di Claudio Ramaccini
INDAGINI INQUINATE DA DEPISTAGGI DI STATO
Le indagini riservate alla strage di via D’Amelio sono state inquinate da «Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». E’ quanto viene certificato nel corposo documento di 1865 pagine depositato lo scorso 30 Giugno. I magistrati puntano il dito contro i servitori infedeli dello Stato che pilotarono piccoli criminali, trasformati in informatori di Cosa nostra, costruendo falsi scenari sugli autori dell’attentato al giudice Paolo Borsellino. Con sentenza del 20 aprile 2017 la Corte d’Assise di Caltanisetta ha condannato all’ergastolo per strage di via D’Amelio Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia utilizzati per architettare una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Accuse prescritte invece per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di molteplici ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, a cui i giudici hanno concesso l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri. Ed è a questi “altri” che la Corte si riferisce nelle motivazioni della sentenza. A quegli investigatori mossi da «un proposito criminoso», a chi «esercitò in modo distorto i poteri». Il riferimento della Corte d’assise è al gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto. Sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta e a costringere Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato e a compiere «una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte». Le anomalie nell’attività di indagine, infatti, continuarono appunto anche nel corso della collaborazione dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla ritrattazione della ritrattazione, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero”. “Questo insieme di fattori – proseguono i magistrati riferendosi alla valutazione che delle parole di Scarantino fece l’autorità giudiziaria – avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni del “pentito” con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone”. Ma quali erano le finalità di uno dei più clamorosi depistaggi della storia giudiziaria del Paese? La Corte avanza un’ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, «che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà», e «l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato». I magistrati hanno poi dedicato parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il il magistrato custodiva nella borsa e sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la Corte, ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, caratterizzata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». La Barbera come già detto è morto, l’inchiesta sulla scomparsa dell’agenda rossa è stata archiviata, ma a Caltanissetta, maggior ragione dopo questa sentenza, é auspicabile che si continui ad indagare. Come pure, ora che le motivazioni sono state depositate, il CSM dovrà valutare i profili di responsabilità dei magistrati che seguirono per primi le indagini. A tal proposito, Fiammetta Borsellino, terzogenita del magistrato, ha lanciato un accorato appello a Sergio Mattarella che lo presiede. Il prossimo 19 luglio ricorre il 26º Anniversario della strage di Via D’Amelio. Dieci processi fra primo grado (4), secondo grado (3) e Cassazione (3) non sono stati sufficienti per offrire alle vittime ed ai loro famigliari una piena e convincente verità su moventi, esecutori e mandanti. Depistaggi, falsi pentiti, vittime di falsi pentiti e sparizioni (agenda rossa) hanno caratterizzato il tortuoso percorso giudiziario iniziato nel lontano 4 ottobre 1994 ed al quale non è ancora possibile porre la parola fine. Non si sono accontentati delle verità ormai passate in giudicato i pm della Procura Stefano Luciani e Gabriele Paci che, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio. Una nuova inchiesta è già in fase avanzata e riguarda i poliziotti che facevano parte del pool di La Barbera. La Procura di Caltanissetta ha chiesto, infatti, il rinvio a giudizio di tre poliziotti per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. L’udienza preliminare non è stata ancora fissata. Il processo è stato chiesto per il funzionario Mario Bo, che è stato già indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione, e per i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per tutti l’accusa è di calunnia in concorso.