I 57 GIORNI DI PAOLO BORSELLINO E IL COVO DI VIPERE – di Fabio Trizzino

FABIO TRIZZINO  e FIAMMETTA BORSELLINO – al “Processo depistaggio”

                                           

Ripercorrere ogni anno, in questo periodo, la via crucis del dott. Paolo Emanuele Borsellino lungo quei terribili 57 giorni fra Capaci e Via D’Amelio, significa rievocare le immagini di un Uomo la cui potenza del pensiero e delle parole strideva con l’evidente e progressivo senso di fragilità del suo corpo, sempre più indebolito e maltrattato da tante sigarette per attenuare l’angoscia di una fine imminente di cui Egli  non fece assolutamente mistero con dichiarazioni, anche pubbliche.
Rileggendo gli avvenimenti di allora alla luce anche delle più recenti acquisizioni processuali, emerge il terribile clima di tensione all’interno della Procura di Palermo, cui era approdato, dopo l’esperienza di Marsala, nel marzo del 1992.
Mi riferisco, in particolare, alle testimonianze dei colleghi della Procura di Palermo davanti al CSM del luglio 1992. Esse, per quanto fondamentali, non sono mai state riversate nei numerosi processi sulla strage di via D’Amelio, e quindi, di fatto, tenute segrete per oltre trent’anni.
In quelle testimonianze vi è la descrizione puntuale delle dinamiche, inutilmente pretestuose e ostracizzanti messe in atto dal Procuratore Capo dott. Pietro Giammanco verso il dott. Borsellino, la cui unica colpa era di comprendere, attraverso la valorizzazione di determinate indagini, le ragioni dell’escalation criminale in corso.
In particolare, la ricostruzione consacrata ormai in numerose sentenze, ci consegna e cristallizza il fervente interesse del dott. Borsellino per le indagini compendiate nel Rapporto del ROS dei carabinieri del febbraio del 1991 (il c.d. Dossier mafia-appalti).
Ma soprattutto si tratta di testimonianze fondamentali per comprendere le dinamiche sottostanti  
la creazione di quel particolare contesto di isolamento e delegittimazione del dott. Borsellino in seno al proprio Ufficio, quale prodomo necessario per la realizzazione di quelle condizioni obiettive per agevolarne l’eliminazione.
Da profondissimo conoscitore delle dinamiche e delle strategie di Cosa Nostra, egli intuì e percepì chiaramente che, dopo l’omicidio di Salvo Lima ( 12 marzo 1992) e l’eccidio di Capaci,  avrebbe potuto essere lui il prossimo obiettivo.
Come ricordato dalla moglie Agnese Piraino, Paolo Borsellino riteneva che il proprio destino fosse inscindibilmente legato a quello di Giovanni Falcone, nella ferma convinzione che a fare da scudo alla propria vita ci sarebbe stata quella dell’amico e collega.
Ma il culmine della prostrazione psico-fisica raggiunta in quei 57 giorni dal Giudice Borsellino emerge chiaramente dalle dichiarazioni dei magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo, acquisite fra il 2009 ed il 2010 nel corso delle indagini seguite alla collaborazione di Gaspare Spatuzza.
Secondo la testimonianza dei colleghi, che ben conoscevano il Giudice Borsellino quale Capo della Procura di Marsala, dove gli stessi svolgevano all’epoca dei fatti la funzione di Sostituti Procuratori, questi in lacrime ebbe a confessare a loro di essere stato tradito da un amico.
I due magistrati  hanno dichiarato apertamente di non avere mai visto il Giudice Borsellino in quelle condizioni e soprattutto di non essere stati in grado di superare l’imbarazzo di quella situazione così tragica quanto inaspettata per cui si limitarono a raccoglierne lo sfogo.
Sfogo preceduto da un’altra frase del giudice Borsellino pesantemente significativa qui (ndr riferendosi alla Procura di Palermo) è un covo di vipere”.
D’altra parte, le ansie e le preoccupazioni del Giudice Borsellino in quei 57 giorni fra le due stragi sono state oggetto della testimonianza di soggetti particolarmente qualificati.
Dal loro narrato emerge lo stato di profonda ed assoluta solitudine del Giudice Borsellino, assillato dalla necessità di fare in fretta, per potere offrire all’Autorità Giudiziaria competente il suo contributo per chiarire e spiegare, dall’alto della sua esperienza, le dinamiche e le causali sottese alla strategia terroristico-mafiosa in atto.
Significative, sotto questo profilo, appaiono le dichiarazioni dell’Avvocatessa Fernanda Contri, all’epoca dei fatti Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (pag.309 e ss. Sentenza Borsellino quater abbreviato) e della già citata D.ssa Liliana Ferraro ( pagg.330/331 quater abbreviato dove si riporta il verbale di sommarie informazioni testimoniali del 14 ottobre 2014 dove la teste testualmente dichiara: “ Borsellino mi disse che era solo”.
Così come significativa e per certi versi drammatica è la testimonianza del sacerdote Cesare Rattoballi cui fu chiesto il 18 luglio 1992 dal Giudice Borsellino di recarsi presso l’ufficio della Procura di Palermo perché gli somministrasse il sacramento della confessione.
Le gravissime preoccupazioni del Giudice Borsellino per il destino della moglie Agnese e dei figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, si rinvengono nella testimonianza resa nell’ambito del processo Borsellino ter dal colonnello Umberto Sinico, all’epoca dei fatti capitano.
Alle pagg. 239/241 della sentenza egli testualmente afferma: Borsellino scelse il sacrificio. Sapeva dell’attentato ma mi disse che doveva lasciare qualche spiraglio, se no avrebbero potuto colpire la sua famiglia”.
E proprio guardando dentro alla famiglia nucleare del Giudice Borsellino, può senza dubbio affermarsi che la strage di Capaci ebbe sicuramente l’effetto di segnare l’epilogo di una vita normale.
Per quanto normale possa definirsi la vita di una famiglia già costretta da oltre un decennio, sia pure nella totale condivisione ed unità d’intenti, ad un’esistenza blindata e costantemente preoccupata per il prezzo che quell’impegno avrebbe potuto comportare.
Invero, pur essendo da molto tempo in primissima linea nell’azione di contrasto a Cosa Nostra, il Giudice Borsellino aveva cercato di garantire comunque una certa serenità alla sua famiglia.
Tale serenità era stata vulnerata drammaticamente in occasione dell’improvviso e forzato trasferimento della famiglia presso l’isola dell’Asinara nell’agosto del 1985.
Trasferimento motivato dal pericolo per la vita dei Giudici Falcone e Borsellino a seguito delle uccisioni per mano mafiosa del Commissario Beppe Montana e del Vice Questore Ninni Cassarà, fra la fine di luglio e di primi di agosto del 1985.
Tale eccezionale misura di salvaguardia consentì loro effettivamente di redigere la monumentale ordinanza/sentenza istruttoria del maxiprocesso.
Prima e dopo quest’episodio la vita familiare del Giudice Borsellino era comunque caratterizzata da una accettabile serenità, attesa, da un lato, la capacità del Giudice Borsellino di essere sempre presente nei momenti più significativi ed importanti della moglie e dei figli, dall’altra, la sua notoria predisposizione a sdrammatizzare ed esorcizzare con ironia i pericoli enormi derivanti dallo svolgimento della sua professione.
Questo difficile equilibrio, fra dedizione all’impegno professionale e cura delle relazioni familiari, si rompe drammaticamente dopo il 23 maggio 1992.
La convinzione del Giudice, manifestata più volte anche pubblicamente, di non avere più tanto tempo a disposizione, lo costrinsero ad un lavoro frenetico con un sensibile peggioramento della vita affettiva e di relazione all’interno della famiglia.
Il Giudice Borsellino perse definitivamente quel sorriso che egli era  comunque riuscito a donare alla sua famiglia nel corso di quella vera e propria guerra,  anche dopo avere visto cadere sull’altare della lotta alla mafia altre magnifiche vite ( Boris Giuliano, il capitano Basile, il consigliere Chinnici, il Generale Dalla Chiesa, Montana , Cassarà ed Antiochia e tanti altri ancora) pur nella convinzione di essere “un cadavere che cammina” come gli ebbe a dire Ninni Cassarà in sede di sopralluogo dell’omicidio di Beppe Montana.
Come ricordato dalla figlia Lucia, al Giudice Borsellino i capelli erano diventati bianchi in pochi giorni, e per la prima volta la moglie ed i figli videro il proprio congiunto ostaggio di una perenne tensione e preoccupazione che nemmeno l’ambiente familiare riesciva a stemperare ed attenuare, come era sempre accaduto in precedenza.
Anzi il Giudice Borsellino si mostrava con i figli addirittura scontroso e distaccato, quasi a volerli preparare al dopo; alla moglie invece riserverà, in dialoghi tragici, le più intime considerazioni sulle gravi ragioni di una fine che sa essere imminente.
Con effetti dirompenti e lesivi della sacralità e pienezza dei rapporti affettivi in seno alla famiglia nucleare del dott. Borsellino.
Di fronte alla descrizione di un dolore che con il passare del tempo si accresce, in considerazione del fatto che  si è pure scoperto che le indagini ed i primi processi sulla strage di Via D’Amelio, hanno costituito l’ambito di elezione per il confezionamento del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, è giunto il momento, ineludibile, di scoprire ed indagare quello che accadde nella Procura di Palermo una volta che il dott. Borsellino ebbe ad approdarvi.
Si dice spesso che lo Stato non è pronto ad accogliere gli inconfessabili segreti di quella stagione.
Questa affermazione è per noi condivisibile nella misura in cui in esso Stato venga finalmente compresa l’istituzione magistratuale dentro cui fra mille difficoltà ed invidie, Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi, cercarono di fare il loro dovere sino al compimento dell’estremo sacrificio.
Cerchiamo di esserne degni fino in fondo con coraggio e determinazione, seguendo il loro metodo nella lettura degli eventi e senza assecondare ricostruzioni fantasiose il cui obiettivo è rendere vieppiù difficile il già faticoso tentativo di ricostruzione di quei terribili eventi.

                                                                                                                                 Fabio Alfredo Trizzino

©️ PROGETTO SAN FRANCESCO

 

RASSEGNA STAMPA

 

A FABIO TRIZZINO il PREMIO alla LEGALITÀ

 


 

La morte annunciata di PAOLO BORSELLINO

 

 

video INTERVISTA – BORSELLINO: “Come disse Cassarà siamo cadaveri che camminano”


“Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento…  Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”. P.B

 


PAOLO BORSELLINO la morte, ospite annunciato


SAPEVA DI ESSERE NEL MIRINO


UNA MORTE ANNUNCIATA


TUTTI I PIANI PER UCCIDERE PAOLO BORSELLINO


NEL MIRINO DEI MADONIA DAGLI ANNI ’70


ANTONINO GIUFFRÉ: “Quando decidemmo di uccidere Falcone e Borsellino…”  AUDIO


PAOLO BORSELLINO DIVENTA IL NEMICO NUMERO UNO PER I BOSS MAFIOSI


RIINA: BORSELLINO ERA INTERCETTATO


RAPPORTO RISERVATO dei ROS un mese prima di Via D’Amelio


BORSELLINO SCOPRE CHE É ARRIVATO IL TRITOLO DESTINATO A LUI


FIAMMETTA BORSELLINO: una corsa contro il tempo dopo aver saputo che era arrivato il tritolo per lui – VIDEO


VIOLANTE: «L’ultima volta che vidi Borsellino già sapeva di non avere più tempo»


DI PIETRO: “Ero ai funerali di Giovanni Falcone. Paolo Borsellino mi si avvicinò e mi disse: Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo.”


UMBERTO SINICO:”Borsellino scelse di sacrificarsi. Sapeva che preparavano l’attentato”


BORSELLINO, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: «Approfondite mafia-appalti!»


BORSELLINO MI DISSE: “Confessami mi sto preparando”


ANTONINO CAPONNETTO: “Mi disse che non ci saremmo più rivisti” – VIDEO


“Sapevo che avrebbero ucciso Borsellino e non ho fatto altro che scattare immagini”


MANFREDI BORSELLINO: quel 19 luglio…


FUNERALI SENZA LACRIME DI STATO


UCCISO PER VENDETTA


 

“Sul lungomare di Carini, il giorno prima di morire, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”  A.B


AGNESE BORSELLINO:  “NON RIESCE A TROVARE IL TEMPO PER LA FAMIGLIA”

 

“Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e i miei figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. È diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. In gioco ci sono cose troppo importanti. Si è reso conto, pur nella sua umiltà, che in quel momento è l’unico ad avere la capacità e la volontà di lavorare con questi ritmi massacranti.»  La figlia LUCIA ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. «Pur di continuare il suo lavoro è disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre più spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici è tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza però ricevere in cambio, ne è convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall’ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi.»  (“L’agenda rossa di Paolo Borsellino”)


«Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo» AGNESE BORSELLINO

 

 

 

I ricordi di FIAMMETTA BORSELLINO

 


In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi
, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr). Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse sparato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.
Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo.
Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita.


L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti. Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante. Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono. Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui. Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere. Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo.


Quando uscivo di casa la mattina con papà, lo precedevo sempre, così se qualcuno l’avesse voluto colpire, io gli avrei fatto da scudo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.


A noi, quel 19 luglio non ci è piombato addosso, eravamo stati preparati a quell’evento, non a parole vivevamo una quotidianità in cui non potevi renderti conto che Palermo, in quegli anni era in uno stato di guerra, con centinaia di morti non solo tra le forze dell’ordine ma anche tra i civili. Anche se non si è mai preparati alla morte di un padre.


Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi.


Il rapporto con la morte:  Sin da quando ero bambina è sempre stata una di famiglia. Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti… ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo.


Rispetto alla paura mio padre diceva l’non è stabilire se uno l’ha  o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.


Sapevamo di essere esposti anche noi come nucleo familiare ai rischi che il suo lavoro comportava, ma non abbiamo mai vissuto all’interno di una campana di vetro antiproiettile né mio padre ha mai voluto mettercene una sulla testa. Negli anni, crescendo, sono maturate nuove consapevolezze, purtroppo per niente piacevoli. Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi”.


Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo.


Non gradiva mai, in quei giorni, che noi famigliari ci muovessimo con lui. Diceva che eravamo a un punto di non  ritorno e che dopo Capaci non aveva più  Falcone a farli da scudo. Ci disse anche che non sarebbe più riuscito a mamma e a noi una vita normale.


 

“Paolo Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”

disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte.”


Per cinquantasette giorni e cinquantasette notti, Paolo Borsellino visse con la morte sulla spalla. Aveva un’unica via di scampo: il tempo, batterli sul tempo, prendere per la gola i Corleonesi prima che Totò Riina lo uccidesse. Per cinquantasette giorni e per cinquantasette notti, Paolo Borsellino non visse. Morì lentamente, settimana dopo settimana, ora dopo ora. Davanti a tutta Palermo. Che sapeva, presagiva… Il procuratore aggiunto chiudeva un’indagine e ne apriva un’altra, un’altra e un’altra ancora. Volava in Germania per seguire le tracce dei sicari del maresciallo Giuliano Guazzelli, assassinato ad Agrigento tre mesi prima. Partiva per Roma per ascoltare i segreti di un pentito di San Cataldo. Scendeva per ore alla procura generale per spiegare ai magistrati di Caltanissetta quale era la pista da imboccare per Capaci. <> confessò Paolo Borsellino al suo migliore amico. Era una corsa contro il tempo.
Doveva chiudere il cerchio intorno ai Corleonesi. L’uomo che poteva chiudere quel cerchio era arrivato. Era Asparino Mutolo, l’ultimo pentito della Cosa Nostra. Era in grado di aprire un varco nell’organizzazione criminale. Ma bisognava ascoltarlo subito, bisognava verbalizzare le sue dichiarazioni, bisognava prima capire e poi colpire. <> fece sapere Mutolo ai poliziotti e ai magistrati. Il procuratore capo della Repubblica di Palermo si chiamava Pietro Giammanco.  Da Palermo partì il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò. Quando Mutolo non vide Borsellino ma un altro magistrato, chiuse gli occhi e chiuse la bocca. Si persero giorni. Il tempo passava inesorabilmente. (Attilio Bolzoni Giuseppe D’Avanzo)

 

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