E Borsellino disse alla moglie: non sarà la mafia a uccidermi. I sospetti del magistrato su «colleghi e altri»
Giovanni Bianconi CORRIERE DELLA SERA
Il giorno prima di morire Paolo Borsellino confidò alla moglie inquietanti convinzioni sulla propria fine, che considerava imminente: «Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere».
Coltivava sensazioni fosche, condivise in uno degli ultimi colloqui con la donna della sua vita: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.
In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo».
A nemmeno ventiquattr’ore da questi cupi presentimenti, alle 16.58 di domenica 19 luglio, dopo una nuova gita nella casa di Carini il giudice saltò in aria insieme a cinque agenti di scorta in via Mariano D’Amelio, davanti all’abitazione palermitana di sua madre.
Le dichiarazioni di Agnese Borsellino sono contenute in due verbali d’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta titolari della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio, nell’agosto 2009 e nel gennaio 2010, trasmessi alla Procura di Palermo che indaga sulla presunta trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra.
La testimonianza della signora Borsellino consegna altri frammenti di verità su sospetti e turbamenti del magistrato assassinato quasi vent’anni fa.
Dalla fretta di acquisire elementi sulla strage di Capaci in cui era morto il suo amico Giovanni Falcone, nella consapevolezza che presto sarebbe a toccato anche lui – «prova ne sia che, pochi giorni prima di essere ucciso, si confessò e fece la comunione», dice la moglie – ai dubbi sui contatti fra rappresentanti delle istituzioni e della mafia.
Alla domanda se il marito le abbia mai detto di aver saputo «di una trattativa tra appartenenti al Ros dei carabinieri e Vito Ciancimino o altri soggetti appartenenti a Cosa Nostra o a servizi segreti “deviati”», la signora Borsellino risponde: «Non ho mai ricevuto tale tipo di confidenza da Paolo, che mai mi riferì di trattative in atto tra Cosa Nostra e appartenenti al Ros e ai servizi “deviati”. Non posso tuttavia escludere che egli fosse venuto a conoscenza di una vicenda del genere e non me l’avesse riferita, in quanto era in genere una persona estremamente riservata».
Ciò nonostante, in un altro colloquio riferì alla moglie l’improvviso indizio su una presunta connivenza con Cosa Nostra dell’allora comandante del Ros, che conosceva da tempo: «Notai Paolo sconvolto, e nell’occasione mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu (cioè affiliato a Cosa Nostra, ndr )…”. Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile».
Poi ci furono la frase sul timore di essere ucciso con la complicità o la colpevole indifferenza di altri soggetti, addirittura di «colleghi», e la rivelazione di un ulteriore sospetto: «Ricordo che mio marito mi disse testualmente che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Me lo disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la “mafia in diretta”, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa (l’abitazione palermitana dei Borsellino, ndr ) temendo di essere visto da Castello Utveggio». Mi diceva “ci possono vedere a casa”». Il castello è sul Monte Pellegrino, sede di un centro studi ritenuto una copertura del servizio segreto civile su cui si sono appuntate molte indagini. Ma gli ultimi accertamenti svolti dai pm di Caltanissetta portano a escludere collegamenti tra quella località e la strage di via D’Amelio.
Che Borsellino fosse a conoscenza dei contatti del capitano Giuseppe De Donno e del colonnello Mario Mori (all’epoca ufficiali del Ros, oggi indagati nell’inchiesta sulla trattativa) con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino è un dato acquisito dopo le dichiarazioni dell’ex direttore generale del ministero della Giustizia Liliana Ferraro, che ne parlò allo stesso Borsellino alla fine di giugno del ’92. Il colloquio avvenne in una saletta dell’aeroporto di Fiumicino. C’era anche la moglie del magistrato, che ai pubblici ministeri ha dichiarato: «Mio marito non mi fece partecipare all’incontro con la dottoressa Ferraro. Anche successivamente, non mi riferì nulla, salvo quanto detto dal ministro Andò (titolare della Difesa, presente anche lui a Fiumicino, ndr ) che, per quello che mi venne riferito da mio marito, disse che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per ucciderlo, e che ciò sarebbe avvenuto a mezzo di esplosivo. Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: “Come mai non sa niente?”. In pratica, la nota che riguardava la sicurezza di mio marito era arrivata sul tavolo del procuratore Giammanco, ma Paolo non lo sapeva. Paolo mi disse, poi, che l’indomani incontrò Giammanco nel suo ufficio, e gli chiese conto di questo fatto. Giammanco si giustificò dicendo che aveva mandato la lettera alla magistratura competente, e cioè alla Procura di Caltanissetta. Mi ricordo che Paolo perse le staffe, tanto da farsi male a una delle mani che, mi disse, batté violentemente sul tavolo del procuratore».
Agnese Borsellino aggiunge che dopo la riunione di Fiumicino «mio marito non mi disse nulla che riguardava Ciancimino». I dissapori tra il magistrato antimafia, allora procuratore aggiunto a Palermo, e il capo dell’ufficio Pietro Giammanco si riferivano anche alla gestione di nuovi pentiti, come Gaspare Mutolo.
Ecco perché, a proposito dei timori confessati durante l’ultima passeggiata sul lungomare, la signora Agnese spiega: «Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni; ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità… Comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora procuratore Giammanco».
11 novembre 2011 (modifica il 13 novembre 2011)
«Paolo Borsellino disse: “A uccidermi saranno i miei colleghi”. Bisogna indagare sugli ambienti della Procura di Palermo del 1992»
L’audizione alla commissione parlamentare Antimafia di Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino,
«In tutti questi anni nella testimonianza resa dalla vedova Agnese Piraino (moglie di Borsellino), in cui Borsellino dice: “mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”, è stato costantemente espunto il riferimento ai «miei colleghi».
Se noi incrociamo questa confidenza di Borsellino con la testimonianza del 2009 in cui si dice che Borsellino definisce il suo ufficio un nido di vipere allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo, per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione, indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre proceduto gli omicidi eccellenti a Palermo».
Così il Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, in audizione alla commissione parlamentare Antimafia.
Le accuse a Giammanco
Per Trizzino «è quindi gioco forza andare a vedere se già nel 1992 vi erano elementi sulla cui base ricostruire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quella affermazione incredibile.
È un dolore incommensurabile avere scoperto che già dal luglio del 1992 esistevano dei verbali e delle audizioni dei magistrati della procura di Palermo in cui vuoi per la vicinanza rispetto alla strage o vuoi perché in quella procura vi era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nel racconto delle dinamiche che, messe in atto dal procuratore Giammanco, resero di fatto impossibile la vita di un magistrato valoroso come Borsellino.
La cosa gravissima è che il dottor Pietro Giammanco (all’epoca procuratore di Palermo – ndr) non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage».
Il mea culpa
«Anche la magistratura – ha detto ancora Trizzino deve essere pronta a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana. Tutti dicono che Borsellino, dopo la morte di Falcone, sarebbe andato a fare il procuratore nazionale antimafia ma nessuno sa che il plenum del Csm tra il 15 e il 20 giugno del 1992 bloccò qualunque richiesta di riaprire i termini del concorso, disse che Borsellino non aveva titoli e che non avrebbe sopportato l’ingerenza del potere esecutivo rispetto ad un concorso che era già sotto delibazione o quasi definito.
Non ho visto in questi anni la magistratura ragionare su come abbia in qualche modo abbia cannibalizzato i suoi figli migliori, non ho mai sentito un ‘mea culpa, “abbiamo sbagliato”, ‘cosa abbiamo combinato?’ o “non abbiamo capito niente”».
La figlia Lucia
«Ci siamo convinti – ha invece detto Lucia Borsellino sempre in audizione alla commissione parlamentare Antimafia – che le altre piste che sono state solcate non hanno del tutto o per niente considerato atti e documenti e prove testimoniali che potessero fornire elementi indispensabili per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione che lui ha vissuto nella sua vita.
Ciò che chiediamo, nel massimo rispetto delle istituzioni senza voler sostenere alcuna tesi perché non siamo tecnici, è di offrire una ricostruzione operata su una mole di atti e testimonianze.
Vorremmo rassegnare elementi suscettibili di ulteriore approfondimento per il rigore logico che questi elementi meritano».
Le parole choc di Fabio Trizzino, avvocato della famiglia del magistrato ucciso nel luglio del ’92 a via D’Amelio, sentito in commissione Antimafia: «Definì il suo ufficio un “nido di vipere”»
Aggiornato, 27 settembre, 2023 • 20:21
«Chiediamo che le componenti statuali facciano piena luce su particolari dettagli della vita di mio padre in quei 57 giorni» tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio.
Lo ha detto Lucia Borsellino nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare Antimafia, presieduta dall’onorevole Chiara Colosimo, la quale proprio in una intervista al Dubbio disse «Ho le stesse domande che si fanno i figli di Borsellino e l’avvocato Trizzino e vorrei provare a trovare risposte, sui verbali del Csm e su quei famosi 57 giorni, perché se qualcuno in quel “nido di vipere” ha tradito si sappia».
«Siamo convinti, – ha proseguito Lucia – dopo aver assistito a piste investigative di questi anni che altre piste non hanno considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire elementi indispensabili a capire il contesto in cui Paolo Borsellino operava negli ultimi giorni della sua vita». Dopo Lucia, è intervenuto suo marito e avvocato dei figli di Paolo Borsellino, Fabio Trizzino: «Denuncio il fatto gravissimo che il procuratore Pietro Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage. E ora non possiamo sapere se lavorasse per qualcuno perché è morto». Trizzino ha ricordato una frase di Paolo Borsellino: «Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia: saranno mafiosi coloro che mi uccideranno ma quelli che hanno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri», disse il magistrato morto nella strage di via D’Amelio. «Se confrontiamo questa testimonianza di Borsellino, che definisce il suo ufficio un “nido di vipere” bisogna cercare nella procura di Palermo» il luogo «di delegittimazione e di isolamento di Paolo Borsellino».
L’audizione si è concentrata in parte sul famoso dossier mafia appalti: era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita, quando Borsellino in una riunione in Procura chiese di approfondire il dossier. «Nel 1991 Falcone già disse che bisognava affinare le tecniche di indagine perché esisteva una centrale unica degli appalti dove sono tutti coinvolti. Il chiodo fisso di Falcone era mafia appalti e su questa linea si porrà Paolo Borsellino. È un falso storico che Borsellino non conoscesse il dossier Mafia-appalti». Aggiunge Trizzino: dopo tangentopoli e la crisi della partitocrazia «Riina si accorge che il sistema dei partiti sta crollando, allora decide che attraverso i grandi imprenditori deve raggiungere i sistemi di potere politico a Roma, come disse anche Giovanni Brusca. La strage di via D’Amelio non ha senso guardando ai soli interessi di Riina. Non si poteva ammazzare Borsellino sperando che lo Stato non reagisse. Ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina è andato oltre gli interessi dell’organizzazione».
L’avvocato ha ricordato poi cosa disse Antonio Di Pietro nel processo Borsellino ter: «Io e Paolo parlammo e ci dicemmo: “dobbiamo trovare il sistema per far parlare gli imprenditori”. E non dimentichiamo che anche Di Pietro doveva morire». Trizzino sul circolo mafia, imprenditori, politici ha sostenuto che «tutto è delineato nel rapporto del Ros del 1991» redatto da Giuseppe De Donno e Mario Mori. Poi il j’accuse: «La magistratura in tutti questi anni non ha guardato mai al suo interno, a come ha cannibalizzato i suoi figli migliori. Nel giugno 1992 il Csm decretò che Borsellino non aveva i titoli per divenire Procuratore nazionale e non riaprì i termini per le candidature». «Il 29 giugno Borsellino andò da Giammanco per chiarire una cosa importante che rappresenta l’ostracismo e delegittimazione professionale verso Borsellino: mentre Borsellino era a Giovinazzo arriva un fax dal procuratore di Firenze, dal dottor Vigna, in cui si dice che Gaspare Mutolo ha parlato con lui e aveva deciso di saltare il fosso con l’unica condizione che a parlare con lui fosse Borsellino. Borsellino era credibile, chi lo doveva seguire Giammanco? In realtà il Procuratore vuole impedire che Borsellino gestisca quel collaboratore e l’ostacolo per la titolarità del fascicolo viene individuata pretestuosamente nel fatto che il collaboratore avrebbe parlato del comparto palermitano mentre lui era coordinatore delle dinamiche di Trapani e Agrigento».
Inoltre discussero della informativa omessa di Subranni sull’arrivo del tritolo per uccidere Borsellino. «Grazie alla dottoressa Lorenza Sabatino riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Borsellino visse quell’incontro. Così racconta quella giornata: “la mattina non era nella stanza e chiesi dove fosse e il commesso mi disse che era dal Procuratore. Mi chiamò la sera: il tono di voce era molto abbattuto e mi chiese quasi scusa per non avermi chiamata e mi disse che il giorno dopo doveva partire per Roma”. Effettivamente il 30 giugno era a Roma per interrogare Mutolo, nonostante il fascicolo era affidato ad altri tre magistrati. “Poi gli feci una battuta: ho saputo che oggi sei stato in buona compagnia! E lui con lo stesso tono: è stata una cosa brutta e mi è sembrato di essere tornato ai vecchi tempi”».
Trizzino conclude: «Qui c’è un uomo puro che ha condotto una via crucis, fino al sacrificio più grande. È giunto il momento che intorno a lui non ci siano più divisioni». Ci sarà una prossima audizione, forse già la prossima settimana per terminare la discussione di Trizzino. In tutto questo parla ai giornalisti di Radio Campus il fratello di Borsellino, Salvatore: «Io escluso dalla convocazione dell’Antimafia? Non è andata così. Io – ha spiegato – ero stato invitato dalla Colosimo in persona a partecipare a una convocazione alla commissione antimafia, ma ho problemi di salute. Ho detto che non mi potevo spostare e quindi avevo rinunciato. Poi però è arrivata da parte del mio avvocato una sollecitazione ad accettare un’eventuale convocazione e allora l’ho comunicato alla stessa Colosimo che mi ha assicurato che a breve sarò convocato anche io insieme al mio avvocato. Ho letto ieri che ci sono state un po’ di maretta perchè è stato detto che non ero stato convocato. Le cose stanno come le sto dicendo».
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