SALVATORE RIINA, la belva – Racconti di mafia – 70ª puntata



MORI, DE CAPRIO, CASELLI e i misteri del covo

IL GRANDE MISTERO DEL COVO



Luciano Liggio parla di Riina intervistato da Enzo Biagi 

Il processo a Riina – da Un giorno in  Pretura


Trascrizioni delle intercettazioni ambientali presso il carcere di Opera dei colloqui fra Salvatore Riina e Alberto Lorusso

Riina 6.08.2013-1_OCR

Riina 29.08.2013-1_OCR



VIDEO e TRASCRIZIONI  delle intercettazioni ambientali presso il carcere di Opera dei colloqui fra Salvatore Riina e Alberto Lorusso

 

MORI, DE CAPRIO, CASELLI e i misteri del covo

Luciano Liggio parla di Riina intervistato da Enzo Biagi 



 

TRENT’ANNI DI SOSPETTI SULLA CATTURA DI TOTÒ RIINA


“Abbiamo fatto il nostro nucleo di intervento: avevo gente con la quale sarei potuto andare ovunque e morire felice. Conoscevamo la villa benissimo, meglio di chi ci abitava. Erano già un paio di ore che eravamo in attesa-io poi non avevo dormito tutta la notte. Ci siamo presi un cappuccino al bar, poi ci siamo messi in agguato, nascosti nel traffico tra le macchine, a piedi e in movimento, ognuno aveva un settore di responsabilità in modo da non essere individuabili in sosta. A un certo punto il tempo diventa pesante, i minuti diventano critici, cambia il rapporto con il tempo…..Dico a Vichingo: “Adesso mi sono rotto le scatole, deve venire” -sai quando hai un presentimento-dopo un minuto Ombra dalla sua postazione assieme a Di Maggio via radio dice. ” Attenzione, è uscito il nostro amico, il nostro amico Sbirulino, è uscito. “Lo chiamavamo Sbirulino in codice, ed era con un soggetto sconosciuto che poi era Biondino Salvatore, su una macchina Citroen ZX. Ombra ci dà la targa, il colore e la direzione. Lo aggancia Arciere, poi lo agganciamo noi e si avvicina, percorre un chilometro e mezzo, siamo in formazione, ci facciamo copertura alle spalle, copertura davanti, copertura a 360 gradi, poi in quattro facciamo l’intervento: arriva al semaforo, si ferma, apriamo immediatamente le porte, lo gettiamo a terra. Prendo una coperta, io e Vichingo prendiamo Riina e lo mettiamo in macchina, gli altri prendono Biondino. Vichingo guidava ed io ero dietro e lo tenevo con la faccia sul sedile davanti, come se fosse in ginocchio accovacciato. Ma avevano paura, se li guardavi negli occhi Biondino e Riina, avevano il terrore. Hanno avuto attimi in cui vedevi la paura che avevano di morire e mi hanno fatto pena, perché tu non devi avere paura di morire se combatti. Avevano paura perché non sapevano chi eravamo…L’ho preso alla gola e lo portato via. L’ho steso a terra per un attimo ,per vedere se aveva armi, con la faccia a terra. E’ stata un’azione rapidissima, non aveva niente, aveva una gran paura…In macchina gli ho spiegato che era prigioniero dell’Arma: “Carabinieri! io la arresto in nome e per conto di Giovanni Falcone.”………..Vichingo ci controllava, siamo saliti per le scale, siamo andati in ufficio. C’era Oscar che aspettava con il passamontagna ,con la nostra divisa. Abbiamo messo Riina sotto la foto del Generale Dalla Chiesa con la faccia al muro, in attesa che venissero i superiori e i magistrati……Mentre portavamo Riina in caserma è stata un ‘emozione fortissima. Quel giorno salutavamo la madre di tutte le battaglie.” Capitano Ultimo


Salvatore Riina, detto Totò u curto (Corleone, 16 novembre 1930 – Parma, 17 novembre 2017[1]), è stato un mafioso italiano, legato a Cosa Nostra e considerato il capo dell’organizzazione dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Secondo molti, fu il boss più potente, pericoloso e sanguinario di tutta Cosa Nostra in quegli anni. Veniva indicato anche con i soprannomi û curtu, per via della sua bassa statura, e La Belva, per indicare la sua ferocia sanguinaria Nato a Corleone in una famiglia di contadini il 16 novembre del 1930, nel settembre 1943 Riina perse il padre Giovanni e il fratello Francesco (di 7 anni) mentre, insieme al fratello Gaetano, stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba inesplosa, rinvenuta tra le terre che curavano, per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito, mentre Totò rimase illeso[4]. In questi anni conobbe il mafioso Luciano Liggio, con il quale intraprese il furto di covoni di grano e bestiame e che lo affiliò nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo. A 19 anni Riina fu condannato a una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo[6], Domenico Di Matteo, venendo scarcerato nel 1956. Insieme a Liggio e alla sua banda, cominciò a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di Scala. Nel 1958 Liggio eliminò il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme alla sua banda, di cui faceva parte anche Riina, scatenò un conflitto contro gli ex-uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.
 Riina venne però arrestato nel dicembre del 1963a Torre di Gaffe (Ag) nella parte alta del paese, da una pattuglia di agenti di Polizia di cui faceva parte anche il commissario Angelo Mangano[8] il quale, nel 1964, parteciperà, sotto la direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di Luciano Liggio[9]. Riina, che aveva una carta d’identità rubata (dalla quale risultava essere “Giovanni Grande” da Caltanissetta) e una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare, ma venne catturato dalle forze dell’ordine. Fu riconosciuto dall’agente Biagio Melita. Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione nel carcere dell’Ucciardone (dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l’assoluzione, Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di Palermo emise un’ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato nella cittadina di San Giovanni in Persiceto (BO); scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il luogo di soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza. 
Anni settanta e ottanta  Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta strage di Viale Lazio, che doveva punire il boss Michele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel “triumvirato” provvisorio di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo[; nel 1971 Riina fu esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: furono rapiti Giovanni Porcorosso, figlio dell’industriale Giacomo, e il figlio del costruttore Francesco Vassallo, mentre nel 1972 Riina stesso ordinò il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Carlo Calò: l’obiettivo principale di Riina non era solo quello di incassare il denaro del riscatto, ma anche quello di colpire Badalamenti e Bontate, che erano legati al padre dell’ostaggio, il conte Arturo Cassina, che aveva il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell’illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo Attraverso Liggio, Riina divenne “compare di anello” di Mico Tripodo, boss della ‘Ndranghetae si legò ai fratelli Nuvoletta, camorristi napoletani affiliati a Cosa Nostra, con cui avviò un contrabbando di sigarette estere[. Nel 1974 Riina divenne il reggente della cosca di Corleone dopo l’arresto di Liggio e l’anno successivo fece sequestrare e uccidere Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, ricco e famoso esattore affiliato alla cosca di Salemi; il sequestro venne attuato per dare un duro colpo al prestigio di Badalamenti e di Bontate, i quali erano legati a Salvo e non riusciranno a ottenere né la liberazione dell’ostaggio, né la restituzione del corpo, anche se Riina negò con forza ogni coinvolgimento nel sequestro. Nel 1978 Riina ottenne l’espulsione di Badalamenti dalla Commissione, con l’accusa di aver ordinato l’uccisione di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno (Caltanissetta) e strettamente legato ai Corleonesi; l’incarico di dirigere la “Commissione” passò a Michele Greco, che avallerà tutte le successive decisioni di Riina.. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all’epoca detenuto[18]; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo, mentre qualche tempo dopo anche il suo associato Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, finì assassinato dal suo luogotenente Nitto Santapaola, che si era accordato con Riina Nel 1981 Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia, strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco[15]; Riina allora orchestrò l’assassinio di Bontate, avvalendosi anche del tradimento del fratello di quest’ultimo, Giovanni, e del suo capo-decina Pietro Lo Iacono. L’11 maggio 1981 venne ucciso anche il boss Salvatore Inzerillo, strettamente legato a Bontate. I due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e, nei mesi successivi, nella provincia di Palermo, i boss dello schieramento che faceva capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti, mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta «lupara bianca».Il massacro continuò fino al 1982, quando si insediò una nuova “Commissione”, composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso Riina. Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente di Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell’appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983[24]. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla “Commissione” gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra. Dopo l’inizio della seconda guerra di mafia, i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, passarono dalla parte dello schieramento dei Corleonesi, che faceva capo proprio a Riina, e furono incaricati di curare le relazioni con Salvo Lima, che divenne il nuovo referente politico di Riina, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali; infatti, sempre secondo i collaboratori di giustizia, Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all’ergastolo[28]. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell’incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti. 
Anni novanta Tuttavia il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza e anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliariper queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politichee, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo[34]. Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scateneranno la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia a eliminare i familiari dei pentiti “sino al 20º grado di parentela”[35], compresi i bambini e le donne. L’allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò nei primi giorni di giugno e nei mesi successivi Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. Mori si difese raccontando di avere avviato i contatti per tendere una trappola volta a stanare qualche latitante, ma Riina rispose con il Papello, un documento di richieste[38] per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso. L’esistenza della trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra è stata successivamente confermata da varie sentenze e dalle dichiarazioni di numerosi pentiti e di Uomini dello stato che per 20 anni avevano taciuto sulla trattativa. La stessa trattativa, secondo l’accusa, si sarebbe svolta per mezzo del papello che Riina avrebbe fatto avere al Ros dei carabinieri. Le richieste del boss Corleonese riguardavano il 41 bis, la chiusura delle carceri di Pianosa e Asinara e l’abolizione dell’ergastolo. Il 12 marzo 2012, poi, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 – 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra “ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des […] L’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”. Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal CRIMOR (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa, in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino[42], a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza, insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli . L’arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti al generale dei carabinieri Francesco Delfino dall’ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra, che lo aveva condannato a morte A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna[46]. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno, dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro, previsto per chi commette reati di mafia (41-bis), ma il 12 marzo del 2001 gli viene revocato l’isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell’ora di libertà Proprio mentre era sottoposto a regime di 41-bis, il 24 maggio 1994, durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto da Michele Carlino, giornalista di un’agenzia video (Med Media News), al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli e altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L’intervento di Riina causò l’apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto.[48] Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41-bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno. 
Anni 2000-2017  A metà marzo del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell’ospedale di Ascoli Piceno per un infarto[49]. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell’udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d’Amelio, e riferisce dei contatti fra l’allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo, al tempo non convocato in dibattimento. Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006, sempre per problemi cardiaci, all’ospedale San Paolo di Milano.. Nel 2017, gli avvocati di Riina fanno richiesta al Tribunale di sorveglianza di Bologna per il differimento della pena a detenzione domiciliare, sottoponendo come motivazione lo stato precario di salute dello stesso Riina. Il 19 luglio il Tribunale si pronuncia negativamente su questa istanza, spiegando che Riina “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero, ossia nel luogo in cui ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare”. Dopo essere entrato in coma in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute, è morto alle ore 3:37 del 17 novembre 2017[53], il giorno successivo al suo ottantasettesimo compleanno, nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma. Nei giorni successivi è stato poi sepolto anch’egli, come Liggio e Provenzano, nel cimitero di Corleone.

Processi  Condanne

  • Nel 1992Riina venne condannato in contumacia all’ergastolo insieme al boss Francesco Madonia, per l’omicidio del capitano Emanuele Basile[54].
  • Nell’ottobre del 1993subisce la seconda condanna all’ergastolo, come mandante dell’omicidio del boss Vincenzo Puccio[55].
  • Nel 1994, altro ergastolo per l’omicidio di tre pentiti e quello di un cognato di Tommaso Buscetta[56].
  • Nel 1995, nel processo per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, venne condannato all’ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Michele Grecoe Leoluca Bagarella.
  • Lo stesso anno, nel processo per gli omicidi dei commissari Beppe Montanae Ninni Cassarà, venne condannato all’ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano
  • Seguì il processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torree Michele Reina, nel quale gli viene inflitto un ulteriore ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci[57].
  • Nel 1995, nel processo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giulianoe del professor Paolo Giaccone, Riina venne condannato all’ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro[58].
  • Nel 1996venne nuovamente condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti insieme ai boss Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci e Pietro Aglieri[57].
  • Nel 1997, nel processo per la strage di Capaci, in cui vennero uccisi il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvilloe la scorta (Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo), Riina venne condannato all’ergastolo insieme ai boss Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Nenè Geraci, Benedetto Spera, Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano e Matteo Motisi[59].
  • Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova, Riina ricevette un altro ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madoniae Bernardo Provenzano[60].
  • Nel 1998venne condannato all’ergastolo insieme al boss Mariano Agate per l’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto[61].
  • Nel 1999viene condannato all’ergastolo come mandante per la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Insieme a lui vengono condannati, alla stessa pena, i boss Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia[62].
  • Nel 2000subisce un’ulteriore condanna all’ergastolo insieme a Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano, per l’attentato in via dei Georgofili, in cui persero la vita cinque persone e subirono danni musei e chiese[63], oltre che per gli attentati di Milano e Roma[64].
  • Nel 2002, per l’omicidio del giudice in pensione Alberto Giacomelli, Riina venne condannato all’ergastolo come mandante[65];
  • lo stesso anno la Corte d’Assise di Caltanissettacondannò Riina all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici insieme ai boss Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Stefano Ganci e Vincenzo Galatolo[66];
  • sempre lo stesso anno, Riina venne condannato nuovamente all’ergastolo insieme al boss Vincenzo Virgaper la strage di Pizzolungo, in cui persero la vita Barbara Rizzo e i suoi figli, Salvatore e Giuseppe Asta, gemelli di 6 anni[67].
  • Nel 2009Riina ricevette un altro ergastolo, insieme a Bernardo Provenzano, per la strage di viale Lazio[68].
  • Nel febbraio 2010un altro ergastolo per Riina, che insieme ai boss Giuseppe Madonia, Gaetano Leonardo e Giacomo Sollami, decise, nel 1983, l’omicidio di Giovanni Mungiovino, politico della DC che si era opposto alla mafia corleonese, Giuseppe Cammarata, scomparso nel 1989, e Salvatore Saitta, ucciso nel 1992[69].
  • Il 26 gennaio 2012gli viene inflitta una condanna all’ergastolo da parte della Corte d’Assise di Milano perché ritenuto il mandante dell’omicidio di Alfio Trovato del 2 maggio 1992, avvenuto in via Palmanova a Milano.

Assoluzioni

  • Il 10 giugno 2011viene assolto, per “incompletezza della prova” (ex art. 530 c.p.p.), dalla Corte d’Assise di Palermoper l’omicidio del 16 settembre 1970 del giornalista Mauro De Mauro[70].
  • Il 14 aprile 2015viene assolto dalla Corte d’Assise di Firenze dall’accusa di essere stato il mandante della strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 per mancanza di prove; il pubblico ministero aveva richiesto l’ergastolo per Riina, unico imputato. Nel 1992 erano stati condannati Pippo Calò fratello di Carlo Calò, Guido Cercola, Franco Di Agostino e l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn.[71]

Il processo per la trattativa Stato-Mafia  Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, nel ricorrerne l’anniversario, Riina espresse di nuovo la sua posizione secondo cui la strage di via D’Amelio sarebbe da imputare ad altri soggetti e non a lui, nello stesso periodo in cui Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il “papello”, una sola pagina a firma di Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato.[72][73]. Tuttavia i legali di Riina smentirono che il loro assistito abbia partecipato a una trattativa fra Stato e mafia.[74] Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Riina e altri 11 indagati accusati di “concorso esterno in associazione mafiosa” e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche “calunnia”) e l’ex ministro Nicola Mancino (“falsa testimonianza”).[75] Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte di Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l’accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico[76], e degli altri magistrati che svolgevano il ruolo di pubblici ministeri nel processo sulla Trattativa: Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene[77]. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato.[78] Il 31 agosto 2014 i giornali riferiscono che nel novembre dell’anno prima Riina avrebbe rivolto minacce anche nei confronti di Don Luigi Ciotti[79].

Vita privataIl 16 aprile 1974 Riina sposò, tramite un matrimonio che poi risulterà non valido legalmente[80], Antonietta Bagarella, sorella dell’amico d’infanzia Calogero e di Leoluca Bagarella. Dall’unione nacquero quattro figli: Maria Concetta (19 dicembre 1974), Giovanni Francesco (21 febbraio 1976), Giuseppe Salvatore (3 maggio 1977) e Lucia (11 aprile 1980). Giovanni Francesco è stato condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti nell’anno 1995.
Giuseppe Salvatore è prima stato condannato per associazione mafiosa, quindi scarcerato il 29 febbraio 2008 per decorrenza dei termini dopo essere stato detenuto per otto anni[81]. Il 2 ottobre 2011, dopo aver scontato completamente la pena di 8 anni e 10 mesi, viene nuovamente rilasciato sotto prevenzione con obbligo di dimora a Corleone[82] e comincia a trapelare la notizia di un suo piano per fare un attentato all’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano per via dell’inasprimento del regime dell’articolo 41-bis[83].

Note


IL GRANDE MISTERO DEL COVO

 

 

BOSS E REVISIONISMO LA NUOVA VERITA’ DOPO GLI ULTIMI ARRESTI. Guerra di mafia. Riscritta la storia del golpe di Riina «Furono i palermitani ad attaccare i corleonesi»  PALERMO. Il 29 dicembre del 2004 è una data che difficilmente gli uomini di Cosa nostra dimenticheranno. Quella «vigilia di festa», per dirla con le parole di Nino Rotolo (uno dei 45 boss finiti in carcere dopo essere stato intercettato per quasi due anni) rimarrà nella memoria collettiva della mafia. Da lì cominciarono i «mali discorsi» che contribuirono ad incrinare la pax mafiosa di Bernardo Provenzano. E da quei dialoghi, carpiti dalle microspie nascoste dentro il capannone che consentiva a Rotolo di tenere assemblee pur essendo agli arresti domiciliari, gli investigatori sono risaliti ad una versione dell’origine della guerra di mafia degli Ottanta inedita e diversa da quella accreditata nel maxiprocesso. Sono stati gli stessi uomini d’onore, ascoltati in «viva voce», a fare questa sorta di revisionismo storico che rivela come in realtà non furono i «corleonesi» a scatenare la faida che avrebbe provocato più di mille morti. L’involontaria «confessione» fa parte della lunga e intricatissima diatriba sorta dentro Cosa nostra in seguito al ritorno a Palermo di alcuni esponenti della «famiglia» Inzerillo, a sua tempo «condannati» all’esilio negli Stati Uniti ed «avvertiti» che mai avrebbero dovuto rimettere piede in Italia. Ma il 29 dicembre del 2004, diviene ufficiale la notizia che è tornato a Palermo, Rosario Inzerillo, fratello di «Totuccio», il capomandamento della borgata di Passo di Rigano ucciso dai «corleonesi» il 10 maggio 1981. Rosario è uno di quelli a suo tempo «esiliati» e il suo ritorno finirà per rappresentare un «serio problema» per i fragili equilibri di Cosa nostra, tenuti da Bernardo Provenzano attraverso il sistema di comunicazione dei pizzini. 
Il dollaro in bocca La storia va raccontata dall’inizio. Quando fu assassinato Totuccio, il capo della «famiglia», gli Inzerillo rappresentavano forse il clan più potente di Palermo, anche per via dell’amicizia coi Gambino di New York, coi quali esistevano forti vincoli di parentela. Sedici giorni dopo Totuccio, sparì nel nulla il fratello Santo; sei mesi dopo toccò a Pietro. L’onorabilità del giovane – strangolato con le corde di un pianoforte – era «sfregiata» da un biglietto di un dollaro ficcato in bocca. Come a voler dire: sei un uomo che vale poco. Ma anche Cosa nostra ha un codice deontologico e così la Commissione decretò che non si potevano ammazzare tutti gli Inzerillo. Si decise, perciò, di «salvargli la vita» imponendo loro di restarsene negli Usa col divieto assoluto di tornare a Palermo. Nasceva così la categoria dei cosiddetti «scappati». Una decisione che 25 anni dopo veniva posta in discussione dal rientro di «Sarino» e, in verità, da un altro precedente: l’arrivo (nel 1997) di Franco Inzerillo, espulso dagli Usa e, quindi, «esonerato» dall’ «esilio» per motivi di forza maggiore. E non è tutto: ad aggravare la situazione interveniva la scarcerazione di Tommaso Inzerillo e la riapparizione di vecchi «scappati» come Salvatore Di Maio, sottocapo della famiglia della Noce. E’ a quel punto che nasce il problema del ritorno degli «scappati», non di secondaria importanza, a giudicare dalla verve con cui Nino Rotolo si fa promotore di una campagna per la cacciata degli «scappati». Fino a entrare in rotta di collisione con l’altro capo, Salvatore Lo Piccolo, e ad incrinare i rapporti con lo stesso Provenzano, più volte chiamato in causa perchè risolva il problema. Ma don Binu prima tergiversa: «Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno», scrive Provenzano. E diplomaticamente sentenzia: «A decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo». Insomma, il solito Provenzano che prende tempo, adombra l’ipotesi del perdono per gli «scappati» e dichiara incredibilmente: «Fatemi sapere quali sono gli impegni precedenti, perchè io non li so». Chiara e netta, invece, l’avversione di Rotolo per Lo Piccolo e per «tutta la razza degli scappati»: «…perchè la decisione è questa, il programma è questo, per tutti uguale, cioè, per gli scappati… ci sarà questo programma , per loro c’era uno stabilito “se ne stanno in America… si devono rivolgere a Sarino, se vengono in Italia li ammazziamo tutti…». Sarino sarebbe Rosario Naimo, il «tutore degli scappati», l’uomo a suo tempo investito dell’incarico di far rispettare il decreto della Commissione. E per convincere gli altri uomini d’onore a non dare ascolto a Lo Piccolo, fautore del rientro degli Inzerillo, Rotolo racconta che Franco Inzerillo ha già tentato di ucciderlo. La tensione si stempererà dopo un incontro fra Lo Piccolo e Nino Cinà, alleato di Rotolo. Entrambi scriveranno a Provenzano di un «avvenuto chiarimento». Ma tra un discorso e l’altro, Rotolo dà la sua versione della guerra di mafia degli Ottanta. Il boss la racconta ad un nipote di Totuccio Inzerillo. «Tu sei nipote di Totuccio Inzerillo – dice Rotolo ad Alessandro Mannino – il quale Totuccio Inzerillo ed altri, senza ragione, senza ragione alcuna, sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci han- no trovato! Non siamo stati noi a cercarli! E si è creata questa si- tuazione di lutti e di carceri e la resposnabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e ci sono carcerati! Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi che ave- te i morti e fra famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perchè sono morti vivi o sono pu- re morti». Altro che Corleonesi cattivi che infieriscono sulla mafia palermitana «buona», altro che «colpo di stato» di Riina. A sentire Rotolo fu «legittima difesa», contro un gruppo (Bontade/Inzerillo) assetato di soldi e potere. ARCHIVIO 900


Mafia. “Papà li scannò tutti”, così parlava Riina jr prima di scrivere libri  

Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva “uomini che hanno fatto la storia della Sicilia”. “Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate”

“Io vengo dalla scuola di Corleone”, dice nella premessa. “Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?”. E inizia il suo lungo racconto: “Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia… linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io… sulla mia pelle brucia ancora di più”. Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l’intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, “Riina + 23” è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni “Anordest”. Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.
L’INIZIO DELLA GUERRA  Capitolo uno: “Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt’altra parte. Racconta: “C’era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni … era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l’inizio della loro inarrestabile ascesa. L’inizio della carneficina. “E chi doveva vincere? – dice Salvo Riina – in Sicilia, in tutta l’Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?”. 
I RIBELLI  È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un’altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. “Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c’erano in tutta la Sicilia”. Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. “Ci fu un’estate di vampe – spiega il giovane boss con grande naturalezza – Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un’estate”. E giù con il suo racconto sugli stiddari: “Che razza – dice – qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci ‘a scippari u craniu“. Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: “Ci fu un’estate che le revolverate… non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone”. E ancora: “Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell’altro… Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate … era una fazione di boss perdenti… si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo”. 
BUSINESS E STRAGI  Capitolo quattro: “I piccioli”: “Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l’uno per cento. Capitolo cinque: “I cornuti”, ovvero i collaboratori di giustizia. “Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi”. Capitolo sei, il cuore del libro: “Le stragi Falcone e Borsellino”. “Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: “Abbattiamoli” E sono stati abbattuti”.
RITRATTO DI FAMIGLIA  Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov’è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: “Siete stati sempre catu e corda… ma quello che ti tirava era sempre Gianni”. E Salvo: “Papà diceva che lui era il più…”. La mamma chiosa: “Il più agguerrito”. E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all’ergastolo da vent’anni, condannato per quattro omicidi. “Tu facevi il trend “, dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: “Il trainer, non il trend“. Gianni ricorda una frase del padre: “Una volta mi ha detto una cosa che non ho mai dimenticato: “Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c’è””. Quella era un’investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: “Vedi che io vengo dalla scuola corleonese”. E la madre certificò: “Sangue puro”.   di SALVO PALAZZOLO15 aprile 2016 La Repubblica


 Capo della mafia siciliana

noto per una campagna di omicidio spietato che ha raggiunto un picco nei primi anni 1990 con l’assassinio di Antimafia della Commissione procuratori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino , con conseguente protesta pubblica diffusa e un importante giro di vite da parte delle autorità. Era anche conosciuto con i soprannomi la belva(“la bestia”) e il capo dei capi (siciliano: ‘u capu di’ i capi , “il capo dei capi”). Riina succedette a Luciano Leggio come capo dell’organizzazione criminale Corleonesi a metà degli anni ’70 e raggiunse il dominio attraverso una campagna di violenza, che spinse la polizia a prendere di mira i suoi rivali. Riina era un fuggitivo dalla fine degli anni ’60 dopo essere stato incriminato con l’accusa di omicidio. Era meno vulnerabile alla reazione delle forze dell’ordine ai suoi metodi, poiché la polizia ha rimosso molti dei capi stabiliti che tradizionalmente avevano cercato influenza attraverso la corruzione . In violazione dei codici mafiosi stabiliti, Riina ha sostenuto l’uccisione di donne e bambini e ha ucciso persone irreprensibili del pubblico solo per distrarre le forze dell’ordine. [1] Il sicario Giovanni Bruscastima che abbia ucciso tra le 100 e le 200 persone per conto di Riina. Sebbene questa politica della terra bruciata neutralizzasse qualsiasi minaccia interna alla posizione di Riina, mostrò sempre più una mancanza della sua precedente astuzia portando la sua organizzazione a un confronto aperto con lo stato. Nell’ambito del Maxi Processo del 1986, Riina è stata condannata all’ergastolo in contumacia per associazione mafiosa e omicidio multiplo. Dopo 23 anni di latitanza, è stato catturato nel 1993, provocando una serie di bombardamenti indiscriminati di gallerie d’arte e chiese da parte della sua organizzazione. La sua mancanza di pentimento lo ha sottoposto al rigido regime carcerario ex articolo 41-bis fino alla sua morte, avvenuta il 17 novembre 2017.

Primi anni di vita e carriera Riina è nata il 16 novembre 1930 e cresciuta in una misera casa di campagna a Corleone , nell’allora provincia di Palermo . Nel settembre 1943 suo padre Giovanni trovò una bomba inesplosa; suo padre tentò di aprirlo per vendere la polvere e il metallo, ma così facendo lo fece esplodere, uccidendo se stesso e il fratello di sette anni di Riina, Francesco, mentre feriva l’altro fratello Gaetano. [2] All’età di 19 anni Riina fu condannata a 12 anni di reclusione per aver ucciso Domenico Di Matteo in una rissa; fu rilasciato nel 1956. [3]Il capo della famiglia mafiosa a Corleone era Michele Navarra fino al 1958, quando fu ucciso a colpi d’arma da fuoco per ordine di Luciano Leggio , uno spietato mafioso di 33 anni, divenuto poi il nuovo capo . Insieme a Riina, Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano (che erano tre degli uomini armati nell’uccisione di Navarra), Leggio iniziò ad aumentare il potere dei Corleonesi . [4]All’inizio degli anni ’60, Leggio, Riina e Provenzano, che avevano passato gli anni precedenti a dare la caccia e ad uccidere dozzine di sostenitori sopravvissuti della Navarra, furono costretti a nascondersi a causa di mandati di cattura. Riina e Leggio furono arrestati e processati nel 1969 per omicidi commessi all’inizio di quel decennio. Sono stati assolti per intimidazione di giurati e testimoni. Riina si è nascosto più tardi quell’anno dopo essere stato incriminato per un’ulteriore accusa di omicidio e sarebbe rimasto un latitante per i successivi 23 anni. [5]Nel 1974, Leggio fu catturato e imprigionato per l’omicidio del 1958 di Navarra. Sebbene Leggio conservasse una certa influenza da dietro le sbarre, Riina era ora il capo effettivo dei Corleonesi. [6] Aveva anche stretti rapporti con la ‘Ndrangheta , l’associazione di stampo mafioso calabrese . Il suo “compare d’anello” (una specie di testimone e amico fidato, tipico della tradizione dell’Italia meridionale ) al suo matrimonio nel 1974 fu Domenico Tripodo , potente boss della ‘ndrangheta e prolifico contrabbandiere di sigarette. [7]I principali rivali dei Corleonesi furono Stefano Bontade , Salvatore Inzerillo e Tano Badalamenti , capi di varie potenti famiglie mafiose palermitane. Tra il 1981 e il 1983, la seconda guerra di mafia fu istigata da Riina, e Bontade e Inzerillo, insieme a molti associati e membri delle loro famiglie mafiose e di sangue, furono uccisi. Ci furono fino a un migliaio di uccisioni durante questo periodo quando Riina e i Corleonesi, insieme ai loro alleati, spazzarono via i loro rivali. Alla fine della guerra, i Corleonesi stavano effettivamente governando la mafia, e negli anni successivi Riina aumentò la sua influenza eliminando gli alleati dei Corleonesi, come Filippo Marchese , Giuseppe Greco eRosario Riccobono . Nel febbraio 1980, Tommaso Buscetta era fuggito in Brasile per sfuggire alla seconda guerra di mafia. [8] 
Leadership mafiosa Accuse di influenza politica Prima che la fazione di Riina diventasse la forza dominante dell’isola, la mafia siciliana aveva sede a Palermo, dove controllava un gran numero di voti, consentendo rapporti reciprocamente vantaggiosi con figure politiche locali come i sindaci di Palermo Vito Ciancimino e Salvatore Lima . Ciancimino, che era nato a Corleone, permise corrottamente lo sviluppo immobiliare senza ostacoli nella famosa valle conosciuta come ” Conca d’Oro “, accumulando una grande fortuna nel processo. Lima ha concesso un monopolio concessione preziose su riscossione delle imposte per mafia imprenditore Ignazio Salvo , e fu determinante per Roma -based Giulio Andreottidiventare una forza nella politica nazionale. A sua volta, Salvo ha fatto da finanziere ad Andreotti. [9]Questi legami fecero sospettare che Riina avesse stretto legami simili con Andreotti, sebbene i tribunali avessero assolto Andreotti da legami con la mafia dopo il 1980. [10] Baldassare Di Maggio affermò che Riina aveva incontrato l’allora presidente del Consiglio Andreotti a casa di Salvo e lo salutò. con un “bacio d’onore” [11] [12] [13] Andreotti ha liquidato le accuse a suo carico come “menzogne ​​e calunnie … il bacio di Riina, vertici mafiosi … scene di un film horror comico”. [11] Il giornalista veterano Indro Montanelli dubitava di questa affermazione, dicendo che Andreotti “non bacia nemmeno i suoi figli”. [14]La credibilità di Di Maggio era stata scossa nelle ultime settimane del processo Andreotti, quando ammise di aver ucciso un uomo mentre era sotto protezione statale. [15] I giudici della corte d’appello hanno respinto la testimonianza di Di Maggio. [16] [17]Mentre i suoi predecessori avevano mantenuto un basso profilo, portando alcuni nelle forze dell’ordine a mettere in dubbio l’esistenza stessa della mafia, Riina ha ordinato l’omicidio di giudici, poliziotti e pubblici ministeri nel tentativo di terrorizzare le autorità. Una legge per creare un nuovo reato di associazione mafiosa e confiscare i beni mafiosi era stata introdotta da Pio La Torre , segretario del Partito Comunista Italiano in Sicilia, ma era ferma in parlamento da due anni. La Torre fu assassinato il 30 aprile 1982. Nel maggio 1982 il governo italiano inviò Carlo Alberto Dalla Chiesa , generale dei Carabinieri italiani, in Sicilia con l’ordine di schiacciare la mafia. Tuttavia, non molto tempo dopo il suo arrivo, il 3 settembre 1982, fu ucciso a colpi di arma da fuoco nel centro della città con la moglie, Emanuela Setti Carraro , e la sua guardia del corpo, l’autista Domenico Russo. In risposta alle inquietudini dell’opinione pubblica per il fallimento nel combattere efficacemente l’organizzazione diretta da Riina, la legge La Torre è stata approvata dieci giorni dopo. [12] [18] L’11 settembre 1982 i due figli di Buscetta della prima moglie, Benedetto e Antonio, scomparvero, per non essere più ritrovati , cosa che spinse la sua collaborazione con le autorità italiane. [19]Seguirono la morte del fratello Vincenzo, del genero Giuseppe Genova, del cognato Pietro e di quattro nipoti, Domenico e Benedetto Buscetta, e di Orazio e Antonio D’Amico. [20] [21] Buscetta fu nuovamente arrestato a San Paolo , in Brasile, il 23 ottobre 1983, ed estradato in Italia il 28 giugno 1984. [22] [23] [24] Buscetta chiese di parlare con il giudice antimafia Giovanni Falcone , e iniziò la sua vita come informatore, denominato pentito . [25]   
Massacro di Natale Buscetta è stato il primo mafioso siciliano di alto profilo a diventare un informatore; ha rivelato che la mafia era un’unica organizzazione guidata da una Commissione , o Cupola (Cupola), stabilendo così che i massimi membri della mafia erano complici di tutti i crimini dell’organizzazione. [26] Buscetta ha aiutato i giudici Falcone e Paolo Borsellino a raggiungere un successo significativo nella lotta alla criminalità organizzata che ha portato a incriminare 475 mafiosi e 338 condannati nel Maxi Processo . [27]Nel tentativo di distogliere le risorse investigative dalle rivelazioni chiave di Buscetta, Riina ordinò un’atrocità in stile terroristico, il 23 dicembre 1984 l’ attentato al treno 904 ; 17 persone sono state uccise e 267 ferite. Divenne noto come “Strage di Natale” (Strage di Natale) e inizialmente fu attribuito a estremisti politici. Fu solo diversi anni dopo, quando la polizia incappò in esplosivi dello stesso tipo di quelli usati nel treno 904 mentre perquisiva il nascondiglio di Giuseppe Calò , che divenne evidente che dietro l’attacco c’era la mafia. [28] 

Assassinio di Falcone e Borsellino  Nell’ambito del Maxi Processo, Riina ha ricevuto due ergastoli in contumacia . [27] Riina riponeva le sue speranze sul lungo processo d’appello che aveva spesso liberato i mafiosi condannati, e sospese la campagna di omicidi contro i funzionari mentre i casi andavano ai tribunali superiori. Quando le condanne furono confermate dalla Suprema Corte di Cassazione nel gennaio 1992, [29] [30] il consiglio dei massimi vertici capeggiato da Riina reagì ordinando l’assassinio di Salvatore Lima (adducendo che era un alleato di Giulio Andreotti) e Giovanni Falcone. Il 23 maggio del 1992, Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di polizia è morto nel Capaci bombardamento sulla autostrada A29 da Palermo. [31] Due mesi dopo, Borsellino fu ucciso insieme a cinque agenti di polizia all’ingresso del condominio di sua madre da un’autobomba in via D’Amelio . [32] Entrambi gli attacchi furono ordinati da Riina. [33] Ignazio Salvo, che aveva sconsigliato Riina di uccidere Falcone, fu egli stesso assassinato il 17 settembre 1992. L’opinione pubblica era indignata, sia contro la mafia che contro i politici che ritenevano non fossero riusciti a proteggere adeguatamente Falcone e Borsellino. Il governo italiano ha organizzato una massiccia repressione contro la mafia in risposta. 
Reclami di trattative con il governo  Giovanni Brusca in seguito affermò che Riina gli aveva detto che dopo l’assassinio di Falcone, Riina era in trattativa con il governo. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino ha detto che questo non era vero. [34] Nel luglio 2012, Mancino è stato condannato a un processo con l’accusa di aver negato le prove sui presunti colloqui del 1992 tra lo Stato italiano e la mafia. [35] Alcuni pubblici ministeri hanno teorizzato che l’omicidio di Borsellino fosse collegato alle presunte trattative. [36] Nel 1992 il colonnello dei Carabinieri Mario Mori incontrò Vito Ciancimino, che era vicino al luogotenente di Riina Bernardo Provenzano. Mori è stato successivamente indagato perché sospettato di rappresentare un pericolo per lo Stato dopo che è stato affermato che aveva preso un elenco delle richieste di Riina che Ciancimino aveva trasmesso. Mori mantenne i suoi contatti con Ciancimino finalizzati alla lotta alla mafia e alla cattura di Riina, e non c’era stata la lista. Mori ha anche detto che Ciancimino aveva rivelato poco oltre ad ammettere implicitamente di conoscere membri della mafia e che gli incontri chiave erano stati dopo la morte di Borsellino. [37]   
Catturare Riina ha rimproverato Balduccio Di Maggio , un mafioso ambizioso che aveva lasciato moglie e figli per un’amante, dicendogli che non sarebbe mai stato nominato capo a pieno titolo. Sapendo che Riina avrebbe ordinato la morte di subordinati che considerava inaffidabili, Di Maggio fuggì dalla Sicilia e collaborò con le autorità. All’ingresso di un complesso di ville dove abitava un ricco uomo d’affari che fungeva da autista di Riina, Di Maggio identificò la moglie di Riina. Il 15 gennaio 1993 i Carabinieri hanno arrestato Riina nella sua villa di Palermo. Era un fuggitivo da 23 anni. [5] [38] [39] Attacchi terroristici  Dopo che Riina fu catturata nel gennaio 1993, furono ordinati numerosi attacchi terroristici come monito ai suoi membri di non consegnare i testimoni dello stato , ma anche in risposta all’annullamento del regime carcerario dell’articolo 41-bis . [40] Il 14 maggio 1993, il conduttore televisivo Maurizio Costanzo , che aveva espresso gioia per l’arresto di Riina, fu quasi ucciso da una bomba mentre percorreva una strada di Roma; 23 persone sono rimaste ferite. L’esplosione faceva parte di una serie. Meno di due settimane dopo, il 27 maggio, una bomba sotto la Torre dei Pulci di Firenze ha ucciso cinque persone: Fabrizio Nencini e sua moglie Angelamaria; le loro figlie, Nadia di nove anni e Caterina di due mesi; e Dario Capolicchio, 20 anni. Trentatré persone sono rimaste ferite. [40] Gli attacchi a gallerie d’arte e chiese provocarono dieci morti e molti feriti, provocando indignazione tra gli italiani. Alcuni investigatori credevano che la maggior parte di coloro che hanno compiuto omicidi per Cosa Nostra rispondesse esclusivamente a Leoluca Bagarella , e che di conseguenza Bagarella esercitasse effettivamente più potere di Bernardo Provenzano, che era il successore formale di Riina. Provenzano avrebbe protestato per gli attacchi terroristici, ma Bagarella ha risposto sarcasticamente, dicendo a Provenzano di indossare un cartello che diceva “Non ho niente a che fare con i massacri”. [41]Giovanni Brusca – uno dei sicari di Riina che fece esplodere personalmente la bomba che uccise Falcone, e poi divenne un informatore dopo il suo arresto nel 1996 – ha offerto una versione controversa della cattura di Totò Riina: un accordo segreto tra carabinieri, agenti segreti e Cosa Nostra padroni stanchi della dittatura dei Corleonesi. Secondo Brusca, Bernardo Provenzano “vendette” Riina in cambio del prezioso archivio di materiale compromettente che Riina teneva nel suo appartamento di via Bernini 52 a Palermo. [42] [43]Il ROS ( Raggruppamento Operativo Speciale ) dei Carabinieri ha convinto la Procura di Palermo a non perquisire immediatamente l’appartamento di Riina, per poi abbandonare la sorveglianza dell’appartamento dopo sei ore lasciandolo non protetto. L’appartamento è stato perquisito solo 18 giorni dopo, ma è stato completamente svuotato. Secondo i Comandanti dei Carabinieri la casa è stata abbandonata perché non la ritenevano importante e anzi non hanno mai detto alla Procura di essere disponibile a mantenere la sorveglianza nei giorni successivi. [44]Questa versione di arresto di Riina è stato negato dai carabinieri comandante, generale Mario Mori  [ it ] (al vice capo ora del ROS). Mori, invece, ha confermato l’apertura dei canali di comunicazione con Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino – ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa – vicino ai Corleonesi. Per sondare la disponibilità dei mafiosi a parlare, Ciancimino ha contattato il medico privato di Riina, Antonino Cinà  [ it ]. Quando Ciancimino è stato informato che l’obiettivo era arrestare Riina, non sembrava intenzionato a continuare. A questo punto l’arresto e la collaborazione di Balduccio Di Maggio hanno portato all’arresto di Riina. Nel 2006 il Tribunale di Palermo ha assolto Mario Mori e il Capitano “Ultimo” (Sergio De Caprio  [ it ] ) – l’uomo che ha arrestato Riina – dall’accusa di favoreggiamento e favoreggiamento cosciente alla mafia. [45]Secondo una nota dell’FBI rivelata nel 2007, i leader delle Cinque Famiglie votarono alla fine del 1986 sull’opportunità di emettere un contratto per la morte dell’allora procuratore degli Stati Uniti per il distretto meridionale di New York Rudy Giuliani . [46] I capi delle famiglie Lucchese , Bonanno e Genovese rifiutarono l’idea, sebbene i leader di Colombo e Gambino , Carmine Persico e John Gotti , incoraggiassero l’assassinio. [47] [48] Nel 2014, è stato rivelato dall’ex membro e informatore della mafia siciliana ,Rosario Naimo , che Riina aveva ordinato un contratto di omicidio su Giuliani durante la metà degli anni ’80. Riina presumibilmente sospettava degli sforzi di Giuliani nel perseguire la mafia americana ed era preoccupato che avrebbe potuto parlare con pubblici ministeri e politici italiani antimafia, tra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino , entrambi assassinati nel 1992 in autobombe separate. [49] [50] Secondo Giuliani, la mafia siciliana ha offerto $ 800.000 per la sua morte durante il suo primo anno come sindaco di New York nel 1994. [51] [52]Nel novembre 2009, Massimo Ciancimino  [ it ] – il figlio di Vito Ciancimino – disse che Provenzano aveva tradito il luogo in cui si trovava Riina. La polizia ha inviato le mappe di Palermo a Vito Ciancimino. Uno di questi fu consegnato a Provenzano, allora latitante mafioso. Ciancimino ha detto che la mappa è stata restituita da Provenzano, che ha indicato la posizione precisa del nascondiglio di Riina. [53] [54] 
Prigione Riina è stato detenuto in un carcere di massima sicurezza a Parma con contatti limitati con il mondo esterno per impedirgli di dirigere la sua organizzazione da dietro le sbarre. Oltre 125 milioni di dollari in beni sono stati confiscati a Riina e la sua vasta villa è stata acquisita anche dal sindaco crociato antimafia di Corleone nel 1997. La villa è stata successivamente trasformata in un ufficio di polizia e aperta nel 2015. [55] 
In totale, Riina ha ricevuto 26 ergastoli [56] e ha scontato la pena in isolamento. [57]A metà marzo 2003 viene operato per problemi cardiaci e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato in ospedale ad Ascoli Piceno per infarto. [58] Più tardi, quello stesso settembre, fu nuovamente ricoverato in ospedale per problemi cardiaci. [58] Nel 2006 è stato trasferito al carcere dell’Opera di Milano e, sempre per problemi cardiaci, è stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano. [59] Il 4 marzo 2014 è stato nuovamente ricoverato in ospedale. [60] Il 31 agosto 2014 i giornali hanno riferito che nel novembre dell’anno precedente Riina stava minacciando anche contro Luigi Ciotti . [61]Nel 2017 gli avvocati di Riina hanno chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Bologna il rinvio della pena agli arresti domiciliari , adducendo come motivazione il precario stato di salute di Riina. Il 19 luglio il Tribunale ha respinto questa richiesta. [62]

Elenco delle prove

  • Nel 1992 Riina è stata condannata in contumaciaall’ergastolo insieme al Francesco Madonia , per l’omicidio del capitano della polizia Emanuele Basile . [63]
  • Nel 1993 è stato condannato all’ergastolo per aver ordinato gli omicidi del 1989 del boss Vincenzo Puccioe di suo fratello Pietro. [64]
  • Nel 1994 viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di Pietro Buscetta, cognato del pentito Tommaso Buscetta. [65]
  • Nel 1995 viene condannato all’ergastolo per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, insieme a Bernardo Provenzano, Michele Grecoe Leoluca Bagarella. [66]
  • Lo stesso anno viene condannato all’ergastolo per gli omicidi dei commissari Giuseppe Montanae Ninni Cassarà , insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano. [66]
  • Lo stesso anno viene condannato all’ergastolo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre , Rosario di Salvo e Michele Reina, insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò , Francesco Madonia e Nenè Geraci . [66]
  • Nel 1995, nel processo per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano e Paolo Giaccone , Riina è stata condannata all’ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro. [67]
  • Nel 1996 viene nuovamente condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti insieme ai capi Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci e Pietro Aglieri. [66]
  • Nel 1997, nel processo per l’ attentatoa Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone , la moglie Francesca Morvillo e la loro scorta di Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, Riina fu condannata all’ergastolo insieme ai boss Bernardo Provenzano, Pietro Aglieri , Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci , Nenè Geraci, Benedetto Spera , Nitto Santapaola , Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano , Matteo Motisi e Matteo Messina Denaro . [68] [69]
  • Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova, Riina riceve l’ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano. [70]
  • Nel 1998 è stato condannato all’ergastolo insieme al boss Mariano Agataper l’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. [71]
  • Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del politico Salvo Lima, viene condannato all’ergastolo insieme a Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Giuseppe Graviano , Pietro Aglieri, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci , Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella , Benedetto Spera , Antonino Giuffrè , Salvatore Biondino, Michelangelo La Barbera, Simone Scalici, mentre Salvatore Cancemi e Giovanni BruscaSono stati condannati a 18 anni di reclusione e i collaboratori del giudice Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante (che ha confessato il delitto) sono stati condannati a 13 anni come autori materiali dell’agguato. [72] [73] Nel 2003 la Cassazione ha annullato la condanna all’ergastolo per Pietro Aglieri, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano e Benedetto Spera. [74] [75]
  • Nel 1999 è stato condannato all’ergastolo come mandante per la strage di Via D’Amelio, nella quale hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque suoi accompagnatori (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina ), insieme a Pietro Aglieri , Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano , Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia sono stati condannati all’ergastolo. [76]
  • Nel 2000 è stato condannato all’ergastolo insieme a Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano per gli attentati del 1993 tra cui Via dei Georgofili , a Firenze. [77]
  • Nel 2002 è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Alberto Giacomelli. [78]
  • Lo stesso anno Provenzano è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinniciinsieme ai capi Salvatore Riina, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Stefano Ganci e Vincenzo Galatolo. [79]
  • Lo stesso anno Riina è stata condannata all’ergastolo insieme a Vincenzo Virgaper la strage di Pizzolungo , in cui sono morti Barbara Rizzo ei suoi gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe Asta. [80]
  • Nel 2009 ha ricevuto un’altra condanna a vita insieme a Bernardo Provenzano per la strage di Viale Lazioe la morte di Michele Cavataio . [81]
  • Nel 2010 è stato condannato all’ergastolo, insieme a Giuseppe Madonia, Gaetano Leonardo e Giacomo Sollami, per l’omicidio di Giovanni Mungiovino, politico che si opponeva alla mafia corleonese, ucciso nel 1983, Giuseppe Cammarata, ucciso nel 1989, e Salvatore Saitta , ucciso nel 1992. [82]
  • Nel 2012 è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del 1992 di Alfio Trovato a Milano. [83]

Salvatore Riina ha sposato Antonietta Bagarella  [ it ] (sorella di Calogero e Leoluca Bagarella ) nel 1974, e hanno avuto quattro figli, tre maschi e una femmina. [84]Due dei suoi figli, Giovanni e Giuseppe, seguirono le orme del padre e furono imprigionati. Nel novembre 2001, un tribunale di Palermo ha condannato il 24enne Giovanni all’ergastolo per quattro omicidi. Era stato in custodia della polizia dal 1997. [85] Secondo Antonio Ingroia , uno dei procuratori della Direzione distrettuale antimafia  [ it ] (DDA) di Palermo, Giovanni è tra le possibili figure di spicco della Cosa Nostra siciliana dopo l’arresto di Provenzano nel 2006 e di Salvatore Lo Piccolo nel 2007, ma ancora troppo giovani per essere riconosciuti come i principali boss dell’organizzazione. [86]Il 31 dicembre 2004 il figlio più giovane di Riina, Giuseppe, uno di quelli presi in custodia nel giugno 2002, è stato condannato a 14 anni per vari reati, tra cui associazione mafiosa, estorsione e riciclaggio di denaro . [87] Si è scoperto che aveva fondato società controllate dalla mafia per nascondere denaro da racket di protezione, traffico di droga e gare d’appalto per contratti di edilizia pubblica sull’isola. Nel 2006, il consiglio di Corleone ha creato magliette con la scritta Amo Corleone nel tentativo di dissociare la città dai suoi famigerati mafiosi, ma un cognato di una delle figlie di Riina ha iniziato un tentativo di citare in giudizio il sindaco di Corleone rivendicando il La famiglia Riina possedeva il copyright della frase. [88]
Morte Riina è deceduta il 17 novembre 2017, un giorno dopo il suo 87 ° compleanno, mentre era in coma farmacologico dopo due interventi nell’unità carceraria dell’Ospedale Maggiore di Parma . [89] La causa specifica della morte non è stata rivelata. Al momento della sua morte, secondo un magistrato , era ancora considerato il capo di Cosa Nostra . [90] A Riina fu rifiutato un funerale pubblico dalla chiesa e dall’arcivescovo Michele Pennisi ; fu sepolto privatamente nella sua città natale di Corleone. [90]
Il grande colpo al Monte dei pegni Cosa nostra rubò l’oro dei pover  Pochi ricordano  la rapina miliardaria dell’estate 1991 che portò a Messina Denaro e  Riina miliardi in oro  e gioielli Autunno 1991. Un’Alfa 164 di colore bianco parcheggia davanti a una gioielleria di Castelvetrano. Al volante c’è Matteo Messina Denaro. Comodamente seduti Totò Riina e consorte. Prendono un borsone e lo consegnano al gioielliere Francesco Geraci, che cinque anni dopo deciderà di pentirsi raccontando tutto ai PM Già perché e solare ed evidente che le casseforti economico/finanziarie che garantiscono la sua latitanza affondano radici profonde oltreoceano (come abbiamo visto) ma anche in Sicilia. Pizzo, traffici illeciti, pervasività nell’economia pubblica sono costanti.
Sul piatto degli investigatori, per certificare la sua attendibilità, Cancemi mise il tesoro del padrino corleonese che si trovava dai Geraci a Castelvetrano. Sotto sequestro finirono gioielli, preziosi e lingotti d’oro che valevano due miliardi di lire. Quello era solo una parte del bottino I lingotti erano una parte del colpo al Monte dei pegni della Sicilcassa in via Calvi a Palermo. Parlare di rapina sarebbe riduttivo.
Il 13 agosto del 1991 sette banditi sbucarono dai bagni. Gli impiegati erano appena rientrati dalla pausa pranzo. Razziarono l’oro dei poveri, tutta gente che impegnava i regali di una vita. Li portavano al Monte di pietà e ricevevano in cambio soldi in contanti per mandare avanti la baracca. Le polizze di pegno venivano spillate sulle buste di plastica che custodivano i gioielli. Era un modo per tenere viva la speranza, spesso vana, che la merce potesse essere un giorno riscattata. Dal caveau di via Calvi sparì merce per 18 miliardi di lire. Una cifra calcolata per difetto. A parte i lingotti di Riina la refurtiva non è più stata ritrovata. Ripulita finanziando chissà quali affari. Di recente quel mega colpo è tornato d’attualità. Fra gli uomini d’oro che assaltarono il Monte di Pietà c’era pure Francesco Paolo Maniscalco, imprenditore del caffè, già condannato per quel colpo e anche per mafia. I finanzieri della Polizia hanno sequestrato beni per 15 milioni di euro.
Geraci venne affidato il delicato compito di gestire la cassa di famiglia, che amministrò per anni, custodendo il denaro nel caveau della propria gioielleria.
Ed è proprio lui a raccontarlo in un interrogatorio sostenuto dalla 12.45 del 5 ottobre 1996: «L’episodio nel quale è coinvolto mio fratello è quello che concerne la gestione di “conti” ce io tenevo in gioielleria nell’interesse di Messina Denaro Matteo: il Matteo avendo notato un caveau particolarmente protetto, mi aveva chiesto se potevo custodirgli del denaro in contanti, ed io mi ero messo a disposizione senza alcuna difficoltà. Tale denaro, in pratica confluiva in quattro conti: uno era quello personale di Matteo che ebbe al massimo un saldo di 35 milioni; un altro che ha avuto anche la consistenza di 100-150-200 milioni; l’altro ancora ammontava a 100 milioni e che, come mi disse Matteo, erano soldi di sua madre; un ultimo invece fu fatto in occasione dell’acquisto di terreni, di cui parlerò appresso, di cui la S.V. mi invita a fare. Ero stato io a confidare a mio fratello l’esistenza di quei conti anche per consentire che in mia assenza Matteo potesse effettuare operazioni di deposito o prelievo di denaro rivolgendosi direttamente a lui. Il Matteo veniva assiduamente a compiere queste operazioni, le quali venivano annotate in dei bigliettini in cui sostanzialmente veniva riportato soltanto il saldo e che venivano successivamente strappati. Mio fratello si occupava anche della gestione di questa contabilità ma ero io di fatto che mantenevo i rapporti con Matteo (…) Prima del mio arresto ricordo che il conto personale del Matteo era stato azzerato e ciò in concomitanza con l’inizio della sua latitanza; quello degli “affari correnti”, per così dire, era stato assottigliato (…) Aggiungo che per un certo periodo, sempre tramite il Matteo, anche …omissis…ci aveva portato in custodia 200 milioni che erano dei soldi di cui egli si era appropriato in banca. Mi risulta inoltre che …omissis…si fece custodire una certa somma, forse circa 70 milioni, anche da…omissis…Mi sovviene che ho custodito anche i soldi di…omissis…, circa 20 milioni, che mi furono portati da…omissis».
L’ulteriore passaggio evolutivo di tale rapporto – annota il Gip a pagina 21 del provvedimento – fu l’affidamento a Geraci di numerosi lingotti d’oro (chi, di noi, non ne ha una decina in casa per far fronte a spese improvvise o per dare una mancia al corriere!, nda) e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all’inizio della sua collaborazione. «Nella terza occasione – proseguirà Geracinell’interrogatorio del 5 ottobre 1996 – Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la  moglie e le due figlie, affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili ed altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d’oro che in un’altra occasione mi aveva portato il Matteo dicendomi che erano di Riina
A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme al Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro…omissis…e di tale “vartuliddu” di Corleone, entrambi all’epoca dimoranti a Triscina. 
Un giorno Messina Denaro Matteo mi chiese se mediante un’operazione “pulita” potevo intestarmi un terreno che da quello che capiì apparteneva alla famiglia mafiosa di Castelvetrano: si trattava  di un terreno di tre salme e mezzo  (pari a 18 ettari circa) sito alle spalle della grande costruzione di Genco cui si accede da viale Roma. Non sono in grado di dire se quel terreno intestato formalmente a …omissis…di fatto apparteneva già a Messina Denaro Matteo ed ai suoi amici mafiosi oppure se di fatto costoro ne diventavano proprietari a seguito della vendita nella quale io figuravo come formale acquirente. L’acquisto avvenne, se mal non ricordo, tra i 1990 e il ’91 (…) Successivamente alla compravendita, il terreno acquistato da …omissis….fu un compromesso rivenduto ai Sansone di Palermo per la somma di 550 milioni. Il Sansone mi versò 450 milioni in assegni ma prima che saldasse completamente il debito venne arrestato per cui rimase in debito di 100 milioni. Ricordo che si diceva che quel terreno doveva diventare edificabile e che anzi il Sansone doveva realizzare un grosso insediamento edilizio, tipo “Castelvetrano due”; infatti attualmente il terreno vale svariati miliardi. Con il guadagno di 250 milioni previsto a seguito di quella compravendita, il Matteo mi aveva detto che dovevo intestarmi un terreno di Riina…». Guarda caso, in quegli anni prende il via la grande speculazione edilizia di Castelvetrano verso Santa Ninfa.


RIINA ORDINO’ : ‘ E’ INCINTA? UCCIDETE LA DONNA DEL BOSS’ Aveva implorato i killer fino all’ ultimo di avere pietà per quel bambino che portava in grembo. Ma l’ ordine di Totò Riina doveva essere rispettato ad ogni costo. E così Antonella Bonomo, 23 anni, incinta da tre mesi, venne strangolata dopo che il suo fidanzato, il boss di Alcamo (Trapani), Vincenzo Milazzo, era stato torturato ed ucciso con un colpo di pistola. E’ il racconto di un pentito di mafia che martedì ha consentito di trovare i cadaveri di Vincenzo Milazzo, del fratello Paolo e di Antonella Bonomo, seppelliti in aperta campagna. Il pentito ha fatto anche i nomi degli esecutori del duplice delitto: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Giuseppe La Barbera, Antonino Gioè, Francesco Denaro e Gioacchino Calabrò. Quest’ ultimo è stato arrestato un mese fa mentre Bagarella, Brusca e Denaro, sono latitanti, La Barbera è in carcere, Antonino Gioè si suicidò nella primavera scorsa in carcere lasciando una lettera nella quale si pentiva delle “atrocità” che aveva commesso. Tra queste “atrocità” c’ è anche l’ uccisione della donna. Secondo il racconto del pentito, Vincenzo Milazzo che era uno dei “fedelissimi” di Riina, venne ucciso perché la sua autorità nel trapanese era stata messa in discussione da una banda capeggiata da Carlo Greco. Milazzo imputato ed assolto nel processo per la strage di Pizzolungo contro il giudice Carlo Palermo, si era allontanato da Alcamo dopo una serie di agguati del clan avversario ai quali era riuscito a scampare. L’ “esecuzione” di Vincenzo Milazzo e della sua donna, ha raccontato il pentito, avvenne tra il giugno ed il luglio del 1992: l’ uomo era stato “convocato” da Leoluca Bagarella in un casolare di campagna. Con Bagarella erano presenti Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Giuseppe La Barbera (tutti coinvolti nella strage di Capaci), Francesco Denaro e Gioacchino Calabrò. Milazzo venne “interrogato” e poi ucciso con un colpo di pistola alla testa. Ma prima, sotto tortura, aveva però confessato di avere confidato molti “segreti” di Cosa Nostra alla sua donna. I “corleonesi” decisero allora di strangolarla.17 dicembre 1993 LA REPUBBLICA


Parla Maria Concetta la figlia del boss: “Non ho problemi a parlare di mafia ma temo di essere interpretata male. Ora vorrei una vita normale”

“La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina”.Comincia a parlare anche di quando erano tutti fantasmi, latitanti in Sicilia. Lei con sua madre Ninetta, con i fratelli Gianni e Salvo, con la sorella Lucia. E con suo padre Totò Riina: “Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l’ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi”. Ricorda ancora di quella vita in fuga: “Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia”. Parla Maria Concetta Riina, la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra. Per la prima volta si fa intervistare da Repubblica e si concede alle nostre telecamere per raccontare suo padre, l’uomo più pericoloso d’Italia per un ventennio, il mafioso che è stato catturato – il 15 gennaio del 1993 – dopo un quarto di secolo di omicidi e trame.  Maria Concetta è nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto “per il futuro dei miei figli”. Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e “di quel 41 bis che mi fa soffrire tanto per Gianni” e parla del nome terribile che porta. E si presenta: “Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre”. 
Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino?  “Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro”. 
Suo padre è stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto “assurdo” o “surreale”? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre?  “Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l’avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia”. 
Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia?  “Non ho problemi a parlarne. Però quella parola messa in bocca a me…. Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia di Totò Riina… A casa mia, io non l’ho vissuta quella mafia”. 
Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre?  “Sembrerà strano… mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato”. 
Si rende naturalmente conto che c’è un contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini?  “Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l’ho vissuto e così lo vivo ancora”. 
Dopo 19 anni che lei ha vissuto in latitanza con tutta la sua famiglia è arrivata a Corleone nel gennaio del 1993. Come è stato il passaggio dalla clandestinità alla visibilità?  “Come una seconda vita. Abbiamo potuto fare una cosa che non avevamo mai fatto prima: incontrarci di presenza con tutti i nostri parenti. Abbiamo trovato tutte le mie zie, mia nonna…”. 
Corleone è sempre stato il regno di suo padre, il paese che aveva in pugno, per alcuni il paese più mafioso e omertoso della Sicilia dove la paura poteva “proteggere” la sua famiglia. Come è stato il ritorno?  “Il paese ci ha accolti bene, non ci ha isolati. Anzi, molte persone hanno cercato di farci sentire a nostro agio. Come se avessimo vissuto lì da sempre”. 
Chiamarsi Riina molte volte vi ha fatto comodo, è un nome che in Sicilia faceva tremare. Lei sente di esercitare qualche potere?  “Perché non pensate alle difficoltà che ho avuto?”. 
Quali difficoltà?  “Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro… Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l’ultima volta”. 
Ma Totò Riina per lo Stato è sempre stato “il capo dei capi”: se ne dimentica?  “Ma per me ormai è un calvario. Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: “Ma tu sei parente di?”. Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L’ho detto con naturalezza… io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto “Sono la figlia di Riina”, però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz’ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel’avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l’immagine della sua azienda”. 
Torniamo a suo padre. È in isolamento da 16 anni. Ma quando va a colloquio, lo vede dietro un vetro blindato e non gli ha mai chiesto conto delle accuse che gli vengono rivolte?  “È dalla mattina del 16 gennaio ’93 che non lo accarezzo, certo se non ci fosse quel vetro… Prima ci andavo spesso a trovarlo ma adesso è complicato, ho tre figli. Mio padre ha condizioni peggiori del 41 bis normale, non ha contatti con altri detenuti, è messo in un’area a parte fatta apposta per lui”. 
In casa Riina non ci sono più figli maschi. Gianni è all’ergastolo per tre omicidi. Suo zio Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Suo fratello Salvo è tornato dentro qualche giorno fa per scontare una pena residua. Lei parlava delle “sofferenze” del carcere, ma ha mai letto gli atti che accusano suo padre e suo fratello Gianni, le carte che raccontano i loro delitti?  “Loro devono scontare quello che devono e io non voglio giudicare i processi o sentenze. Dico solo che ho sofferenza, soprattutto per Gianni che è un ragazzo, ha vissuto troppo poco la sua adolescenza. E dico anche che, secondo me, si potrebbe evitare con lui un certo accanimento. Potrebbero farlo studiare in carcere, insegnargli un mestiere”. 
Lei parla di vita normale, difende sempre suo padre ma non prende mai le distanze dai delitti di cui è accusato: quale futuro si aspetta?  “Come figlia mi aspetto che cambi tutto. Per me, per mio marito, per i miei figli. Vorrei una vita normale o quasi normale. Vorrei lavorare. Vorrei che mi si giudicasse per quello che sono e faccio. Vorrei soprattutto che i miei figli fossero considerati domani uomini e donne come tutti gli altri. Oggi sto parlando per loro”. 
Ha mai pensato di andare via da Corleone?  “Chi lo sa, forse un giorno… “.  (28 gennaio 2009 La Repubblica ATTILIO BOLZONI)


«La mia vita con Salvatore Riina,  mio padre». Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo» «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi… Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia.
«Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto» Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due… Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche… Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari.
«Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco» E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima… Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò… E così restammo lì fino alla fine di agosto».
Le vittime di cui non parla Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta»
Il libro «Riina-Family Life» È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare».
Un papà premuroso e amorevole Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori.
Infanzia e adolescenza felici Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani».
Con l’arresto cambia tutto Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva».
L’editore Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.  6 aprile 2016 Corriere della Sera Giovanni Bianconi


L’arresto di Totò Riina: fu davvero un atto ”eroico”?  

Il 1993, che andò a chiudere quel tragico ’92 bagnato del sangue dei simboli dell’antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si rivelerà la vera fase cardine delle numerose trattative tra i pezzi infedeli dello Stato ed i vertici di Cosa Nostra siciliana. Il 15 Gennaio, lo stesso giorno in cui Gian Carlo Caselli si insediava come Procuratore della Repubblica a Palermo, tutti i telegiornali nazionali aprirono con una notizia sorprendente: l’arresto di Totò Riina, boss indiscusso di Cosa Nostra, ad opera dei Carabinieri del Ros. Sebbene ancora oggi sia “venduta” all’unisono dall’universo mediatico tradizionale come una delle giornate simbolo della lotta alla criminalità organizzata, essa rappresenta al contrario uno dei momenti più torbidi della storia repubblicana. All’ottica dei piani violenti ed estremi del sanguinario boss corleonese Totò Riina, risoluto nel voler portare avanti la strategia stragista per provocare la completa genuflessione dello Stato italiano di fronte a Cosa Nostra, si contrapponeva da tempo la frangia “moderata-trattativista” della compagine criminale palermitana, guidata da Bernardo Provenzano (il principale referente di Vito Ciancimino, mafioso democristiano “allacciato” dai carabinieri all’indomani della morte di Giovanni Falcone). Esattamente come Paolo Borsellino, seppure ovviamente operante all’estremo opposto e con obiettivi antitetici rispetto a quelli del giudice, Totò Riina rappresentava infatti un ostacolo da rimuovere in nome della buona riuscita della trattativa per mezzo della “strategia della sommersione” provenzaniana, sposata da una parte consistente, seppure ancora minoritaria, della Cupola.  Secondo il racconto di Massimo Ciancimino, che riferì di quegli incontri tra il padre e gli ufficiali dell’Arma, Bernardo Provenzano si sarebbe adoperato per “vendere” il suo boss ai suoi interlocutori istituzionali, arrivando addirittura a fornire ai carabinieri le mappe del suo nascondiglio palermitano, al fine di subentrargli e dunque di poter dialogare dalla posizione di capo dei capi con gli uomini dello Stato. Al di là di questa ipotesi l’arresto di Riina è pienamente inseribile nel contesto della trattativa Stato-mafia proprio per la specificità con cui esso venne effettuato: i carabinieri arrestarono Totò Riina in Via Regione Siciliana, dunque fuori dal suo covo, situato invece in Via Bernini. La Procura richiese loro di perquisire immediatamente il covo, ma Sergio De Caprio, capitano della squadra del Ros che aveva arrestato il padrino corleonese, con l’appoggio dell’allora colonnello Mario Mori (uno dei carabinieri che incontrò Vito Ciancimino e che, nel 2018, verrà condannato in primo grado per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” assieme agli altri vertici del Ros a 12 anni di reclusione), si oppose, affermando che non fosse conveniente fare irruzione nella villa dal momento che, non avendo gli altri mafiosi contezza del fatto che essa fosse stata individuata, avrebbero potuto avere luogo nuovi importanti sviluppi investigativi. I giudici acconsentirono a non procedere all’irruzione, ma ad una sola e precisa condizione: che la villa fosse tenuta stabilmente sotto un’attenta sorveglianza. Il triste epilogo di questa vicenda? Il 30 Gennaio i giudici vennero a conoscenza del fatto che lo stesso giorno dell’arresto di Totò Riina i carabinieri avevano interrotto la sorveglianza del covo senza informare la Procura, la quale non poté che disporre in data 2 Febbraio la perquisizione. Ovviamente, in quei 18 giorni il covo era stato interamente ripulito dagli uomini di Cosa Nostra: non vennero ritrovati nessun documento, nessuna impronta digitale, nessuna cassaforte (stiamo parlando del covo della villa di Totò Riina, il padrino di Cosa Nostra, che pochi mesi prima aveva fornito ai carabinieri e dunque allo Stato il famoso “papello”, e che, con alcuni pezzi grossi delle istituzioni, si stava direttamente o indirettamente interfacciando). Nessuno potrà mai sapere che cosa, effettivamente, era contenuto in quel covo.Il sostituto procuratore Vittorio Teresi, nella requisitoria del processo sulla trattativa Stato-mafia, ha sostenuto che «l’arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e De Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell’azione dello Stato contro Cosa Nostra. […] Riina voleva tutto e subito. Lui aveva un’impellente necessità di riconquistare in Cosa Nostra il proprio prestigio di capo assoluto che era stato messo in discussione dai detenuti al 41-bis. Ed è in questo periodo che Provenzano comincia a tessere la sua tela di sottile concisione e contrasto, di adesione al progetto stragista ma con tanti distinguo».  Ma cosa pensa l’ex Procuratore Gian Carlo Caselli della mancata perquisizione del covo di Totò Riina da parte dei Carabinieri? L’ex magistrato, senza indugi, ha ricostruito la vicenda dalla sua prospettiva in un’intervista rilasciata al Corriere.it nel Novembre del 2015: «La mancata perquisizione ma, prima ancora, la mancata sorveglianza del covo: si cattura Riina – spiega Caselli -, noi della Procura vorremmo subito procedere alla perquisizione. I carabinieri del Ros, in particolare l’“eroe nazionale” che era e, per certi profili, per molti è ancora, il capitano De Caprio (noto come capitano Ultimo) ci dice ‘no, perché si comprometterebbe un’operazione più ampia’. Come non credere a chi aveva messo le manette a Riina? Soltanto che – conclude l’ex magistrato – il presupposto era ‘si sorveglia il covo’, invece questo non avviene e nessuno dice nulla alla Procura sostanzialmente. E, quando si entra (e il covo viene trovato completamente ripulito, ndr), fu una mazzata per noi». amduemila 21 Settembre 2020 di Stefano Baudino



CAPACI: L’ORDINE PER CAPACI ARRIVA DIRETTAMENTE DAL CAPO DEI CAPI TOTÒ RIINA 
Giovanni Brusca riceve l’incarico direttamente da Salvatore Riina e racconta: «Ci trovavamo a casa di Girolamo Guddo. Era fine febbraio, marzo… Io ero andato là per altri fatti, in quella occasione mi disse che loro già stavano progettando, lavorando per l’attentato al giudice Giovanni Falcone…»  Il ruolo rivestito dall’imputato all’interno di Cosa Nostra fa si che lo stesso sia stato coinvolto sia nella fase esecutiva che in quella “ideativa” della strage, per cui l’analisi che qui si compie prescinderà naturalmente da quest’ultimo momento tranne che per l’input iniziale, che si era concretizzato nell’incarico ricevuto dall’imputato da parte di Salvatore Riina, che lo aveva interpellato per il reperimento dell’esplosivo e di quant’altro potesse servire per la realizzazione dell’attentato: «Ci trovavamo a casa di GUDDO GIROLAMO dietro la casa del sole, VILLA SERENA, (la casa di via Margi Faraci 40 in Palermo di cui si è trattato nel corso della deposizione del teste DI Caprio)…A mia conoscenza in quell’occasione c’era GANCI RAFFAELE, CANCEMI SALVATORE, RIINA SALVATORE, BIONDINO SALVATORE e io, per la prima occasione. Era Marzo, fine febbraio, marzo. Io ero andato là per altri fatti, in quella occasione mi disse che loro già stavano progettando, lavorando per l’attentato al giudice FALCONE GIOVANNI, infatti mi hanno dato la velocità che, il giudice FALCONE me lo hanno dato loro RIINA SALVATORE mi chiese se c’era la possibilità di potere trovare tritolo e se c’era la possibilità di potere trovare il telecomando e se ero disposto a dargli una mano d’aiuto. A questa richiesta io sono subito, mi sono messo a disposizione e ho cominciato a partecipare attivamente all’attentato…Cioè che mi hanno spiegato cosa loro avevano già fatto. Cioè quel gruppo, GANCI RAFFAELE, CANCEMI SALVATORE, BIONDINO e RIINA già avevano stabilito il luogo, avevano individuato la velocità del dottor FALCONE che faceva, io lo apprendo da loro… Ma non so se fu GANCI RAFFAELE o BIONDINO SALVATORE, non è che l’ho controllata io, già l’ho trovata controllata, cioè stabilita…il luogo che avevano individuato per commettere l’attentato era quello dove è avvenuto da PUNTA RAISI venendo verso PALERMO, 400, 500, 600 metri prima e precisamente sotto sottopassaggio pedonale che poi dall’autostrada era ricoperto da una rete di, rete metallica, cioè rete di protezione…».

GIOVANNI BRUSCA IN AZIONESuccessivamente l’imputato ha fatto riferimento ad un altro luogo ancora ove si sarebbe dovuta collocare la carica esplosiva, di cui egli aveva appreso notizia sempre nel corso di queste riunioni preliminari svoltesi in presenza di Salvatore Riina, ma questo primo luogo non era stato preso in considerazione neanche per un eventuale sopralluogo di verifica della sua conformità rispetto al piano da realizzare: «Quando c’è stata la riunione dove io sono stato convocato nel mese di marzo, così vagamente si parlava, per dire, in base a quello che mi aveva detto BIONDINO, GANCI o CANCEMI o RIINA, credo fu nell’occasione credo che c’era pure RAMPULLA però non sono sicuro, si parlava di tante ipotesi e si era pensato pure di metterlo pure all’entrata, cioè, all’uscita dell’aeroporto, cioè nella curva quando lui si immetteva per l’autostrada e troviamo un cassonetto, ma era solo così discorsi, ipotesi, non cento per cento. Quelli concreti sono quelli che ha individuato il BIONDINO e poi quello dove è stato utilizzato». A livello operativo, la prima cosa che Brusca aveva fatto era stato è di proporre al Riina la figura di Pietro Rampulla, che già conosceva per i suoi contatti con le “famiglie” mafiose catanesi e che infatti era riuscito a rintracciare tramite Aiello e Galea, (“GALEA EUGENIO e AIELLO ENZO venivano settimanalmente, ogni quindici giorni, settimanalmente, ogni otto giorni a Palermo per portare messaggi da Catania per problemi di “cosa nostra” e poi perché anche noi avevamo un’amicizia vecchia e tramite costui ho mandato a chiamare RAMPULLA PIETRO..»), avendo appreso da costoro che si trattava di persona esperta nel campo degli esplosivi e dei telecomandi: «…RAMPULLA PIETRO è persona esperta in materia e vediamo se lui ci può dare una mano” dissi a Riina, anche se io già qualcosa la sapevo per l’esperienza avuta della strage del dottor CHINNICI però per essere più sicuro mi prendo la collaborazione di RAMPULLA PIETRO, uomo d’onore della famiglia delle MADONIE, non mi ricordo il suo paese di origine. Al che Riina mi disse: “Va bene”, siccome lui credo che lo conosceva mi dà l’okay. Cerco RAMPULLA PIETRO, gli chiedo la cortesia dei telecomandi, RAMPULLA PIETRO è quello che trova i telecomandi, li porta ad ALTOFONTE e ad ALTOFONTE poi là cominciamo tutta una serie di attività per portare a termine il fatto». Ricevuto quindi il benestare da Salvatore Riina in ordine all’impiego del Rampulla, che Brusca aveva condotto dal capo («…l’ho portato da RIINA SALVATORE,.. ci siamo incontrati a casa di GUDDO GIROLAMO dietro VILLA SERENA …saranno passati otto, quindici, venti giorni dal primo incontro non è che, comunque nei primi di aprile, fine marzo, a questo periodo…nel corso di questo ulteriore incontro, diciamo avvenne di metterci in atto per cominciare a lavorare per portare a termine il lavoro dell’attentato al giudice FALCONE…E c’era BIONDINO, GANCI RAFFAELE, CANCEMI, io e credo che non c’era più nessuno oltre RIINA e RAMPULLA…»), ecco che Rampulla era comparso ad Altofonte portando con sè dei telecomandi, che secondo l’imputato, avrebbe trasportato nascosti sotto la paglia riposta in un camioncino, usato per il trasporto di un cavallo di cui gli aveva fatto grazioso dono. A tale consegna avrebbe assistito anche Di Matteo. Ha confermato quindi Brusca il verificarsi degli incontri nella casa di campagna di quest’ultimo, in contrada Rebottone, nei quali si era discusso della progettazione dell’attentato, incontri ai quali aveva partecipato con assiduità. Brusca ha ammesso di aver dato incarico a Giuseppe Agrigento di portare l’esplosivo a casa di Di Matteo, e che ciò si era verificato nel mese di marzo, dopo l’incontro di presentazione fra Rampulla e Riina, precisando che lo aveva mandato a prelevarlo da un suo parente, tale Piedescalzi che lavorava in una cava, la “Inco”, da cui la sua “famiglia” mafiosa si era in passato rifornita per approvvigionarsi di esplosivo per altri attentati.  […] Quanto al congegno, Brusca ha confermato che la trasmittente era già pronta e che la sola cosa che fecero fu bloccare del tutto una leva e assicurarsi che l’altra potesse andare solo verso destra; quanto alla ricevente ha ammesso che fu costruita da loro, descrivendola come una scatoletta di legno larga 10 cm, alta 7,8, 10 cm, da cui fuoriusciva un filo di plastica che fungeva da antenna, in cui avevano montato le batterie con un chiodo che aveva determinato il contatto fra polo positivo e negativo: «La ricevente l’abbiamo completata dai pezzi per completare, cioè per, quelli che vanno usati per l’aereo modellismo… era una scatoletta di legno larga quindici, venti centimetri, lunga quindici venti centimetri, larga 10 centimetri, comunque non mi ricordo… alta 7, 8, 10 centimetri e dentro questa scatoletta abbiamo montato il motorino, le batterie, il servo e poi l’abbiamo modificata con, mettendo un chiodo il contatto che avveniva tra negativo e positivo. Nella ricevente c’era un’antenna di plastica, cioè un filo, un piccolo filo».

PROVE PER L’ESPLOSIONE Per quanto riguarda i detonatori, Brusca li ha descritti come oggetti lunghi 7 o 8 cm, con due fili che fuoriuscivano da un’estremità e che poi andavano collegati alla ricevente: ha raccontato che avevano provato a lanciarne uno fuori dalla casa nel giardino e avevano accertato che esplodeva: […] Prima di spostarsi da C.da Rebottone avevano fatto diverse altre prove: innanzitutto tramite Gioè o La Barbera, si era fatto dare da Salvatore Biondino 5 kg di esplosivo, che La Barbera avrebbe collocato in un tubo che era stato sotterrato nel giardino della casa, e che era stato collegato al telecomando. In effetti l’esplosione si era verificata all’invio del segnale, costringendo i presenti (La Barbera, Bagarella, Gioè e Rampulla che azionò il telecomando) a ripararsi a circa un centinaio di metri di distanza: […]. Inoltre l’imputato ha collocato anche in questa fase prove di velocità che gli altri collaboratori invece hanno inserito esclusivamente durante il soggiorno a Capaci: quelle di cui ha parlato Brusca si sarebbero svolte lungo la strada che collega la casa di C.da Rebottone alla strada provinciale, utilizzando la Lancia Delta bianca di Di Matteo. L’espediente usato per saggiare l’efficacia del congegno era stato anche in questo caso costituito dal ricorso all’uso delle lampadine flash, che erano state collegate al filo della ricevente e che si bruciavano ogni qualvolta veniva inviato il segnale con la trasmittente. La dislocazione dei soggetti interessati da queste prove, che si erano ripetute per 3-4-5 volte, prevedeva Rampulla al telecomando, Gioè addetto al controllo della lampadina, La Barbera posizionato sulla sommità del monte, lui e Di Matteo si alternavano alla guida della macchina: “…Al posto dell’esplosivo noi adoperavamo del flash, quelli veri, cioè la prima serie, quelli che si infilavano di sopra alla vecchia macchina fotografica, che si poteva sfilare dove uscivano due filini per poterli ricollocare al detonatore elettrico, quindi in maniera quando noi facevamo il contatto con il telecomando alla ricevente, cioè non esplodesse ma bensì bruciasse la lampadina. Quindi, RAMPULLA, io messo, RAMPULLA al telecomando quando passava la macchina per vedere quando esplodeva, GIOE’ nella lampadina, LA BARBERA messo a monte, non mi ricordo per quale motivo, e ci alternavamo io e DI MATTEO nel guidare la macchina perchè abbiamo fatto tre, quattro, cinque prove”. L’imputato ha collocato altresì nella fase Rebottone altro tipo di prova, quella relativa alla verifica dei luoghi ove la carica andava posizionata: […] L’abbandono del primo luogo trova spiegazione nel fatto che secondo BIONDINO SALVATORE …”c’era la possibilità di non una buona riuscita se si doveva fare dove era stato prestabilito perché ci voleva molto materiale…” quindi – ha aggiunto Brusca – la ricerca si era indirizzata verso altri luoghi. Dopo alcuni giorni Biondino gli aveva fatto sapere di aver trovato un altro posto perfetto e gli aveva descritto le caratteristiche di un cunicolo che evidentemente era stato localizzato lungo l’autostrada nel tragitto che il giudice avrebbe percorso dall’aeroporto alla città. Per verificare la rispondenza del luogo prescelto alle esigenze del progetto deliberato dagli agenti Brusca aveva deciso, durante la permanenza in C. da Rebottone, di chiedere consiglio ad un suo parente, che, per l’attività svolta, poteva fornirgli un parere qualificato in ordine alle modalità con cui procedere e alla efficacia della soluzione trovata, che nella sostanza si incentrava nell’imbottimento di esplosivo di un condotto autostradale: […]. Nel corso di tale opere di verifica della funzionalità del congegno era andata perduto un telecomando: […].   Esauriti tutti questi adempimenti si era passati, secondo Brusca, al trasporto dell’esplosivo a Capaci, dove erano stati portati anche la trasmittente, la ricevente e i detonatori: l’esplosivo, come già detto, si trovava a casa di Pietro Romeo, e lì erano andati a prenderlo La Barbera e Di Matteo, per riportarlo ad Altofonte da dove nel primo pomeriggio erano partiti alla volta di Isola delle Femmine:  «L’esplosivo si trovava a casa di ROMEO PIERO, da ROMEO PIERO ci è andato LA BARBERA GIOACCHINO e DI MATTEO SANTINO, prendendo per una strada secondaria dal paese sono andati a finire nella casa del DI MATTEO, arrivando a casa del DI MATTEO, c’ero io, c’era GIOE’, c’era LA BARBERA, c’era DI MATTEO, c’era BAGARELLA e Rampulla eravamo ad ALTOFONTE a CONTRADA PIANO MAGLIO».  […] Oltre alle persone menzionate erano presenti Antonino Gioè e Leoluca Bagarella: i fustini erano stari collocati sulla Patrol Jeep di La Barbera, sulla quale aveva preso posto anche lui; Di Matteo era con la sua Lancia Delta con Rampulla o Bagarella, Gioè era invece a bordo della sua auto. Allo svincolo di Isola delle Femmine erano ad aspettarli Biondino e Biondo, che li avevano portati in un villino nella disponibilità di Troia, ( «…Era un abitazione, un casa estiva, cioè casa di campagna non glielo so dire, comunque una casa villino nella disponibilità di TROIA MARIO, cioè del TROIA»…) dove avevano trovato Salvatore Cancemi, Ganci Raffaele e suo figlio Domenico, Battaglia, Ferrante.  […] Brusca aveva avuto modo di notare che nella casa c’era già dell’altro esplosivo: «…Là abbiamo trovato altro esplosivo, 130, 140, 150 chili, sarebbe un materiale polveroso tipo farina di colore giallino…l’esplosivo, il famoso SENTEX che era sul posto era se non ricordo male in sacchetti di stoffa che poi abbiamo travasato…quello che abbiamo portato noi è materiale da cava, non so se è esplosivo, come si chiama o come non si chiama, è materiale proveniente da cava, quello che è non lo so, il colore è bianco».  Ha rilevato infine, sia ad Altofonte che a Capaci, che durante il maneggio dell’esplosivo da loro procurato si sollevava polvere e che aveva avvertito, in tale frangente, un odore particolare: «… Semplicemente faceva un po’ di polvere, ma a me non mi ha creato nessun particolare, però un odore un po’ particolare e un po’ di polvere c’era…». Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


RIINA FU VENDUTO AL ROS DI BINNU. MORI SAPEVA. 

Lo Stato cede alla mafia “il 21 febbraio del ’93”, quando “il ministro della Giustizia Conso revoca il decreto Martelli dei 41 bis a Secondigliano e Poggioreale”, dice nel quinto giorno di requisitoria nell’aula bunker il pm Vittorio Teresi che indica i protagonisti istituzionali di quel cedimento: “Attori di questo sconvolgimento sono certamente il presidente Scalfaro, il neo nominato Conso, il nuovo direttore del Dap Capriotti, il suo vice Di Maggio”.  Sono i registi del mondo “carcerario”, prosegue Teresi, sia pure con un “grado diverso di consapevolezza”: fu “massimo in Scalfaro e Di Maggio, lo era in misura minore per Conso e Capriotti, che furono solo ingenui e utili scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, ha detto il pm citando le parole di Loris D’Ambrosio. Un mese prima il Ros di Mori e Subranni non aveva perquisito il covo di Riina (“non si volevano trovare documenti imbarazzanti”), il 9 febbraio la camorra uccide l’agente Pasquale Campanello a Poggioreale, e il ministro Martelli applica il 41 bis ai detenuti del carcere napoletano.  Ma una lettera anonima giunta al Quirinale e firmata “i familiari dei detenuti” minaccia ritorsioni, e dodici giorni dopo Conso, “smarrito dalla incalzante pressione”, avocando a sè il provvedimento, revoca i 41 bis decisi da Martelli, caso unico della storia di via Arenula. “C’è un fine pena mai anche per i familiari delle vittime – ha detto Teresi – se io fossi stato un familiare dell’agente Campanello, col mio ‘fine pena mai’ avrei chiesto conto e ragione a Conso del perchè bisognava dare un segnale di distensione dopo 12 giorni dell’omicidio. A chi? E perché?’’. In quel momento “nello Stato esistono le due linee: quella trattativista è una deviazione inammissibile dai doveri istituzionali’’ e i fautori di quella linea si concentrano sul mondo carcerario: “L’unico settore – prosegue Teresi – nel quale si poteva intervenire immediatamente e con una discreta previsione di successo”, visto che le richieste del papello “avevano natura legislativa o giudiziaria nessuno poteva garantire che quelle richieste sarebbero state soddisfatte”.  Dunque “bastava ed è bastato cambiare quattro uomini, per cambiare la politica penitenziaria e soddisfare la mafia”. Fino a quel momento Nicolò Amato aveva garantito al Dap “la politica del coraggio”, con “decreti che prevedevano misure restrittive e afflittive’”, ma prevedendo “per il futuro misure stabili come la ripresa audiovisiva dei colloqui e un sistema di video conferenze che impedisca ai detenuti di fare turismo carcerario”. “Due misure di straordinaria intelligenza – ha detto Teresi – misure che verranno applicate ma molti anni dopo’’. Amato, quindi, deve “saltare’’, prosegue il pm, anche con l’intervento della Chiesa: “La scelta del nuovo capo del Dap (Adalberto Capriotti, ndr) – ha proseguito il magistrato – fu di fatto operata dalla Chiesa senza alcuna garanzia di professionalità, con l’unica assicurazione che si trattava di una persona ‘molto pia’”. In quei giorni di trattativa, la mafia “forza il gioco”, la “Falange Armata prende di mira il mondo carcerario e i vertici delle istituzioni” e il 27 maggio “l’autobomba di via dei Georgofili costituisce un ulteriore segnale di rilancio”: sono “bombe del dialogo – dice il pm – perchè tutti sapevano e nessuno parlò?’’.  E qui Teresi cita le deposizioni di Violante (“Erano bombe per mettere i pubblici poteri di fronte a un aut aut, ne parlai con il capo dello Stato e Spadolini”) e Napolitano che ricordo come da subito si “ipotizzò una sorta di ricatto o pressione a scopo destabilizzante”. Un ricatto che, paradossalmente, Cosa nostra non ha cercato di imporre: nel ’92 “tra lo Stato e la mafia era quest’ultima che stava perdendo – ha detto Teresi – ed è per questo che ha ideato la campagna di attentati per indurre lo Stato a farsi sotto”.  Ma invece di fermare le stragi, è la conclusione, la Trattativa le ha indotte: “L’adempimento del patto che lo Stato ha sottoscritto con i mafiosi nel maldestro, e non raggiunto, tentativo di fermare le stragi – per Teresi – ha sortito l’effetto contrario’’.  E poi è arrivato l’arresto di Riina, venduto da Provenzano, spiega ancora il pm: “Un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e De Donno”.  Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco sul Fatto del  20/01/2018


L’intervista alla futura moglie del Capo dei Capi – 27 luglio 1971 Mario Francese intervista Antonietta Bagarella, futura moglie di Totò Riina: «L’amore non guarda a certe cose… Io ho scelto di amare Totò Riina», diceva. Un documento, oggi come allora, di straordinario interesse

Io mafiosa? Sono una donna innamorata  «L’amore non guarda a certe cose… Io ho scelto di amare Totò Riina» – E’ accusata di essere stata il collegamento tra il fidanzato, luogotenente di Liggio, ed alcuni esponenti di mafia – «Mi sposerò in chiesa: non voglio fare come la Lucia di Alessandro Manzoni…» Antonietta Bagarella, la maestrina di Corleone proposta per il soggiorno obbligato, ha dato ieri battaglia, come aveva promesso. Entrata nella camera di consiglio della sezione speciale del Tribunale per le misure di prevenzione, ha parlato per oltre un’ora, respingendo le accuse, contestando uno per uno episodi e fatti contenuti nel rapporto della Questura e dei Carabinieri. La sua foga non ha commosso però i giudici. Il pubblico ministero, dott. Vincenzo Terranova, infatti, alla fine ha chiesto la condanna a quattro anni di confino in un comune del nord, in accoglimento della tesi degli inquirenti secondo la quale è bene che la ragazza lasci Corleone «per stroncare la sua attività in favore della cosca di Luciano Liggio». Alle nove in punto, Antonietta Bagarella era già al Palazzo di Giustizia con la madre Lucia Mondello e con la sorella Giovanna. Quando l’ho avvicinata, tradiva un comprensibile nervosismo. La vicenda di cui è stata per mesi protagonista ha rinforzato in lei l’istinto della diffidenza. L’ho seguita in una delle cancellerie civili del secondo piano, dove è stata costretta a rifugiarsi per sottrarsi all’assalto dei fotoreporter e ai flash delle macchine da presa. «Sono nervosa, tremendamente nervosa, anche se mi sforzo di rimanere calma per spiegare ai giudici il mio caso – ha esordito – ma i lampi dei fotografi non contribuiscono a darmi serenità. Poi non amo la pubblicità. Il mio è stato fatto diventare un caso nazionale». Puntandomi addosso i suoi occhi neri, Ninetta Bagarella ha, per un momento, tradito la commozione: «Lei – mi ha detto – mi giudicherà male perché, io insegnante, mi sono innamorata e fidanzata di uno come Salvatore Riina. Lo conobbi negli anni ’50, quando a Corleone successe quel che successe coinvolgendo tante famiglie, la mia compresa, e quella di Riina. Ero alla prima media, allora, una bambina. E fu quello l’ambiente della mia prima infanzia. Un ambiente triste, che trasformò la via Scorsone di Corleone in una caserma di carabinieri. Con Salvatore ci conoscevamo da bambini. Poi, nel 1963, lo arrestarono. Fra di noi c’era stata soltanto della simpatia. Io sentivo di amarlo. Ma forse, non sono una donna? Non ho il diritto di amare un uomo e di seguire la legge della natura? Ma lei mi dirà perché mai ho scelto come uomo della mia vita proprio Totò Riina, di cui sono state dette tante cose. L’ho scelto, prima perché lo amo e l’amore non guarda a tante cose, poi perché ho in lui stima e fiducia, la stessa stima e fiducia che ho in mio fratello Calogero, ingiustamente coinvolto in tanti fatti. Io amo Riina perché lo ritengo innocente. Lo amo nonostante la differenza di età, 27 anni io, 41 anni lui. Lo amo perché anche la Corte di Assise di Bari, con la sua sentenza del 10 luglio 1969, mi ha detto che Riina, assolto con formula piena da tanti delitti, non si è macchiato le mani di sangue». Ninetta Bagarella abbassa gli occhi: «Ora sono qui per lui. Lui, lontano da me da due anni, non si fa vivo né direttamente né indirettamente. Io sono donna. Questo silenzio mi fa dubitare del suo amore. Mi sento sola e avvilita». Tiene in mano una busta piena di carte. «Vuole la mia storia? », dice. E comincia: «Incomincio dal mio fidanzamento ufficiale. E’ avvenuto nel luglio 1969, due anni fa, dopo che Salvatore Riina fu assolto con formula piena dai delitti attribuitigli e scarcerato. Le è noto che venne a Corleone e fu scarcerato la sera in cui giunse. Non lo vidi quella sera. Dopo venti giorni, giudicato, fu inviato per cinque anni al soggiorno obbligato. Lasciò l’Ucciardone ed ebbe un paio di giorni di permesso per sostare a Corleone e fare le valigie. Fu in quell’occasione che si fidanzò con me. Da allora non l’ho più rivisto. I miei guai iniziarono dopo che, il 16 dicembre 1969, inoltrai istanza alla questura per ottenere il passaporto. Dovevo recarmi nel Venezuela per battezzare una bambina che mia sorella aveva dato alla luce nel novembre precedente. Il 9 gennaio ebbi rilasciato il passaporto. Il 12 febbraio successivo ricevetti un invito generico «per comunicazioni che la riguardano» dal commissariato di Pubblica Sicurezza di Corleone. Vi andai in fretta per sapere quello che volevano. Il commissario appena mi vide, mi disse di tirare fuori il passaporto dalla borsetta. Feci presente di non averlo con me. Dopo tante discussioni mi informò che in data 7 febbraio 1970 il questore aveva disposto il ritiro del passaporto. Lo pregai di fissare un altro giorno per la consegna. Sono stata denunciata per mancata consegna del documento e, qualche giorno dopo, per calunnia. Ero colpevole di avere detto la verità». Antonietta Bagarella fa una pausa, alla ricerca di ricordi: «Dalla pasquetta 1970 fino al 17 aprile, fui letteralmente piantonata in casa mia. Ormai mi avevano tolto l’insegnamento. Mi trasferii a Frattaminore, luogo di soggiorno di mio padre Salvatore. In quel periodo aveva bisogno di assistenza: broncopolmonite acuta, era stato ricoverato all’ospedale Caldarelli di Napoli, reparto medicina. Anche lì fui seguita. Non essendoci a Frattaminore carabinieri e agenti, mi misero alle calcagna dei vigili urbani. Il 21 maggio 1970 chiesi ed ottenni la residenza a Frattaminore sperando che così, lontana da Corleone, avrei potuto trovare lavoro e aiutare la famiglia. Non fu possibile. Ogni notte, per tre volte consecutive e negli orari più impossibili, agenti venivano in casa col pretesto di sorvegliare mio padre e di controllare le persone che l’assistevano. Ero sfinita. Ritenni così opportuno di ritornare a Corleone, dove dalla fine del luglio 1970 e fino al gennaio 1971, sono stata tenuta costantemente sotto controllo e pedinata. Le uniche persone che ho incontrato sono mia suocera e mio cognato. Il 10 giugno 1970 a Frattaminore, ho ricevuto la visita del vice questore Angelo Mangano. Mi chiese notizie di Luciano Liggio. In cambio avrei avuto il passaporto e una sistemazione familiare. Promesse allentanti, ma risposi di non conoscere Luciano Liggio neanche di vista e che il dottor Mangano avrebbe potuto rivolgersi ai familiari del ricercato. Il funzionario, allora, mi invitò a farmi viva da lui, presso il Ministero degli Interni, entro 15 giorni. Sorvolo sul resto, che è intuibile. Io posso dirle, con tutta sincerità, che dal giorno del fidanzamento, cioè da due anni, non ho più rivisto Salvatore Riina né ho più avuto, di lui, notizie né dirette né indirette. Aggiungo che non è vero che dinanzi alla cattedrale mi sono incontrata con don Girolamo Liggio, cosa che hanno detto avrei fatto. E’ vero che per caso, uscendo dalla libreria delle suore di San Paolo, ho incontrato padre Piraino, proprietario dell’auto su cui ho preso posto con i miei parenti. Escludo anche di essermi recata presso la curia arcivescovile di Anversa nel tentativo di celebrare nozze segrete con Riina. Dopo tutto quello che è successo, io non posso che sposare alla luce del sole. Non sono una protagonista dei promessi sposi. Non ho alcun interesse a recitare la parte di Lucia nelle nozze segrete con Renzo». 
IL SILENZIO DI NINETTA BAGARELLA. I successivi sviluppi della vicenda furono raccontati da Mario Francese nel seguente articolo, appreso sul “Giornale di Sicilia” del 6 agosto 1971: Dopo la condanna alla sorveglianza speciale Ninetta chiusa in casa respinge i giornalisti I familiari di Salvatore Riina dicono: «Non usciamo più» – Si sono raffreddati i rapporti con la Bagarella? Ninetta Bagarella, tramite il suo difensore, ha impugnato ieri mattina il provvedimento del Tribunale con cui è stata sottoposta, per due anni e mezzo, alla sorveglianza speciale condizionata da particolari disposizioni, tra cui il divieto assoluto di incontrarsi col padre, col fratello Calogero e col fidanzato Salvatore Riina. […] Nella speranza di indurre la maestrina ad un colloquio, mi sono recato in casa di Salvatore Riina, il fidanzato che, nella «fuga», aveva preceduto Liggio di ben quattro mesi. La madre e le tre sorelle del latitante non sono certo allegre. «Noi, – mi ha dichiarato la sorella maggiore di Riina – abbiamo i nostri guai. Da casa non usciamo e non abbiamo motivo di recarci in quella della Bagarella». Questo discorso ed altre espressioni hanno dato l’impressione che i rapporti tra i Bagarella e i Riina si siano in questi giorni alquanto raffreddati per via delle ultime vicende di nera che, a Genova, avrebbero avuto per protagonista proprio Totò Riina coinvolto in una rapina. Le abitazioni dei Bagarella e dei Riina distano tra di loro non più di cinquecento metri. Entrambe sono ubicate nella parte alta del quartiere «San Giovanni» che, fino al 1963 fu anche teatro di drammatiche sparatorie. Tra l’altro, ricorderemo che proprio in via Scorsone, a una decina di metri dalla casa di Bagarella, un gruppo di banditi (che gli investigatori indicarono in Luciano Liggio, Calogero Bagarella e Giuseppe Ruffino), all’alba del 7 maggio 1963 attentarono alla vita del capo spirituale dei superstiti «navarriani», don Francesco Paolo Streva, e di alcuni suoi gregari. Le vittime predestinate furono pronte a rispondere con le armi impegnando con i «liggiani» un violento conflitto a fuoco che, comunque, non causò morti. Streva, poi, fu assassinato da due gregari quattro mesi dopo, il 13 settembre, in un agguato tesogli a piano Casale. Oltre che l’ambiente di San Giovanni, l’omertà della zona accomuna, con gli abitanti di tanti vicoli tortuosi, le famiglie dei Riina e dei Bagarella. «Non so quello che sia successo alla Bagarella», ha continuato a dire la sorella maggiore di Totò Riina,«io sono stata ricoverata in ospedale per ventisette giorni, perché ho dovuto subire l’esportazione di un occhio. Ripeto che non abbiamo nessun motivo di andare dalla signorina Bagarella. Veda, siamo qui tutte in casa noi tre sorelle, mia madre, e questo nipotino che si chiama Mario». Nessuna parola di commento, quindi, in casa dei Riina alle «disgrazie» della fidanzata di Totò, nessuna parola di solidarietà né di difesa. Né alcuno della famiglia ha pronunciato, nel corso della conversazione, il nome di Totò. Soltanto la minore dei Riina ha avuto qualche parola di comprensione per la cognata: «sarebbe l’ora – ha detto laconicamente – che la lasciassero un poco in pace». Ma l’ha detto con un certo distacco. Indubbiamente alcune parti delle dichiarazioni della maestrina («ritengo che Salvatore non mi ami più se per due anni non si è curato di farmi avere notizie») avranno infastidito i Riina. Non è escluso che i congiunti di Totò abbiano potuto pensare che la Bagarella sia anche stanca di aspettare il «fidanzato-ombra» che – lo ha detto proprio lei – «non si cura dei sentimenti e delle esigenze di una donna». Da qui una certa diffidenza tra le due famiglie o un raffreddamento nei rapporti che fino a qualche settimana fa, per ammissione della stessa Bagarella, erano frequenti, per non dire giornalieri. 
MA È UNA DONNA D’ONORE?  Mario Francese mise in risalto le conclusioni cui erano pervenuti gli organi inquirenti in merito all’inserimento di Antonietta Bagarella nell’organizzazione mafiosa, nel seguente articolo, pubblicato sul “Giornale di Sicilia” del 24 dicembre 1974: La questura è tornata alla carica con un’altra proposta Per “le nozze segrete” la Bagarella ha rischiato di nuovo il confino Il tribunale però ha deciso per il non «luogo a procedere» Secondo i difensori invece la maestrina è ancora nubile La maestrina di Corleone Antonietta Bagarella, a causa del suo presunto matrimonio segreto con Salvatore Riina, luogotenente di Luciano Liggio, è stata nuovamente proposta dalla questura per il soggiorno obbligato. Ieri, però, dopo un ampio dibattito, animato dagli interventi dei difensori, avvocati Franco Berna e Genna, il tribunale ha depositato la sua decisione: «Non luogo a procedere». La maestrina, così, può continuare indisturbata la luna di miele col suo «Totò» e, a quanto dichiarato dalla madre, la trascorrerebbe in un paesino montano della Germania. Del resto, piuttosto che lasciare il marito, ha preferito venire giudicata in contumacia, lasciando alla madre e ai difensori il compito di «salvaguardare», dinanzi alla sezione misure del tribunale, i suoi interessi. Col nuovo rapporto, Antonietta Bagarella è stata presentata come un’autentica mafiosa, perfettamente inserita nel clan che ha come esponenti Luciano Liggio e il suo presunto marito. Un nuovo metodo della – mafia – secondo la proposta – quello di inserire nell’organizzazione le donne, meno controllate e quindi più idonee a delicati servizi. Secondo il rapporto, Antonietta Bagarella e Totò Riina avrebbero coronato il loro lungo sogno d’amore il 16 aprile scorso. A celebrare le nozze sarebbe stato, secondo la questura, padre Agostino Coppola. A testimonianza dell’evento, è stato allegato agli atti un biglietto di partecipazione (quello che si usa mettere nei sacchetti dei confetti): «Antonietta e Salvatore sposi 16 aprile 1974». Secondo gli avvocati Berna e Genna si tratterebbe di «nozze – fantasma». I due difensori hanno esibito al tribunale un certificato dello stato civile di Corleone dal quale la Bagarella risulta ancora nubile. Inoltre, la maestrina, secondo la testimonianza della madre, si troverebbe sin dal febbraio scorso in Germania. Non avrebbe mai abitato, insomma per la difesa, la casa di San Lorenzo dove, com’è noto, nel marzo scorso fu arrestato suo fratello Leoluca Bagarella. Ninetta Bagarella fu proposta una prima volta, per il soggiorno obbligato nel febbraio 1971, allorché aveva già chiesto ed ottenuto il passaporto con il visto per il Venezuela. La «fuga» di Liggio, dalla clinica Bracci di Roma, fece andare a monte i piani della maestrina, alla quale venne imposto di restituire il passaporto. Dopo l’energico rifiuto all’autorità giudiziaria, venne anche proposta per il confino. In questa occasione, il tribunale la sottopose soltanto a due anni e mezzo di sorveglianza speciale. Ora, dopo l’arresto a Milano di Luciano Liggio, la Bagarella era nuovamente scomparsa. Gli inquirenti avrebbero le prove della sua residenza a San Lorenzo e delle sue nozze con Salvatore Riina. La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.  1 febbraio 2021 • DOMANI


“‘NDRANGHETA STRAGISTA” – «‘NDRANGHETA E 007, IL PIANO PER FAR EVADERE RIINA» di Lucio Musolino – FQ febb.2022
C’è un filo e c’è un puzzle. Un filo che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta cercando di seguire. Un puzzle che gli stessi pm hanno intenzione di ricostruire. E poi ci sono nodi imbrogliati e tasselli mancanti o ben nascosti da oltre 30 anni. Nodi e tasselli che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e la Direzione investigativa antimafia vogliono sbrogliare e trovare per ricomporre uno dei periodi più bui del nostro Paese.
Tracce di quei nodi e di quei tasselli si trovano nelle informative depositate nel processo d’appello “‘Ndrangheta stragista” che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto il referente della cosca Piromalli, condannati in primo all’ergastolo per il duplice omicidio dei carabinieri Antonino fava e Vincenzo Garofalo consumato il 18 gennaio 1994.
Nodi e tasselli che riguardano il rapporto tra le organizzazioni mafiose e pezzi deviati dello Stato: da Gladio al protocollo “Farfalla” passando per i servizi segreti che avrebbero fornito alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra la sigla “Falange armata”. Barbe finte stipendiate con soldi pubblici, che hanno stretto le mani insanguinate di chi si è reso responsabile delle stragi dei primi anni novanta.
Oltre ai riferimenti alla morte del maresciallo Vincenzo Li Causi in Somalia nel 1993, al tritolo piazzato al Comune di Reggio Calabria nel 2004 e alla spartizione dei proventi dei sequestri di persona tra i servizi segreti e la ‘ndrangheta, una parte dell’inchiesta della Dia tocca anche gli interessi della ‘Ndrangheta in Costa Azzurra dove ci sarebbe stato pure un incontro per discutere del progetto di far evadere Totò Riina dal carcere attraverso un gruppo di contractor.
Nelle carte finite alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, però, c’è molto di più. Viene ricostruito, infatti, l’incontro a Montecarlo tra il pregiudicato Vittorio Canale e Maurizio Broccoletti, “in quel periodo – si legge – direttore amministrativo del Sisde e, di lì a poco, al centro del noto scandalo sui ‘fondi neri’ del Servizio”.
Ma andiamo con ordine. Sullo sfondo c’è sempre Domenico Papalia, il boss ritenuto dalla Dda il vertice nazionale della ‘Ndrangheta e per questo “pari grado” di Totò Riina. Il 16 agosto 1989, Papalia “era stato controllato a Parma dalla locale questura presso l’albergo Milano, dove aveva preso alloggio in occasione di un permesso premio ottenuto dalla casa di reclusione di Opera. Nell’occasione, aveva dichiarato di doversi incontrare con il pregiudicato Antonio Vittorio Canale, il quale ultimo, a seguito di un controllo della Squadra Mobile del luogo, veniva trovato in possesso della somma di lire 23 milioni in contante e lire 80 milioni in assegni”.
Si tratta dello stesso Canale ritenuto “soggetto di vertice della cosca De Stefano” che da decenni vive in Costa Azzurra dove il boss don Paolino De Stefano, a Cape d’Antibe, aveva una villa (“Villa tacita Georgia”) dal nome di sua figlia Giorgia.
Canale, in sostanza, è un pezzo da novanta della ‘ndrangheta di Archi, ma anche un personaggio che “su quella riviera – scrivono gli investigatori – ha trascorso indisturbato la latitanza bypassando possibili estradizioni in Italia”. “Era stato anche il dominus di alcune case da gioco francesi, rimanendo riferimento costante delle organizzazioni criminali. – scrivono gli investigatori della Dia – In questo contesto, la risultanza acquisita dalle fonti aperte in merito al festeggiamento di battesimo del figlio di Graviano ‘in un lussuoso Grand Hotel sulla promenade des Anglais di Nizza’ ci porta a una ulteriore riflessione: in quella via di Nizza è ubicato il ‘Grand Hotel Meridien’ che, all’interno, ospita il casinò ‘Rhul’”.
Era la stessa casa da gioco che, stanno a un’informativa dell’operazione “Nizza” sarebbe stata controllata da Canale. In quelle carte è stata annotata “anche la consistente relazione tra il Canale e Sergio Landonio”, un pregiudicato milanese che viveva a Nizza. In rapporti storici con la ‘ndrangheta, Landonio era un trafficante di opere d’arte diventato famoso per la truffa che rovinò Luigi Fasulo, il pilota italo-svizzero che nell’aprile 2002 si schiantò col suo piccolo aeroplano contro il Pirellone.
Landonio era quindi, in contatto con Vittorio Canale. Ma era anche “in stretto collegamento al pregiudicato Michele Condoluci con il quale – si legge – ha anche legami di natura ideologica. Entrambi hanno avuto e hanno legami con l’estrema destra, in particolare il Condoluci, che giunge a Sanremo nel 1970, risultava legato da contatti telefonici con il noto Franco Freda, del quale pare abbia agevolato la latitanza e la fuga in Francia”.
I rapporti tra Vittorio Canale e Sergio Landonio sarebbero stati talmente stretti che l’uomo dei De Stefano avrebbe accompagnato il truffatore milanese anche a Gioia Tauro, da Vincenzo Zito, elemento di spicco dei Piromalli. Ma non solo. Secondo gli investigatori della Dia, sul conto di Landonio sono emersi altri spunti di indagine collegati all’incontro a Montecarlo tra Vittorio Canale, il funzionario del Sisde Maurizio Broccoletti e un agente libico.
Questi avrebbero voluto programmare la fuga di Totò Riina. Il collaboratore di giustizia Pasquale Nucera “aveva parlato di un acconto di 100mila dollari che dovevano servire per assoldare un gruppo di mercenari e un pilota di elicottero”.
Dalle carte dell’operazione “Nizza” emerge “un’attività delittuosa del traffico di dollari statunitensi e di banconote libiche”. Traffico in cui sarebbe stato coinvolto Marco Affatigato che dalla Criminalpol viene definito “noto elemento collegato all’eversione terroristica di destra che ha specifici precedenti in materia di traffico di quella cartamoneta libica”.
Arrestato nel sud della Francia nel 2016 dopo una lunga latitanza, è lo stesso Affatigato militante di Ordine Nuovo, collaboratore dei servizi segreti e definito “l’uomo dei due depistaggi”. Oltre a comparire nell’inchiesta sulla strage di Bologna (non emerse nulla contro di lui sulla bomba), il suo nome venne fatto dopo la strage di Ustica come “un camerata che era in missione verso Palermo” e a bordo dell’aereo abbattuto.
Ritornando all’informativa depositata nel processo d’appello “’Ndrangheta stragista”, la presenza a Nizza di Affatigato “era stata documentata a far data dal 23 settembre 1992 (Riina sarebbe stato catturato nel gennaio successivo), con l’identificazione in una banca svizzera con 4 borsoni contenenti denaro contante per complessivi 435 mila dinari libici, corrispondenti a oltre un miliardo e 876milioni delle vecchie lire”.
In quel contesto investigativo, la Criminalpol centrale “non escludeva che l’Affatigato potesse essere in contatto con organizzazioni terroristiche, dedite al traffico di armi”.
Un’ipotesi che traeva origine da alcune dichiarazioni fatte dal pentito delle Br Antonio Savasta a vari magistrati nell’ambito delle cosiddette indagini “Moro ter” e “Moro quater”.
In sostanza, Savasta aveva “riferito che il regime libico organizzava corsi di guerriglia e terrorismo a favore delle organizzazioni eversive. Quantunque le Brigate Rosse non avessero preso parte a tale attività addestrativa, di contro vi avevano partecipato elementi della destra eversiva italiana. Tali soggetti, poi, rimanevano in contatto con i servizi libici per ovvi motivi”.
‘Ndrangheta, destra eversiva, servizi segreti italiani e servizi segreti libici. Mondi che, all’epoca, si sono incrociati a Montecarlo da dove Vittorio Canale il 16 agosto 1989, con parecchi soldi in contanti, si è spostato per andare a Parma e incontrare il boss Domenico Papalia in permesso premio. Mesi dopo, nell’aprile 1990, è stato ucciso l’educatore del carcere di Opera Umberto Mormile al quale, stando al collaboratore di giustizia Vittorio Foschini, i Papalia offrirono 30 milioni per corromperlo. “Lui si rifiuto. – spiegò il pentito – e aggiunse: ‘Non sono dei servizi’”.
Mormile aveva denunciato i privilegi di cui godeva il boss Papalia in carcere dove, “a cadenza periodica”, riceveva le visite anche Vittorio Canale registrato nell’elenco dei colloqui come “Canali Vittorio, Canale Vittorio e Canale Antonio”. Tutte visite “da intendersi riferibili al Canale Antonio Vittorio, con la dicitura ‘cugino’ e l’annotazione ‘autorizz. Direttore”.
Ovviamente tra il destefaniano Vittorio Canale e il boss di Platì trapiantato a Milano Domenico Papalia “non è emerso alcun legame di parentela”.
Storie che si intrecciano e puzzle ancora incompleti. Nodi ancora da sciogliere e tasselli da trovare e incastrare per la Procura di Reggio Calabria che sta seguendo un filo che passa anche dai rapporti tra “Canale e le istituzioni deviate nel periodo delle stragi continentali”.

La misteriosa cattura di Totò Riina e la spaccatura nella Cupola

Scorrendo il compendio scrutinato dal giudice di prime cure, soccorrono anzitutto le dichiarazioni rese dal generale Cancellieri (comandante della regione carabinieri Sicilia) nel corso della conferenza stampa seguita alla cattura di Riina il 15 gennaio 1993.

Si è accertato, attraverso la deposizione dello stesso Cancellieri, che questi, del tutto ignaro all’epoca dei contatti che gli ufficiali del Ros avevano instaurato con Vito Ciancimino, in buona sostanza si limitò a riportare il contenuto degli appunti che erano stati predisposti dal Col. Mori; né il relativo testo era stato minimamente concordato con i magistrati presenti (incluso il nuovo procuratore capo di Palermo).

E quindi, è farina esclusiva del sacco di Mori anche l’esplicita attribuzione a Riina del disegno di indurre lo stato a trattare: un proposito criminoso di cui lo stesso Mori aveva potuto avere contezza grazie e in esito ai contatti con Vito Ciancimino, e all’interlocuzione per suo tramite avviata con i vertici dell’organizzazione mafiosa.

Da Ciancimino, infatti, il Col. Mori aveva ricevuto la conferma dell’interesse di Riina a “trattare” (“Guardi quelli accettano la trattativa”). Ma ciò non sarebbe bastato per attribuire con tale certezza a Riina il proposito criminale (“… un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico…. di mettere in discussione l’Autorità Istituzionale”) di indurre lo stato a piegarsi alla violenza mafiosa, facendo inaccettabili concessioni, e cosi barattando la propria autorità in cambio della cessazione della minaccia all’incolumità pubblica (“Quasi a barattare, o istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale”).

In fondo, era stato proprio Mori a sollecitare quell’interesse; e quindi, il manifestare, da parte di Riina una certa disponibilità ad assecondare quell’iniziativa non poteva etichettarsi in modo così tranciante come sintomatica della volontà di ricattare Io stato.

Ma sotto questo profilo Mori parlava— o meglio faceva parlare in sua vece il Generale Cancellieri — con piena cognizione di causa, proprio perché sapeva che Riina non solo aveva accettato l’invito ad aprire un dialogo, ma aveva fallo conoscere le sue richieste, ponendole come condizioni ultimative e non negoziabili per fare cessare la violenza mafiosa.

Quella di Mori — contrariamente a quanto ipotizza il giudice di prime cure — non era, però, una voce dal sen fuggito, ma doveva leggersi come un preciso messaggio lanciato a chi poteva intenderlo: la cattura di Riina era anche un monito per chiunque, tra i capi di Cosa nostra (che erano ancora quasi tutti latitanti e in grado di agire) pretendesse di trattare con lo stato nel modo in cui Riina aveva preteso farlo, e cioè dettando le sue condizioni, senza nessuna reale apertura ad un possibile negoziato.

Insomma, un monito all’ala stragista; ma, implicitamente, anche una mano tesa all’ala più moderata e sensibile ad un’eventuale offerta di trattare: ovvero a quanti, all’interno di Cosa nostra fossero disponibili a negoziare certi favori, senza la pretesa di imporre unilateralmente con la violenza la propria volontà.

Ed è persino scontato che nessuno dei presenti alla conferenza stampa potesse cogliere il senso recondito di quelle dichiarazioni, ancorché si trattasse di qualificati investigatori e valorosi magistrati, dal momento che ignoravano l’antefatto, e cioè non avevano alcuna conoscenza e il minimo sentore della complessa interlocuzione che era stata avviata tra il Ros e Vito Ciancimino, e del tenore della proposta, anzi, delle diverse proposte che erano state fatte a quest’ultimo.

Cosa nostra dopo l’arresto del “corto”

[…] Di trattative segrete condotte da Vito Ciancimino o da altri per conto di Cosa nostra ma con i carabinieri o altre forze dell’ordine, nessuno dei collaboratori di giustizia che pure hanno partecipato con ruoli di spicco alla stagione delle stragi e sono stati testimoni e poi esecutori della decisione di riprendere le stragi o i delitti eclatanti, sia pure lontano dalla Sicilia e cambiando target ha mai saputo alcunché.

Del resto, lo stesso Brusca lo ignorava, avendo appreso solo dalla lettura dei giornali e a distanza di anni dai fatti, quando già egli aveva iniziato a collaborare con la giustizia. E mai avrebbe immaginato che gli emissari delle istituzioni di cui gli aveva parlato Riina a propositi della vicenda del “papello” potessero essere dei carabinieri.

Di analogo tenore le dichiarazioni di Sinacori Vincenzo, che pure ha riferito di avere accompagnato Matteo Messina Denaro ad una riunione, presenti Bagarella, Graviano Giuseppe, Brusca e Provenzano, nella quale dovevano prendere delle decisioni sul continuare la linea stragista di Riina di fare gli attentati, dovevano parlare di questo fatto.

Ebbene, Sinacori, che tuttavia non prese parte a quella riunione ristretta, e riservata solo ai boss corleonesi che all’epoca tenevano le redini dell’organizzazione mafiosa orfana del suo capo, non soltanto non ha mai saputo nulla di trattative con esponenti politici o istituzionali; ma per ciò che concerne in particolare l’eventualità di interlocuzioni avviate da Riina con i carabinieri sia pure nell’interesse di Cosa nostra, ha aggiunto: «per come conosco, conoscevo Riina io, è impensabile una cosa del genere, che Riina potesse avere rapporti con forze dell’ordine».

In effetti Brusca rammenta che Riina gli disse, quando già paventava di poter essere arrestato, di mettersi eventualmente in contatto con Salvatore Biondino o con Matteo Messina Denaro che erano al corrente della faccenda del “papello”, alludendo evidentemente alla possibilità di proseguire la trattativa anche nel caso in cui lui stesso fosse stato arrestato. E così – implicitamente – confermando che pochissimi dovevano i capi corleonesi al corrente di quella faccenda (e del resto, del papello Riina gli parlò solo in colloquio a quattrocchi e non alla presenza di altri capi mandamento o loro sostituti).

Tra quei pochi, anche Matteo Messina Denaro (ciò che, per inciso, spiegherebbe per quale ragione questi sapesse, secondo quanto riferisce Brusca, che bersaglio del progetto di attentato allo Stadio Olimpico di Roma dovessero proprio i carabinieri). E tra loro Brusca ritiene di poter annoverare anche Bagarella (e al riguardo cita l’episodio dello scatto d’ira che aveva avuto Bagarella nell’apprendere dai giornali che il Ministro Mancino si era fatto installare vetri anti proiettile nella propria abitazione) e lo stesso Provenzano. Anche se chi fosse stato messo al corrente (da Riina) dell’esistenza di una trattativa segreta non necessariamente doveva sapere che essa si era instaurata e sviluppata attraverso contatti con i carabinieri.

E tuttavia, è pacifico che quando si decise, dopo la cattura di Riina, di proseguire la linea stragista, nel solco tracciato da Riina e per i medesimi obbiettivi, lo scopo era proprio quello di indurre lo stato a trattare: anzi, come precisa Brusca, questi attentati ai nord sono tutti finalizzati a fare tornare questi a trattare. Questi contatti che aveva avuto Riina.

E gli fa eco, sulle finalità delle stragi in continente, Filippo Di Pasquale che pure nulla sapeva dei contatti che aveva intrattenuto Riina con emissari istituzionali (o quelli che Riina riteneva fossero tali): «Le stragi di Roma, Firenze e Milano erano state fatte dal nostro gruppo, e quindi mi riferisco a tutti i componenti del gruppo di fuoco (…) quelle stragi erano state fatte per ricattare lo stato, ricattare lo stato e praticamente con queste stragi gli si diceva allo stato o chi comandava in quel momento o fate come diciamo noi, o noi continuiamo a fare le stragi (…) le cose che voleva Cosa nostra erano intanto abolire proprio sto 41 bis, perché quella è stata una tragedia. Io quello che mi ricordo, la cosa principale era il 41 bis e poi cercare di vedere se si poteva togliere la cosa sui collaboratori di giustizia, comunque la cosa principale era il 41 bis».

Lo stesso Brusca non sa a quale stadio di sviluppo fossero giunti, perché «gli consta solo che ad un certo punto si erano bloccati in quanto le richieste di Riina erano state giudicate eccessive. Ma gli consta altresì che con Bagarella, con Provenzano prima, e con Bagarella dopo questi attentati erano per fare riaprire questo dialogo. Costringere chi era di competenza o a trovare un altro soggetto o andare a trovare a Totò Riina in carcere, un po’ come ai tempi della guerra… la Seconda Guerra Mondiale». E del fatto che Bagarella e Provenzano fossero al corrente dei contatti che aveva avuto Riina, sempre Brusca ne ebbe una riprova eloquente quando insieme a Bagarella si recò ad un incontro con Provenzano per stabilire se pRoseguire o meno la linea stragista voluta da Riina. E in tale occasione lo informarono che avevano deciso — Brusca e Bagarella — di portar avanti quella strategia per far si che coloro che già s’erano fatti sotto con Riina, tornassero a trattare.

Provenzano contrario alle stragi

E Provenzano non batté ciglio in relazione a quei contatti sotterranei […], manifestando però tutto il proprio dissenso sull’opportunità di pRoseguire su quella linea; anche perché non avrebbe saputo come giustificarsi agli occhi degli altri esponenti di spicco dell’organizzazione che condividevano le sue perplessità e che egli in qualche modo rappresentava.

E fu allora che Bagarella lo avrebbe schernito, costringendolo ad abbozzare di fronte alla determinazione dello stesso Bagarella a favore del quale ancora giocavano i rapporti di forza all’interno dell’organizzazione in quel momento (“…Provenzano l‘unica cosa che dice: “Ed io come mi giustifico con gli altri?” Si riferiva al suo gruppo Aglieri. Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente Bagarella gli fa, dice… che ha sorpreso pure me, dice: “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «Io non so niente»” Sì, fu in quella circostanza…neanche ha detto: “No, non lo fate “, non ha resistito alla volontà di Bagarella e quindi sapeva quello che stavamo facendo e il motivo”).

E’ una dinamica che trova, con parole e accenti diversi, dato anche il diverso angolo prospettico, piena corrispondenza nella descrizione fatta da Giuffré dell’atteggiamento e del punto di vista di Provenzano, quando ebbe modo di incontrarlo all’inizio del ‘93, dopo la cattura di Riina. Lo trovò completamente cambiato e propenso a tornare ad una linea di dialogo con la politica invece che di contrapposizione violenta alle istituzioni: primi assaggi di quella che sarebbe stata negli anni avvenire la strategia della sommersione.

Ma in quel frangente storico i rapporti di forza erano ancora a favore dei fautori della linea stragista e Provenzano dovette adeguarsi, come del resto emerge pure dalle dichiarazioni di Cancemi («mi ricordo che quando l’ho incontrato nel ‘93 al Provenzano, lui mi ha confermato che mi disse che tutto quello che hanno portato assieme con Riina avanti, lui stava continuando..»).

E si decise quindi di pRoseguire come prima, come aveva ordinato a suo tempo Salvatore Riina e per le medesime finalità (a parte il mutamento di target). Lo confermano, tra gli altri, La Barbera, che lui testimone dell’incontro che Brusca aveva avuto con Provenzano (“…Si sono parlati e ha detto che era d’accordo a continuare come prima, quindi da lì ho capito che ha incontrato lui Bernardo Provenzano .ed è d’accordo, continuiamo avanti come si era deciso prima”), Cucuzza, che sottolinea la certezza di Bagarella, nonostante il dissenso di Provenzano, che la strategia stragista avrebbe dato buoni frutti (“..a questo tipo di strategia era contrario Me lo ha detto espressamente Bagarella, anzi, chiamandoli miserabili, perché non condividevano questo andare avanti allo

sbaraglio quindi c‘erano dei contrasti abbastanza seri con Provenzano. Invece, Bagarella riteneva che così otteneva qualcosa, quindi era certo… la voleva portare avanti perché ci credeva a questo progetto”). E lo conferma anche Siancori, così come conferma che si era formata una spaccatura interna a Cosa nostra tra uno schieramento favorevole alla pRosecuzione stragista, facente capo a Bagarella, a fianco del quale si erano schierati i Graviano e Matteo Messina Denaro, con Brusca un po’ titubante; e uno schieramento contrario, facente capo a Provenzano. Ma i trapanesi, aggiunge, fedeli a Riina non potevano che seguire la linea dettata dal capo di Cosa nostra e quindi quella di Bagarella, perché se lo diceva Bagarella era come se lo dicesse Riina.

Ma qual era davvero la linea di Riina alla vigilia della sua cattura?

Mantenere alto il livello dello scontro con lo stato, attraverso la minaccia di altre stragi, nella convinzione che nuovi attentati e delitti eclatanti, ossia una ripresa o una prosecuzione della offensiva stragista, lo avrebbe indotto a trattare.

Ma era a ben vedere una convinzione che si nutriva anche della conoscenza — preclusa ai più, anche all’interno di Cosa nostra — di quanto era effettivamente accaduto nel frattempo: e cioè che una trattativa segreta con emissari dello stato si era instaurata davvero; anche se poi si era arenata perché le richieste avanzate da Riina erano state valutate come eccessive (o almeno questa era stata la spiegazione veicolata al capo di Cosa nostra, come si evince incrociando le dichiarazioni d Brusca con la narrazione di Ciancimino circa il congelamento della trattativa che tuttavia lasciasse aperto uno spiraglio alla possibilità di riprendere il dialogo in futuro).

Bisognava dunque intensificare la pressione intimidatoria per vincere la resistenza dello stato — o detto con le crude parole dello stesso Riina: allo stato bisognava “vendere morti” se si volevano ottenere i risultati sperati — e indurre quella parte della classe politica e delle Istituzioni che già si era mostrata disponibile a negoziare, a cedere alle richieste di Cosa nostra.

E con questo genere di convinzione che Riina trasmise ai suoi luogotenenti — a cominciare da quei pochi privilegiati che magari nulla sapevano di contatti con i carabinieri, ma erano al corrente che uomini dello stato già s’erano fatti sotto (come Brusca, Bagarella, Biondino, che però era stato arrestato insieme al suo capo, e Matteo Messina Denaro, oltre a Provenzano) — prima l’invito a

pazientare, perché i risultati sperati non avrebbero tardato a venire; e poi la determinazione a rimette mano a nuovi attentati.

Ciò posto, fu proprio tale convinzione, nutrita come s’è detto dalla consapevolezza che l’ipotesi che lo stato fosse indotto a suon di bombe e attentati a trattare non era un’opzione irrealistica ma un dato acquisito, anche se la trattativa in tutta segretezza già instauratasi versava in un momento di stallo, a innervare la decisione di riprendere l’offensiva stragista. Una decisione che fu effettivamente adottata, nonostante autorevoli dissensi (rapidamente rientrati in ragione dei rapporti di forza tra i diversi schieramenti che si fronteggiavano all’interno di Cosa nostra) in esito ad una serie di frenetiche riunioni tenutesi nei primi mesi del ‘93, una volta superato lo shock e lo smarrimento provocati dalla cattura di Riina.

Ma l’opzione stragista non prevalse su quella contraria, che pure era sostenuta da uno schieramento facente capo ad esponenti mafiosi di primo livello e di grande prestigio, soltanto perché Bagarella, che insieme a Brusca e ai Graviano e a Matteo Messina Denaro ne era il più strenuo sostenitore si fece forte del principio d’autorità, appellandosi alla volontà del cognato, che era ancora il capo riconosciuto e indiscusso di Cosa nostra dei cui ordini egli era o si presumeva che fosse latore. O solo perché i rapporti di forza erano ancora a favore dei fedelissimi di Riina.

Una strategia “vincente”

In realtà, quell’opzione strategica prevalse anche perché la strategia stragista era effettivamente valsa a indurre lo stato a trattare, anche se non ne erano sortiti i risultati sperati (da Cosa nostra) essendosi la trattativa arenata già prima che Ciancimino venisse arrestato. E l’arresto di Ciancimino aveva costituito un’ulteriore complicazione, sicché per superare l’impasse occorreva dare un nuovo scossone.

Ed essere, sempre a suon di bombe, ancora più “convincenti” di quanto non si fosse stati in precedenza, portando il terrore e le distruzioni in continente, e nelle principali città; e colpendo chiese, monumenti o centri di attrazione turistica, così che tutto il mondo ne parlasse e la pressione stessa dell’opinione pubblica nazionale costringesse il governo a cedere, o almeno a riprendere la trattativa che a suo tempo si era interrotta.

Ma, e qui veniamo al punto che premeva evidenziare, se lo stato si era risolto a trattare, ed aveva iniziato a farlo, anzi aveva sollecitato i vertici mafiosi a far conoscere quali fossero le loro richieste (per porre fine all’escalation di violenza che metteva in pericolo l’ordine, la sicurezza interna e l’incolumità pubblica), e la trattativa era iniziata o proseguita persino dopo una seconda terribile strage come quella di Capaci, per quale ragione s’era arenata?

Evidentemente l’unica spiegazione plausibile, o che come tale poteva essere propinata a Riina, era che le richieste di Cosa nostra erano state respinte perché ritenute esorbitanti rispetto a quanto la controparte fosse disposta a concedere (ed è la narrazione di Brusca, che trova implicitamente riscontro nella soluzione concertata da Ciancimino con gli ufficiali del Ros per giustificare agli occhi di Riina il “congelamento” della trattativa).

Ma ciò presupponeva che delle specifiche richieste fossero state avanzate, ovvero che Cosa nostra avesse già fatto sapere che cosa chiedeva in cambio della cessazione delle stragi (e che cosa sarebbe successo se le sue richieste non fossero state accolte): che è appunto quanto si voleva dimostrare.

Sentenza della Corte d’Appello  21 novembre 2022 • La serie sulla trattativa stato-mafia EDITORIALE DOMANI.IT


NOTE

Nel 2009, è stato riferito che Riina e Provenzano avevano creato fan club per loro conto su Facebook , tra cui “Totò Riina, il vero capo dei boss” e “I fan di Totò Riina, un uomo incompreso”. Rita Borsellino , sorella della vittima della mafia siciliana Paolo Borsellino , è stata una dei tanti italiani di alto profilo che hanno condannato l’idolatria dei mafiosi, paragonando i siti a quelli “che lodano Hitler o il nazismo “. [91]

Riferimenti

  1. ” ‘ E Toto’ Riina Ci Ordino ‘Uccidete I Bimbi Dei Pentiti ‘ “(in italiano). repubblica.it. Archiviata dall’originale il 6 dicembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  2. ^Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l’Italia e poi venne giù tutto , Feltrinelli, 1993, p. 158.
  3. “Dal primo omicidio all’arresto Una lunga scia di orrori”(in italiano). livesicilia.it. Archiviata dall’originale il 6 dicembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  4. ^Profilo: Bernardo Provenzano Archiviato il29 settembre 2019 in Internet Archive , BBC News, 11 aprile 2006.
  5. bItaly Arrests Sicilian Mafia’s Top LeaderArchiviato l’8 dicembre 2008 in Internet  , The New York Times , 16 gennaio 1993
  6. “#AccaddeOggi: 16 maggio 1974, arrestato a Milano Luciano Liggio, la”. L’Unione Sarda.it . 16 maggio 2018 Archiviata dall’originale il 16 maggio 2018 . Estratto il 30 settembre 2019 .
  7. ^(In italiano) E ora la ‘ndrangheta Supera Cosa Nostra: Intervista a Enzo Ciconte archiviati 8 dicembre 2008 presso la Wayback Machine , Polizia e democrazia, Novembre-Dicembre 2007
  8. “E LEGGIO SPACCO ‘IN DUE COSA NOSTRA – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it(in italiano). Archiviata dall’originale il 6 marzo 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  9. ^Follain, J., Vendetta, 2012
  10. ^“Il bacio d’onore” tra Andreotti e il capo della mafia non è mai accaduto Archiviato il 9 dicembre 2008 in Internet , The Independent, 26 luglio 2003
  11. bStille, Excellent Cadavers , p. 392
  12. bAndreotti and Mafia: A Kiss RelatedArchiviato l’8 dicembre 2008 in Internet  , The New York Times, 21 aprile 1993.
  13. ^(in italiano) Le dichiarazioni di Baldassare Di Maggio , in Sentenza Andreotti Archiviato il 28 febbraio 2013 in Internet
  14. “Heat on the Mob”. Archiviata dall’originale il 17 agosto 2000.Time , 3 giugno 1996
  15. ^(in italiano) La confessione di Balduccio: “Ho ucciso anche da pentito” Archiviato il 17 febbraio 2011 in Internet , La Repubblica , 4 ottobre 1999
  16. ^Andreotti sfugge alla condanna Archiviato il13 agosto 2008 in Internet , BBC News, 25 luglio 2003
  17. ” ” Il bacio d’onore “tra Andreotti e il capo mafioso non è mai successo, dicono i giudici”. Archiviata dall’originale il 9 dicembre 2008 . Estratto 9 dicembre 2008 .The Independent , 26 luglio 2003
  18. ^Inside The Mafia Archiviato il 26 luglio 2019 in Internet Archive , National Geographic Channel, giugno 2005.
  19. “L’11 settembre della mafia palermitana: la tragica fine dei figli di Buscetta”(in italiano). palermotoday.it. 11 settembre 2019 Archiviatadall’originale il 25 settembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  20. “UN IMPERO BASATO SULLA COCAINA CHE GESTIVA COME UN MANAGER – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it (in italiano). Archiviata dall’originale il 4 giugno 2019 . Estratto 23 settembre il 2019 .
  21. “GIUSTIZIATO IL NIPOTE DI BUSCETTA – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it (in italiano). Archiviata dall’originale il 23 settembre 2019 . Estratto 23 settembre il 2019 .
  22. “impastato-cronologia le vicende del processo”. www.uonna.it . Archiviatadall’originale il 13 aprile 2017 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  23. “IL BRASILE HA CONCESSO L ‘ESTRADIZIONE TOMMASO BUSCETTA PRESTO IN ITAL – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it (in italiano). Archiviatadall’originale il 23 settembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  24. “BUSCETTA CI DISSE: ‘NON SONO UN NEMICO’ – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it (in italiano). Archiviatadall’originale il 23 settembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  25. ” ‘ SONO DON MASINO. NON DICO ALTRO …’ – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it(in italiano). Archiviata dall’originale il 4 giugno 2019 . Estratto 23 settembre il 2019 .
  26. ^Follain, pagg. 19-21
  27. b“338 COLPEVOLI IN SICILIA IN UN PROCESSO A MAFIA; 19 OTTIENI I TERMINI DI VITA” . nytimes.com. 17 dicembre 1987. Archiviata dall’originale il 22 settembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  28. ^(In italiano) Rapido 904: “Un intreccio di tra mafia, camorra e politica” Archiviata 26 dicembre 2012 presso la Wayback Machine , Il Fatto Quotidiano , 27 aprile, 2011
  29. ^Giovanni Falcone, Paolo Borsellino and the Procura of Palermo Archiviato il 21 ottobre 2012 in Internet , Peter Schneider & Jane Schneider, maggio 2002, il saggio è basato su estratti dal capitolo sei di Jane Schneider e Peter Schneider, Reversible Destiny: Mafia, Antimafia e The Struggle for Palermo, Berkeley: U. of California Press
  30. “Archivio – LASTAMPA.it”. Archiviata dall’originale il 19 ottobre 2013 . Estratto 23 luglio il 2017 .
  31. “Gli esecutori materiali della strage di Capaci – Sentenza d’appello per la strage di Capaci”(PDF) (in italiano). Archiviato (PDF) dall’originale il 28 luglio 2017 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  32. ^Intervista all’agente Vullo il giorno dopo la strage. Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet(In italiano)
  33. “Audizione del procuratore Sergio Lari dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia – XVI LEGISLATURA” (PDF) (in italiano). Archiviato (PDF) dall’originale il 31 marzo 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  34. ^Folain, Vendetta , p. 150
  35. ^Italia: ex ministro dell’Interno implicato nei negoziati sulla mafia Archiviato il 23 giugno 2013 in Internet , AND Kronos International, 25 luglio 2012
  36. ^Follain, Vendetta , p. 187
  37. ^Follain, Vendetta , p. 44 e pagg. 187–8
  38. ^Brother of top mafia turncoat shotArchiviato l’8 novembre 2006 in Internet , BBC News, 21 marzo 1998
  39. ^Follain, pagine 212–213
  40. bThe Olive Tree of Peace: The massacre in via dei Georgofili Archiviato il 14 agosto 2014 in Wayback Machine , The Florentine, 24 maggio 2012)
  41. ^Follain, (2012), Vendetta , pagg. 230–231
  42. ^Schneider & Schneider, Reversible Destiny , p. 156
  43. ^Lodato, Ho ucciso Giovanni Falcone , pp. 135–37
  44. ^Jamieson, Alison (1999). L’Antimafia: la lotta dell’Italia alla criminalità organizzata . Houndmills, Basingstoke: Macmillan. ISBN0-333-71900-X.
  45. “Assolto l’ex generale del Ros Mario Mori” Non favorì la latitanza del boss Provenzano “- Palermo – Repubblica.it”Archiviatadall’originale il 24 giugno 2016 . Estratto 13 gennaio il 2020 .
  46. “I boss del crimine sono considerati colpiti da Giuliani”. Il blog del New York Times The Caucus . 5 ottobre 2018 Archiviata dall’originale il 12 giugno 2018 . Estratto 3 maggio il 2018 .
  47. “FAQ sugli omicidi di massa: il mafioso ha mai stipulato contratti con le forze dell’ordine?” . National Geographic Society. Archiviatadall’originale il 26 agosto 2013 . Estratto 25 mese di agosto 2013 .
  48. “Dentro il complotto della mafia per uccidere Rudy”. New York Post . Archiviatadall’originale il 3 maggio 2018 . Estratto3 maggio il 2018 .
  49. “Giovanni Falcone, morto all’età di 53 anni, ha trascorso la maggior parte della sua vita combattendo ostinatamente i mafiosi responsabili dell’omicidio”. Il telegrafo . 25 maggio 1992. Archiviata dall’originale il 19 maggio 2018 . Estratto 19 maggio il 2018 .
  50. “Necrologio: Paolo Borsellino”. The Independent . 20 luglio 1992 Archiviatodall’originale il 12 giugno 2018 . Estratto19 maggio il 2018 .
  51. “La mafia siciliana” complotta per uccidere “l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani”. Il telegrafo . Archiviata dall’originale il 3 maggio 2018 . Estratto 3 maggio il 2018 .
  52. “Rudy Giuliani dice che la mafia gli ha messo in testa 800.000 dollari di taglia, ma l’ex sindaco di New York ammette che i terroristi islamici lo spaventano più della folla”. The Independent . John Hall. Archiviatadall’originale il 4 maggio 2018 . Estratto3 maggio il 2018 .
  53. ^Boss Riina ‘tradito’ di Provenzano Archiviato il 5 giugno 2011 in Internet , ANSA, 5 novembre 2009
  54. ^Italy: Top Mafia latitante “tradito” dal bossArchiviato il 20 settembre 2011 in Internet , Adnkronos International, 5 novembre 2009
  55. ^Scammell, Rosie (10 maggio 2015). “La polizia italiana apre un quartier generale nell’ex covo della mafia” . Archiviata dall’originale il 1 ° ottobre 2019 . Estratto il 1 ° ottobre 2019 – tramite www.theguardian.com.
  56. “Il più violento e temuto padrino della mafia è morto”. NewsComAu . 17 novembre 2017 Archiviato dall’originale il 28 marzo 2020 . Estratto 6 gennaio il 2020 .
  57. ^Feed, IANS (19 luglio 2017). “Incarcerato il boss della mafia siciliana Riina per restare in carcere” . India.com . Archiviata dall’originale il 28 marzo 2020 . Estratto 6 gennaio il 2020 .
  58. b“Ascoli, Totò Riina ricoverato in ospedale dopo malore – la Repubblica.it” . Archivio – la Repubblica.it . Archiviata dall’originale il 1 ° ottobre 2019 . Estratto 1 ° ottobre 2019 .
  59. “Totò Riina ricoverato per problemi al cuore – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it . Archiviata dall’originale il 1 ° ottobre 2019 . Estratto 1 ° ottobre 2019 .
  60. “Totò Riina ricoverato in ospedale:” Non in pericolo di vita ” “. Il Fatto Quotidiano . 4 marzo 2014 Archiviata dall’originale il 1 ottobre 2019 . Estratto 1 ° ottobre 2019 .
  61. “Riina minaccia Don Ciotti. Il prete:” Lotta alla mafia è atto di fedeltà al Vangelo ” “. Il Fatto Quotidiano . 31 agosto 2014 Archiviatadall’originale il 1 ° ottobre 2019 . Estratto 1 ° ottobre 2019 .
  62. “Riina alla moglie: ‘Non mi pento, posso fare 3000 anni’ – Sicilia”. ANSA.it . 19 luglio 2017 Archiviata dall’originale il 1 ° ottobre 2019 . Estratto 1 ° ottobre 2019 .
  63. ” ‘ Uccise Il Capitano Basile’ Per Riina È Il Carcere A Vita – La Repubblica.It”Archiviatadall’originale il 9 dicembre 2019 . Estratto l’ 11 dicembre 2019 .
  64. ^Mafia Kingpin Jailed for Life Archiviato il6 agosto 2011 in Internet Archive , The Independent, 9 ottobre 1993
  65. “GIUSTIZIATO IL NIPOTE DI BUSCETTA – la Repubblica.it”. Archivio – la Repubblica.it (in italiano). Archiviata dall’originale il 23 settembre 2019 . Estratto 23 settembre il 2019 .
  66. d“Cronologia su mafia e antimafia” (in italiano). camera.it. Archiviata dall’originale il 14 dicembre 2007.
  67. “Delitto Dalla Chiesa: ottavo ergastolo a Riina”Archiviata dall’originale il 3 ottobre 2015 . Estratto l’ 11 dicembre 2019 .
  68. “Confermati gli ergastoli per le bombe del 1993”(in italiano). 6 maggio 2002.
  69. ^Sentenza Strage – CONDANNE ALL’ERGASTOLO
  70. ^(In italiano) Ecco chi uccise Terranovaarchiviati 3 Ottobre 2015 presso la Wayback Machine , il Corriere della Sera, 4 GIUGNO 1997
  71. ^NOTIZIE IN BREVE N3 Archiviato il 4 ottobre 2013 in Wayback Machinecom
  72. ^ Iboss della mafia italiana sono condannati all’ergastolo Archiviato il 9 dicembre 2008 in Internet , BBC News, 15 luglio 1998
  73. ^Processo Lima: 18 ergastoli ai padrini di Cosa Nostra Archiviato il 4 dicembre 2015 inWayback Machine Corriere della Sera, 16 luglio 1998
  74. “Omicidio Lima: annullati gli ergastoli a 4 boss – Corriere.it”Archiviata dall’originale il 4 aprile 2018 . Estratto l’ 11 dicembre 2019 .
  75. “Sentenza della Corte di Cassazione per l’omicidio Lima” (PDF) . Archiviato (PDF)dall’originale il 4 marzo 2016 . Estratto l’11 dicembre 2019 .
  76. “Borsellino bis, sette ergastoli Credibile il pentito Scarantino”. repubblica.it. 14 febbraio 1999. Archiviata dall’originale l’11 dicembre 2019 . Estratto l’ 11 dicembre 2019 .
  77. ^Gianluca Monastra (22 gennaio 2000). “Ergastolo a Totò Riina per la strage” (in italiano). la Repubblica. Archiviata dall’originalel’8 aprile 2014.
  78. “Quel giudice in pensione assassinato da Totò Riina – Repubblica.it» Ricerca “Archiviata dall’originale l’11 dicembre 2019 . Estratto l’ 11 dicembre 2019 .
  79. “Strage Chinnici, 12 ergastoli assolti i boss Motisi e Farinella”(in italiano). la Repubblica. 26 giugno 2002 Archiviato dall’originale il 5 ottobre 2013.
  80. ^Era Toto ‘Riina a volere la morte del giudice Carlo Palermo Archiviato il 25 luglio 2013 in Internet Antimafiaduemila.com
  81. ^Salvo Palazzolo (29 aprile 2009). “Strage di viale Lazio, ergastolo a Riina e Provenzano” (in italiano). la Repubblica. Archiviata dall’originalel’8 aprile 2014.
  82. ^Notizie Sicilia Informazioni del giornale di Sicilia News24 online link morto permanente ]
  83. “Omicidio Alfio Trovato, ergastolo per Totò Riina”(in italiano). ilgiorno.it. 26 gennaio 2012. Archiviato dall’originale l’11 dicembre 2019 . Estratto l’ 11 dicembre 2019 .
  84. “Maxiblitz antimafia a Palermo arrestato il figlio di Riina”(in italiano). repubblica.it. 5 giugno 2002 Archiviata dall’originale il 20 settembre 2019 . Estratto il 20 settembre 2019 .
  85. ^Sospetti di mafia detenuti nella città di “Godfather” Archiviato il 9 dicembre 2008 in Internet , BBC News, 5 giugno 2002
  86. ^(In italiano) Lo Piccolo, il fautore della strategia della “rimmersione” archiviati 4 lug 2008 presso la Wayback Machine , Intervista ad Antonio Ingroia, Antimafia Duemila n. 56, Anno VII ° Numero 5-2007
  87. ^Il figlio del boss mafioso è stato imprigionatoArchiviato il 20 settembre 2005 in Wayback Machine , News24.com, 31 dicembre 2004
  88. ^ Lafamiglia mafiosa fa causa per la maglietta della città del Padrino , The Times (Regno Unito), 14 settembre 2006
  89. “E ‘morto il boss Totò Riina. Da 24 anni era al 41 bis”(in italiano). repubblica.it. 17 novembre 2017 Archiviata dall’originale il 24 novembre 2017 . Estratto 17 novembre il 2017 .
  90. b“Salvatore Riina, boss della mafia siciliana, morto a 87 anni” . cbc.ca. 17 novembre 2017 Archiviata dall’originale il 18 novembre 2017 . Estratto 18 novembre il 2017 .
  91. “Su Facebook, la mafia siciliana è un argomento caldo – NYTimes.com”. 5 novembre 2012. Archiviato dall’originale il 5 novembre 2012.

Bibliografia

link esterno

 


Al CINEMA

 

 

 

    A cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF