A febbraio l’interrogatorio davanti al gip: “Sono stato all’estero per 15 anni. Strage di Firenze? Non c’entro, hanno usato gente che vale niente”
Smentisce, gira intorno alle domande, accusa e si dissocia, ma soprattutto depista. Matteo Messina Denaro, da boss irriducibile qual era, ha mantenuto fede al comandamento fondamentale di Cosa Nostra fino alla fine dei suoi giorni: mai tradire l’organizzazione. E ai magistrati che lo avevano sentito a inizio anno ha raccontato solo quello che voleva raccontare – probabilmente lanciando persino messaggi criptati – deludendo le poche aspettative di quanti speravano in un ravvedimento. Dalla sua cattura, avvenuta a Palermo il 16 gennaio, il capo mafia di Castelvetrano aveva fatto capire che si sarebbe chiuso in un silenzio tombale e che non avrebbe assolutamente collaborato con la giustizia per aiutare lo Stato a trovare la verità su stragi e delitti eccellenti. E così ha fatto. Il 16 febbraio, un mese dopo il blitz dei Ros alla Maddalena, ha accettato di rispondere al giudice per le indagini preliminari Alfredo Montalto e ai pubblici ministeri di Palermo Giovanni Antoci e Gianluca De Leo. Il boss è stato sentito sul terreno fittiziamente intestato a Giuseppina Passanante, figlia di un prestanome di Messina Denaro, e al marito. Appezzamento di terra per il quale i coniugi erano stati minacciati dal boss stesso nel momento in cui questi volevano venderlo. Quindi era stato interrogato su temi più scottanti come la missione romana di Cosa nostra, le stragi del 1993, i suoi rapporti con gli altri membri della Cupola e la sua trentennale latitanza. Il mensile “S Sicilia” ha recentemente pubblicato quei verbali senza omissis. Sul primo argomento Messina Denaro ha ricostruito così l’episodio. “Allora quando io ho saputo tutto ciò che lei (Giuseppina Passanante, presunta vittima dell’estorsione, ndr) aveva la terra quasi venduta infatti io mi sono dovuto occupare per non fargliela vendere perché le persone che sapevano queste cose, tra virgolette mi lascia passare il termine, intrallazzi, ho dovuto far sapere a queste persone che stavano già a fare il fatto, di non comprarsi la terra ma senza spiegare le motivazioni. Dopo di ciò scrivo una lettera alla signora Passanante non al marito. Allora voglio chiarire se fosse stata Biancaneve a parlare con questi che stavano comprando la terra si sarebbero fatti una risata quindi per forza dovevo dire che io. Per me nella mia mente nel mio modo di ragionare non è finalità mafiosa perché questa mi sta rubando un terreno mio, quindi questa è una modalità privata”. Messina Denaro affermava, in buona sostanza, di rivendicare un diritto. La minaccia, a suo dire, non c’era, nonostante il boss, insieme ad altri due sodali, sia stato rinviato a giudizio per tentata estorsione. Il processo si sarebbe dovuto tenere in abbreviato ma è stato archiviato dopo la morte.
“Cosa nostra? La conosco tramite i giornali”
La minaccia alla signora Passanante non è l’unica accusa smentita dal boss. Messina Denaro, davanti ai magistrati, ha smentito persino di far parte di Cosa nostra. “Lei pensa che io conosca bene”, ha detto l’ex primula rossa rivolgendosi a Montalto. “Io non la conosco bene perché non faccio parte di nessuna
associazione e quello che so di Cosa Nostra lo so tramite i giornali”. La stessa strampalata giustificazione che adottò Totò Riina in aula al tempo del maxi processo. A proposito del Capo dei Capi, il giudice Montalto aveva fatto domande in merito alle dichiarazioni fatte da Riina quando era in cella nelle quali questi affermava che il giovane Messina Denaro gli venne affidato dal padre, il capo mafia Francesco Messina Denaro (“don Ciccio”), per educarlo e crescerlo sotto la sua ala criminale. Sempre in carcere, Riina, lamentava il fatto che, crescendo, “‘u siccu” aveva abbandonato i suoi oneri di capo mafia di Castelvetrano per dedicarsi al mondo dell’imprenditoria, in particolare agli affari riguardanti l’energia eolica: “Questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse – sbottava Riina – ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa… (a Cosa nostra, ndr)”. Messina Denaro ha prima detto di non conoscere Riina e poi, sempre al giudice Montalto, ha raccontato: “Mio padre si chiamava Francesco Messina Denaro e ho avuto solo un padre mi sarei schifato di lui se mi avesse assegnato a qualche altro a me mi ha cresciuto mio padre e mia madre ne sono orgoglioso. Altri padri non ne ho avuti…”. Messina Denaro sembra quasi essersi tolto qualche sassolino dalle scarpe dopo quell’accusa lanciata da Riina, intercettato in cella, ormai dieci anni fa.
“Per quanto riguarda Salvatore Riina quello che diceva poi al carcere di me bello o brutto che sia, c’è anche un’altra cosa che si deve tenere presente io ho una mamma con demenza senile al 100 per cento il signor Riina mi risulta che negli ultimi anni non c’era più”. Gli dava del pazzo, insomma. “Solo chi ha fatto queste registrazioni (cioè i magistrati, ndr) o chi procede (i giudici, ndr) non lo mette questo mette che il signor Salvatore era il signor Salvatore di vent’anni prima quello non capiva più niente diceva un sacco di cretinate…”.
“Non so chi siano i Graviano e i Brusca. Il piccolo Di Matteo? Non c’entro”
Quindi Messina Denaro ha deciso di difendersi da chi veramente, a suo dire, lo accusava con il senno di farlo: il pentito Giovani Brusca. Messina Denaro ha negato di conoscere l’ex boss stragista di San Giuseppe Jato e il fratello – lo stesso vale per gli stragisti Leoluca Bagarella e i fratelli Graviano (“non conosco nessuno di questi”) – ma ha voluto rispondere alle accuse di questi di aver fatto uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo. “U siccu” ha ammesso la propria responsabilità sul sequestro ma non l’orrore di avere deciso la sorte del dodicenne: strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre collaboratore di giustizia. “Brusca dice che ad un tratto, non so in quale data e non so in quale posto ha detto, ma non era Palermo, dice che si è incontrato lui, io, Graviano Giuseppe e Bagarella e dice che abbiamo deciso del sequestro del piccolo Di Matteo con la finalità di far ritrattare il padre – ha detto a verbale al giudice Montalto che, tra l’altro, si occupò del caso –. Allora la prima cosa che io mi pongo come domanda a me stesso che cosa c’entro io di Castelvetrano di un’altra provincia a discutere delle cose di San Giuseppe Jato questo non l’ho mai capito”.
Ha fatto riferimento a Giovanni Falcone “perché il giudice Falcone ebbe l’intelligenza e anche il metodo di creare il teorema Buscetta e lo seguiva, ad un tratto dopo tutto quello che è successo nell’arco degli anni il teorema Buscetta lo dimenticarono come se non fosse mai esistito, ma lo fece Falcone e hanno mischiato, da noi si dice, le pietre con le uova, ma le pietre con le uova poi si rompono”.
La condanna per avere partecipato al delitto del bambino è quella che lo faceva più infuriare: “Il bambino da quello che dice (Brusca, ndr) lo ha ucciso per vendetta, alla fine è stato un disonesto pure in questo… visto che non c’era più speranza che il padre ritrattasse… su un bambino, mascalzone che non sei altro. Capisco che se avesse trovato il Santo Di Matteo lo uccideva, ma che c’entra sto bambino dato che lo scopo non poteva mai più accadere quello che lui si era prefissato… lui dice che in quell’occasione si decise il sequestro io invece sono stato condannato per l’omicidio e ho preso l’ergastolo”. Il capo mafia di Castelvetrano ha poi confessato aver “sempre cercato un dialogo con qualcuno dello Stato per poter chiarire la mia posizione perché è una cosa che mi dà immensamente fastidio. Accusatemi di tutto ma però io non ho mai avuto l’occasione di difendermi su quello che dice il Brusca di me”. Alla domanda di Montalto su chi avesse cercato di rivolgersi per parlare con lo Stato il boss ha subito corretto il tiro: “Presidente, mi sono espresso male. Intendevo quando sarei stato catturato come poi è successo. Cioè io in maniera omertosa non ho cercato nessuno però nel caso in cui io fossi stato catturato speravo che mi dessero la possibilità di poter difendermi di sto fatto di questo bambino sciolto nell’acido”, affermava ringraziando Montalto di avergli concesso l’opportunità di chiarire la sua versione.
Missione romana e strage di Firenze: “Non so niente”
Quindi il giudice Alfredo Montalto ha chiesto al boss stragista della famosa “missione romana” di marzo 1992 ordinata da Riina per eliminare nella Capitale il giudice Falcone, al tempo Dg degli Affari Penali in via Arenula. Messina Denaro era uno degli uomini del gruppo di fuoco inviati che avrebbero dovuto uccidere il magistrato che all’epoca girava per Roma senza scorta. Riina decise poi di ritirare il commando perché volle fare le cose più in grande con l’attentato poi avvenuto a Capaci il 23 maggio dello stesso anno. La missione romana è un argomento di cui tutte le procure che in questi anni hanno indagato sulle stragi di mafia si sono occupate. Era uno degli uomini incaricati di pedinare Giovanni Falcone, e non solo, per eliminarlo: “Io a Roma ci andavo sempre – ha spiegato – ci andavo spesso anche una volta a settimana, due volte a settimana perché avevo anche una mia parte di vita là… avevo pure una barca a Ostia che non è stata mai individuata che poi io ho alienato, dopo che mi è successo tutto questo e quindi ci andavo anche per questo perché la barca non era intestata a me io me ne andavo in auto e poi ritornavo in auto”.
Il giudice gli ha quindi chiesto conto della strage dei Georgofili del 1993, per la quale venne condannato. “[…] Io non so niente di Firenze”, ha affermato per poi prendersela con i pentiti, che curiosamente non chiama mai collaboratori di giustizia ma “collaboratori di legge”. “Quello che dicono i collaboratori di legge se la vedono loro, io non so niente anche perché riscontri oggettivi non ce ne sono”. Quindi ha continuato a negare il suo coinvolgimento: “Firenze qualora fosse vero, ma sulla mia persona non è vero, non è che si volevano uccidere persone anche perché ci sono collaboratori di legge che dicono che la finalità non era uccidere delle persone solo che il problema è stato, secondo me, che sono andati con la ruspa cioè hanno ucciso la mosca con cannonate perché si sa che se mettono bombe possono cadere degli innocenti (a Firenze morirono cinque persone, di cui le bambine Nadia e Caterina Nencioni, ndr) ma la finalità di come dicono gli altri non era uccidere le persone, era prendersela con lo Stato, con i beni dello Stato”. E ancora. “lo penso con la mia mente perché io non c’entro in queste cose però voglio discutere con la mia mente è normale che se uno mette una bomba possono morire degli innocenti il punto qual è c’è da vedere a chi mandano i mandanti a fare una cosa del genere cioè che testa hanno che intelligenza hanno perché mettiamo caso che io andavo a Firenze a mettere questa bomba giusto con le stesse finalità non sarebbe morto nessuno perché io una bomba là non la mettevo perché ho una coscienza mi spiego“. Alla domanda se in sostanza fosse stato un errore di calcolo degli esecutori, il boss, premettendo ancora una volta di non saperne nulla, ha risposto che “non è stato un errore, è stato un menefreghismo che è peggio perché l’errore può essere perdonato. Ma se io capisco e intuisco – ha aggiunto – che là succedeva una strage e lo capiva pure un menomato che succedeva una strage perché conosce Firenze ecco che una bomba là non sarebbe mai stata messa. Il problema è che chi è stato hanno usato gente che vale niente”.
“Dal 2005 sono stato all’estero per 15 anni”
L’ultimo capitolo affrontato durante il verbale riguarda la latitanza del capo mafia, che per trent’anni è riuscito a sfuggire a magistrati e forze dell’ordine. Secondo la procura di Palermo, Messina Denaro ha potuto godere del supporto di soggetti appartenenti alla cosiddetta “borghesia mafiosa”, mentre per alcuni dei magistrati che in passato hanno lavorato per catturarlo Messina Denaro sarebbe stato addirittura aiutato da personaggi infedeli delle istituzioni e da appartenenti alla massoneria. “In questi anni mi sono soltanto dedicato a non farmi prendere, a proteggere la mia libertà, perché era un mio diritto restare libero, secondo il mio punto di vista, come essere umano”. Il boss spiegava che “negli ultimi 15 anni dal 2005 non mi posso muovere più nella maniera più totale. Sono circondato dappertutto… se io ho la mentalità di continuare o di fare soldi vado a sbattere nel giro di una settimana perché per fare queste cose devo stare a contatto con persone. Quindi si figuri se andavo a pensare di fare affari con qualcuno anche perché io di mio vivevo già abbastanza bene”, ha spiegato. “Quando vidi tutta questa pressione su di me, me ne andai perché in questi trent’anni che cosa ho fatto io? Ha sentito più morti ammazzati, bombe, queste cose mi faccia capire”, domandava il boss al giudice. “Allora che cosa faccio capisco che io ho fatto un ordine nella mia mente nel senso le cose più importanti e le cose meno importante. La cosa più importante dal mio punto di vista mi risulta essere la mia libertà, in quel momento ho deciso di andarmene perché capivo che non potevo durare se cercavo di fare soldi, non potevo durare per un altro motivo perché non c’era più la qualità delle persone in giro mi spiego”.
Messina Denaro affermava di non sentirsi al sicuro, quasi a dire che non si fidava di chi lo stava proteggendo. Il capo mafia aveva confessato di essersi trasferito all’estero per 15 anni dal 2005, l’anno della caduta del secondo governo Berlusconi.
“Tornavo per i miei familiari, perché io i contatti con la mia famiglia non li ho mai persi, perché quella è la mia famiglia giusto. Però me ne sono andato e ogni tanto venivo stavo una settimana, 15 giorni un mese e me ne riandavo e ho fatto 15 anni così. Ero all’estero signor presidente, me ne sono andato all’estero per circa 15 anni ho fatto questa vita tornavo. Cioè – spiegava “u siccu” – la mia vita me la svolgevo là, qua non mi interessai più di niente, io no in Sicilia e nemmeno in Italia perché sappiamo che andavo a sbattere, che senso ha per me che voglio restare libero“. A questo punto Montalto gli chiedeva dove si nascondesse all’estero. Scena muta. “No, no non lo dico questo perché ci sono persone che mi hanno aiutato, ci sono persone che hanno cose mie, ma più che altro che mi hanno aiutato e io non ho mai infamato nessuno e morirò senza infamare nessuno. Questo – concludeva – è Messina Denaro”.