Matteo Messina Denaro (Castelvetrano, 26 aprile1962) affiliato a Cosa nostra, soprannominato ‘U siccu («il magro»), a causa della sua costituzione fisica, o anche Diabolik,[1] ed è considerato tra i latitanti più ricercati e pericolosi al mondo.[2] Capo e rappresentante indiscusso della mafiatrapanese, risulta essere attualmente il boss più ricco e potente di tutta Cosa nostra, arrivando a esercitare il proprio potere ben oltre i confini della propria provincia, come in quelle di Agrigento e addirittura Palermo.[3] Per quanto tradizionalmente il potere assoluto sull’intera organizzazione non possa essere concentrato nelle mani di un padrino estraneo a Palermo, e sebbene dopo la morte di Salvatore Riina non vi siano più state prove di un’organizzazione piramidale di Cosa nostra, alcuni inquirenti si sono esplicitamente riferiti al latitante castelvetranese come all’attuale capo assoluto[4] Altre fonti, attualmente più realistiche, vedono il boss ormai esclusivamente alle prese con la propria latitanza, forse anche lontano dalla Sicilia, formalmente solo con il ruolo di referente mafioso della Provincia di Trapani ma senza un ruolo attivo all’interno di Cosa Nostra[5][6]. Messina Denaro è figlio di Francesco Messina Denaro, fratello di Patrizia Messina Denaro e zio di Francesco Guttadauro. Matteo Messina Denaro ricopre il ruolo di capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento. Negli anni successivi il collaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio dichiarerà che si trattava di «un giovane rampante, anche se non è già capo, e suo padre gli ha dato un’ampia delega di rappresentanza del mandamento».[7] Insieme col padre, Messina Denaro svolgeva l’attività di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì Staiti, già proprietari della Banca Sicula di Trapani (il più importante istituto bancario privato siciliano) e delle saline di Trapani e Marsala.[7] Nel 1989 Messina Denaro venne denunciato per associazione mafiosa,[8] mentre nel 1991 si rese responsabile dell’omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina, che si era lamentato con la sua impiegata austriaca (che era anche l’amante di Messina Denaro) di «quei mafiosetti sempre tra i piedi»[9].
Nel 1992 Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, che venne inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti del presentatore televisivo Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli, facendo uso di kalashnikov, fucili e revolver, procurati da Messina Denaro stesso[7]; qualche tempo dopo, però, il bossSalvatore Riina fece ritornare il gruppo di fuoco, perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito diversamente[10][11]. Nel luglio 1992 Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio di Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo), che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all’autorità di Riina; pochi giorni dopo, Messina Denaro strangolò barbaramente anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi: i due cadaveri furono poi seppelliti nelle campagne di Castellammare del Golfo[12][13]. In seguito, Messina Denaro fece anche parte del gruppo di fuoco che compì il fallito attentato al vicequestore Calogero Germanà, a Mazara del Vallo (14 settembre 1992)[14][15].
Dopo l’arresto di Riina, Messina Denaro fu favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi, insieme con i bossLeoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano[16][17]; gli attentati dinamitardi a Firenze, Milano e Roma provocarono in tutto dieci morti e 106 feriti, oltre a danni al patrimonio artistico[18]. Nell’estate1993, mentre avvenivano gli attentati dinamitardi, Messina Denaro andò in vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e, da allora, si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza: infatti nei suoi confronti venne emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori[7][19].
Nel novembre 1993 Messina Denaro fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteoper costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci; infine, dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido[20]. Nel 1994 Messina Denaro organizzò un attentato dinamitardo contro il pentito Totuccio Contorno, insieme con Giovanni Brusca[21]; tuttavia l’esplosivo, collocato in una cunetta ai lati di una strada nei pressi di Formello, dove Contorno passava abitualmente, venne scoperto dai Carabinieri, avvertiti dalla telefonata di un cittadino, insospettito da alcuni movimenti strani[22]. Nel 1998, dopo la morte del padre Francesco (stroncato da un infarto durante la latitanza), Messina Denaro è diventato capomandamento di Castelvetrano e anche rappresentante mafioso della provincia di Trapani[23]. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori ha dichiarato che nel 1994 Messina Denaro si recò nella clinica oculistica Barraquer di Barcellona, in Spagna, per curare una forte miopia che lo aveva condotto a una forma di strabismo[19]. Nel 2004 il SISDE tentò di individuare Messina Denaro attraverso Antonino Vaccarino (ex sindaco di Castelvetrano già inquisito per associazione mafiosa), sfruttando le numerose conoscenze che Vaccarino aveva negli ambienti vicini a Cosa Nostra; infatti l’ex sindaco, per conto del SISDE, riuscì a stabilire un contatto con Messina Denaro proponendogli numerosi investimenti negli appalti pubblici per attirarlo in trappola: le comunicazioni con il latitante avvenivano attraverso pizzini in cui Messina Denaro usava lo pseudonimo di “Alessio” mentre Vaccarino quello di “Svetonio”; l’ex sindaco riuscì anche a prendere contatti con il bossBernardo Provenzano attraverso il nipote Carmelo Gariffo[24]. L’11 aprile 2006, nel casolare di Corleone dove venne arrestato Provenzano, gli inquirenti trovarono numerosi pizzini mandati da “Alessio”, nei quali si parlava degli investimenti proposti da Vaccarino ma anche di altri affari in attività lecite, come l’apertura di una catena di supermercati nella provincia di Agrigento e la ricerca di qualche prestanome per poter aprire un distributore di benzina nella zona di Santa Ninfa, in provincia di Trapani[7]. In seguito all’arresto di Provenzano, Messina Denaro interruppe la corrispondenza con Vaccarino, inviandogli un ultimo pizzino in cui gli raccomandava “di condurre una vita trasparente in modo da non essere coinvolto nelle indagini”[24]. Nel giugno 2009 gli agenti del Servizio Centrale Operativo e delle squadre mobili di Trapani e Palermo condussero l’indagine denominata “Golem”, che portò all’arresto di tredici persone tra mafiosi e imprenditori trapanesi, accusati di favorire la latitanza di Messina Denaro fornendogli documenti falsi ma anche di gestire estorsioni e traffico di stupefacenti per conto del latitante[25]. Successivamente, nel marzo 2010 la DDA di Palermo coordinò l’indagine “Golem 2”, condotta sempre dagli agenti dal Servizio Centrale Operativo e delle squadre mobili di Trapani e Palermo, che portò all’arresto di altre diciannove persone a Castelvetrano, accusate di aver compiuto estorsioni e incendi dolosi per conto di Messina Denaro ai danni di imprenditori e politici locali; tra gli arrestati figurarono anche il fratello del latitante, Salvatore Messina Denaro, e i suoi cugini Giovanni e Matteo Filardo[26][27]. Il 27 luglio 2010il collaboratore di giustizia Manuel Pasta dichiarò che Messina Denaro, nonostante le estenuanti ricerche e gli arresti attorno a lui, avrebbe visto con alcuni mafiosi palermitani la partita di calcio Palermo-Sampdoria, giocata in casa allo stadio Renzo Barbera il 9 maggio 2010. La partecipazione all’incontro sportivo sarebbe stata solo una parte di un incontro tra il latitante e altri capi della provincia per discutere sull’organizzazione di nuovi attentati dinamitardi contro il palazzo di giustizia e la squadra mobile di Palermo, in risposta ai numerosi arresti contro esponenti mafiosi[28][29]. Inoltre nel 2010 Messina Denaro è stato inserito dalla rivista Forbes nell’elenco dei dieci latitanti più pericolosi del mondo[2].Nel 2015l’emittente Radio Onda Blu fornisce le immagini satellitari della sua presunta abitazione a Baden, in Germania, e della sua auto.[30][31] Tuttavia in seguito a questo fatto non si sono avute conferme né smentite ufficiali. Salvatore Rinzivillo, arrestato in un’operazione coordinata dalle Procure antimafia di Roma e Caltanissetta,[32] era stato pedinato e si è visto che si recava a Castelvetrano, il paese di Messina Denaro, dove ha incontrato un uomo che non è stato identificato ma che risponde alla descrizione di Messina Denaro. Non è stato possibile comunque risalire all’identità di questa persona, che potrebbe rappresentare quindi una svolta positiva nelle indagini o un altro binario morto. Tuttavia l’indagine ha portato un risultato positivo, perché ha condotto all’arresto dell’agente dei Servizi segreti Marco Lazzari, che stava proteggendo la latitanza di Matteo Messina Denaro.[33] La Direzione Investigativa Antimafia ha sequestrato alcune società riconducibili a Gianfranco Becchina, che era stato indagato per traffico di reperti archeologici.[34] Tra i beni sequestrati risulta anche un’ala del castello di Castelvetrano di Federico II del 1239, divenuto Palazzo ducale dei principi Pignatelli. Poche ore dopo il sequestro, scoppia un incendio nell’ala del palazzo appena sequestrato e alcuni documenti vengono distrutti. In seguito a ciò è stata avviata un’indagine.[35] Il 13 marzo 2018 viene annunciato l’arresto, da parte di carabinieri e DIA, di 12 capimafia e gregari che avrebbero provveduto al mantenimento di Matteo Messina Denaro.[36] Il 29 ottobre 2018 la polizia arresta Leo Sutera, amico di Matteo Messina Denaro e considerato il capo della mafia di Agrigento. Leo Sutera era già stato arrestato nel 2012, ma l’arresto aveva suscitato forti polemiche, perché si riteneva che continuando a sorvegliarlo, come si stava già facendo da due anni, Sutera avrebbe condotto le forze dell’ordine allo stesso Matteo Messina Denaro, con il quale aveva affermato di essersi incontrato poco prima. All’epoca i carabinieri volevano continuare a sorvegliare Sutera, mentre la polizia guidata dal procuratore capo di Palermo Francesco Messineo decise di arrestarlo.[37][38] Un pentito ha affermato che il latitante si sarebbe sottoposto ad un intervento di chirurgia plastica al volto, per non essere riconoscibile. L’intervento sarebbe avvenuto in Piemonte o in Valle D’Aosta.[39] Un informatore ha invece affermato al contrario che Matteo Messina Denaro si è fatto la plastica in Bulgaria, sia al volto sia ai polpastrelli, per non essere riconoscibile. Inoltre ha sostenuto che il latitante ha problemi di salute: non ci vede quasi più ed è in dialisi. Il testimone ha raccontato che Messina Denaro si è recato più volte a Pisa e a Lamezia Terme, e che sarebbe protetto dalla ‘ndrangheta. Sul suo racconto ha indagato la Procura distrettuale antimafia di Firenze.[40] Lo stesso informatore ha portato i magistrati a dire: «si può senza dubbio affermare come i soggetti indagati hanno costruito una stabile organizzazione finalizzata a compiere molteplici fatti illeciti.» […] «L’organizzazione è ben radicata sul territorio nazionale, in primis in Toscana e in Calabria, e si avvale senza dubbio di soggetti che hanno contatti con l’estero, quantomeno Svizzera, Germania e Nord Africa». […] «allo stato attuale delle indagini è emerso che al di sopra dei soggetti indagati ed intercettati vi è una figura non ancora identificata, la quale viene spesso menzionata durante le conversazioni.»[41] La sua latitanza è stata finanziata anche con il gioco d’azzardo, praticato in Sicilia e a Malta, dove l’imprenditore Carlo Cattaneo, attivo a Castelvetrano, il paese natale di Messina Denaro, si è recato più volte.[42] Messina Denaro ha legami anche con il Venezuela, dove alcune persone legate al latitante hanno gestito i suoi interessi.[43] Secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori e l’ex senatore Vincenzo Garraffa[44], nel 1994 Messina Denaro si attivò per fare votare Antonio D’Alì (rampollo della famiglia D’Alì Staiti per la quale il padre aveva lavorato), candidato nelle liste del Popolo della Libertà, per l’allora nuovo movimento politico “Forza Italia”: infatti alle elezioni politiche del marzo quell’anno D’Alì risultò eletto al Senato con 52 000 voti nel collegio senatoriale di Trapani-Marsala, e venendo rieletto per altre tre legislature[7], mentre nel territorio del mandamento di Messina Denaro (collegio Mazara-Castelvetrano) fu eletto Ludovico Corrao. D’Alì nel 2001 venne nominato sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno nei Governi Berlusconi II e III fino al 2006[45]. Sinacori dichiarò inoltre che «era risaputo che i D’Alì con i Messina Denaro erano in buoni rapporti, se qualcuno aveva bisogno, poteva andare a chiedere ai Messina Denaro di intercedere»[46]; tuttavia la famiglia D’Alì Staiti si difese dichiarando che licenziarono Messina Denaro dopo aver saputo che si era reso latitante[7]. Un altro collaboratore di giustizia, Francesco Geraci (ex gioielliere e mafioso di Castelvetrano), dichiarò che nel 1992Antonio D’Alì cedette alcuni suoi terreni nei pressi di Castelvetrano a Messina Denaro, il quale li regalò al bossSalvatore Riina; il prestanome della transazione fu Geraci stesso. Inoltre nel 1998 i documenti acquisiti dalla Commissione Parlamentare Antimafia fecero emergere che nel 1991 Messina Denaro (all’epoca ufficialmente agricoltore) aveva percepito un’indennità di disoccupazione di quattro milioni di lire attraverso Pietro D’Alì, fratello di Antonio[7]. Nell’ottobre 2011 la procura di Palermo chiese il rinvio a giudizio nei confronti del senatore D’Alì per concorso esterno in associazione mafiosa a causa dei suoi rapporti con Messina Denaro e altri mafiosi della provincia di Trapani, sempre smentiti pubblicamente dal senatore[47]; il 30 settembre 2013 D’Alì venne assolto soltanto per i fatti successivi al 1994 mentre i giudici dichiararono la prescrizione per quelli precedenti, nonostante l’accusa avesse chiesto una condanna a sette anni e quattro mesi di carcere[48]. Nel 2007 venne arrestato l’imprenditore Giuseppe Grigoli, proprietario dei supermercati Despar nella Sicilia occidentale, il quale era accusato di essere favoreggiatore e prestanome di Messina Denaro, che investiva denaro sporco nei suoi supermercati[49]; nel 2011 Grigoli venne condannato a dodici anni di carcere per riciclaggio di denaro sporco mentre nel settembre 2013 il tribunale di Trapani dispose la confisca di società, terreni e beni immobiliari di proprietà di Grigoli dal valore di 700 milioni di euro[50][51][52]. Nel 2010 la Direzione Investigativa Antimafia di Palermo mise sotto sequestro numerose società e beni immobili dal valore complessivo di 1,5 miliardi di euro, le quali appartenevano all’imprenditore alcamese Vito Nicastri, ritenuto vicino a Messina Denaro: tra il 2002 e il 2006 Nicastri aveva ottenuto il più alto numero di concessioni in Sicilia per costruire parchi eolici e secondo gli inquirenti il suo patrimonio sarebbe frutto del reinvestimento di denaro sporco[53][54]. Il 12 marzo 2012 la Direzione Investigativa Antimafia di Trapani chiese il sequestro del patrimonio dell’imprenditore Carmelo Patti, proprietario della Valtur, considerato anch’egli favoreggiatore e prestanome di Messina Denaro[55]; il sequestro di oltre un miliardo e mezzo di euro[56] è stato eseguito nel novembre 2018. Nel dicembre 2012 un’indagine coordinata dalla DDA di Palermo e condotta dai Carabinieri portò all’arresto di sei persone, tra cui l’imprenditore Salvatore Angelo, il quale era accusato di investire il denaro sporco di Messina Denaro nella costruzione di parchi eolici fra Palermo, Trapani, Agrigento e Catania, destinando una percentuale degli affari al latitante; inoltre nelle telefonate intercettate dai Carabinieri, Salvatore Angelo si vantava di essere amico di Messina Denaro[57]. Il 28 novembre 2013 il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè riferì che l’archivio di Totò Riina, che fu trafugato dal covo del boss nel 1993 dopo il suo arresto, è in parte nelle mani di Matteo Messina Denaro, vero e proprio pupillo del boss corleonese[58]. Il 6 dicembre 2013 la DIA sequestra all’imprenditore palermitano Mario Niceta, settantunenne, presunto prestanome del boss Messina Denaro, 50 milioni di euro in immobili e quote di società operanti nel settore della vendita di abbigliamento e preziosi. A incastrarlo, i pizzini ritrovati nel covo di Bernando Provenzano. Pizzini in cui Messina Denaro faceva riferimento a un certo “Massimo N.”[59]. Il 13 dicembre 2013 vengono arrestati 30 fiancheggiatori di Messina Denaro nell’ambito dell’operazione “Eden” nella provincia di Trapani. Negli arrestati figurano anche la sorella del boss Patrizia Messina Denaro e il nipote prediletto ventinovenne Francesco Guttadauro.[60] Secondo il procuratore aggiunto Teresa Principato, dopo questa operazione il cerchio attorno al capo della mafia si è ristretto e dunque ora dopo l’arresto dell’intera famiglia, il boss è solo Esponenti di una cosca vicina a Matteo Messina Denaro sono stati arrestati per aver trasferito in Sicilia una somma di denaro guadagnata con l’allestimento di alcuni stand dell’EXPO di Milano del 2015.[61] Le indagini hanno portato a indagare anche il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona[62][63]. Anche a San Marino si è trovato un legame: un professionista ha avuto contatti email con uno stretto collaboratore di Matteo Messina Denaro.[64][65] Nel maggio del 2013 il maresciallo capo dei carabinieriSaverio Masi ha presentato una denuncia alla procura di Palermo contro i suoi superiori, asserendo che nel 2004, quando prestava servizio al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Palermo, individuò per la strada il superboss latitante Messina Denaro, a bordo di una utilitaria, e di averlo seguito fino all’ingresso di una villa. Ma una volta denunciato il fatto ai superiori, questi gli avrebbero intimato di non proseguire nelle indagini. Per gli stessi fatti – tra gli altri – Masi è stato a sua volta denunciato per calunnia alla Procura della Repubblica di Palermo dagli ufficiali da lui accusati. Il 24 aprile 2015 il maresciallo Masi è stato condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione per i reati di falso materiale e tentata truffa aggravata, in relazione al tentativo di ottenere l’annullamento di una contravvenzione stradale. In conseguenza di tale vicenda, nel dicembre 2008 venne trasferito dal Nucleo Investigativo. Oggi Masi è capo scorta del pubblico ministeroNino Di Matteo.[66] Secondo gli inquirenti, tra il 1994 e il 1996 Messina Denaro trascorse la sua latitanza tra Aspra e Bagheria, ospitato dalla sua compagna Maria Mesi, con cui andò in vacanza in Grecia sotto il falso nome di “Matteo Cracolici“[7]. Paola e Francesco Mesi, sorella e fratello di Maria, erano stati assunti nella clinica di Bagheria dell’ingegnere Michele Aiello (ritenuto un prestanome del bossBernardo Provenzano): in particolare Paola Mesi era segretaria personale di Aiello e amministratrice unica della Selda s.r.l., società riferibile ad Aiello stesso[68]; inoltre Messina Denaro era cognato di Filippo Guttadauro (fratello del medico Giuseppe, capomandamento di Brancaccio-Ciaculli), che ne aveva sposato la sorella Rosalia. Nel 2000 la polizia arrestò Maria Mesi e trovò alcune lettere d’amore che aveva scambiato con il latitante: per queste ragioni l’anno successivo venne condannata a tre anni di carcere per favoreggiamento insieme con il fratello Francesco[69]. Inoltre nel luglio 2006 gli inquirenti trovarono altre lettere d’amore di Maria Mesi a casa di Filippo Guttadauro,[70] che aveva incarico di consegnarle al cognato Messina Denaro[71]. Nel 1995 Messina Denaro aveva già avuto una figlia da una precedente relazione con la castelvetranese Francesca Alagna, che dopo il parto andò a vivere insieme con la madre del latitante[7]. In una lettera destinata a un amico, sequestrata dagli inquirenti, Messina Denaro rivelò di non aver mai conosciuto questa figlia[1]. Nel 2013 il settimanale L’Espresso pubblicò un servizio, nel quale rivelava che la figlia del latitante aveva lasciato la casa della nonna paterna insieme con la madre, perché voleva vivere lontana da quella famiglia[72]
A scuola di mafia a Corleone da Totò Riina, Matteo era la sua “creatura”
Che poi Salvatore Riina lo diceva sempre: Matteo era una sua creatura.
Sin da quando era ragazzino avevano avuto un legame particolare: in pratica, Matteo andava a scuola da Riina. Ed era una classe speciale, quella del maestro Totò: c’era il meglio dei rampolli di Cosa nostra; i predestinati, quelli che avrebbero tramandato sangue e mafiosità e che avrebbero gestito la nostra macchina fabbricapiccioli, dato che facevamo soldi ovunque e comunque.
Era una scuola d’élite, e infatti non tutti ne facevano parte, ma solo pochi eletti: Madonia, Graviano, questo gruppo qua, insomma. Con la differenza che tutti erano già noti alle forze dell’ordine. Graviano, per dire, era ricercato dal 1984.
Matteo, invece, era l’unico che ancora era invisibile pure per gli sbirri. E come sempre accade nella nostra storia, questa alta scuola di formazione e specializzazione in mafia & affini del maestro Riina non era solo un gesto filantropico, ma aveva dell’altro.
Perché i ragazzi dotati come Matteo avevano bisogno della saggezza di Riina per sapere sfruttare meglio il loro prestigio, è vero – perché quello che vale per l’Uomo Ragno vale anche per noi: da un grande potere derivano sempre grandi responsabilità –, ma Riina aveva anche bisogno di farsi degli amici, magari giovani, fidati, sempre per l’ossessione che aveva di spiare tutti e tutto controllare.
E se mettere qualche osservatore, diciamo così, in un mandamento era cosa facile, crescere delle spie in casa, far fare ai figli le spie nei confronti dei padri, be’, questo, bisogna riconoscerlo, era un’idea geniale. E quindi il signor Totuccio voleva una classe di uomini eccezionali e fedeli come carabinieri, se ci potete perdonare l’audace paragone, ma il senso è quello.
Tanto che, più in là, quando ha avvertito, con il sesto senso che hanno i cani di mànnara, che la sua ora era giunta e che qualcuno era pronto a tradirlo come Giuda, e a consegnarlo, ci ha preso in disparte e ci ha detto: se mi succede qualcosa… ci sono i picciotti… Matteo e i Graviano sanno.
Ogni dettaglio, ogni progetto, ogni strategia. Sanno. E dispiace un po’ che poi, in quelle intercettazioni fatte in carcere, mentre passeggiava con questo Alberto Lorusso (il capo dei capi ridotto a fare confidenze a un pregiudicato pugliese, che triste fine…), Riina non si sia lasciato andare alla malinconia dei ricordi, del maestro che si vanta di avere avuto l’allievo diventato famoso, il migliore dei suoi diplomati (ma già si capiva, ah, sapesse, che testa, che sagacia, e giù magari a raccontare aneddoti e storielle… quando mai!), ma anzi, preso dall’aterosclerosi e dal rancore stupido dei vecchi, ha buttato veleno su Matteo e lo ha in pratica rinnegato: so padri bonarmuzza era un bravo cristiano, mi duna ’stu figghiu pi farini chiddru c’aviva a fari… stette quattro, cinc’anni cu mia… andava bene. Minchia, poi si mise a fare pala d’a luci, pala d’a luci a tutti i banni…
E poi un’altra volta, sempre su Matteo: l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa perché era dritto… ’u patri bono l’aveva avuto, bono era, il ragazzo aveva avuto questa scuola che ci fici io… minchia. E ci siamo tanto interrogati su queste parole amare di Riina del 2013. E c’erano quelli tra noi che erano disgustati, come quando ti capita la mennula, la mandorla acre in bocca, sia per la trappola in cui era caduto colui che si riteneva il più furbo di tutti, sia per il modo in cui aveva trattato Matteo e un po’ tutti noi, come se con l’affare delle pale eoliche non avessimo pagato anche un po’ i suoi avvocati… E c’erano quegli altri che dicevano che si trattava alla fine di un vecchio rincoglionito, che avrebbe anche potuto raccontare tutto a un ladro di polli nell’ora d’aria di un carcere milanese, ma tanto non gli avrebbe creduto nessuno; ormai la sua testa era andata, si poteva anche avvelenare, che da noi poi il veleno ha il sapore della mandorla amara.
Ma c’era infine chi ci spiegava: non lo capite? Non lo capite che lo fa apposta? Per difendere Matteo, per mettere distanza, per riconoscere il segno compiuto di un passaggio? Ma non lo capite che è una dichiarazione d’amore? Il maestro dice addio alla sua creatura, al suo terribile successore, e lo fa a modo suo.
Ci sta dicendo che adesso è pronto a mollare tutto e a dimenticare tutto, altroché, a morire nelle sue stelle buie. E altro che mandorle amare, ci sta lasciando con la promessa che tutto muore e rinasce sempre, come ci insegna a ogni fine gelata di febbraio il mandorlo in fiore.
Chi è davvero Matteo Messina Denaro: piccola storia dell’ultimo dei Corleonesi dalla gioventù da viveur alla maturità stragista
«Manco di morto unnarrinisceru a pigghiariti. Manco di morto». È il 3 dicembre 1998. La scena è quella di un funerale siciliano. Vestito di tutto punto c’è il morto. E quelle parole le pronuncia la vedova mentre, come nel più classico degli stereotipi, abbraccia la bara. Lei si chiama Lorenza Santangelo. Il morto all’anagrafe è Francesco Messina Denaro, ma per tutti è Don Ciccio. Qualche giorno prima, il 30 novembre, una telefonata al commissariato di Castelvetrano avvertiva che c’era un cadavere davanti a un cancello in contrada Airone, nelle campagne che confinano con Mazara del Vallo. I poliziotti partono pensando a un barbone morto di freddo. E invece trovano lui, latitante da dieci anni e accusato di omicidio e associazione mafiosa. Già vestito per il rito funebre. In tasca ha due santini: quello di San Francesco e quello della Madonna Libera di Partanna. Nel frattempo qualcuno aveva avvertito anche Lorenza. Che si presenta davanti ai poliziotti, li saluta. Poi copre il cadavere con una pelliccia di Astrakan. «Unnarrinisceru a pigghiariti», non sono riusciti a prenderti nemmeno da morto.
Il figlio di Don Ciccio
Matteo Messina Denaro è stato il boss dei due mondi. Il trait d’union tra la Cosa Nostra delle stragi e la Cosa Grigia di oggi. È l’uomo che Totò Riina si vantava di aver cresciuto «sulle sue ginocchia». Ma il Capo dei Capi con lui non è sempre stato così tenero: «A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare ma non si interessa di noi». E ancora: «Questo fa i pali della luce (il fotovoltaico in Sicilia, ndr). Ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce». Un rapporto dell’Antimafiainvece descrive così il figlio di Don Ciccio: «È un mafioso di altra generazione, capace di sopravvivere in povertà, isolamento e privazione e di esser al contempo un gran viveur. A Castelvetrano, nella provincia trapanese, veniva spesso notato in gioventù mentre scorrazzava in Porche verso il lido di Marina di Selinunte. Pantaloni Versace, Rolex Daytona, foulard. Quando Riina lo incaricò di pedinare Falcone, Martelli e Maurizio Costanzo a Roma, a fine ’91, lui, racconta uno dei boss ora pentito che lo accompagnava, il mazarese Vincenzo Sinacori, trovava sempre il tempo di fare una buona scorta di camicie nel negozio più esclusivo di via Condotti e andava a mangiare nei locali più rinomati».
La famiglia
Chissà se il 16 gennaio 2023, quando viene arrestato nella clinica La Maddalenadi Palermo mentre aspetta il suo turno per la chemioterapia, ‘U Siccu si sente sconfitto. Per non essere stato capace di quello che è riuscito a fare il padre. Ovvero di non farsi prendere se non da morto. Lui, Don Ciccio, è morto per cause naturali come accerterà l’autopsia. Era malato alla prostata, aveva un solo rene. Crepacuore, dirà il dottore. Forse perché il giorno prima gli “sbirri” gli hanno arrestato l’altro figlio maschio, Salvatore. Durante il funerale il prete gli dà l’assoluzione e avverte: «La vicenda umana del nostro fratello la sa solo Dio. Gli uomini non possono giudicarla». Il padre ha vissuto dieci anni di latitanza. Il figlio è arrivato a trenta. E l’ultimo dei Corleonesi è il testimone d’eccellenza della storia della mafia italiana. Che ha visto trasformarsi da contadina a finanziaria. E che ha contribuito a cambiare. Ma senza essere capace di recidere quelle radici troppo profonde per la forza di un uomo solo. Le radici, la famiglia, la storia: un intreccio che è molto di più di una faida che va avanti da secoli, come dice Kay Adams a Michael Corleone. E che comunque, come diceva qualcuno, ha avuto un inizio e avrà una fine. Anzi. Con il suo arresto una prima fine è già arrivata. L’inizio invece è difficile da circostanziare. Per farlo bisogna riprendere i contorni di una piccola grande storia di mafia.
Una storia di mafia
Matteo Messina Denaro nasce a Castelvetrano il 16 aprile del 1962. È il secondo figlio maschio di “Messina Denaro Francesco”, che la polizia descrive come «fu Salvatore, nato a Castelvetrano il 20.01.1928, il personaggio mafioso più autorevole della Valle del Belice, già capo mandamento della famiglia di Castelvetrano e componente della commissione regionale di “Cosa nostra”». La madre è Lorenza Santangelo. Il fratello maggiore Salvatore ha nove anni più di lui e di mestiere fa il funzionario di Banca Sicula e Comit. Quattro le sorelle. Rosalia Messina Denaro è nata a Castelvetrano nel 1955. È coniugata con il mafioso Filippo Guttadauro. Giovanna è del 1960 ed è coniugata con il mafioso Rosario Allegra. Più piccole di lui sono invece Bice Maria e Anna Patrizia. Quest’ultima, nata il 18 settembre 1970 e coniugata con il mafioso Vincenzo Panicola, ha ricevuto una condanna a 14 anni di carcere con il nipote Francesco Guttadauro per una tentata estorsione all’erede della sua madrina di battesimo. «Non faccio parte di Cosa nostra. Io pago per il cognome che porto, ma di cui sono orgogliosa. Da vent’anni non ho contatti con mio fratello Matteo», dice davanti al tribunale di Marsala nel 2014. Secondo gli investigatori per anni ha invece fatto la postina per conto del fratello, recapitando pizzini e prendendo le sue veci anche negli affari “da uomini”. In un video del 2013 parlava con il marito Vincenzo Panicola nei colloqui in carcere, rideva e scherzava. Ma era un tentativo di ingannare chi stava registrando. I marito aveva chiesto alla moglie di chiedere al fratello l’autorizzazione a uccidere in carcere Giuseppe Grigoli, imprenditore in odor di pentimento. Patrizia aveva incontrato almeno due volte il fratello e aveva riportato, tra una risata e l’altra, la volontà del Capo: «Che nessuno lo tocchi». E così andò.
Flashback. Francesco Messina Denaro nasce a Castelvetrano nel 1928. Sulla sua carta d’identità c’è scritto lo stesso mestiere di tanti altri capi: contadino. Svolgeva infatti la professione di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì, che sono anche i proprietari della Banca Sicula in cui troverà lavoro il figlio Salvatore. I proprietari terrieri hanno bisogno di chi gli amministri il latifondo mentre fanno affari in città. Don Ciccio è l’amministratore dei D’Alì. Il campiere dell’azienda agricola Zangara. Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un uomo di poche, pochissime parole, che portava il fazzoletto al collo e la coppola. Francesco parla soltanto in siciliano stretto, e dice poco anche con quello. Uno schiocco di lingua per dire no, un cenno della testa per dire sì. Amava i film «di sparare», ovvero i Western. Nino Giuffré, padrino palermitano, dirà che grazie ai suoi insegnamenti «ho aperto gli occhi e ho capito tante cose che di solito non vengono dette verbalmente, ma solo con un sorriso, uno sguardo, un gesto». Giuffré è uno dei tanti picciotti che Riina gli manda da formare e che lui gli restituisce come uomini già fatti. Don Ciccio è una personalità in tutta la Sicilia. Quando viaggia tutti gli porgono il dovuto omaggio. E a volte lui si porta dietro quel figlio che pare un predestinato. Non Salvatore, il più grande e quello che porta il nome del nonno.
Gli affari di Don Ciccio
Don Ciccio lo conoscono tutti. Ha rapporti con le famiglie degli Stati Uniti. Gli aneddoti raccontano di suoi frequenti viaggi in Tunisia con un gommone. Gli stessi che una lettera anonima del 2010 attribuirà al figlio. Ogni tanto incontrava qualcuno che gli parlava di un problema da risolvere. Lui ascoltava, stava zitto per un po’ e poi rispondeva: «Quando c’è poco in una famiglia bisogna sacrificarsi». Oppure: «Chi vuole pace in morte cerchi pace in vita». Stava poi all’interlocutore cercare di capire il significato del messaggio. Ma di certo poi succedeva regolarmente qualcosa: un campo andava a fuoco, il prezzo delle olive aumentava compensando le annate scarse, qualcuno decideva improvvisamente di partire per un lungo viaggio. Senza fare ritorno. Don Ciccio, raccontano, è amico di Riina che lo sceglie come capomandamento della provincia.
Un capo diplomatico
Ma rispetto al Capo dei Capi che nel frattempo ha vinto la Seconda Guerra di Mafia lui ha meno voglia di risolvere le questioni con le maniere spicce. Lo descrivono come un diplomatico. Anche se i collaboratori di giustizia gli attribuiscono una ventina di omicidi. Ma gli affari di Don Ciccio non si permette nessuno di disturbarli fino al 1988, quando due pentiti lo accusano di essere il mandante dell’omicidio di Mauro Rostagno. Il 23 gennaio 1990 l’allora procuratore capo di Marsala Paolo Borsellino, sulla base delle indagini condotte dal commissario Calogero Germanà detto Rino, chiede per lui la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni in quanto «esponente di primo piano della mafia del Belice». Il tribunale di Trapani rigetta la richiesta. Borsellino emette un mandato di cattura nei suoi confronti per associazione mafiosa. Ma lui è già latitante da due anni.
Il piccolo Matteo
«Da bambino l’ho tenuto sulle ginocchia. Era un ragazzino vivace, occhi verdi trasparenti, molto bravo a scuola». Così lo racconta Maria Antonetta Aula, prima moglie di Antonio D’Alì, senatore di Forza Italia condannato a sei anni di carcere per associazione mafiosa. Il piccolo Matteo è un ragazzino un po’ ribelle. Tutti sanno di chi è figlio. E quindi pochi, anzi nessuno osa contraddirlo. Si diverte nella tenuta del padre (pardon: dei D’Alì), lava la macchina e arrostisce la carne sotto lo sguardo del padre. Che chissà perché sceglie lui e non Salvatore per succedergli. Frequenta le elementari nella scuola Ruggero Settimo, le medie all’istituto comprensivo Capuana-Pardo. Si iscrive poi all’Istituto Tecnico Commerciale Ferrigno di Castelvetrano. Si ritira al terzo anno. Prova a iscriversi al quinto anno di un altro istituto per dare l’esame di maturità, ma abbandona definitivamente ritirandosi alla fine del 1982. Lo chiamano ‘U Siccu perché è norma avere un soprannome, una ‘ngiuria da quelle parti.
Diabolik
Ma a lui piacerebbe di più che lo chiamassero Diabolik, come l’antieroe dei fumetti che beffa sempre la polizia. Gira per le province dell’impero come un principe destinato a diventare re. Prima su una Bmw E30, poi arrivano la Lancia Delta Integrale e la Porsche Carrera. Al polso ha un cronografo d’oro, gli abiti vengono sempre dalle migliori sartorie. È bello, o meglio: ha fascino. Ama giocare a carte, preferisce lo Chemin de Fer. Una volta in un circolo lo vedono accendersi una sigaretta con un assegno da 800 mila lire. Erano i soldi persi da un amico. Le ragazze fanno la fila per lui. Che però nel frattempo sta già imparando un mestiere: il primo colpo lo spara a 14 anni. A 17 anni il primo omicidio, secondo quanto avrebbe raccontato a lui stesso concludendo la frase con un significativo «con i morti che ho fatto io ci si potrebbe fare un cimitero». Ma di mestiere a partire dai 18 anni fa il contadino come bracciante al servizio di Pietro D’Alì, fratello di Antonio. Poi percepisce l’indennità di disoccupazione dall’Inps fino al 1991: 180 euro al mese per 12 anni.
La miopia e le donne
Anche lui ha un punto debole. È quella forte miopia che cerca di nascondere dietro quei Ray-ban scuri che diventeranno un suo marchio. Forse è affetto dal cosiddetto strabismo del miope elevato. L’occhio malato è il destro e qualche tempo dopo si racconterà di un’operazione in una clinica a Barcellona durante la latitanza per la risoluzione definitiva del problema. Ma per il figlio di Don Ciccio le prime donne da frequentare sono signore altolocate e un po’ avanti con l’età in quel di Palermo. I racconti dell’epoca dicono che è grazie a loro che Messina Denaro scopre i piaceri del sesso. Ma la prima ragazza è una giovane e bionda austriaca che si chiama Andrea Haslehner, anche se per tutti è Asi. Lavora alla reception del Paradise Beach di Selinunte, dove Matteo e i suoi amici amano passare qualche giorno di vacanza. Diabolik ci prova e lei «diventa la sua Eva Kant». I due intrecciano una relazione che va avanti almeno fino al 1993, anno in cui ‘U Siccu diventa latitante. Nel 1992 andranno in vacanza insieme a Forte dei Marmi e a Rimini.
L’omicidio Consales
Il rapporto con Asi comincia nel 1988. A Don Ciccio non piace perché è una «fimmina straniera». Matteo è geloso: «Quel pezzo di cornuto i complimenti li va a fare a sua sorella», dice di un tizio che aveva magnificato gli occhi della giovane austriaca. L’auto dell’uomo andrà a fuoco ma non per un ordine del giovane boss: gli amici i favori te li fanno senza che tu glieli chieda. Due anni dopo va a lavorare nell’hotel come vicedirettore Nicola Consales, 44 anni. Parla quattro lingue, è diplomato, ha lavorato in altre strutture. In breve diventa il direttore. Alcuni raccontano che sia innamorato di Asi, altri che semplicemente «quei quattro mafiosetti» che girano per la hall non gli piacciano. Consales va a trovare a Palermo i genitori. Messina Denaro chiama nel capoluogo: «La mamma è partita». Consales muore sotto i colpi di due lupare sulla sua auto. Quella sera stessa il figlio di Don Ciccio si fa vedere in un locale di Castelvetrano. Quando il rapporto con Asi finisce lei ai poliziotti dirà «A me Matteo sembrava un ragazzo simpatico, come tanti altri. Magari un po’ vivace».
Il primo vero affare di mafia
I racconti di chi lo ha conosciuto in quegli anni sono tantissimi. C’è la storia del vigile urbano che multa una Porsche parcheggiata sui gradini di una fontana barocca a Mazara del Vallo. La mattina dopo quel vigile trova la sua auto bruciata ma il parabrezza è stranamente intatto: sopra c’è la contravvenzione che ha firmato il giorno prima. Oppure c’è il poco di buono che ha la bella idea di chiedere a Matteo il permesso di fidanzarsi con la piccola Patrizia: «Conto fino a sei. Poi ti sparo», gli risponde il figlio di Don Ciccio. E quello sparisce ben prima del due. E ancora: c’è il commissario che perquisisce le case dei latitanti, tra cui la sua. Una sera suona il citofono: «Sono Matteo, scendi. Ma non telefonare a nessuno prima, ti devo solo dire una cosa». Quella cosa è un semplice consiglio: non lavorare troppo, non farle tu tutte le perquisizioni. Prenditi una vacanza. Detto, fatto.
La prima denuncia
La prima denuncia per mafia arriva l’11 febbraio 1989: il reato è di associazione mafiosa in concorso con altre persone. È ritenuto coinvolto nella sanguinosa faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna. Due anni prima una Fiat 127 veniva fermata a un posto di blocco. Gli occupanti sono quattro. Due fanno parte della famiglia mafiosa degli Accardo di Cannata. Uno è di Castelvetrano. Hanno sessanta o settant’anni ma portano tutti rispetto al 25enne che siede nel sedile posteriore. Gli Accardo sono vicini a Riina e quindi ai Messina Denaro. Ma in zona comandano gli Ingoglia. Matteo è considerato dalla famiglia abbastanza preparato da entrare in una guerra di mafia che sta per scoppiare. Cinque anni dopo sarà tutto finito. Con la morte di Vincenzo Milazzo, il boss che voleva sfidare l’autorità del Capo dei Capi. E quella della compagna Antonella Bonomo, incinta di tre mesi. Strangolata e seppellita in campagna. Perché il piccolo Messina Denaro ha appreso perfettamente l’insegnamento di Riina: «Gli avversari non si uccidono. Vanno sterminati».
La latitanza
A parlare di lui per la prima volta come un uomo d’onore è Baldassarre, detto Balduccio, Di Maggio. Per il quale è «un giovane rampante, anche se non è già capo, e suo padre gli ha dato un’ampia delega di rappresentanza del mandamento». Poi c’è Germanà. È il commissario di polizia di Castelvetrano e poi a Mazara del Vallo. È lui a fare il nome del piccolo Matteo per primo a Borsellino. Don Ciccio va da lui e gli chiede di lasciare in pace il figlio: «Dottore, se voi continuate a disturbare il mio ragazzo sarò costretto a mandarlo all’estero». Il 14 settembre 1992 sul lungomare Tonnarella una Fiat Tipo affianca la Panda del commissario. Gli occupanti cominciano a sparare. Germanà risponde al fuoco, ferma l’auto davanti a una spiaggia, scende e si tuffa in mare. Quelli sulla Tipo sono tre, uno di loro tira fuori un kalashnikov. Prova a far partire una raffica mentre Germanà sta correndo verso il mare, ma spara un solo colpo. Alla fine i tre scappano. Sono Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella. Riina, per “festeggiare” Capaci e via D’Amelio, ha dato a tutti un premio: ciascuno si può «levare una spina». Quella di Matteo è il commissario che ha rotto le scatole a lui e al padre. Ma l’agguato fallisce. Quando Germanà esce dall’acqua i bagnanti gli chiedono se stanno girando un film, o se devono chiamare la polizia. «Sono io la polizia», risponde lui. Il kalashnikov si è inceppato perché «Bagarella è uno che non sa sparare con le armi moderne», come dirà canzonandolo Giovanni Brusca qualche anno dopo. Il fallito omicidio di Germanà non è però l’atto che porta Matteo Messina Denaro a darsi alla latitanza. È la Guerra allo Stato di Riina che arruolerà il soldato Diabolik. Spingendolo a diventare l’Invisibile. E a sfidare tutti per trent’anni. (1 – Continua)
Fonti: L’invisibile. Matteo Messina Denaro – Giacomo Di Girolamo, Il Saggiatore, 2017; Nient’altro che la verità – Michele Santoro, Guido Ruotolo, Feltrinelli, 2021; Matteo Messina Denaro, latitante di Stato – Marco Bova, Ponte alle Grazie, 2021; Lo chiamano ‘U Siccu – Malitalia, 2012 30.1.2023 OPEN
IL PADRE BOSS DEL BOSS
Francesco Messina Denaro, soprannominato Don Ciccio (Castelvetrano, 20 gennaio1928[1] – Castelvetrano, 30 novembre1998), è stato un criminaleitaliano, legato a Cosa Nostra. È stato il capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, a partire dai primi anni ottanta. Era il padre del super latitante Matteo Messina Denaro. Francesco Messina Denaro, padre di Matteo Messina Denaro e di Patrizia Messina Denaro, con il figlio Matteo svolgeva l’occupazioni di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì, proprietari della Banca Sicula di Trapani (in quegli anni il più importante istituto bancario privato siciliano) e delle saline di Trapani e Marsala. In realtà era a capo del mandamento di Castelvetrano dopo la seconda guerra di mafia dei primi anni ’80, quando con il mazarese Mariano Agate fu alleato dei corleonesi, contro le famiglie palermitane e quelle alcamesi dei Rimi e trapanesi dei Minore. [4] Condannato a dieci anni dal tribunale di Trapani nel 1989 si rese latitante. Nel 1992 il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara accusò Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, di essere affiliato alla locale cosca in cui ricopriva la carica di “consigliere” del capo Francesco Messina Denaro. Vaccarino querelò Calcara per calunnia ma i giudici prosciolsero il collaboratore di giustizia perché specificarono nelle sentenza del processo che erano «accertati e significativi rapporti tra il Vaccarino e altri esponenti dell’articolazione locale di Cosa Nostra, quali Francesco Messina Denaro […]» con cui l’ex sindaco aveva costituito una cooperativa agricola[8]; tuttavia nei processi in cui era imputato, Vaccarino venne condannato in via definitiva soltanto per traffico di stupefacenti ma assolto dall’accusa di associazione mafiosaNel 1994 fu tra i 74 mandati di custodia cautelare dell’operazione Petrov. Ricercato da più di 8 anni, Francesco Messina Denaro è stato ritrovato morto il 30 novembre 1998 nelle campagne di Castelvetrano, stroncato da un infartoNell’ambito del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, i pentiti Angelo Siino e Vincenzo Sinacori hanno dichiarato che l’omicidio è stato voluto da Francesco Messina Denaro, il quale aveva dato incarico al bossVincenzo Virga perché provvedesse all’uccisione di Rostagno.
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«La Corte resuscita l’indagine, con una sentenza dura bastona il Tribunale del Riesame che aveva stroncato l’intera inchiesta: “I giudici sono andati ben oltre i propri compiti”». - ^San Marino. Un professionista sammarinese in contatto con Matteo Messina Denaro?, Libertas.sm, 20 giugno 2017. URL consultato il 13 luglio 2019 (archiviato il 6 ottobre 2018).
- ^ Antonio Massari, Unicredit, la Cassazione riabilita l’indagine su Palenzona. I pm: “Favorì società vicine a Messina Denaro”, il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2016. URL consultato il 13 luglio 2019 (archiviato il 12 luglio 2019).
«La Corte resuscita l’indagine, con una sentenza dura bastona il Tribunale del Riesame che aveva stroncato l’intera inchiesta: “I giudici sono andati ben oltre i propri compiti”». - ^Articolo del Corriere.it – 3 maggio 2013
- ^Mafia, Carabiniere trova Messina Denaro ma viene bloccato “non vogliamo prenderlo”, Cronaca.news, 17 marzo 2019. URL consultato il 7 luglio 2019 (archiviato il 7 luglio 2019).
«Nel febbraio 2016, al termine delle indagini svolte, la Procura della Repubblica di Palermo ha richiesto al GIP l’archiviazione tanto delle accuse di Masi contro i suoi superiori, poiché prive di riscontri, sia dell’opposta ipotesi di calunnia, per mancanza dell’elemento psicologico. […] Ad aprile 2017 il GIP del Tribunale di Palermo, ha accolto solo in parte le richieste della Procura e, nel disporre l’archiviazione della posizione degli ufficiali accusati dal Masi, ha ordinato alla Procura l’imputazione coatta di quest’ultimo per le ipotesi di calunnia e diffamazione dei suoi superiori. Per fatti collegati, il maresciallo Masi è altresì imputato per diffamazione sia innanzi al Tribunale di Roma, sia a quello di Bari.». - ^Provenzano e Messina Denaro un intreccio d’affari a Bagheria – la Repubblica.it, in Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 28 marzo 2018.
- ^‘Matteo, vorrei vivere con te’ Lettere d’amore per il latitante – la Repubblica.it, in Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 28 marzo 2018.
- ^ Lirio Abbate e Giovanni Tizian, Esclusivo: «Matteo Messina Denaro ha un nuovo volto e io l’ho visto», L’Espresso, 28 marzo 2018. URL consultato il 13 luglio 2019 (archiviato il 28 marzo 2018).
- ^ Alessandra Ziniti, Arrestato il fiduciario dei boss, la Repubblica, 19 luglio 2006. URL consultato il 13 luglio 2019 (archiviato il 24 gennaio 2018).
- ^Mafia: L’Espresso, figlia Messina Denaro si ribella al clan familiare, la Repubblica, 29 agosto 2013. URL consultato il 13 luglio 2019 (archiviato il 17 aprile 2019).