La solitudine di Paolo Borsellino, il giudice che è morto tante volte (E. Filippone)

 

Restare soli non è facile. L’uomo solo è debole visto dagli occhi degli altri. Lo sapeva Paolo Borsellino, di cui ieri si è celebrato il 31esimo anniversario della morte. Un omicidio che si aspettavano tutti, compreso lui. Una bomba a orologeria il cui conto alla rovescia era partito il 23 maggio 1992, appena dopo la detonazione dell’esplosivo, piazzato sotto l’autostrada Palermo-Trapani, all’altezza di Capaci, destinato a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e agli uomini della loro scorta.

Paolo Borsellino è morto tante volte. Lui li ha visti tutti cadere sotto i suoi occhi, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Rocco Chinnici, Calogero Zucchetto. E purtroppo molti altri. Ed in quei 57 giorni che separano le due stragi di stampo mafioso più conosciute, il Giudice Borsellino è stato ucciso, ogni giorno di più, un pezzetto dopo l’altro. 57 brandelli di carne che gli sono stati strappati volta per volta. Ma lui ne era consapevole. Per questo tentò anche una sorta di autoisolamento. Dagli amici, dalla scorta, dai colleghi ma soprattutto dalla famiglia. Dalla moglie Agnese, sua vera unica fonte di perenne sostegno, e dai figli Fiammetta, Manfredi, Lucia, il cui “allontanamento” forzato dell’ultimo periodo della sua vita, fu l’ultima e unica forma di protezione che il loro padre potè offrire.

Si può solo immaginare il dolore fisico e mentale che fu costretto a subire Paolo Borsellino in quelle 57 giornate. Andando incontro a una morte di cui si conosceva tutto, probabilmente anche il luogo del delitto. Furono molteplici, e allo stesso tempo vani, difatti, i tentativi della scorta, di imporre la zona rimozione in Via D’Amelio, sotto casa della madre del giudice. Una richiesta andata sempre a vuoto. Un abbandono a sé stessi graduale ma progressivo e repentino, che si era già consumato in maniera analoga con Giovanni Falcone. Uomini dello Stato emarginati dallo Stato stesso. “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” esclamava nella sua omelia il Cardinale Pappalardo durante i funerali del Generale Dalla Chiesa, “mentre a Roma si decide sul da farsi, Sagunto viene espugnata, ma stavolta non è Sagunto ma Palermo, povera la nostra Palermo”. Una città pugnalata, condannata ad essere, nel suo contesto di bellezza che racchiude natura e storia, teatro di bagni di sangue senza precedenti, una sorta di macello dove si mandavano a morire gli uomini delle istituzioni. Una Palermo che racchiude e accoglie le diverse culture che si ritrovano in essa, e che hanno caratterizzato la sua storia, ma che si trasforma in una Medea che trucida i suoi figli, inghiottendoli nel fuoco dell’asfalto fatto saltare in aria.

“È finito tutto”, bisbigliò Antonino Caponnetto ad un giornalista, immediatamente dopo aver saputo della strage di Via D’Amelio, e così ripetè quando il cronista gli chiese se non ci fosse una speranza per questa città. L’ex capo del Pool Antimafia, specificò successivamente che quella frase fu detta in un momento di estremo sconforto. In realtà, infatti, non è finito tutto. La lotta alla mafia continua e gli arresti degli ultimi mesi lo confermano. Abbiamo però un’organizzazione diversa, che ha mollato sempre di più le strategie delle bombe, ma che si insinua nel mondo della finanza, delle istituzioni, della pubblica amministrazione. Una mafia che vive ancora in certi comportamenti, in atteggiamenti che sono parte ormai intrinseca di alcuni territori, che fanno sempre meno paura e attraggono molti giovani. La morte di Borsellino è ancora oggi, dopo 31 anni fitta di sospetti, di indagini e depistaggi. La scomparsa della famosa “Agenda Rossa” rimane ancora adesso uno dei più grandi misteri di Stato. Ma lui sarebbe andato avanti ancora oggi trascinato da quel “dovere morale di fare il proprio lavoro senza farsi condizionare dalla sensazione che questo possa costarci caro”.

Emanuele Filippone