A Prato un rogo che interroga tutti

Mancini 300

Mancini 300

di Lionello Mancini

Mancini 300

di Lionello Mancini

 

Tutti abbiamo seguito attraverso i media la tragica vicenda di Prato, dove circa una settimana fa 7 cittadini cinesi sono bruciati in loculi di cartongesso con le sbarre alle finestre, dentro il laboratorio tessile in cui lavoravano e dormivano.
In cui “vivevano” se vogliamo dire così.
Alcuni di loro erano clandestini, altri no; non sappiamo quanto guadagnassero, né se volontariamente si infliggessero quella vita dura da morire, oppure se fossero schiavi di un racket con gli occhi a mandorla come tante prostitute, mendicanti, lavoratori dei campi.
Molti aspetti della tragedia restano ancora da accertare, ma qualcosa di certo lo sappiamo.
Sappiamo, per esempio, che il capannone bruciato era dato in affitto da un proprietario italiano; sappiamo che i prodotti di quelle lavorazioni finiscono in negozi italiani di alta gamma, oppure sulle bancarelle dei mercatini affollati da italiani per risparmiare qualche euro; sappiano che molti grossisti o case della haute couture non gradiscono si sappia chi sono i loro fornitori e impongono l’anonimato ai prodotti acquistati a prezzi stracciati; sappiamo, ancora – lo sanno tutti – che il prezzo irrisorio di quei prodotti è dovuto ai minori costi in capo a certi façonisti, rigorosi solo nel tener bassi i salari, nell’evasione contributiva e previdenziale, nell’assenza di ogni precauzione antinfortunistica (e non per ignoranza delle normative) favorita dalla sfilacciatura dei controlli attuati dagli enti preposti.

In definitiva, sappiamo che nella filiera produttiva una ditta semiclandestina è “conveniente” perché si permette tutto ciò che è tassativamente proibito e prospera praticando un dumping micidiale, che si completa con la scomparsa dei ricavi, attraverso i vari canali di money transfer. Ma questo non impedisce di farci affari.
Sono gli stessi meccanismi di sottovalutazione, disimpegno, ricerca del tornaconto senza regole, del tutto simili a quelli che hanno permesso altri disastri, come il radicamento della criminalità organizzata in aree del Paese lontane dai luoghi in cui essa è storicamente radicata.
Sì, perché tanti capannoni sono passati di mano con abbondante e lucroso ricorso al cash incassato dai proprietari; in tanti hanno finto di non vedere uomini e donne assonnati aggirarsi in pigiama in ore antelucane sui posti di lavoro; in tanti hanno visto cucire, fumare e accendere stufette a pochi centimetri da materiale infiammabile; così come i prodotti non vengono quotidianamente spostati, accatastati, stivati su visibilissimi camion e furgoni, in piena luce oppure in piena notte.

Infine, è risaputo che solo qualche rivolo dei miliardi che corrono fuori dall’Italia, finisce nelle tasche dei pochi che ingrassano con l’illegalità, senza alcun giovamento per il territorio circostante che declina, inaridisce, perde le forze, impotente davanti a una malora che verrà sancita – non curata, sia chiaro – dalle carte delle Procure, dai sequestri, dalle manette. Eppure il “business” va avanti, fino a costare dignità e vite umane.
A ben pensarci, di questo dramma pratese sapevamo già abbastanza per evitare che si alzassero le fiamme.
Ma ancora una volta è prevalsa l’idea folle che a non vedere e a non sentire, le storture spariscano. Non è così e i costi di questo abbaglio ricadono sull’intera comunità nazionale.

Sole 24 Ore 9.12.2013

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