Filippo La Mantia, lo chef che scoprì il carcere per sbaglio. Di origini umili, palermitano trapiantato a Roma, prima fotoreporter e poi chef. In mezzo un’esperienza che ti cambia la vita.
Un “soggiorno” all’Ucciardone tra giugno e dicembre 1986.
L’anno prima la mafia uccide il commissario di polizia Ninni Cassarà.
Gli spari partono da un appartamento dove Filippo ha vissuto. Peccato però che da quasi otto mesi lo abbia lasciato. Allora di anni ne ha ventisei. Il suo ristorante al Majestic in via Veneto è tra i più apprezzati dalle star dello showbusiness e dai politici. Nel suo ufficio, accanto alla foto con Gabriele Muccino e Jovanotti in smoking, compare il disegno a matita “Per mio papà”.
Sette mesi di ingiusta detenzione. Ha richiesto almeno un indennizzo?
No, non l’ho richiesto. Un’esperienza così non puoi che cancellarla e buttartela alle spalle. E’ un cassetto che ho chiuso per sempre.
Basta un tratto di penna?
Nel mio caso è bastato. Quando Giovanni Falcone ordinò la mia scarcerazione dal momento che si trattava palesemente di un errore, mi ripromisi di non voltarmi più indietro.
Qualcosa però le deve essere rimasto.
Se improvvisamente ti tolgono la libertà e ti ficcano in una cella di 18 metri quadri con altre undici persone, qualcosa ti rimane. Capisci di colpo come funziona la vita.
E come funziona?
Niente è certo, tutto può accadere. Per questo non devi attaccarti a nulla. Da un giorno all’altro puoi perdere tutto.
Come si vive in dodici in una cella?
C’erano dodici letti a castello che montavamo per la notte. Chi dormiva in alto si attaccava al materasso con una cinta per non cadere. Il “bagno” era un buco sul pavimento dietro una porticina senza soffitto. Questo era l’Ucciardone negli anni Ottanta.
Purtroppo ben poco è cambiato. Perché è capitato proprio a lei?
L’unica risposta che posso darmi è che doveva andare così. Io facevo il fotoreporter. Sono stato tra i primi ad arrivare sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa.
In quegli anni Palermo era una città esplosiva: tutti colpevoli, tutti innocenti. L’assassinio di un commissario di polizia ebbe un impatto molto forte sulla comunità. Bisognava dare in pasto alla gente il colpevole, ad ogni costo.
Il costo lo ha pagato lei.
E’ stato un costo elevato, ma io non nutro rabbia verso nessuno. Sono solo critico con i magistrati che incaricano i carabinieri di arrestare una persona senza i dovuti accertamenti, con prove gracili o del tutto assenti.
Ricordo ancora il mio primo interrogatorio: era come parlare con un muro. Il pm non mi ascoltava e io ero in balia di lui. Potevo dire qualunque cosa ma lui aveva già decretato la mia colpevolezza.
In carcere si è dedicato all’arte dei fornelli.
Ho imparato a cucinare, sì. La cucina era totale evasione. Il profumo di un pomodoro cotto ti faceva volare oltre quelle sbarre. La cottura lentissima della salsa rossa profumata di basilico aveva un che di rituale.
Che cosa le mancava di più?
Nulla perché mi sono imposto di non pensare a quello che c’era fuori. E’ l’unico modo per sopravvivere, tanto più quando sei un detenuto senza condanna. La carcerazione preventiva non prevede una scadenza, potresti restare dietro le sbarre ancora uno o mille giorni. Il carcere è un mondo parallelo calato dentro una città. Nessuno sa che cosa accade in carcere, tutto è ovattato. Io ci ho rimesso piede solo l’anno scorso, quando ho offerto un pranzo a centocinquanta detenuti di Regina Coeli.
In Italia quasi 43 detenuti su 100 sono in attesa di giudizio. E’ il doppio della media europea.
Gliel’ho detto: non mi stupisce più nulla. Ho conosciuto persone che sono rimaste in carcere vent’anni per un errore.
Il problema è che chi sbaglia non paga.
Se io stasera cucino un piatto di pasta che la fa star male, sono chiamato a risponderne e mi tocca rimediare. Per i magistrati italiani il principio di responsabilità non vale.
Annalisa Chirico PANORAMA
Filippo La Mantia nasce a Palermo sotto il segno della Bilancia, il 26 settembre del 1960, quindi nel 2023 compie 63 anni. È da sempre molto legato alla famiglia e alla sua terra d’origine. Avrebbe avuto sin da giovanissimo la passione per la cucina, iniziando a preparare i primi piatti da adolescente, quando ancora non sapeva che sarebbe diventata la sua professione. Quando aveva vent’anni, infatti, è stato anche fotoreporter.
Nel 1986 avviene un episodio che cambia la sua vita: l’anno prima la mafia uccide il commissario di polizia Ninni Cassarà e gli spari partono da un appartamento dove lui ha vissuto.
Da mesi, però, ha lasciato quella casa. Finisce dunque in carcere per errore, 7 mesi di ingiusta detenzione: “Un’esperienza così non puoi cancellarla e buttartela alle spalle. È un cassetto che ho chiuso per sempre”, rivelerà in seguito a Panorama.
In carcere, Filippo La Mantia si dedica all’arte dei fornelli: “Ho imparato a cucinare, sì. La cucina era totale evasione.
Il profumo di pomodoro cotto ti faceva volare oltre quelle sbarre. La cottura lentissima della salsa rossa profumata di basilico aveva un che di rituale”, spiegherà ancora.
In seguito a questa esperienza, Filippo La Mantia inizia a seguire il suo grande sogno e la sua passione, cioè la cucina. Fa varie esperienze in Sicilia, poi a Roma. Filippo La Mantia racconterà: “È stata dura ricominciare a 40 anni ma pian piano ho ingranato e ho sognato di avere un locale mio”.
Così nel 2002 apre il suo primo ristorante, “Zagara” e si battezza “oste e cuoco”. Nel 2006 accetta di trasferirsi in Indonesia, dove fa da consulente per il resort “Losari Coffee Plantation”, a Giava. Torna a Roma e apre “La Trattoria”, a due passi dal Pantheon. Nel 2008 va al “Safina”, ristorante del “Pevero Golf Club di Porto Cervo”. Ma il legame con la città e i suoi abitanti lo riporta a Roma, dove cucina per capi di Stato e rock star.
Nel 2015 apre il “Ristorante La Mantia” in piazza Risorgimento a Milano. Alla fine del 2020 l’ultimo servizio, poiché la pandemia lo costringe a chiudere. In attesa di aprire in una nuova location, cucina il suo delivery dal collega e amico Giancarlo Morelli. Nel 2021 riceve l’Ambrogino d’Oro per aver cucinato per il personale dell’ospedale Niguarda durante la pandemia. Nel 2022 apre un nuovo ristorante al Mercato Centrale di Milano: l’esperienza dura circa un anno poiché, a partire dal 1° marzo del 2023, chiude: “Dal 1 marzo sospendo il servizio del ristorante: è solo un’interruzione, voglio rivoluzionare il modo di strutturare l’offerta di ristorazione, ho avuto tanta difficoltà col personale”, spiega.
Filippo La Mantia ha alle spalle un matrimonio con Stefania Scaranti, autrice televisiva, dalla quale ha avuto una figlia, Carolina ( nata nel 2007 a Roma). Nel 2016 il cuoco siciliano iniziato la sua storia d’amore con la famosissima foodblogger Chiara Maci: dal loro legame nasce nel 2018 Andrea. La coppia si separa all’inizio del 2022.
Lo chef Filippo La Mantia: “Sei mesi all’Ucciardone per un errore”
Un “soggiorno” all’Ucciardone durato sei mesi, tra giugno e dicembre 1986. E’ il dramma vissuto dallo chef palermitano Filippo La Mantia, adesso uno dei cuochi più famosi in circolazione, finito in carcere per errore. Non suo, però. Sì, perché il 6 agosto 1985 la mafia uccide il commissario di polizia Ninni Cassarà e gli spari partono da un appartamento dove La Mantia, all’epoca 25enne, ha vissuto. Peccato però che da quasi otto mesi Filippo avesse già lasciato quella casa.
“Gli inquirenti sospettavano che i proiettili fossero partiti da un appartamento di cui io risultavo essere l’ultimo affittuario registrato – ha raccontato lo chef in un’intervista al Corriere della Sera – ma io quella casa l’avevo lasciata mesi prima dell’omicidio e mi ero trasferito a vivere a Mondello”.
Una cella di 18 metri quadri con altre undici persone, un incubo senza orizzonti. Perché una carcerazione preventiva non prevede una scadenza, e chi finisce là dentro, sa che potrebbe restare dietro le sbarre ancora per uno o altri mille giorni. “Così – ha rivelato La Mantia – ho iniziato a cucinare per me e altri 11 detenuti.
Lo facevo per sognare di essere a casa e non in una cella del carcere Ucciardone. Preparando i sughi sentivo gli stessi odori e sapori che avevo respirato e gustato sin da bimbo. Sognavo che, prima o poi, avrebbero riconosciuto la mia innocenza. Poi, il 24 dicembre, dopo sei mesi, mi hanno consegnato l’ordine di scarcerazione firmato da Giovanni Falcone: ho visto materializzare il sogno. Fino a quel momento mi ero fatto forza solo grazie al sogno degli odori e sapori familiari”. Resta però quel ricordo indelebile: “Le porte dell’Ucciardone che si chiudono dietro di me”. PALERMO TODAY 9.10.2017
Il passato di Filippo La Mantia tra Letizia Battaglia e Josef Koudelk
Nel 1979, Filippo La Mantia, l’oste e cuoco – guai a chiamarlo chef – che oggi conosciamo per il sapore siciliano della sua cucina e per uno dei ristoranti di riferimento nel cuore di Milano, ha diciannove anni e vive a Palermo. O meglio, vive nella sua Palermo che non ha quasi nulla a che vedere con la città che sta entrando nel decennio della guerra di mafia, del maxi processo, delle manifestazioni antimafia documentate dai più grandi fotografi di reportage. Tra questi, naturalmente, c’è lei: Letizia Battaglia.
La scoperta di “un’altra” Palermo
Un giorno, La Mantia entra nello studio di Letizia Battaglia e scopre che c’è un’altra metà della città che non ha mai conosciuto. È in quel momento che prende in mano la macchina fotografica per entrare nella storia della città nel modo più dirompente. «Non sapevo che cosa fosse la guerra di mafia – ci racconta – per chi non viveva la cronaca; Palermo in quegli anni era una sorta di pianeta misterioso. Facevo parte di quelle persone che trascorrevano una vita straordinaria, piena di grandi energie, facevamo moltissimo sport, eravamo ragazzi che si divertivano molto. Non appena iniziai a frequentare lo studio di Letizia Battaglia, scoprii una Palermo che stava entrando in quella che poi è stata definita una vera e propria guerra di mafia». In un primo tempo, La Mantia segue l’archivio dell’a- genzia di Letizia Battaglia. Poi, le collaborazioni e il lavoro aumentano e inizia lui stesso a correre tra le vie di Palermo per documentare i fatti di cronaca. È così che le fotografie di Filippo La Mantia testimoniano il delitto del Generale Dalla Chiesa, i fratelli Salvo, l’omicidio Chinnici. E, suo malgrado, lui stesso diviene protagonista di un fatto di cronaca che inciderà sulla sua vita, rimanendo vittima della confusione in cui versava la città in quegli anni.
Il carcere
Nell’aprile del 1986 è arrestato per favoreggiamento nell’omicidio del vicequestore Ninni Cassarà e portato nel carcere dell’Ucciardone. È un errore clamoroso che si traduce in una detenzione di ben sette mesi. «In quell’occasione – ricorda – Letizia Battaglia fa un gesto che definirei di amore puro. Avevamo vissuto lavorando accanto ogni giorno, dal 1979 al 1986, e il mio arresto fu uno shock per tutti. Tutti eravamo impegnati in prima linea con l’antimafia, realizzavamo mostre, seguivamo la cronaca. Letizia Battaglia fu la prima a inviarmi un telegramma e a mobilitarsi per parlare del mio caso con il giudice Falcone». La vicenda si risolve con la scarcerazione.
Ma la vita di La Mantia è segnata anche da straordinari incontri. L’agenzia di Letizia Battaglia era il punto di riferimento da cui passavano tutti i grandi fotografi che lavoravano a Palermo. «Tutte le agenzie, tutti i fotografi di allora venivano a Palermo e noi eravamo la loro base. Sono passati tutti, da Scianna a Koudelka, a Giansanti. Spesso ho portato in giro per la città Josef Koudelka ed è in questo modo che siamo diventati così amici. Oggi ci sentiamo e, quando possiamo, ci frequentiamo». Ha cambiato mestiere, ha cambiato più volte città (Palermo, Roma, Milano), ma da allora Filippo La Mantia ha sempre trovato il modo per stare vicino alla fotografia. «Soprattutto a Milano ho ritrovato i contatti con quei fotografi che avevo conosciuto in modo diretto o indiretto quarant’anni fa a Palermo. Nella vita, tutto torna».
testo di Enrico Ratto IL FOTOGRAFO.IT
Filippo La Mantia/ Sei mesi all’Ucciardone per errore: da fotografo a chef (Sono Innocente)
Il nome di Filippo La Mantia, oggi uno degli chef più rinomati d’Italia, è strettamente collegato con Ninni Cassarà. Il vicequestore ucciso da Cosa Nostra nell’agosto del 1985 è stato raggiunto infatti da una raffica di mitra mentre si trovava di sui gradini di casa, la stessa che era stata affittata tempo prima al cuoco. Per questo, in quanto ultimo a risultare inquilino dell’appartamento, La Mantia è stato tradotto in carcere a Palermo, dove ha vissuto sei mesi prima di dimostrare la propria innocenza. La storia di Filippo La Mantia verrà raccontata nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, ripercorrendo i difficili mesi vissuti dal giovane che all’epoca svolgeva la professione di reporter.
L’esperienza in carcere, sottolinea lo chef a Il Corriere della Sera, gli ha permesso alla fine di scoprire la passione per la cucina. È infatti in carcere che inizia a destreggiarsi fra i fornelli, cucinando per 11 detenuti con cui condivideva una cella dell’Ucciardone, il penitenziario di Palermo. È forse l’unico modo per il futuro cuoco di rimanere ancorato a quell’infanzia fatta di profumi e sapori di libertà e di affetti. In quel momento La Mantia inizia a sperare ogni giorno di poter dimostrare di essere innocente, soprattutto perché la casa da cui sono partiti i colpi diretti a Cassarà l’aveva abbandonata diversi mesi prima della tragedia.
Filippo La Mantia riuscirà alla fine a dimostrare di essere estraneo alla morte di Ninni Cassarà, ma dietro quelle sbarre non finirà solo il giovane 25enne siciliano. Si chiuderà in qualche modo anche la professione che in quattro anni gli hanno permesso di diventare uno dei fotografi più apprezzati di Palermo. La Mantia ricorda bene quel giorno, l’entrata in carcere, le porte del penitenziario che si chiudono dietro di lui e la sicurezza di aver perso anche il suo futuro professionale.
È in quel momento che realizza tutto, anche di poter contare solo sui propri sogni. E non solo per quanto riguarda la libertà da ritrovare, ma anche quella passione che presto gli permetterà di diventare famoso come chef italiano. Il provvedimento di Giovanni Falcone lo rende di nuovo un uomo libero sei mesi dopo il suo arresto, ricorda in un’intervista a Il Corriere della Sera, ma occorreranno molti anni prima di riuscire a ingranare davvero come cuoco.
Un sogno diventato realtà grazie al trasferimento a Roma, a una dura gavetta e infine all’apertura del suo primo ristorante, avvenuto quando aveva 54 anni, nella cornice di Milano. Un piccolo passo prima della replica del successo, grazie all’apertura di un nuovo locale e alla scalata come oste e cuoco italiano.
Di certo non ha mai ambito a riconoscimenti e stelle, confida, ma a realizzare quell’unico obbiettivo che gli ha permesso di rimettersi in pista ed a trasformare un ostacolo in una grande opportunità.
In carcere per un errore, Filippo La Mantia non è riuscito solo a lasciarsi alle spalle quei brutti mesi che ha trascorso dietro le sbarre dell’Ucciardone di Palermo. E non ha solo trasformato quest’esperienza nel suo futuro successo come oste cuoco, come ama definirsi. Anche nella vita privata La Mantia è riuscito a realizzarsi a tutto tondo, grazie al supporto della compagna Chiara Maci e alla nascita del loro primo figlio.
In realtà il successo del palermitano avviene molto prima, quando appena ventenne è uno dei fotoreporter più apprezzati in Sicilia. È stato infatti uno dei primi a raggiungere la scena del crimine in cui è stato ucciso il Generale Dalla Chiesa, ricorda Vanity Fair. Eppure basterà un solo dettaglio perché La Mantia venga etichettato come un affiliato della mafia, per via di quell’appartamento coinvolto nella morte del vicequestore Ninni Cassarà.
Una casa che lo chef aveva lasciato otto mesi prima, trasferendosi poi a Mondello. Di quel periodo però non ricorda solo il dolore, la sofferenza, ma anche la famiglia e la tradizione. Due elementi che ha cercato di infondere nei piatti che proponeva ai detenuti, soprattutto grazie all’assenza di aglio e cipolla.
Due prodotti che non ama e che ha deciso di togliere del tutto dalle proprie creazioni, sicuro che ogni cuoco che si rispetti debba adeguarsi al gusto delle persone e non viceversa. Facendo questa piccola modifica ha scoperto infatti che tante altre persone non sopportano quei due particolari ingredienti e che molti accettano la loro presenza nei piatti solo perché piegati al volere dello chef.