficiali dei Carabinieri e il fondatore di Forza Italia.

Luciano Scalettari

Lo Stato ha trattato ed è sceso a patti con la mafia. Questo alla fine è il significato della sentenza della Corte d’Assise di Palermo. Afferma una verità sconvolgente. È il verdetto di primo grado, di sicuro la vicenda giudiziaria andrà avanti. Ma oggi i giudici di Palermo hanno dato ragione all’impianto accusatorio della Procura, rappresentata dai magistrati Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi.

La sentenza conclude un processo lunghissimo, durato oltre 5 anni e mezzo, e dopo 5 giorni di camera di consiglio del collegio giudicante, presieduto da Alfredo Montalto (giudice a latere Stefania Brambille). Un processo chiamato a indagare sulla stagione di sangue del 1992 e 1993, con le stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, le scorte, e che ha prodotto poi i primi attentati fuori dalla Sicilia nella storia di Cosa nostra: le bombe di Roma, Milano e Firenze.

Tranne Nicola Mancino (assolto perché il fatto non sussiste) e Giovanni Brusca (per intervenuta prescrizione), gli altri imputati sono stati condannati, sia gli uomini delle istituzioni del nostro Paese sia i mafiosi: 12 anni per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, 12 per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 8 per l’ex colonnello Giuseppe De Donno. E ancora: 28 anni di reclusione per il boss mafioso Leoluca Bagarella. Il cosiddetto “supertestimone” Massimo Ciancimino è stato condannato a 8 anni per il reato di calunnia nei confronti dell’ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro (ma è stato assolto da quella di associazione mafiosa).

È enorme la rilevanza della sentenza: non solo, dicono i giudici, la Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato c’è stata, ma l’hanno condotta da un lato i boss mafiosi dall’altro tre alti ufficiali dei Carabinieri e il fondatore di Forza Italia. Mentre avvenivano le stragi e scoppiavano le bombe, quindi, uomini delle nostre istituzioni hanno cercato contatti con i mafiosi e si sono trasformati nel veicolo del ricatto dei corleonesi. Quanto a Marcello Dell’Utri, la condanna conferma l’accusa della Procura di essere l’uomo-cerniera fra i boss e il primo governo Berlusconi. In altre parole, la mafia siciliana ha condizionato i tre governi che si sono succeduti fra il 1992 e il 1994 – quelli guidati da Amato, Ciampi e poi Berlusconi – minacciando altre bombe e altre vittime se non si fosse fermata l’offensiva antimafia di quegli anni.

Peraltro, l’inchiesta sulla Trattativa, che ha portato al processo e ora alla sentenza, è figlia di una precedente lunga indagine della stessa Procura di Palermo, quella nota come “Sistemi criminali”, guidata dagli allora Pm Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia, che ipotizzava un tentativo di eversione dello Stato, avvenuto all’inizio degli anni ’90, concertato dalla stessa Cosa nostra insieme ad ambienti della massoneria deviata, pezzi dello Stato ed esponenti dell’estremismo di destra. Lo scopo, secondo i magistrati, doveva essere quello di destabilizzare il Paese con la strategia stragista, favorendo nel contempo un forte condizionamento politico attraverso la creazione e il rafforzamento delle Leghe del Sud che avrebbero dovuto consentire alla mafia il controllo del meridione. Sistemi criminali fu poi archiviata, ma la successiva inchiesta sulla Trattativa ne assunse per intero gli atti di indagine.

Lo stesso Giovanni Falcone, d’altro canto, nel 1992, in un’intervista rilasciata poche settimane prima di essere ucciso a Capaci, aveva dichiarato: «Ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola». Le condanne di oggi dicono che quella “strada” divenne trattativa, avviata dagli ufficiali dei Carabinieri e conclusa da Dell’Utri.

«Qualcuno dello Stato», è stato il commento di oggi di Nino Di Matteo, «ha trattato con Riina, Bagarella e altri stragisti, trasmettendo le richieste, i messaggi di Cosa nostra ai governi. Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico. Le minacce subite attraverso Dell’Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate, e Dell’Utri aveva veicolato tutto. Ecco perché è una sentenza storica».


Il coraggio e la memoria, non solo Falcone e Borsellino

20 marzo 2019 Arriveranno i cortei, le immagini, i cartelli colorati e quella foto, sempre quella in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, seduti a un tavolo, già “morti che camminano” , per dirla con un’espressione di Borsellino, consapevoli di esserlo, si sorridono. Il 21 marzo, merito di Don Luigi Ciotti e del grande impegno di Libera è la giornata della memoria e dell’impegno per le vittime di mafia. Per il 2019 il luogo prescelto è Padova.

Quella foto è un’icona, si spera ancora carica di significato per i ragazzi che vanno in piazza con i cartelli che replicano la frase di Falcone e la promessa di essere le gambe su cui le idee degli eroi civili continuano a camminare. Di Falcone e Borsellino ai ragazzi si parla ancora, anche se magari solo per la buona volontà di qualche insegnante che si inventa percorsi di legalità a margine dei programmi. Del resto della storia recente invece non si parla molto e intanto fa discutere, anche se è solo una parte del problema, la riforma dello scritto di maturità che non prevede più un tema storico ad hoc .

Il 21 marzo segue di appena due giorni il 19 e il 18 marzo, rispettivamente anniversario della morte di Guido Galli e Girolamo Minervini, uccisi uno a Milano l’altro a Roma a un giorno di distanza nel 1980. Di loro, a parte pochi addetti ai lavori e quelli che hanno memoria diretta di quegli anni di terrore non parla quasi mai nessuno. Erano giudici anche loro finiti sotto i colpi di Prima Linea e delle Brigate Rosse. A quel buco di memoria ha pensato di rimediare un gruppo di magistrati – tra loro anche nomi noti come Piercamillo Davigo, Ignazio De Francisci, Francesco Lo Voi, Fausto Cardella, Marcello Maddalena, coordinati da Stefano Amore, assistente di studio presso la Corte Costituzione e curatore del progetto: hanno rovistato nei ricordi personali e costruito una galleria di ritratti, per restituire vita e storia ai 27 colleghi – sì 27 non i tre o quattro rimasti nella memoria collettiva – assassinati a causa del loro lavoro, in prevalenza perché con le loro indagini e con i loro processi si sono messi di traverso agli interessi di mafia e ’ndrangheta, terrorismo rosso e nero, ma qualche volta anche perché sono finiti esposti alla vendetta di singoli imputati. L’ultimo è stato Fernando Ciampi a Milano, appena quattro anni fa, ma non se ne parla già più.

Sono ritratti personalizzati, nel senso che tengono conto delle circostanze in cui narratori e protagonisti si sono più o meno casualmente trovati a dividere stanze. Tutto questo rende il racconto un poco disomogeneo: sono diversi gli incontri, le penne, le stanze, gli incontri, i punti di vista. Ma aggiunge umanità, perché il coraggio ha tante forme quante sono le persone che dimostrano di averne. Il titolo Ritratti del coraggio (Casa editrice Nuova scienza) allude a un precedente di John Fitzgerald Kennedy Profiles in courage, e prende le mosse da una sua frase, che, forse per caso forse no, ha abitato le stanze e le tasche di Giovanni Falcone, ovunque sia andato: «Un uomo fa il suo dovere- a dispetto delle conseguenze personali, nonostante gli ostacoli, i pericoli, le pressioni – e questo è il fondamento della moraltà umana».

Che cosa accadrebbe, si chiede Stefano Amore, se dovessimo essere colpiti da un’amnesia collettiva? «Sarebbe compromessa, in modo irreparabile, la nostra identità. Torneremmo a essere schiavi della mafia, del terrorismo, della violenza, del totalitarismo, delle nostre paure».


“ORA AGNESE BORSELLINO È CON PAOLO”

05/05/2013  “Adesso saprà la verità sulla sua morte”. Così il fratello del magistrato ucciso dalla mafia ha annunciato la scomparsa della moglie. Una vita consacrata all’educazione alla legalità.

La notizia è arrivata via facebook: “È morta Agnese. È  andata a raggiungere Paolo. Adesso saprà la verità sulla sua morte”. Il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, ha comunicato così la morte di Agnese Piraino Leto, moglie del giudice ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992. Adesso restano i figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, a continuare a sostenere “le ragioni della legalità contro quelle del sopruso, della violenza e del malaffare”.

Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, la ricorda come “una donna straordinaria che avevo avuto modo di conoscere e di apprezzare in questi ultimi anni. Una donna che da un corpo fragile e provato dalla malattia sapeva sprigionare una forza morale e spirituale che raramente ho visto. Una donna dolce e mite che sapeva essere intellettualmente intransigente e radicale nel continuare, in altri modi, la lotta alla mafia portata avanti da suo marito”.

Agnese Borsellino, 71 anni, con il grande riserbo che l’ha sempre contraddistinta, ha però sempre continuato a chiedere verità sulle stragi del 1992 e a battersi per educare alla legalità, soprattutto le giovani generazioni. Non potendo partecipare per motivi di salute alle celebrazioni per il ventennale delle stragi, proprio ai giovani aveva indirizzato un messaggio con il quale confermava che “dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato” e li incoraggiava: “Io non perdo la speranza in una società più giusta e onesta. Sono, anzi, convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia”.

E su suo marito aveva detto: “Non indietreggiava nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato intorno a lui”. Nell’ultima occasione pubblica, il 12 ottobre 2012, alla quale Agnese Borsellino aveva partecipato si era levata forte la sua denuncia con poche, ma incisive parole: “Questa città deve resuscitare. Deve ancora resuscitare”.

Di recente era stata sentita nella fase istruttoria di un nuovo filone d’inchiesta sulla strage di via D’Amelio ed era indicata tra i testimoni principali del dibattimento per il processo che si è aperto a marzo a Caltanissetta.


“PALERMO, NON MOLLARE”

16/08/2018  Ripubblichiamo un’intervista a Rita Borsellino sui veleni della città realizzata nel luglio 1995.

Francesco Anfossif_

PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO

Ripubblichiamo l’intervista a Rita Borsellino effettuata nel luglio 1995, a tre anni dalla strage di via D’Amelio (nella foto, Rita Borsellino tra il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e il capo dello Stato Sergio Mattarella).

Per Rita Borsellino ogni intervista è una piccola sofferenza, una violenza alla sua timidezza, un sottile prolungamento del dolore che l’ha colpita. Per questo non parla volentieri. Se si concede suo malgrado a questa tortura è per rinnovare l’impegno civile iniziato all’indomani della tragedia di via Mariano D’Amelio, quel 19 luglio di tre anni fa, quando suo fratello, il giudice Paolo Borsellino, morì insieme con i cinque agenti della scorta. Da allora lei vaga come un’Antigone da una scuola all’altra d’Italia, partecipa a cortei, a veglie di preghiera, sacrificando la famiglia e il lavoro in farmacia Ci Borsellino sono farmacisti da quattro generazioni). Dice che si fermerà solo quando Palermo avrà ritrovato la sua “normalità”. Rita Borsellino odia anche le cerimonie pubbliche e ripugna i riflettori della politica. Ha accettato solo la vicepresidenza dell’Associazione Libera, che coordina tutte le realtà di volontariato e dell’associazionismo dedite alla lotta antimafia. «Quel nome riflette bene il mio genere di impegno».

Signora Borsellino, Palermo ha conosciuto un mo mento di grande resistenza civile contro la mafia all’indomani delle due stragi di Capaci e via D’Amelio, E oggi, a che punto siamo?

«Qui a Palermo, in coincidenza con i due anniversari delle stragi, si verifica sempre una maggiore presa di coscienza. C’è quindi un certo risveglio, dopo i mesi di indifferenza. E la cosa peggiore, perché quando si è “contro” almeno si è già qualcosa. C’è stato un periodo in cui tutti avevano voglia di archiviare. Ma archiviare non è possibile. Ci sono stati episodi che hanno contribuito a questo risveglio».

E quali? «L’attentato a don Gregorio Porcaro, il sacerdote della parrocchia dell’Acquasanta che era stato parroco con don Puglisi, il prete di Brancaccio ammazzato dalla mafia. Don Gregorio di attentati ne aveva già subìti due, caduti sotto silenzio, ma il terzo è avvenuto mentre si celebrava Giovanni Falcone: questo ha dato risonanza all’avvenimento e ha risvegliato le coscienze. Sa, è facile tornare indietro qui a Palermo. Dopo la morte di Paolo sembrava che fossimo a un punto di non ritorno. E invece no, siamo tornati indietro. Si è parlato di cose che sembravano ormai acquisite e che invece sono state messe ancora una volta in discussione. Come l’articolo 41 bis sulla carcerazione dei mafiosi. Si sono fatte polemiche feroci sui magistrati, accusati di protagonismo, si è messo in discussione il ruolo dei pentiti. E intanto la mafia ringrazia e si rinvigorisce».

Chi sono oggi gli eredi di suo fratello? «Tutti coloro che lavorano come lavorava lui, con onestà, mirando solo al raggiungimento dei suoi scopi. Vuole dei nomi? AlIora diciamo Giancarlo Caselli, che ha deciso di lavorare a Palermo la notte di quel 19 luglio. Non è certo il solo, ma ti rappresenta tutti».

Come vive il dibattito di questi giorni sulla custodia cautelare? Ha seguìto il caso Contrada? «Io non mi sostituisco mai al lavoro dei magistrati. Aspetto con fiducia la sentenza della corte che lo sta giudicando. Quanto alla custodia cautelare, perché se ne parla solo a proposito dei politici o dei pezzi grossi? La giustizia è uguale per tutti. Mi sta bene parlare di Contrada, di Cagliari, sul piano umano; meritano rispetto. Ma perché non si parla anche dei detenuti meno famosi?».

Lei crede nel pentimento dei cosiddetti “collaboratori di giustizia”? «È più giusto chiamare i penti ti “dissociati”. Quanto all’autenticità del loro pentimento non posso certo giudicare io la loro coscienza. lo non mi chiedo quali sono le ragioni di un mafioso che collabora con la giustizia: so solo che ha deciso di passare dall’ altra parte e che con questo aiuterà i magistrati a debellare la mafia».

Crede che il processo sulla strage di via D’Amelio possa fare veramente giustizia? «Scherza? Ancora siamo a niente, Non siamo nemmeno all’antefatto. Anche se si condannassero i vari boss. lo non credo proprio che un giorno Riina si sia svegliato e abbia detto a Bagarella: ammazziamo Paolo Borsellino. Ritengo che dietro ci sia un disegno molto più ampio. Davvero crede che a reggere un’organizzazione come Cosa nostra siano solamente i Riina e i Bagarella?».

Voltiamo pagina. Come andò con Berlusconi quel lO ottobre del ’94? «Ancora con questa storia? Saranno state le 17, ero sola in casa, in via D’Amelio, e avevo una gamba ingessata. Suona il citofono. Un colonnello dei carabinieri mi informa che il presidente del Consiglio Berlusconi sta salendo a farmi visita. Non ero in condizioni di riceverlo, così, senza preavviso. Suonano una seconda volta. È il prefetto Rossi che torna sulla questione. Spiego che non posso, ma lui suona altre due volte. Quando penso che il tira e molla sia concluso suona ancora il citofono. È Berlusconi. Dopo alcune frasi di circostanza mi chiede: “Signora, cosa possiamo fare contro la mafia”. Rispondo: “Me lo chiedete voi che siete al governo e potete fare tutto?”. E lui: “Ma se ci lasciano fare tutte le cose belle che vogliamo fare per l’Italia … Invece non ci lasciano lavarare”, Questo mi irrita più delle 5 citofonate. Gli dico: “Anche a mio fratello non gliele lasciavano fare tutte le cose belle che voleva, eppure ha cercato di farle lo stesso”. Si congeda dicendomi: “La chiamerò da Roma con più calma”».

E la chiamò? «No. E comunque non è che mi importi molto».

Palermo è una città “avvolgente”, capace di schizzare fango e veleni su chiunque. Non ha risparmiato nemmeno Giovanni Falcone. Come ha fatto Borsellino a rimanerne immune, come evitava le “relazioni” pericolose? «Credo che Paolo, in ogni momento della sua giornata, facesse i conti con la sua coscienza. Era un credente, aveva fede. Per questo non aveva paura di inciampare. Non scendeva mai a compromessi. Ogni tanto me lo diceva: guarda che, se necessario, arresterei anche te. Non faceva nessuno sforzo nel comportarsi così».

Contro la mafia la Chiesa palermitana sembra avere assunto un ruolo guida… «Sembra proprio così, dopo anni in cui è rimasta in silenzio. Ma è stupido parlare di preti antimafia. Il prete, se è tale, è antimafia, perché la mafia è quanto di più maligno ci sia».

Cosa dice ai ragazzi, quando li incontra nelle scuole o durante le manifestazioni? «Parlo più dell’uomo Borsellino che del magistrato. E spiego che ciascuno di noi può essere Paolo Borsellino, purché sia coerente con sé stesso».


PAOLO BORSELLINO, IL GIORNO DOPO

20/07/2011  Dare un calcio alla mafia, l’anniversario del giorno dopo. Nel ricordo dell’assassinio di Paolo Borsellino.

È l’anniversario del giorno dopo. Il giorno dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e dei cinque uomini della sua scorta: Emanuela Loi , Agostino Catalano Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. «Il 20 maggio per noi magistrati, ma anche per tutti i cittadini italiani, ha significato sgomento, rabbia, senso di impotenza, ma anche sfida ad agire e a ricostruire tutto ciò che la mafia voleva distruggere», commenta il giudice Giovanbattista Tona, presidente dell’Associazione magistrati di Caltanissetta. La procura nissena , proprio tra pochi giorni, depositerà le memorie per la revisione del processo per l’attentato in via D’Amelio.

«Il lavoro che ci siamo trovati a fare per la revisione è stato immane: cento faldoni, tre giudizi diversi, migliaia di pagine. Credo che sia stata l’impresa più faticosa della mia carriera», ha commentato ieri sera il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari durante la cerimonia commemorativa in via D’Amelio. E oggi, per ricordare che c’è ancora bisogno di impegno,  alle 17.30 allo stadio Tomaselli di Caltanissetta, i magistrati di Palermo e quelli nisseni si troveranno per una partita di pallone che hanno voluto intitolare “Un calcio alla mafia”. Manfredi Borsellino, il figlio di Paolo, con la maglia numero 10, giocherà un tempo in una squadra e un tempo in un’altra a sottolineare il legame stretto che, pur nella competizione, non può mancare tra le procure.

«Vogliamo trovarci uniti per essere quello che Borsellino, Falcone e gli uomini migliori della Sicilia avrebbero voluto che fossimo», continua Tona. In panchina il piccolo Paolo, nipote del magistrato ucciso, mascotte dell’iniziativa promossa dall’Anm sezione di Caltanissetta e sezione di Palermo e dalla Fondazione Progetto Legalità in memoria di Paolo Borsellino e di tutte le altre vittime della mafia.


PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO

13/07/2017  Nell’anniversario della morte, un ritratto inedito del giudice antimafia che fondava il suo servizio per la giustizia su una vita cristiana profonda ma non ostentata

Alessandra Turrisi

Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti.

A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni.

Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra.

SOLO PROVE CERTE «Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire».

Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia: «Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo».

Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore. E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre».

FEDE E RISERVATEZZA Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia».

La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli.

«Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco.

PRONTO AL SACRIFICIO Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi».

Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda».

Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere».

GLI AGENTI DELLA SCORTA Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina.


QUELL’ESTATE DA “CARCERATI” DI FALCONE E BORSELLINO

18/07/2018  Era d’estate è il film che ricostruisce i giorni del 1985 in cui i due magistrati con le loro famiglie furono costretti a trasferirsi sull’isola dell’Asinara per preparare il maxi processo a Cosa Nostra. Ecco le informazioni sul film.

Eugenio Arcidiacono

“Era d’estate”, la pellicola che ricostruisce i giorni trascorsi insieme sull’isola dell’Asinara nel 1985 dai due magistrati e dalle loro famiglie per preparare il primo maxiprocesso a Cosa Nostra, è un film intimo, giocato sul contrasto tra la luce abbagliante dell’isola e le ombre che si addensavano sulle vite dei due giudici e che può contare sull’ottima prova degli attori, a partire dai protagonisti Beppe Fiorello e Massimo Popolizio.  Ecco le informazioni sul film:

SINOSSI
L’Asinara, 1985. In una notte come tante sbarcano sull’isola Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le proprie famiglie. Il trasferimento è improvviso, rapido, non c’è nemmeno tempo di fare i bagagli, d’altronde la minaccia, intercettata dai Carabinieri dell’Ucciardone, è grave: un attentato contro i due giudici e i loro familiari partito dai vertici di Cosa Nostra.
È un’estate calda, come non se ne vedevano da tempo, e nella piccola foresteria di Cala d’Oliva, i due magistrati e le loro famiglie  vivono completamente isolati dalla piccola comunità di civili dell’Asinara, controllati a vista da una pilotina e dalle guardie penitenziare. Una condizione  che non tutti riescono a sopportare. Così accade che Lucia, la figlia più grande dei Borsellino, cada lentamente in uno stato di così grande malessere che dovrà essere riportata a Palermo, dove Paolo, imponendosi ai suoi superiori, la accompagnerà. Così accade che Manfredi, scosso anche da quello che è successo alla sorella Lucia, si avventuri in una fuga senza meta alla scoperta dell’isola, e verrà ritrovato in mezzo ai detenuti che distribuisce nutella e racconta barzellette. Passano i giorni, ci si organizza, i rapporti a poco a poco fra tutti diventano più intimi, ed è come se quella vacanza obbligata desse modo ad ognuno di scoprire l’altro.

Così trascorre un mese fatto di notti insonni, di sorrisi, di scherzi, di pensieri, una lunga, inaspettata tregua in attesa di riprendere il lavoro, in attesa che il ministero fornisca le carte per continuare la stesura dell’ordinanza-sentenza del maxi processo, il capolavoro di Falcone e Borsellino che affermerà una volta per tutte che la mafia esiste e ha un nome “Cosa Nostra”. Finalmente le carte arriveranno, Paolo e Giovanni ricominceranno a lavorare giorno e notte e una nuova, sconosciuta armonia sembra nascere in quell’angolo di mondo, un’inedita serenità familiare che potrebbe durare anche per sempre. Invece poi succede che rientrato il pericolo, arriva l’ordine di tornare di nuovo Palermo. E, nello stesso modo improvviso in cui erano partiti, così all’improvviso devono ripartire.  Tornare verso Palermo. 
Tutti verso  l’inesorabile sorte che li colpirà nel 1992.

NOTE DI REGIA
Tutto è cominciato all’Asinara, dove qualche anno fa stavo girando un documentario, “Pugni chiusi”. Ero all’interno del vecchio carcere dove gli operai del Petrolchimico si erano autoreclusi per protesta. Un pomeriggio uno di loro mi portò a vedere una casa rossa sul mare e mi disse che lì Falcone e Borsellino nel 1985 avevano scritto parte dell’ordinanza del maxi processo. Dopo qualche giorno cercando altre notizie lessi un articolo di Caponnetto che ribaltava completamente quella versione:  il vero motivo di quella strana e improvvisa vacanza era una soffiata arrivata da alcuni detenuti dell’Ucciardone sulla preparazione di un attentato ai due giudici e alle loro famiglie. Beppe Montana e Ninni Cassarà erano stati appena uccisi. Nel giro di poche ore Caponnetto diede ordine ai servizi di portare Falcone e Borsellino in un luogo sicuro. E il più sicuro di tutti sembrò l’isola dell’Asinara, dove all’epoca c’era il supercarcere di massima sicurezza. Sempre Caponnetto raccontava che i due giudici non avevano con loro le carte del processo, e che quindi per molti giorni non poterono lavorare.  
E’ stato questo dettaglio a farmi venire l’idea del film.  Immaginare Falcone e Borsellino a tre mesi dall’inizio di uno dei più grandi processi del secolo, con l’ordinanza da finire, costretti a non lavorare. Costretti a quell’esilio. 
Come avevano reagito? Fuori dal turbinio delle scorte, delle sirene, lontano da Palermo, dove vivevano ormai blindati da anni, loro e le loro famiglie, in quel luogo così diverso…cosa provavano?  Quali le loro fantasie? Le angosce? Le emozioni? 
Lì lo sguardo poteva spaziare verso il mare, verso l’orizzonte, ma poteva anche posarsi su se stessi, sulle mogli, sui figli. C’era il tempo per indagare sui loro affetti.  Questo racconta e inventa il film: la loro intimità, Paolo e Giovanni che raccolgono i ricci e intanto parlano della morte, Paolo che recita la Divina Commedia, le liti, i conflitti, le freddure di Giovanni, Manfredi che scappa, le cene sul mare, le paure, e le notti svegli in attesa di notizie. 
Falcone e Borsellino facevano lo stesso lavoro, con la stessa incredibile passione etica, erano legati da mille cose, ma non avevano mai passato una vacanza insieme. 
Ogni volta che guardavo le loro fotografie, quelle che tutti conosciamo, la cosa che mi colpiva era la loro complicità, il loro modo di guardarsi ridacchiando, la loro ironia, spesso dimenticata, e che invece era una parte così importante della loro vita. Ecco ho provato a portare queste cose nel film. Entrare in quella intimità. 
E nello stesso tempo entrare in quel luogo, l’isola dell’Asinara, misteriosa, arcaica.
Ho conosciuto Manfredi Borsellino, abbiamo cominciato a parlare, sempre di più, con sempre più familiarità… 
poi Agnese Borsellino, ed è stato un incontro fondamentale, importante, e dai suoi racconti ho capito tante cose, e poi gli amici, le persone che avevano lavorato con loro, i giornalisti che per anni li hanno seguiti… ho conosciuto Lucia e Fiammetta Borsellino, il direttore del carcere che li aveva accolti e protetti, perché come sempre diceva Agnese Borsellino, allora lo Stato era con loro e li aveva salvati. 
Così, unendo frammenti veri e inventando una quotidianità sconosciuta, è nata la sceneggiatura, e inventare i dialoghi è stata forse la cosa più difficile… poi sono arrivate le riprese. 
Quando siamo arrivati, quando siamo entrati in quella foresteria, la stessa in cui loro avevano abitato, siamo stati travolti dal lavoro… ma ogni tanto come una folata di vento, arrivava una forte emozione, credo che abbia attraversato tutti quanti.  Guardavo gli attori e pensavo a Falcone e Borsellino, che da quelle stesse finestre avevano guardato quello stesso mare. Il mare che tutti e due amavano tanto. 
Ed è stato per me quasi immediato capire che volevo fare un film semplice, quasi geometrico. Riprendere tutto in modo molto naturale. 
E mentre giravo ho sempre avvertito in tutti un senso di responsabilità, un grande affetto, e un sentimento di grande mancanza. 
Affetto e ironia che credo si riassumano in una battuta del film, quando Falcone, al barista che gli chiede se lui sia il giudice Borsellino, risponde sorridendo “Non completamente”.


VIA D’AMELIO, 23 ANNI DOPO

19/07/2015  Una serie di celebrazioni ha ricordato la strage in cui morirono Paolo Borsellino e i sei agenti di scorta. Duro l’intervento del figlio, Manfredi, all’evento organizzato dall’Associazione nazionale magistrati, intervento conclusosi con un lungo abbraccio del Presidente della Repubblica Mattarella. Il 17 luglio è stata inaugurata anche la “Casa di Paolo”: dove un tempo c’era la farmacia della famiglia Borsellino nascerà una scuola di informatica per i giovani del quartiere Kalsa di Palermo.

Luciano Scalettari

«Il 19 luglio 1992, con quell’esplosione che sembrò trascinare via ogni speranza, ci costringe ancora a riflettere, a valutare i risultati, a rinnovare il nostro impegno per la legalità e la nostra fede nella giustizia». Così il presidente del Senato Pietro Grasso, in occasione delle celebrazioni di oggi della strage di via D’Amelio, avvenuta 23 anni fa.

«Paolo Borsellino», ha aggiunto Grasso, «è stato un grandissimo uomo, uno straordinario magistrato, un amico. Come tutti i maestri ci ha lasciato un immenso patrimonio intellettuale, etico e professionale».
È intervenuta anche la presidente della Camera, Laura Boldrini: «Paolo Borsellino era un magistrato rigoroso, instancabile e brillante e, pertanto, costituiva un temibile avversario della criminalità organizzata», ha sottolineato. «Colpendo lui e le persone della sua scorta, la mafia metteva in atto l’ennesimo tentativo di colpire al cuore le istituzioni democratiche e la convivenza civile nel nostro Paese. I segnali di speranza prevalgano sulla rassegnazione e sul fatalismo».

Il lungo abbraccio fra Manfredi Borsellino e il Capo dello Stato Sergio Mattarella. In copertina: un momento dell’intervento di Manfredi.

Tante le autorità convenute a Palermo, anche in questo “anniversario delle polemiche”, che hanno coinvolto il governatore della Sicilia Rosario Crocetta, per le presunte intercettazioni che lo riguardano pubblicate dall’Espresso.
Sulla vicenda ha parlato Manfredi Borsellino, figlio del magistrato assassinato. Nel giorno in cui si dovrebbe ricordare il padre, dedica invece il suo intervento alla sorella Lucia, da un mese ex assessore alla Sanità della giunta Crocetta.
Il presidente della Regione non è tra gli ospiti. Ha delegato il suo vice Baldo Gucciardi, preferendo non partecipare alla manifestazione dopo la pubblicazione della notizia (smentita dalla Procura di Palermo), di una sua presunta conversazione intercettata col medico Matteo Tutino. Nella telefonata, il re della chirurgia plastica, ai domiciliari per truffa, avrebbe detto che la Borsellino andava fatta fuori come suo padre.
Il nome di Crocetta Manfredi Borsellino non lo pronuncia mai.
 Il figlio di Paolo, davanti al capo dello Stato, ai ministri dell’Interno Alfano e della Giustizia Orlando, parla del silenzio dell’istituzione regionale dopo le dimissioni della sorella. Una sorella, dice, «costretta a subire umiliazioni e offese e a vivere lo stesso calvario del padre».
Al termine dell’intervento di Manfredi, il Capo dello Stato Mattarella lo ha stretto in un lungo abbraccio.

Fra le iniziative di questo 23° anniversario c’è stato anche il “battesimo” della “Casa di Paolo”: «È tornata la primavera dopo un lungo inverno, qui ora si fa sul serio». Così Rita Borsellino ha commentato l’inaugurazione.
In quella che un tempo era la farmacia Borsellino, al civico 57 di via della Vetriera, quartiere Kalsa di Palermo (lo stesso in cui hanno vissuto i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma anche il boss pentito Tommaso Buscetta), ora ci sarà una scuola di informatica per i giovani del quartiere.
«Voglio far tornare Paolo alla Kalsa, il quartiere dove siamo nati», ha aggiunto il fratello Salvatore. «Questo non sarà un luogo di memoria e di lapidi. Non riesco ad accettare il silenzio di questo quartiere, qui vorrei fare rinascere la tradizione dei ragazzi cresciuti in bottega, io sono un ingegnere informatico e vorrei dare un’opportunità ai giovani che vogliono sfuggire alla spirale perversa della mafia e della povertà».
Salvatore Borsellino ha acquistato a proprie spese i locali della vecchia farmacia di famiglia, compreso quello attiguo. Il resto, oltre 38mila euro, è stato raccolto attraverso donazioni raccolte dal movimento delle agende rosse.
«Lo scopo è rimettere questo spazio al servizio dei cittadini», ha detto Rita Borsellino. «Qui dentro ho lavorato da farmacista appena laureata, vedere questa sede rinata è una bella emozione».


VITA DA AGENTE DI SCORTA: PROFESSIONE ANGELO CUSTODE. RICORDANDO VIA D’AMELIO.

17/07/2015  A Via D’Amelio, il 19 luglio 1992, sono morti con Paolo Borsellino 5 agenti di scorta: andiamo a scoprire chi sono davvero, che cosa fanno, come imparano, gli agenti che sempre nell’ombra fanno questo rischioso e complicato lavoro.

Elisa Chiari

L’ombra è la loro dimensione: sono l’ombra delle persone che devono proteggere, stare nell’ombra è una necessità, per discrezione e perché passare inosservati li rende meno vulnerabili. Domenica 19 luglio fanno 23 anni dalla Strage di via D’Amelio in cui sono morti il magistrato Paolo Borsellino e gli aagenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi, che una memoria sgarbata continua a chiamare “la scorta”. Nell’ombra per sempre, uniti in una sintesi inanimata che non tiene conto delle loro vite, della loro fatica, delle loro storie, del rischio che si sono presi – e che altri continuano a prendersi dopo di loro – da volontari: perché al servizio scorte si va per scelta.  
I sentimenti delle famiglie, la brutta cronaca siciliana di questi giorni, il processo in corso a Caltanissetta – il quarto – in cerca si una verità sempre più difficile man mano che il tempo passa – fanno intendere che non è aria di passerelle e di commemorazioni. Meglio allora, quei cinque, provare a immaginarli com’erano, raccontando che cos’è una vita da scorta e come si arriva a quel ruolo in prima linea.  
Agenti di scorta non si nasce, nel senso che non basta vestire la divisa della Polizia di Stato (anche se le scorte per non apparire lavorano in borghese), lo si diventa per scelta aggiungendo alla preparazione tecnica di base, un addestramento supplementare, specifico e selettivo che  comincia con il corso di prima formazione di 5 settimane al Centro di addestramento e istruzione della Polizia di Stato (Caip) di Abbasanta in Sardegna (test psicoattitudinali in ingresso ed esami di idoneità in uscita) e continua con periodi di aggiornamento a cadenza triennale, per stare al passo con l’evoluzione di tecniche e rischi.  
«La scuola di Abbasanta – spiega Antonio Pigozzi, primo dirigente della Polizia di Stato, direttore del Caip – esiste dal 1970, dal 1979 forma gli agenti destinati ai servizi di protezione personale dei soggetti a rischio di attentato, non solo della Polizia di stato, ma anche delle polizie a ordinamento civile». In Italia attualmente la legge prevede quattro livelli di protezione, dal 4 il più basso, all’1, il più elevato, con una dotazione di uomini e di mezzi in proporzione al rischio valutato oggettivamente secondo l’attività di intelligence. «Dal 2003 il servizio scorte è gestito dall’ Ucis,  l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, mentre prima faceva capo ai Prefetti. I corsi, patrocinati dall’Ucis, si svolgono con modalità analoghe perla polizia, i carabinieri, la guardia di finanza e la polizia penitenziaria».
 Domenico Comunale, vicequestore aggiunto e vice direttore del Cais, traccia l’identikit dell’agente di scorta, ma sgombera il campo dall’immaginario muscolare del ruolo: «Accanto alle attitudini di base, estremo equilibrio, buon senso, capacità di gestire lo stress, formazione deontologica, dal punto di vista tecnico ha bisogno di intuito, intelligenza, capacità di osservazione degli scenari, capacità di previsione: l’essenza della funzione di un agente di scorta è la prevenzione del rischio: si tratta di fare in modo che la persona protetta non arrivi a trovarsi in situazioni di pericolo che vanno, invece, prevenute. E’ chiaro che questo non può prescindere dal livello di reattività fisica che il servizio richiede nei casi estremi, qualora dovessero verificarsi. Si cerca, comunque, di trasmettere l’idea che non esiste momento di stand by, che anche quando il protetto è in un luogo sicuro, chi fa scorta continua a gestire lo scenario per cogliere in tempo utile i segnali di cambiamento».  
Un profilo complesso che richiede capacità di bilanciare relazione e discrezione, oltreché saperi tecnici, al quale negli anni si sono progressivamente affacciate anche le donne, sempre meno vissute come un’eccezione: «Il più efficace agente di scorta – continua Comunale –  è quello che riesce a gestire il rapporto con la persona protetta in modo da averne la collaborazione attiva. Se la persona protetta avverte l’operatore  – uomo o donna che sia – come colui che garantisce la continuazione della vita quotidiana e le sue attività in sicurezza, sarà più propensa ad accettare di sentirsi dire che una certa cosa non si può fare, perché non ci sono le condizioni per evitarne il rischio. Le donne, progressivamente più numerose negli anni,  hanno avuto il problema di superare il concetto antropologicamente maschile dell’atto della protezione, ma hanno portato in più una preziosa dote di empatia, di intuito, di dimensione aggregante nella dinamica di gruppo». Elementi preziosi, quando si tratta – come sempre accade – di dover proteggere le vite degli altri, cercando di invaderle il meno possibile