L’avvocato Trizzino, genero del giudice ucciso, ricostruisce gli anni bui della Repubblica partendo dall’indagine massese
Le infiltrazioni mafiose alle cave, la strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino, l’audizione dell’altro ieri del giudice Augusto Lama davanti alla commissione parlamentare antimafia, un’inchiesta condotta dalla Procura di Massa il cui fascicolo è ’disperso’ in tribunale a Roma. Antonio Di Pietro, l’ex magistrato di Mani Pulite, direbbe… che c’azzecca? Per spiegarlo e fare un po’ di chiarezza su una delle pagine più inquietanti e oscure a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 abbiamo interpellato l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, la figlia del giudice assassinato, che da anni si occupa di queste vicende per conto della famiglia con un unico obiettivo: ricercare la verità.
“L’inchiesta di Massa – afferma Trizzino, che a sua volta è stato ascoltato dalla commissione parlamentare – fu condotta in maniera brillante dall’allora procuratore Lama e dall’ex maresciallo della Guardia di Finanza Piero Franco Angeloni e portò all’individuazione della presenza della mafia nelle cave apuane di marmo.
Ma il fatto importante era che dimostrava il tentativo di Cosa Nostra alla fine degli anni ’80 di ripulire gli enormi proventi della droga investendo in attività lecite, come l’ingresso nelle cave apuane e penetrando negli appalti pubblici siciliani tramite società… al di sopra di ogni sospetto”.
L’indagine di Lama e Angeloni portò a un teorema semplice: la Sam-Imeg, che allora deteneva oltre il 65% delle cave, era controllata dalla Calcestruzzi spa del gruppo Ferruzzi e di Raul Gardini che a sua volta era controllata dalla mafia corleonese dei fratelli Buscemi, che erano boss alle dipendenze di Totò Riina.
Ma poi si bloccò tutto. E Lama ha spiegato i motivi anche davanti alla commissione. “Accadde – dice l’attuale giudice del lavoro – che il caso uscì sulla stampa e fece clamore, io rilasciai anche un’intervista che non smentiva la notizia.
Ci fu un’ispezione ministeriale.
La realtà è che c’era tra i colleghi contrarietà nei miei confronti, ero dipinto come un rompiscatole, non stavo simpatico. Diciamo che per difendermi, e perchè volevo che l’indagine non fosse coinvolta in certe beghe interne, mi astenni dall’inchiesta. Ma l’ispezione poi accertò che l’indagine era corretta e il Csm alla fine mi assolse, non avevo rivelato atti d’ufficio”. L’avvocato Trizzino aggiunge un particolare: “L’ispezione – dice – fu mandata dall’allora ministro Claudio Martelli su segnalazione dell’amico Gardini, a cui l’inchiesta dava fastidio”.
Ma il punto vero della questione è un altro.
Il fascicolo dell’inchiesta con tanto di carte e registrazioni non è mai arrivato a Palermo, ma è pur vero che il 26 agosto 1991 un’informativa esauriente di quanto svolto dalla Procura di Massa giunse sul tavolo dei magistrati palermitani. Nessuno però fece nulla. “Il punto è questo – dichiara Trizzino – la Procura di Palermo non capì o non volle capire l’importanza dell’inchiesta apuana e anche di un rapporto dei carabinieri che riguardava mafia e appalti. Non so dire se ci fu superficialità o se si è voluto coprire alcune figure.
So solo che Borsellino voleva vederci chiaro.
Ma nel giugno ’92 fu archiviato tutto anche se c’era tempo fino a novembre per le indagini. Borsellino, tra l’altro, il 29 giugno definì il suo ufficio un groviglio di vipere e il 1 luglio il pentito Leonardo Messina lo informò che la Calcestruzzi era in mano a Riina”.
Le stragi in cui morirono Falcone (Capaci, 23 maggio ’92) e Borsellino (via D’Amelio, 19 luglio ’92) hanno segnato la storia della mafia e del nostro Paese. I colpevoli, mafiosi, sono stati condannati, ma non tutto è stato chiarito e forse non sono emerse anche altre responsabilità. Di questo l’avvocato Trizzino ne è convinto.
“Dopo l’uccisione di Falcone la mafia non era convinta di uccidere subito anche Borsellino.
Diciamo che l’accelerazione venne per interessi di altro tipo legati alle grandi aziende. Va anche detto che in tutti questi anni c’è stato un vero e proprio depistaggio, oltre a una grande superficialità. Ci hanno privato di documenti che avrebbero potuto rivelare il clima di allora e le indagini in corso. Ma la partita non è chiusa, la Procura di Caltanissetta sta lavorando e ci sono le audizioni davanti alla commissione parlamentare. Dopo me e Lama sarà ascoltato l’ex membro del pool antimafia Gioacchino Natoli. In base a quello che dirà, chiederò di essere riascoltato”. LA NAZIONE 20.1.2024
VIA D’AMELIO: l’audizione dell’ex giudice AUGUSTO LAMA all’antimafia: non so ancora che fine ha fatto la mia inchiesta
VIDEO audizione
Infiltrazioni mafiose nelle cave negli anni ’90: da Massa a Lucca al tribunale di Roma
Massa-Carrara «Io, ancora oggi, non so dirvi esattamente che fine abbia fatto il fascicolo relativo all’indagine che ho svolto sulla presenza della mafia corleonese alle cave di Carrara nei primi anni ‘90. Solo dopo aver presentato diverse richieste scritte, ho appreso che dalla procura di Massa le mie carte sono finite a quella di Lucca e poi al tribunale di Roma, ma non so esattamente in quale ufficio. Dopo lo spiacevole “incidente” professionale che mi costrinse ad astenermi dall’inchiesta, io non ho più avuto accesso alle carte. Se ho potuto scrivere la relazione che vi leggo oggi, è stato grazie alle informazioni raccolte nelle procure di Massa e Lucca, in cui ho lavorato e al prezioso aiuto fornitami dall’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, primogenita del magistrato ucciso dalla mafia e dell’allora maresciallo della Guardia di finanza Piero Franco Angeloni, che fu il mio braccio destro in quell’inchiesta».
L’audizione È quanto ha dichiarato l’ex giudice Augusto Lama nella sua audizione alla Commissione parlamentare antimafia, presieduta dalla deputata di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, la quale, in apertura della seduta, ha ricordato che, indagando sulla strage di via D’Amelio, avvenuta a Palermo il 19 luglio 1992, in cui perirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, tale commissione si è trovata più volte a far riferimento all’inchiesta condotta tra 1990 e 1992 da Lama, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica di Massa. Si tratta del periodo in cui la più grande azienda mondiale di marmo finì nelle mani della famiglia Buscemi, legata a Totò Riina, dopo che la Calcestruzzi Spa (impresa capofila del gruppo Ferruzzi) comprò la Sam-Imeg, le società (una la cassaforte delle concessioni, l’altra lo stabilimento operativo) che controllavano il 60% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara.
“Far West” A riaccendere l’attenzione su quei fatti, di recente, sono state anche due puntate di “Far West”, condotta da Salvo Sottile su Rai tre, in cui è intervenuto anche l’avvocato Trizzino, sostenendo che se la procura di Palermo avesse dedicato la giusta attenzione all’inchiesta avviata da quella di Massa sulle infiltrazioni mafiose in territorio apuano, si sarebbe potuto far luce sulla presenza di Cosa nostra in certi appalti pubblici e, forse, salvare le vite dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Seduto accanto dell’onorevole Colosimo, Lama, per oltre un’ora, ha raccontato nel dettaglio l’indagine che lo vide protagonista, ricordando che dal 1982, attraverso una società di Palermo, entrarono nell’azionariato di Calcestruzzi i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, molto legati a Totò Riina. «Antonino Buscemi -ha ricordato Lama- aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato suo cognato, il geometra Girolamo Cimino, in veste di amministratore delegato della Sam-Imeg». Ma le cose precipitarono. I siciliani, infatti, avrebbero imposto condizioni vessatorie ai cavatori e ai rappresentanti delle ditte consorziate. Lama ha riferito di aver iniziato ad indagare su questi fatti dall’estate 1990, sostenendo di essersi dovuto astenere dall’inchiesta il 15 febbraio 1992, dopo un’ispezione disposta dall’allora ministro della giustizia Claudio Martelli, socialista ed un procedimento disciplinare avviato su richiesta del giudice Francesco Castellano, all’epoca procuratore generale della Corte d’appello di Genova, sulla base di un esposto che censurava le sue esternazioni sui possibili coinvolgimenti del gruppo Ferruzzi con la mafia.
Una lettera molto lunga e dettagliata, inviata da Lama alla procura di Palermo il 26 agosto 1991, ripercorreva le indagini espletate sulla Imeg durante la gestione Buscemi, chiedendo approfonditi accertamenti bancari e patrimoniali. La magistratura di Palermo, però, pur avendo disposto una serie di intercettazioni ambientali, non sarebbe riuscita ad ottenere subito le prove decisive.
Palermo «Il procedimento iniziato a carico di Antonino Buscemi nel capoluogo siciliano -ha spiegato Lama- fu archiviato. In seguito, però, le indagini in Sicilia furono riaperte e Buscemi venne arrestato e condannato definitivamente nel 1996. Al riguardo l’ex magistrato ha ricordato anche un incontro avuto nel 1994 con il collega del tribunale di Palermo Giuseppe Pignatone, futuro procuratore capo di Roma.
«Quello che mi rammarica -ha detto Lama- è il fatto che la procura di Massa-Carrara decise di tramettere il fascicolo della mia indagine a quella di Lucca, sostenendo che quest’ultima fosse la giurisdizione territorialmente competente, visto che la sede della Imeg si trovava a Massarosa. Ma trattandosi di un’inchiesta su infiltrazioni della mafia siciliana, sarebbe stato più opportuno che ad occuparsi delle mie carte fosse la procura di Palermo, che, forse, avrebbe potuto fare buon uso delle intercettazioni che io avevo già disposto ed evitare l’archiviazione del primo procedimento a carico di Buscemi. Dopo aver presentato diverse richieste scritte, ho saputo che nel 1993 il mio fascicolo è finito al tribunale di Roma, ma non so esattamente in quale ufficio ed io non ho più potuto accedervi. Se fossi rimasto il titolare dell’indagine, -ha concluso Lama- avrei sicuramente fatto tutto il possibile per arrivare in fondo alla vicenda».
La genesi Nella sua audizione, l’ex pm Augusto Lama ha ricordato anche come nacque la sua inchiesta: «Era l’estate ’90, le prime segnalazioni arrivarono da Franco Ravani, presidene del Consorzio Cave Carrara, il quale mi scrisse, e poi lo sentii, che Imeg e Sam erano cadute sotto il controllo di personaggi siciliani vicini alla mafia. Ad aiutarmi a ricostruire i vari passaggi fu il rgionier Alessandro Palmucci, ex Montecatini ed ex Imeg, che mi spiegò anche la singolarità per cui al momento della privatizzazione del comparto, che dall’Iri era passato all’Egam poi all’Eni e Samim, insomma di fatto pur vivendo un momento positivo il settore, ci fu una svalutazione del materiale in deposito di circa 10 miliardi».
Ha spiegato anche la composizione societaria della Generali Impianti di Palermo dei fratelli Buscemi e di un altro socio. «Inizialmente aprii un fascicolo senza indagati, sentii uno dei pentiti rimasti in Italia, Antonino Calderone, il quale sostanzialmente confermò che i Buscemi erano legati alla mafia di Passo di Rigano-Uditore».
Le perquisizioni È il gennaio del 92 quando scattano le perquisizioni alle sedi Sam (a Carrara) e Imeg (a Montramito), notizia che arriva anche alla stampa. «Forse fui ingenuo – ammette il dottor Lama – non rivelai nessun segreto d’ufficio, come poi a distanza di tempo mi è statop riconosciuto, perché fui “assolto” nel procedimento disciplinare, ma sulla base di un esporto dell’avvocato Striano, il ministro Martelli mandò un’ispezione, partì il procedimento della procura generale di Genova e così il 15 febbraio ’92 mi astenni. Di conseguenza non venni neppure a sapere sul momento delle intercettazioni che aveva disposto il dottor Gioacchino Natoli della procura di Palermo».
Ma le indagini sulla strage di via D’Amelio non si sono fermate. Il giudice Lama ha raccontato di essere stato ascoltato anche a marzo dell’anno scorso dalla procura di Caltanissetta.l. David Chiappuella IL TIRRENO 19.1.2024
3.7.2024 MAFIA e APPALTI: ex pm Natoli indagato per favoreggiamento
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