16.4.2023 “Messina Denaro sta tentando di sminuire la gravità degli omicidi che ha commesso”. Il delitto Bonomo, le stragi e i segreti del boss
29.1.2023 La “sfilata” dei testimoni: «Messina Denaro quello? Non lo sapevamo». E una donna rivela: avevamo una relazione
Dopo trent’anni di silenzio in tanti hanno ritrovato la memoria. E si sono presentati agli investigatori a raccontare i loro rapporti, le frequentazioni, gli incontri, a volte occasionali, con il boss Matteo Messina Denaro. Una sfilata di testimoni, tra Palermo, Campobello, Trapani, mossi probabilmente dal timore di finire tra i sospettati di collusioni e connivenze con il padrino di Castelvetrano.Nell’agenda e soprattutto nei cellulari del capomafia sono stati trovati infatti numeri di telefono e messaggi che provano la rete di relazioni tessuta nel tempo. Identificare chi ne facesse parte non è difficile per i carabinieri. E forse per prevenire conseguenze spiacevoli molti hanno anticipato le mosse degli investigatori e hanno deciso di parlare. Nei covi, inoltre, come già anticipato nei giorni scorsi, sono state rinvenute anche altre carte d’identità intestate a prestanomi, che il boss avrebbe utilizzato per coprire la latitanza: da fonti investigative risulterebbero cinque in tutto. Pazienti che Messina Denaro ha incontrato alla clinica Maddalena in cui è stato arrestato il 16 gennaio e con cui il boss faceva la chemio (condividevano una chat con lui), cittadini che l’avevano incontrato in un negozio, ristoratori, il concessionario che gli ha venduto l’auto. E una donna che ha sostenuto di aver stretto con il padrino una relazione amorosa di qualche mese non sospettando che il suo amante fosse il ricercato italiano numero uno. La signora non sarebbe indagata. La nota comune delle testimonianze, tutte postume, è che nessuno avrebbe saputo la vera identità di Messina Denaro visto che il boss, durante la latitanza, usava identità false. Tocca ora agli investigatori accertare se dicono la verità. CORRIERE DELLA SERA
28.1.2023 – Il procuratore De Lucia: “Basta dicerie sulla cattura di Messina Denaro, nell’inchiesta solo fatti”
23.1.2023 Messina Denaro, nel covo del boss anche abiti femminili. Interrogato il concessionario: l’auto comprata personalmente “in modo tracciato”
21.1.2023 L’ex pm che indagò su Messina Denaro: «Sempre ostacolata, ho pensato che non lo volessero arrestare»
21.1.2023 Trovata l’auto di Messina Denaro
Grazie alla Giulietta del boss gli investigatori riuscirono a risalire al primo covo individuato a Campobello di Mazara
VIDEO ritrovamento
VIDEO della rimozione
Proprio grazie alla macchina gli investigatori riuscirono a risalire al primo covo del boss individuato a Campobello di Mazara. Nel borsello trovato al capo mafia dopo l’arresto c’era una chiave. Dal codice della chiave, i pm sono arrivati alla Giulietta, poi gli investigatori hanno ricostruito, grazie un sistema di intelligenza artificiale, gli spostamenti del veicolo del capo mafia risalendo al suo nascondiglio di vicolo San Vito.
Ma solo ora la Giulietta è stata ritrovata. Sul posto c’è il procuratore aggiunto Paolo Guido. La Giulietta era parcheggiata in una sorta di garage, a poca distanza dalla casa di Giovanni Luppino, l’incensurato che ha accompagnato con la sua auto, una Fiat bravo, Matteo Messina Denaro alla clinica dov’è entrambi sono stati arrestati lunedì.
L’ipotesi investigativa è che il capomafia, il giorno del blitz, sia andato in auto dal suo covo in vicolo San Vito a casa di Luppino – che vive a poca distanza dal luogo in cui la Giulietta è stata scoperta – e che insieme all’autista poi si sia diretto alla casa di cura per le terapie. ANSA
Il cellulare ‘aziendale’ di Messina Denaro, comprò auto a Palermo
Un giorno di gennaio 2022 Matteo Messina Denaro sarebbe andato a Palermo, personalmente, per comprare la Giulietta oggi individuata e sequestrata dalla polizia. Lo ipotizzano gli investigatori.
Si tratta dell’auto utilizzata dal capomafia nell’ultimo anno di latitanza. I documenti della macchina sono stati trovati nel covo di vicolo San Vito, a Campobello di Mazara. Si sa pure che fu data in permuta una Fiat 500. La differenza, 10 mila euro, fu pagata dal padrino in contanti. L’auto è intestata all’anziana madre di Andrea Bonafede, Giuseppa Cicio.
La rivendita di auto, soprattutto aziendali, si trova nella zona di Corso Calatafimi, non lontano dalla Presidenza della Regione, in piazza Indipendenza.
Dunque il latitante si sentiva talmente sicuro da spostarsi fino a Palermo. Alla macchina gli investigatori sono arrivati dal codice della chiave che Messina Denaro aveva nel borsello al momento dell’arresto nei pressi della clinica La Maddalena a Palermo. L’auto è stata individuata nel parcheggio che utilizza il figlio di Giovanni Luppino, l’autista del latitante.
Gli inquirenti ipotizzano che il giorno del blitz il boss si sia recato in auto dal suo covo in vicolo San Vito a casa di Luppino (circostanza da quest’ultimo confermata), e che da lì si sia poi diretto insieme all’autista alla casa di cura per le terapie.
Il garage all’aperto si trova in via San Giovanni, la strada dove abita Luppino e dove abitava Messina Denaro prima di trasferirsi in via Cb31. La polizia è risalita al traslocatore che fece anche delle fotografie nella casa. Adesso gli scatti sono in mano alla polizia.
Il giorno in cui è arrivato in clinica Luppino sarebbe stato persino più prudente del latitante. Ha spento i telefonini, cosa che non ha fatto Messina Denaro che di cellulari ne possedeva due. Uno intestato a Bonafede e un altro ad un’azienda su cui sono in corso degli approfondimenti.
Il carabiniere che ha lavorato all’identikit di Messina Denaro: “Così abbiamo dato un volto al boss”
La prima foto segnaletica di Matteo Messina Denaro in carcere sottolinea un’evidente somiglianza al ritratto realizzato tramite age progression dalla sezione Fonica Audiovisiva e informatica dei Ris. “Le immagini sono state aggiornate negli anni – ha spiegato a Fanpage.it il maresciallo Natale – per fornire una pista verosimile”
La cattura di Matteo Messina Denaro, boss di Cosa Nostra la cui latitanza è durata 30 anni, passa anche per l’identikit e i ritratti segnaletici realizzati dalla sezione Fonica Audiovisiva e informatica dei Ris. Il volto del superlatitante arrestato a Palermo il 16 gennaio, infatti, è molto simile all’immagine “invecchiata” dai Ris. Guardando la prima foto segnaletica del boss e l’identikit realizzato dalla sezione Fonica Audiovisiva e informatica, colpisce in particolare la bocca, sottile proprio come quella di Matteo Messina Denaro. “Le immagini sono realizzate tramite age progression – ha dichiarato il maresciallo dei Ris Antonio Natale in un’intervista rilasciata a Fanpage.it – che si propone di essere uno strumento in più utile a indirizzare delle ricerche. Abbiamo aggiornato l’identikit negli anni unendo una serie di elementi per fornire un ritratto verosimile”
L’identikit più famoso è stato realizzato dalla Polizia di Stato nel 2011, poi negli anni ne sono stati fatti diversi. Noi carabinieri abbiamo lavorato periodicamente ai ritratti segnaletici mediante la tecnica dell’age progression che serve a fornire un ritratto verosimile, una vera e propria stima dell’invecchiamento di una persona ricercata.
Stupisce la somiglianza di Messina Denaro all’uomo nelle foto segnaletiche dei Ris. Le autorità pensavano che potesse aver camuffato il suo aspetto? Il mio incarico è di laboratorio, per l’analisi di filmati e immagini. Il mio ruolo è stato precedente e limitato nel percorso investigativo che poi ha portato alla cattura.Per arrivare a quel punto deve esserci stato un lungo percorso di indagine e di estrapolazione di diversi elementi da immagini e filmati. Ogni singolo elemento può aver aiutato nell’individuazione del boss. Credo che gli investigatori non avessero preconcetti sul suo aspetto e che abbiano collezionato tutti i dati senza avere particolari aspettative sul suo volto.
L’age progression è stata utilizzata anche per le ricerche di altri latitanti?
Ci sono stati sicuramente altri casi, la tecnica è utile alla ricerca di persone e il confronto delle immagini ha la finalità di indirizzare le operazioni più che di essere probatorio al momento del ritrovamento. Foto segnaletiche di questo tipo sono state realizzate anche per altri casi di rilevanza nazionale come per le ricerche di Denise Pipitone e per quelle di Emanuela Orlandi. È stato utile anche per la cattura di ricercati all’estero, ma ovviamente questo genere di investigazione segue diverse strade. L’age progression è uno strumento in più.
Cosa sappiamo di come i carabinieri sono arrivati a capire che un paziente di una clinica privata di Palermo era il capo di Cosa Nostra
Tutti i grandi latitanti di Cosa Nostra, la mafia siciliana, sono sempre stati arrestati nel loro territorio in Sicilia. È una caratteristica che li distingue dai boss della ’ndrangheta o della camorra: non abbandonano la propria zona d’influenza. Matteo Messina Denaro, arrestato ieri a Palermo presso la clinica privata La Maddalena dove stava ricevendo cure oncologiche, è solo l’ultimo esempio. Totò Riina venne arrestato 30 anni fa a Palermo; Bernardo Provenzano fu preso nella campagna di Corleone; Leoluca Bagarella, come Riina, fu arrestato nel traffico palermitano; Luciano Leggio, capo dei corleonesi prima di Riina, fu preso in una casa nel centro di Corleone.
Le ricerche di Matteo Messina Denaro si sono sempre concentrate in Sicilia, quindi, ma questo non ha reso le cose più semplici visto che è un territorio vasto e difficile da controllare. Messina Denaro era latitante dal 1993, dopo l’arresto di Riina, ma le ricerche si erano intensificate in particolare negli ultimi anni. Dell’efficiente rete di protezione di cui ha goduto per anni facevano parte affiliati alla mafia ma anche persone non mafiose che, per convenienza o anche per paura, di volta in volta hanno aiutato il boss, magari non sapendo nemmeno chi fosse. Teresa Principato, componente della Direzione nazionale antimafia ed ex procuratrice aggiunta a Palermo, in un’intervista data tempo fa aveva detto che questa rete di protezione non esisteva solo in Italia, e l’ha definita «massonica». Vincenzo Calcara, ex capo mafioso di Castelvetrano divenuto collaboratore di giustizia, confermò in passato uno stretto rapporto tra la loggia massonica di Castelvetrano, Campobello e Trapani e la cosca mafiosa della zona. Le affiliazioni massoniche garantiscono ai mafiosi uno strumento per ottenere favori in molti campi, per avvicinare persone, per concludere affari e, quando è necessario, trovare aiuti e coperture. Secondo informazioni dei collaboratori di giustizia, mai confermate, Matteo Messina Denaro stesso sarebbe stato affiliato a una loggia massonica. Durante la conferenza stampa tenuta dopo l’arresto di Messina Denaro, il capo della procura di Palermo Maurizio De Lucia ha detto: «C’è stata certamente una fetta di borghesia che negli anni ha aiutato Messina Denaro e le nostre indagini ora stanno puntando su questo». De Lucia non ha spiegato a chi si riferisse ma è probabile che accennasse a complicità nel mondo delle professioni sanitarie siciliane. Le indagini che hanno portato all’arresto effettuato dal Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, sono state spiegate da De Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Sono state fondamentali le intercettazioni telefoniche e ambientali di persone sospettate di far parte della rete di protezione di Messina Denaro, ascoltando le quali tra gli investigatori è nato il sospetto che il latitante potesse essere seriamente malato. In particolare, da alcune conversazioni intercettate era emerso che Messina Denaro potesse avere un tumore. La persona arrestata ieri insieme a Messina Denaro si chiama Giovanni Luppino: è un imprenditore incensurato, commerciante di olive residente a Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. È un paese vicino a Castelvetrano, luogo di origine del boss. Nel settembre del 2022, assieme ad altre 34 persone accusate di essere fiancheggiatori di Messina Denaro, venne arrestato Francesco Luppino, anche lui di Campobello di Mazara, considerato l’uomo più vicino al boss latitante. Può darsi che Francesco e Giovanni Luppino abbiano semplicemente lo stesso cognome oppure è possibile, anche se non c’è nessuna conferma, che siano parenti e che continuando a indagare all’interno di quella famiglia si sia arrivati a individuare chi ancora aiutava il latitante ricercato. Dopo i sospetti sulla possibile malattia, incrociando i dati del servizio sanitario siciliano e nazionale venne stilata una lista di pazienti oncologici dell’età di Messina Denaro (ha 60 anni, è nato il 26 aprile 1962). Un nome attirò l’attenzione degli investigatori: quello di Andrea Bonafede, parente di un fiancheggiatore del boss di Castelvetrano. Ha spiegato nella conferenza stampa il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros: «Nell’ultimo periodo c’è stata un’accelerazione perché via via che si scremava la lista e si scremavano le persone, ci siamo concentrati su pochi soggetti fino ad individuare quel nome e cognome. Da qui l’ipotesi che potesse essere il latitante». Dalle indagini è risultato che Andrea Bonafede, negli ultimi due anni, aveva sostenuto due interventi al colon realizzati all’interno della clinica La Maddalena. Secondo quanto riferito da alcuni giornali, ma è un punto ancora non del tutto chiaro, gli investigatori avrebbero appurato che nel giorno in cui risultava essere stato operato nel 2021, Andrea Bonafede sarebbe stato in realtà a casa. È in questo modo che in procura si è arrivati alla convinzione che Bonafede potesse essere in realtà Matteo Messina Denaro. L’informazione che è stata interpretata come una conferma era arrivata nelle scorse settimane, quando si è appresa la notizia che Andrea Bonafede aveva effettuato una visita oculistica all’occhio sinistro alla clinica La Maddalena. Gli investigatori sanno da tempo che Messina Denaro ha problemi proprio all’occhio sinistro. Gli investigatori sapevano anche che ieri Messina Denaro avrebbe dovuto sottoporsi a una seduta di chemioterapia all’interno della clinica La Maddalena per una metastasi al fegato. Il latitante non è stato bloccato all’interno della struttura, ma in una via laterale: dopo essersi registrato all’accettazione era uscito per andare a bere un caffè al bar. Secondo il racconto fornito in conferenza stampa, Messina Denaro si è accorto che una strada era stata bloccata e quindi insospettito ha accelerato il passo, ma è stato presto fermato dagli agenti. Ha raccontato Lucio Arcidiacono, colonnello dei carabinieri che ha guidato sul campo l’operazione del Ros: «Tutto è cominciato intorno alle 6:30. Sapevamo che Bonafede sarebbe andato alla clinica, ma non avevamo la certezza di chi si celava dietro quel nome. È arrivato a bordo di una Fiat Bravo bianca e si è subito diretto all’accettazione. Appena ha visto che c’era confusione e il traffico bloccato è solo tornato indietro sulla stessa stradina, ma anche dall’altra parte c’erano i miei uomini». Arcidiacono si è qualificato e ha chiesto alla persona fermata se fosse Matteo Messina Denaro. Lui ha risposto: «Sa bene chi sono io». Alla richiesta di pronunciare il suo nome, l’uomo ha detto «Mi chiamo Matteo Messina Denaro». Non era armato e non ha opposto resistenza. Il procuratore aggiunto Paolo Guido ha detto, parlando dell’arrestato: «Ci è apparso in buona salute e di buon aspetto: non ci pare che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere». Alla domanda se Messina Denaro sia da considerare un malato terminale, Guido ha risposto: «Non sono uno specialista e non sono in grado di esprimermi su questo. Ovviamente sarà curato come ogni cittadino ha diritto di essere curato, recupererà la seduta di chemioterapia a cui doveva sottoporsi nei prossimi giorni, in una struttura carceraria attrezzata per le cure oncologiche». Nella notte Matteo Messina Denaro è stato trasferito all’aeroporto di Pescara: è probabile che da lì sia stato portato nella casa circondariale dell’Aquila, in località Costarelle di Preturo. Dal 1996 la struttura è adibita interamente alla custodia di detenuti sottoposti a particolari regimi di detenzione: molti sono sottoposti al regime di 41-bis. All’Aquila sono già detenuti personaggi importanti della criminalità organizzata: i boss mafiosi Filippo Graviano, Carlo Greco e Ignazio Ribisi, il capo ’ndranghetista Pasquale Condello, i camorristi Paolo Di Lauro e Ferdinando Cesarano. Sono stati resi noti anche alcuni particolari dell’abbigliamento di Messina Denaro al momento dell’arresto: secondo le cronache aveva al polso un orologio Franck Muller del valore di circa 35 mila euro e indossava un giubbotto di montone. È stata anche individuata la sua abitazione, in una palazzina a due piani nel centro di Campobello di Mazara. Le indagini si stanno ora concentrando su alcune persone che possono aver aiutato in maniera concreta negli ultimi tempi la latitanza del capomafia arrestato. Per esempio, la carta d’identità falsa intestata ad Andrea Bonafede ha il timbro autentico del comune di Campobello di Mazara. Il quotidiano La Verità, inoltre, questa mattina ha pubblicato un selfie che ritrae Messina Denaro sorridente in compagnia di un infermiere della clinica La Maddalena. Gli investigatori cercheranno di capire se qualcuno all’interno della struttura sanitaria conosceva la vera identità di Andrea Bonafede. IL POST 17.1.2023
20.8.2020 Matteo Messina Denaro e i lati oscuri delle indagini
Immagine-identikit ricostruita al computer di Matteo Messina Denaro
Delle protezioni accordate al boss latitante Matteo Messina Denaro parlano tutti. Protezioni istituzionali e politiche. Ipotesi, generici pourparler che lasciano il tempo che trovano. Ben diverso provare a capire chi oggi protegga il latitante, chi lo favorì quando organizzava le stragi di Capaci e via D’Amelio, il perché di quelle stragi. Il magistrato Nino Di Matteo, qualche giorno fa, ha affermato come sia “grave che la latitanza di Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo per questi fatti, si protragga da 27 anni. Così come per 43 anni si protrasse latitanza di Provenzano. Situazioni di questo genere non possono non essere anche, in parte, il frutto di coperture istituzionali e politiche. Non è normale che per 27 anni, o 43 anni, non si riesca a catturare un latitante” aggiungendo che nel caso di Matteo Messina Denaro “la gravità è acuita dal fatto che è stato uno dei protagonisti della campagna stragista. Questo lo pone in condizioni, potenzialmente perché è uno dei pochi depositari di segreti inconfessabili, di brandire un’arma micidiale di ricatto nei confronti di chi ha ancora molto da nascondere su quella fase di storia recente”. Parole, fiumi di parole, e non solo quelle di Di Matteo, che nulla aggiungono o tolgono ai fatti. Non serviva il magistrato Di Matteo per capire che la strage di via D’Amelio non fu solo opera di “cosa nostra” o che comunque dietro quelle stragi si celassero interessi che coinvolgevano il mondo degli affari, della politica, i potentati economici. “Dopo gli iniziali depistaggi ed errori già dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti” ha affermato Di Matteo. Ma quali indagini e quali processi hanno permesso di accertare questi passaggi importanti? Per anni si è dato credito al falso pentito Vincenzo Scarantino e soltanto adesso, a distanza di 28 anni dalle stragi, emerge una verità che ha portato a indagare e accusare chi gestì il falso pentito. Di Matteo, inoltre, sbaglia a indicare come depistaggi ed errori iniziali quelli del ’96, visto che forse non si è accorto di come nel processo in corso a Caltanissetta, che vede Matteo Messina Denaro imputato per le stragi, vien fuori il nome di un altro inquinatore dei pozzi – così lo ha definito il pm Gabriele Paci – che già nel ‘91spostava l’attenzione dai Messina Denaro, padre e figlio, in direzione di altri soggetti che venivano indicati quali capi mafia del trapanese.
Vincenzo Calcara indicò in Mariano Agate il capo provincia di Trapani (anziché Francesco Messina Denaro) e non fece mai il nome di Matteo Messina Denaro. Un paio di settimane fa, con un post sulla sua pagina Facebook, nell’attaccare il pm Paci è tornato a tentare di discolpare il boss latitante dall’accusa di aver progettato, o dato il consenso, alle stragi nella quali morirono i giudici Falcone e Borsellino. Perché? Eppure, Calcara, evidentemente senza rendersene conto, con il suo post del 9 agosto, tentando di scagionare il boss latitante dall’accusa di aver preso il posto del padre ai vertici della consorteria mafiosa, dichiara, per l’ennesima volta, un fatto importantissimo:
“Quando nell’ autunno del 1991 – ero latitante- ho incontrato Matteo Messina Denaro, gia’ adulto in quanto aveva 29 anni , non sapevo il suo ruolo all’ interno della famiglia mafiosa di Castelvetrano, ma in quella occasione il suo ruolo era anche di partecipare per uccidere il Dott. Paolo Borsellino e ho capito che tra lui e il padre c’era una perfetta simbiosi, come se erano la stessa persona”
Calcara dunque era a conoscenza del ruolo che Matteo Messina Denaro avrebbe avuto nell’esecuzione delle stragi, a prescindere dalla sua posizione gerarchica all’interno della consorteria mafiosa. Eppure in quel lontano 1991, quando dice di aver tentato di salvare la vita a Borsellino, non ne parlò. Matteo Messina Denaro per altri due anni ancora fu lasciato libero di agire indisturbato. Solo nell’estate 1993, mentre avvenivano gli altri attentati dinamitardi, dopo aver trascorso una vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, si diede alla latitanza.
Ha ragione Di Matteo nel sostenere che la latitanza del boss è frutto anche di coperture istituzionali e politiche. Venga però a spiegarci da parte di chi. Venga a spiegarci le opere di depistaggio, il perché per decenni si è voluto ignorare il fatto che Falcone e Borsellino ritenevano di vitale importanza le indagini condotte da Mori e De Donno in materia di mafia-appalti.
Di Calcara, depistaggi e mafia-appalti, abbiamo scritto a lungo (forse per alcuni anche troppo). È di qualche giorno fa l’intervista realizzata dal giornalista Paolo De Chiara al collaboratore di giustizia siciliano Benito Morsicato. Il collaboratore, le cui propalazioni alla stessa maniera di quelle degli altri devono essere attentamente verificate, nel ricostruire gli anni dell’inizio della sua collaborazione con la giustizia, a partire dal 2014, quando cominciò a parlare di Matteo Messina Denaro, dichiara “ho avuto un casino di problemi”.
Morsicato, che nell’intervista afferma di aver fatto arrestare circa 60 persone, tra le quali tutti i parenti di Matteo Messina Denaro e persone molto vicine a lui, racconta di aver paura.
Di cosa ha paura? – chiede il giornalista.
“Nel 2014, quando ho iniziato la mia collaborazione, dissi telefonicamente a mia moglie, ero stato autorizzato dalla Procura di Palermo a poter telefonare ogni giorno dieci minuti solo a mia moglie per sentire lei e le bambine, loro già si trovavano in una località segreta e io in un carcere definito località segreta. Ero a Frosinone. A mia moglie dissi telefonicamente, perché era stata autorizzata a fare un incontro con i genitori in località segreta, di portarmi degli appunti, avevo il vizio di segnarmi tutto anche quando facevo parte dell’organizzazione mafiosa… Mia moglie viene accompagnata con la scorta ad incontrare i genitori e guarda caso viene fatto il furto nella macchina di scorta. Vengono rubate le due valigie dove all’interno c’erano gli appunti, le cose che dovevo dichiarare ai PM…”
Una vicenda che il collaboratore dichiara venne denunciata. A suo parere, chi portò via le due valigie ne conosceva il contenuto, poiché le telefonate sicuramente erano controllate. Una storia che Morsicato collega a un altro episodio accaduto al Tribunale di Palermo.
“Lo sa dove è avvenuto lo stesso furto, nello stesso periodo? Sempre su Matteo Messina Denaro. Così ho collegato… – prosegue il collaboratore – Al Tribunale di Palermo, nell’ufficio della Principato. Sparito un PC con le chiavette, dove c’erano tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle importanti prove su Matteo Messina Denaro. Dentro la Procura. E allora mi son messo un po’ di paura.”
Di questa storia abbiamo scritto più volte, fin da quando venne assolto per la settima volta il finanziere Calogero Pulici, stretto collaboratore della Principato e proprietario sia del pc che delle chiavette scomparse. Anni di indagini sul boss latitante, svanite nel nulla.
Ma non soltanto di questo si tratta, visto che ai supporti telematici scomparsi dall’interno del tribunale, fece seguito la cancellazione di tutti i dati contenuti nel computer sequestrato dagli inquirenti a casa del Pulici. Perché vennero cancellati questi dati sul computer personale del Pulici? Perché nessuno chiese a Pulici neppure di che marca fosse il computer scomparso dall’ufficio della Principato? Per quale motivo, la Guardia di Finanza che operò il sequestro del computer di Pulici presso la sua abitazione, dichiarò che si trattava del computer scomparso dagli uffici della procura, nonostante le palesi differenze persino della dimensione? Errori e sviste dovute all’improvviso venir meno della fiducia nei confronti di Pulici da parte della procura? Chi lo sa, quello che sappiamo per certo, le tante anomalie che riguardarono anche l’indagine su due magistrati, Marcello Viola e Teresa Principato, che durante quel periodo indagavano sulla latitanza di Matteo Messina Denaro. Due magistrati che proprio per questi fatti vennero indagati con l’infamante accusa dell’aggravante dell’articolo 7, l’aver favorito la mafia. Risulteranno poi estranei a ogni accusa, in quella che ha tutta l’apparenza di una guerra tra toghe.
Una guerra spietata. Viola, Principato e Pulici, nel 2015, sono oggetto di un’anonima lettera di minacce. A differenza di quello che accade in merito gli accertamenti sulla scomparsa dalla procura dei supporti telematici di Pulici, viene immediatamente avviata attività investigativa volta a individuare impronte papillari latenti sulla missiva. A tal proposito vennero effettuati accertamenti tecnici non ripetibili, di tipo biologico, per i quali si comunicava potevano partecipare consulenti o avvocati nominati dalle parti. Ovvero, dai destinatari della missiva minatoria. Inutile chiedersi quale fosse il dubbio, il “buon Giulio Andreotti” avrebbe dato immediatamente una risposta.
È il periodo in cui la magistratura indaga anche sulla scorta delle rivelazioni dell’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino, arrestato nel 2013 per truffa al Comune di Palma di Montechiaro, il quale narra agli inquirenti dell’esistenza di una “superloggia” che s’interessa degli appalti in Sicilia, guidata dal boss latitante Matteo Messina Denaro. Sia l’allora procuratore di Trapani Marcello Viola che il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato sentono Tuzzolino. È il finanziere Pulici a mettere a verbale le dichiarazioni dell’architetto che racconta di legami tra mafia, politica e massoneria, tracciando in particolare l’organigramma, la struttura e la mappatura di quest’ultima.
Tuzzolino è un fiume in piena. Racconta di incontri tra soggetti arrestati nell’operazione Cupola, di uomini di ‘cosa nostra’ che entrano a far parte della massoneria per potersi fare accreditare nel territorio del latitante di Castelvetrano.
Come per tutte le propalazioni dei collaboratori di giustizia, servono i riscontri. Era credibile Tuzzolino quando parlava di mafia, politica e massoneria? Era credibile quando dichiarava di conoscere Matteo Messina Denaro e di sapere dove si nascondesse il latitante? Questo forse non lo sapremo mai. Tuzzolino è stato poi dichiarato inattendibile, ma tutto quel che disse era frutto di fantasia? Sappiamo che in ogni caso le dichiarazioni del collaborante in quel momento non potevano essere ignorate e che il partecipare a quelle indagini faceva gola a molti.
Era trascorso qualche anno da quando Francesco Messineo, all’epoca procuratore di Palermo, aveva ordinato 49 arresti in provincia di Agrigento. Tra questi, quello di Leo Sutera, detto “il professore”, un capomafia che secondo la Principato poteva consentire agli inquirenti di arrivare a Matteo Messina Denaro, con il quale era in contatto. Secondo la Principato, le attività d’indagine dei Ros che da un pezzo seguivano le mosse di Leo Sutera, vennero mandate in fumo da quegli improvvidi arresti.
Bruciata quell’indagine, si apriva una nuova pista, proprio nel momento in cui sembrava che a Palermo si potesse arrivare a una collaborazione fattiva tra carabinieri e polizia, a tal punto da pensare a una comune centrale operativa ubicata nell’hangar di Bocca di Falco. Anche la Guardia di Finanza, nella persona del suo comandante, colonnello Francesco Mazzotta, scalpitava per entrare in gioco. È proprio lo stesso Mazzotta che infatti accompagnerà i magistrati Viola e Principato, nonché l’appuntato della Finanza Calogero Pulici, in un giro di perlustrazione con l’elicottero della Guardia di Finanza. Il fatto che Pulici da anni sia un fedele collaboratore della Principato, non può non giocare a favore della Guardia di Finanza per ottenere un ruolo nell’inchiesta.
Cosa accadde dopo non lo sappiamo. A un certo punto qualcosa si incrina nel rapporto con il Mazzotta, tant’è che è lo stesso, nella primavera del 2015, a lamentarsi con il Pulici del fatto che la Guardia di Finanza resti tagliata fuori dalle deleghe. Come se non bastasse, si avanza anche il timore di aver perso il collaborante Tuzzolino.
Calogero Pulici, improvvisamente nel settembre 2015 viene allontanato dalla Procura di Palermo poiché era venuta meno la fiducia nei suoi confronti. Viola e la Principato, indagati con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio con l’aggravante dell’articolo 7, ovvero di aver agevolato la mafia, per avere messo a repentaglio le indagini della Dda di Palermo.
A condurre le indagini, lo stesso colonnello della Guardia di Finanza che aveva accompagnato con l’elicottero del corpo i due magistrati e l’appuntato nel giro di perlustrazione.
Marcello Viola prosciolto nel merito, Teresa Principato assolta in appello e Calogero Pulici assolto per ben sette volte. Per i due magistrati la procura di Caltanissetta aveva chiesto l’archiviazione perché era “processualmente accertato un continuo rapporto di collaborazione e di scambio di atti tra le Autorità Giudiziarie di Trapani e Palermo”. Forse i magistrati titolari delle indagini, che a seguito delle stesse per le quali gli imputati vennero assolti fecero carriera, non tennero conto del rapporto di collaborazione tra due magistrati impegnati in delicate indagini sul latitante Matteo Messina Denaro, ipotizzando persino che avessero favorito la mafia. Così come chi condusse le indagini, che pure sapeva della collaborazione tra Viola e la Principato, forse dimenticò di avere pure accompagnato i due magistrati.
Tra indagini mandate in fumo – come nel caso di quella su Leo Sutera – beghe interne alle forze dell’ordine e alla magistratura, Matteo Messina Denaro continua a godersi beatamente la sua lunga latitanza.
Viola e la Principato, indagati con l’aggravante dell’articolo 7, se anche avessero avuto la velleità di ambire a altri importanti incarichi, in quel momento venivano stoppati. Per Viola era solo la prima volta, visto che di recente, in maniera alquanto anomala, è stata interrotta la sua corsa a procuratore di Roma, nonostante di lui il pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, nel corso di un’intercettazione a Luca Palamara, avesse detto che era l’unico non ricattabile. E su questo, forse per mancanza di coraggio ma non certo per incapacità di analisi, non ci sentiamo di parafrasare il “buon Giulio Andreotti” in merito al pensar male…
Le incognite, purtroppo, rimangono altre alle quali nessuno sembra voler dare una risposta: Perché far partire le operazioni dei depistaggi dal 1996, quando è nel ‘91 che Matteo Messina Denaro organizza le stragi e nonostante un collaboratore di giustizia ne conosca il ruolo omicidiario non ne parla? In che misura incise l’indagine mafia-appalti nel determinare le stragi di Capaci e via D’Amelio? Perché ancora oggi si fa così tanta fatica a parlarne? Era totalmente inattendibile Tuzzolino? Cosa contenevano le chiavette e il pc di Pulici scomparsi dalla Procura?
Sulle brillanti carriere di alcuni magistrati, sulle smanie di protagonismo e gli errori eclatanti, torneremo a breve, raccontando anche di come venne distrutta la possibilità di una collaborazione tra forze dell’ordine che forse avrebbe impedito che il boss stragista restasse uccel di bosco per 27 anni.
Gli antagonismi all’interno delle forze dell’ordine e della magistratura, possono giustificare tutto quello che è accaduto?