PAOLO BORSELLINO – Accadde oggi 27 giugno 1992

 

 

 

“Sono nel mirino come Falcone”: questo il titolo di un’intervista che Paolo Borsellino rilasciò al quotidiano ‘Il Mattino’ alla fine di giugno del 1992. Pochi giorni dopo, in via D’Amelio, il magistrato fu ucciso con un’autobomba insieme agli agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Claudio Traina e Vincenzo Limuli.

Alla domanda se fosse “cosciente di essere ormai l’obiettivo numero uno della mafia” e se avesse paura, Borsellino aveva così risposto in quell’intervista: “Con la paura ormai ci convivo. E’ inutile nascondere le apprensioni quotidiane per la mia incolumità e la sopravvivenza fisica. Il problema è quello di far convivere la paura con il coraggio”.

Le storie della vita e della morte di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone hanno proceduto parallelamente. Entrambi palermitani, Paolo Borsellino era nato il 19 gennaio 1940 e Giovanni Falcone il 18 maggio di un anno prima.

Si conoscevano sin da ragazzi; nell’immediato dopoguerra giocavano al pallone, ancora con i calzoni corti, nell’unico campetto disponibile, che era segnato dai crateri delle bombe ed aveva al centro un alberello verde. Liceali, si sfidavano al calcetto nell’ oratorio della parrocchia del loro quartiere. Entrati in magistratura con due concorsi diversi, per problemi burocratici, finirono con il presentarsi nello stesso giorno al palazzo di giustizia di Palermo ed ebbero come ”tutore” un consigliere istruttore, Morvillo, che aveva due figli, Alfredo e Francesca, che sarebbero diventati giudici. Lei avrebbe sposato Falcone e con lui avrebbe trovato la morte sull’autostrada, a Capaci, il 23 maggio del 1992.

All’ufficio istruzione di Palermo, i due magistrati cominciarono a collaborare alla fine degli anni ’80 e si trovarono con leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello in quel pool antimafia, diretto da Antonino Caponnetto, che avrebbe avuto un ruolo centrale nella comprensione del fenomeno mafioso. Borsellino, così come Falcone, non amava la notorietà e riuscì a ”difendersi” meglio del collega.

Il loro sodalizio non fu soltanto professionale, ma anche culturale ed umano. Della mafia ebbero una stessa visione, ebbero piena sintonia nell’indicazione dei mezzi per combatterla. Insieme trascorsero un periodo di ”reclusione” ospiti, con altri giudici del pool, nel penitenziario dell’Asinara, dove il Viminale li inviò per poterli meglio proteggere mentre stendevano l’ ordinanza di rinvio a giudizio del maxi processo.

Dopo il deposito della sentenza-ordinanza, le strade di Falcone e Borsellino si divisero. Borsellino ottenne la nomina a procuratore della repubblica di Marsala con un provvedimento del Csm che riconobbe, in quella occasione, la prevalenza del merito sull’ anzianità di servizio.

Benché lontano da Palermo, Borsellino continuò a seguire le vicende del palazzo di giustizia del capoluogo, anche perché svolgeva intensa attività nell’ Associazione nazionale magistrati. Quando il Csm nominò Meli in sostituzione di Caponnetto, scartando Falcone, il procuratore di Marsala non nascose il suo disappunto e due mesi più tardi denunciò pubblicamente: ”Lo Stato ha abbassato la guardia nella lotta alla mafia”, indicando nelle scelte compiute da Meli uno dei segnali più gravi di un mutato clima giudiziario. Per queste sue prese di posizione, Borsellino venne ”processato” dal Csm e per difenderlo, Falcone, in una drammatica audizione a Palazzo dei Marescialli, rassegnò le dimissioni. Il Csm trovò quindi, attraverso autorevoli mediazioni, una apparente ricomposizione del fronte giudiziario antimafia, che tuttavia resse solo per poche settimane.

Dopo il trasferimento a Roma di Falcone, Borsellino ne aveva preso il posto a Palermo, come procuratore aggiunto della Repubblica, quasi avesse ereditato un ideale ”testimone” dal collega con il quale aveva condiviso speranze ed amarezze, momenti esaltanti e di disperazione. In una intervista rilasciata a Tg7, otto giorni dopo la strage di Capaci, Borsellino aveva ricordato il momento di ”esaltazione” vissuto in Brasile con Falcone, quando avevano insieme acquisito alcune deposizioni di pentiti: ”ci illudemmo che la sconfitta della mafia fosse ormai a portata di mano”. TELEVIDEO RAI