17 luglio 1992 – DON CESARE: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando»

 

Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre. “

Il 17 luglio, due giorni prima del suo assassinio “Andai a trovarlo in Procura, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia.”

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AUDIO  racconto di Don Cesare


VIDEO racconto di ANTONINO CAPONNETTO il 16 luglio lui ebbe la  certezza…

 


Don CESARE ROTTOBALLI: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando» – padre Cesare parroco in un quartiere della periferia di Palermo e amico del giudice: Paolo è stato un martire per la giustizia. – Il 19 luglio 1992 un’autobomba uccise in via D’Amelio a Palermo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. Una strage annunciata, avvenuta in un’afosa domenica, 57 giorni dopo quella di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. È questa l’unica cosa certa, perché vent’anni, undici processi, una sfilza di ergastoli, sette dei quali annullati l’anno scorso, non sono ancora bastati per fare luce su una strage di Stato. Del massacro di via D’Amelio è stata ritenuta responsabile tutta la Cupola di Cosa Nostra. Secondo il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e i suoi sostituti – che negli ultimi tre anni hanno provato a togliere il velo della mistificazione su una delle pagine più oscure della storia d’Italia – «Borsellino fu ucciso perché si oppose alla trattativa tra Stato e mafia». A dare lo spunto per le nuove indagini, sono state le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Secondo la Procura di Caltanissetta, che ha chiesto e ottenuto la sospensione della pena per sette ergastolani ritenuti estranei al delitto e l’arresto di altri quattro affiliati a Cosa nostra, Borsellino fu ucciso perché Riina lo riteneva un ostacolo alla trattativa con esponenti delle istituzioni. 
«Paolo Borsellino aveva piena consapevolezza di stare per morire, ma continuò a fare il suo dovere fino alla fine. Per questo mi piace dire che rientra tra i beati a causa della giustizia». Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con cinque agenti di scorta.
Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata. Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.

Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino? Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre. 

Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…». Cosa le disse? A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini. 

Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane? Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre. 

Quale fu il vostro ultimo incontro? Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.

Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»? No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi. 

Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage? Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia. 

Avvenire Alessandra Turrisi – 16 luglio 2012


 

Paolo Borsellino. Il ricordo di don Rattoballi: “Uomo delle beatitudini”

Quale esempio ha lasciato Paolo Borsellino? Paolo era profondamente credente, ed era quella peculiarità che guidava la sua vita. Non tralasciava mai di partecipare alla Messa della domenica. Il suo rapporto con la fede gli ha permesso di avere quella capacità di sensibilità verso gli altri. Ciò aveva inciso in lui il grande rispetto per la persona. Rispetto che emerge da tante testimonianza di coloro che gli sono stati accanto, e da quelli che incontrava occasionalmente.

È noto che avesse anche un particolare rapporto con l’Eucaristia…  Il suo rapporto con l’Eucarestia l’ho appreso da diversi uomini della sua scorta. Quando lui si trovava fuori Palermo, specialmente nei giorni festivi, non dimenticava mai di partecipare alla Messa. Perché ai suoi “angeli” diceva “andiamo a Messa”. E alcune volte i suoi uomini di scorta gli dicevano: “Dottore, questa domenica lasci stare!”. E lui rispondeva: “Io ho un appuntamento!”. Quando Paolo fu ucciso, alcuni di loro mi dissero: “Ora comprendiamo da dove traeva il coraggio e l’amabilità”.

Quale valore aveva la famiglia per Paolo Borsellino? Paolo aveva tante coppie di amici. Mi viene da dire che Paolo facesse “il consulente matrimoniale”. Diverse di queste coppie si confidavano con lui. Lui le ascoltava e dava loro consigli positivi per la loro unione e per la loro vita familiare. Cercava di tenere unite le famiglie, perché ne conosceva il valore inestimabile. Nella famiglia d’origine apprese l’importanza del dialogo che ha formato Paolo alla capacità di ascolto, confermata da tante testimonianze e, soprattutto, dalle persone che interrogava per le indagini.

Un altro valore in cui credeva tanto era quello della giustizia. Cosa spingeva quella sua vocazione? Paolo aveva un profondo senso della giustizia, perché lui sentiva il dovere di fare chiarezza sui tanti punti oscuri dei fatti accaduti in Sicilia. Tanto da farne una autentica vocazione. Era consapevole del rischio che correva e diceva che “ho sempre accettato più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e anche di come lo faccio”. E lo faceva perché credeva profondamente nel suo lavoro. Qualche settimana prima che fosse ucciso lui mi confidò a casa sua, nel suo studio, che era arrivato il tritolo per lui. Io gli dissi: “Ma non si può fare nulla per l’incolumità della tua persona?”. Così come avvenne per il maxi processo, quando fu allontanato da Palermo. Lui serenamente mi disse: “Io sono un uomo delle istituzioni e credo profondamente nella mia scelta, per cui non posso fuggire o nascondermi: io mi preparo a tutte le evenienze”.

Oggi, che cosa prova alla luce di quello che è successo? Io ho un grande rammarico nei confronti di tutte quelle realtà che erano preposte alla giusta tutela di Paolo. Sapevano e conoscevano che correva il rischio di essere ucciso e non hanno fatto nulla per evitarlo. Oggi alla luce di tanti fatti, non mi faccio tanta meraviglia che, all’interno della stessa magistratura, vi fossero alcuni magistrati invidiosi del ruolo di Paolo. Tanto che il pool antimafia, guidato dal dottor Antonio Caponnetto, fu smembrato.

Dopo la strage di Capaci, ci fu un evento in cui lei chiese a Paolo Borsellino di partecipare… Coinvolsi Paolo a intervenire alla fiaccolata organizzata dagli scout Agesci, di cui ero assistente regionale, nell’anniversario del primo mese della morte di Giovanni Falcone, per ricordarlo assieme a Francesca Morvillo e agli uomini di scorta, tra cui mio cugino, Vito Schifani. Da tutta Italia arrivarono a Palermo cinquemila giovani dello scoutismo Agesci. Chiesi a Paolo di parlare loro. Fu un discorso veramente memorabile e meraviglioso. Assieme a lui abbiamo scelto di scrivere un messaggio all’interno del testimone che avremmo affidato loro: le beautitudini del Vangelo di Matteo – Capitolo quinto, dal versetto uno al versetto 12 -. Paolo era affascinato da questa magna carta del cristiano, dove lui si rispecchiava. Ma in modo particolare mi piace citare i versetti 6 e 10: 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 10Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Secondo lei, quanto questi due versetti rispecchiano la storia e la vita di Paolo Borsellino? Paolo, in particolar modo, in essi rispecchiava la sua scelta non solo professionale, ma anche la sua scelta vocazionale di magistrato, che svolgeva con competenza e con molta passione. Aveva diversi contatti con i giovani, che gli scrivevano, e lui rispondeva loro. Mi diceva che è questa la strada vincente: parlare ai giovani, per formare le coscienze delle nuove generazioni, e formarli a non avere compromessi con la vita criminale o mafiosa. Quindi, possiamo rifarci alle parole di san Giovanni Paolo II, e cioè che, tra i martiri della giustizia e indirettamente della fede, potremmo – anzi, dovremmo – annoverare Paolo Borsellino.

Quale fu il vostro ultimo incontro? Il venerdì mattina precedente il suo eccidio, due giorni prima – il 17 luglio 1992 -, andai alla procura del Tribunale di Palermo, nel suo ufficio. Parlammo della situazione che si era creata dopo la strage di Capaci, della testimonianza che portavo assieme alla moglie di mio cugino, la signora Rosaria Costa. Dopo la sua dichiarazione fatta ai funerali, tanti uomini della mafia cercavano di mettersi in contatto con Paolo Borsellino, perché ad alcuni non era piaciuto quel modo di procedere della mafia. Ci eravamo dati appuntamento per incontrarci di nuovo la settimana successiva. Nel congedarmi, lui mi disse: “Fermati ancora, ho da chiederti di confessarmi, perché mi preparo, non si sa mai quale sia il momento”. Aveva un grande amore per il Signore e, se si doveva presentare dinanzi a Lui, voleva farlo con una coscienza purificata. La sua fede in Cristo gli dava la forza d’affrontare questo martirio, come anche il suo credo nel valore della giustizia.

Che cosa ha generato la morte di Borsellino? C’è stata una rivolta della società civile. Si è sviluppata la denuncia del pizzo, l’impegno di tanti per la legalità, dalle scuole all’associazionismo. Avendo avuto modelli come Falcone e Borsellino, alcuni giovani sono entrati in magistratura o si sono impegnati nel sociale. È stata la reazione che Paolo auspicava. Filippo Passantino 19

 


La richiesta della confessione due giorni prima di morire

“Possiamo rifarci alle parole di san Giovanni Paolo II, e cioè che, tra i martiri della giustizia e indirettamente della fede, potremmo – anzi, dovremmo – annoverare Paolo Borsellino”. Lo dice in un’intervista al Sir, don Cesare Rattoballi, parroco a Palermo, cugino dell’agente di scorta Vito Schifani ucciso nella strage di Capaci, e molto vicino negli ultimi due mesi di vita al magistrato ucciso in via d’Amelio, 29 anni fa.
“Non desidero recriminare, ma Paolo fu lasciato solo a portare avanti quel valore nel quale ha creduto: la giustizia. Non fu invece mai lasciato solo dalla sua famiglia, mentre fu abbandonato da alcune istituzioni”.  Il sacerdote, allora assistente regionale Agesci, ricorda la fiaccolata organizzata nel primo mese dopo la strage di Capaci: “Coinvolsi Paolo a intervenire. Da tutta Italia arrivarono a Palermo cinquemila giovani dello scoutismo Agesci. Chiesi a Paolo di parlare loro. Fu un discorso veramente memorabile e meraviglioso. Assieme a lui abbiamo scelto di scrivere un messaggio all’interno del testimone che avremmo affidato loro: le beautitudini del Vangelo di Matteo – Capitolo quinto, dal versetto 1 al versetto 12 -. Paolo era affascinato da questa magna carta del cristiano, dove lui si rispecchiava”.  Infine, un altro ricordo: “Il venerdì mattina precedente il suo eccidio, due giorni prima – il 17 luglio 1992 -, andai alla procura del Tribunale di Palermo, nel suo ufficio. Parlammo della situazione che si era creata dopo la strage di Capaci, della testimonianza che portavo assieme alla moglie di mio cugino, la signora Rosaria Costa. Nel congedarmi, lui mi disse: ‘Fermati ancora, ho da chiederti di confessarmi, perché mi preparo, non si sa mai quale sia il momento’. Aveva un grande amore per il Signore e, se si doveva presentare dinanzi a Lui, voleva farlo con una coscienza purificata. La sua fede in Cristo gli dava la forza d’affrontare questo martirio, come anche il suo credo nel valore della giustizia”. ASK NEWS Lunedì 19 luglio 2021 


Gli ultimi 56 giorni di Borsellino: 13 luglio 1992

Dal libro di Enrico Deaglio, la cronologia degli avvenimenti tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio

Il nuovo libro di Enrico Deaglio – Il vile agguato (Feltrinelli) – è dedicato alle indagini sulla strage di via D’Amelio a Palermo in cui fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino assieme a cinque agenti della sua scorta, il 19 luglio 1992. Il libro si conclude con una “succinta cronologia degli ultimi cinquantasei giorni di vita di Paolo Borsellino, compresi avvenimenti che avevano a che fare con lui, ma di cui non era a conoscenza”. Il Post pubblicherà in sequenza, assieme al secondo capitolo del libro, la successione di quegli eventi, a vent’anni di distanza.

Palermo, 13 luglio
“Il tritolo per Borsellino è arrivato”: nuovamente il Ros informa il procuratore Giammanco. Il Ros informa la procura.
Borsellino lo confida (“È arrivato insieme a un carico di bionde, lo sa la finanza”) a don Cesare Rattoballi, un prete suo amico (è il cugino di Rosaria Schifani, che la accompagnò in cattedrale e la sostenne durante la sua inaudita denuncia: “Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi…”.
Borsellino chiede a don Rattoballi di confessarsi. La confessione avviene seduta stante, nel suo ufficio al palazzo di giustizia.
 IL POST


 

La via crucis di Paolo Borsellino

Due mesi dall’attentato a Falcone Sappiamo molto, non sappiamo tutto. Potremmo riassumere così le nostre conoscenze su quanto avvenne in quell’estate del 1992. Tra il 23 maggio e il 19 luglio di quell’anno, si consumano le stragi di Capaci e via D’Amelio, due degli eccidi più terribili nella storia, pur sanguinaria, dello stragismo politico del nostro paese. Entrambi gli attentati rientrano in un’unica strategia terroristica deliberata dai corleonesi, in una serie di riunioni tenute tra ottobre e dicembre del 1991. 

Dapprima, Salvatore Riina riunisce, nelle campagne di Mazara del Vallo, i suoi fedelissimi: i fratelli Graviano, Vincenzo Sinacori, Mariano Agate e Matteo Messina Denaro – l’ultimo ancora latitante – di quel gruppo di sicari. Sono coloro che compongono la super Cosa, la risposta di Riina alla super Procura antimafia che Falcone sta tentando di istituire, vincendo le resistenze corporative di gran parte della magistratura e di un vasto fronte politico.  
La sentenza definitiva del maxiprocesso che condanna i vertici mafiosi si ha soltanto il 30 gennaio del 1992, ma Riina ha già compreso che i suoi tentativi di condizionare la pronuncia della Cassazione non hanno avuto esito positivo e avverte i suoi: è arrivato il momento della resa dei conti con i nemici di Cosa nostra. Con Falcone e Borsellino, innanzitutto, la cui condanna a morte è stata già deliberata dalla commissione all’inizio degli anni Ottanta, ma anche con quei politici che hanno tradito le aspettative della consorteria criminale.  
Cinquantasette giorni separano la morte di Giovanni Falcone da quella di Paolo Borsellino, la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Leggiamo questo crocevia essenziale nelle vicende del nostro paese, partendo da alcune domande fondamentali: come visse questi due mesi Paolo Borsellino? Dove traeva la forza per resistere alla paura e all’isolamento? Non si tratta di ricorrere all’apologetica, per descrivere un uomo che non voleva essere un santo. Semplicemente, quella del magistrato ucciso il 19 luglio 1993 è una storia cristiana. 
Cinquantasette giorni Trent’anni dopo Capaci e via D’Amelio, c’è ancora qualcosa che non abbiamo compreso su quella tragica estate del 1992? Non si tratta solo di domande e misteri che rimandano ad una sfera processuale. C’è una dimensione che riguarda l’interiorità di coloro che combatterono “la buona battaglia” e che possiamo provare ad intravedere, mettendo insieme tessere e frammenti sparsi, senza la pretesa di esaurire una difficile ricerca.
Ed è tanto più importante, nel corso di questa indagine, mettere a fuoco un tratto di strada, grazie a cui delineare la pienezza di un cammino. Gli esseri umani non sono solo “forme che abitano il tempo” (F. Scarabicchi, La figlia che non piange, Einaudi, Torino, 2021, p. 38), ma è nel tempo che la fede di un uomo o di una donna trova la sua forma. In particolare, se guardiamo all’itinerario di Paolo Borsellino, tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, emerge con nitidezza la maturità di una fede che lo sostiene nel momento più difficile della sua esistenza.  
I cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci rappresentano per Borsellino una vera e propria “via crucis”, come ha sottolineato Fabio Trizzino, avvocato della famiglia Borsellino. È stato detto e ripetuto che Falcone e Borsellino hanno subito, nel corso della loro carriera professionale, i peggiori attacchi da parte dei loro colleghi magistrati. Un aspetto merita di essere sottolineato: dopo il 23 maggio, Paolo Borsellino vive i momenti più dolorosi proprio nei corridoi del palazzo di giustizia di Palermo, che egli stesso definisce “un nido di vipere”.

L’isolamento, il tradimento, la morte

Com’è naturale, il magistrato intende indagare sulla strage di Capaci. Non è solo il desiderio di rendere giustizia ad un amico. Borsellino è, senza dubbio, colui con le maggiori competenze in fatto di lotta alla mafia. Eppure, il suo superiore gli riconosce le deleghe per condurre le indagini sulle cosche di Agrigento e Trapani, ma non di Palermo, dove opera il centro decisionale di Cosa Nostra.  
In quelle poche settimane, Borsellino conduce un lavoro estenuante, che favorisce la collaborazione con la giustizia di nuovi, importanti pentiti. Il 28 giugno, il giudice e la moglie incontrano a Roma il Ministro della Difesa Salvo Andò. Quest’ultimo ha ricevuto delle minacce di morte e sa che c’è una circolare che riguarda anche lo stesso Borsellino, in cui si parla di un attentato che lo riguarda. Il Ministro vuol sapere cos’è stato fatto per proteggerlo, ma Borsellino è ignaro di tutto.  
L’indomani si reca nell’ufficio del Procuratore capo e protesta, batte i pugni sul tavolo fino a farsi male, indignato perché è stato tenuto all’oscuro di notizie che riguardano la sua sopravvivenza e la sicurezza dei suoi familiari. In realtà, tutti sembrano essere a conoscenza del fatto che Borsellino sta per essere ucciso, a Palermo, come a Roma e a Milano, ma quasi nessuno, tra coloro che avrebbero il potere di fare qualcosa per bloccare il piano di morte, si adopera in maniera efficace per impedirlo. Lo stesso magistrato è consapevole che gli rimane poco tempo, vuol fare in fretta, perché è vicino a scoprire il movente ultimo che sta dietro la morte di Falcone, così come i legami imprenditoriali, massonici e politici che proteggono Cosa nostra.  
Servitore dello Stato fino alla fine, non parla sui quotidiani o alla tv di quello che ha scoperto. Forse, ne scrive su quell’agenda rossa che è stata sottratta dal luogo della strage di via D’Amelio, mentre i corpi del giudice, degli uomini e delle donne della scorta erano stati appena straziati da un’autobomba. Supplica, invano, di essere convocato come testimone dalla Procura di Caltanissetta, che si occupa della strage di Capaci. Infine, nella sua passione non manca il tradimento di un amico. Borsellino ne parla, in lacrime, durante una conversazione con due giovani colleghi della Procura di Marsala, tra la fine di giugno e i primi di luglio. 

Un testimone 

Il giudice continua a combattere nell’arco dei cinquantasette giorni, pur consapevole che la congiura si stringe sempre più attorno a lui. Dove trova le forze per non arrendersi? Tante testimonianze ci dicono che egli attinge dalla propria fede l’energia per resistere al male. Si tratta di una fede semplice, non esibita, che si nutre di alcuni elementi essenziali, quali l’amore per le Scritture – che traspare dallo splendido discorso che tiene per il trigesimo di Giovanni Falcone; la preghiera quotidiana, che si alimenta di un modesto libretto di orazioni; la mensa eucaristica e la confessione, a cui chiede di accedere il giorno prima di essere ucciso, rivolgendosi al suo amico sacerdote, don Cesare Rattoballi. 

19-07-2022 SAN FRANCESCO 


Don Cesare Rattoballi: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando


Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio
con cinque agenti di scorta. Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata.Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.

Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino?

Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime.
Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre.Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…».
Cosa le disse?

A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini.

Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane?

Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre.

Quale fu il vostro ultimo incontro?

Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.

Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»?

No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi.Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage?Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia

 tratto da AVVENIRE Alessandra Turrisi 16 luglio 2022


Tutta la famiglia aspettava la tragedia

 
Scendevo gli ultimi gradini di casa Borsellino, vedevo i carabinieri fuori, oltre il portoncino del palazzo. Davanti, una spianata di polvere. Oltre la polvere, la chiesa nella quale si sarebbero svolti i funerali, con gli officianti circondati da giovani diaconi, un repertorio di canti sacri a me del tutto ignoti, le autorità dal volto sottomesso, i figli con la mandibola serrata dal dolore e dalla rabbia.
Sulla soglia mi aveva abbracciato Antonino Caponnetto. Piangeva accanto al magistrato De Francisci. Gli diceva: «Domani noi due andiamo a trovare Paolo che ci aspetta nella sagrestia, e staremo con lui a vegliare il suo feretro. Ma indosseremo la toga di magistrati della Repubblica».
Uscii frastornato e commosso come non mi era mai accaduto in trent’anni di questo incauto mestiere.
Da allora molte volte ho ripercorso con la mente quei passi, quelle stanze e riordinato i volti, le voci. E’ diventato una sorta di esercizio, vorrei dire di laica preghiera: il ricordo, il ricordo netto e palpitante, è l’unico bene prezioso che possiamo per breve tempo stringere e trasmettere. E così rivedo la vedova di Paolo Borsellino, Agnese, piccina di corpo e gigantesca di spirito, di forza.
Una casa piccolo borghese, una casa da bravo funzionario che non si può permettere lussi. Una casa di ragazzi che vivevano stretti, con i loro amici, fidanzate e fidanzati, colleghi e compagni di scuola, accanto a quest’uomo dallo sguardo saettante, il magistrato fiaccato dalla certezza del sacrificio e tuttavia diritto sul filo della schiena. Rivedo Caponnetto che mi sussurra qualcosa a proposito dell’agenda sparita. E Manfredi, atletico, magro, simpatico, pieno di decoro e di disprezzo come un hidalgo spagnolo, che incute rispetto dai suoi vent’anni: Manfredi che mi racconta con orrore dei giornalisti che si sono insinuati in casa, che si spacciano per amici del padre, che millantano «Paolo mi diceva. Paolo mi ha detto». E non era vero niente. Quando ho parlato di nuovo con Manfredi, nei giorni dell’anniversario della morte di Falcone, il suo disprezzo e il suo dolore sembravano decuplicati: vedeva la figura del padre resa innocua in un santino, forzosamente accoppiata all’altra di Falcone, sicché i due poveri magistrati uccisi sono diventati, loro malgrado, i beati santi Giovanni e Paolo. La casa dei Borsellino è sobria. La casa di un preside, di un funzionario, di un maestro di scuola. La casa di un uomo che aveva stanziato una somma straordinariamente alta da consegnare alla ragazza del figlio, affinché lei potesse comperare a Manfredi la muta da sub, senza dirgli che era lui, il padre, il finanziatore occulto. Ragazzi dal curriculum scolastico di alto livello: Lucia, la figlia che faceva farmacia, doveva dare un esame il giorno stesso. E lo diede. Fra le lacrime, ma compostamente e perfettamente, papà così avrebbe voluto. Fiammetta era arrivata da lontano, da vacanze asiatiche e si era dovuto aspettare lei per poter procedere con i funerali: «Mi raccomando, Fiammetta», le aveva detto il padre il giorno della sua partenza, «mi raccomando, appena arrivi chiama subito e lasciami il numero di telefono dove posso cercarti nel caso che mi ammazzino».
Era lo scherzo quotidiano. L’onorevole Ayala mi ha raccontato dei bei tempi del pool, quando lui, Falcone, Caponnetto e gli altri si rendevano visita l’un l’altro, chiacchieravano e scherzavano, c’era sempre un saluto al duce per Borsellino, una mano tesa, e Falcone con quella sua aria da gatto soriano e sornione che gli rivolgeva la parola dicendogli: «Camerata Borsellino, posso parlarvi?». E la gente: gli amici, i parenti, i magistrati, i visitatori, decine e decine di persone che entravano e uscivano da quell’ingresso minuscolo, con la libreria che forma una parete di divisione, quella gente piena di forza: decoro, decoro, decoro, questo ricordo più di tutto, ed è un ricordo straziante.
Perché nessuno perse la calma, nessuno urlava, nessuno imprecava, nessuno si agitava. Ma piangevano tutti in modo velato, silente, e anch’io fui trascinato in quello stato di doglianza accorata e composta, sicché vidi quei giudici come Di Lello, De Francisci e Caponnetto che piangevano come bambini tristi, ma senza perdere nulla della loro grande forza e austerità. Il pianto veniva ero¬ gato da un dolore enorme, da uno sdegno senza confini, da un desiderio di vendetta della legge. Rivedo Peppino Ayala che mi racconta come si imbatté, col piede, nel busto carbonizzato di Paolo Borsellino. Mi raccontò di essere inciampato nel troncone superiore del povero corpo di Paolo Borsellino: «Era tutto nero, i capelli bruciati, irriconoscibile. Ho capito che era lui dai denti, gli incisivi un po’ separati, e quel suo naso un po’ aquilino. Era lui, era il mio Paolo, e non era più il mio fratello, il mio amico, era diventato una cosa, una cosa terribile…».
Ayala mi aveva raccontato anche della sua personale doppia tragedia: a causa della vicinanza della sua casa da via D’Amelio, si era sparsa la voce che la vittima dell’attentato fosse lui. E quella voce aveva raggiunto i suoi figli che abitano a Mondello insieme alla mamma, e così mentre lui piangeva l’amico ucciso e gli agenti di scorta dilaniati (fra cui per la prima volta una donna, una bella ragazza sarda entrata da poco in polizia), nelle stesse ore i suoi figli e i suoi amici piangevano lui e – mi racconterà Manfredi Borsellino – i figli del giudice ucciso vagavano di ospedale in ospedale per capire se davvero il morto fosse il loro papà.
A casa di quest’uomo innocente e terribilmente vivo dopo la morte, mi aveva portato il trepido e irresistibile giudice Antonino Caponnetto, il padre storico del pool, l’uomo che era stato intellettualmente sedotto da Giovanni Falcone il quale gli aveva poi portato Paolo Borsellino, magistrato valente e tenuto in disparte. Caponnetto mi aveva risposto al telefono di casa Borsellino. Ebbe parole di grande emozione, e anch’io le ebbi. Mi disse: «Venga a trovarci» e fu così che varcai il portone di vetro e metallo anodizzato del palazzo periferico in cui abitavano e abitano i Borsellino. I parenti di Paolo Borsellino: erano tutti pigiati in quell’ingresso, immersi in quel controllato brusio della veglia e del conforto, quando tutti si riuniscono per sostenere la famiglia e nessuno parla dell’ucciso come se fosse davvero morto, ma come se fosse svanito per esigenze di scena, soltanto un attimo, per scherzo. Ma Paolo è morto e sta nella bara e la bara è nella sacrestia: una chiave ce l’ha proprio Antonino Caponnetto, quest’uomo diafano, dall’accento toscano e l’anima siciliana.
La famiglia Borsellino appariva provata non soltanto dalla morte di quel padre e marito giudice, ma dall’attesa di quella morte.
Lui sapeva di morire, loro sapevano, sapevano tutti. Paolo frizzanti «Ricordo i pianti silenziosi Nessuno imprecava né si agitava E quel decoro rendeva la scena più straziante»
PAOLO GUZZANTI – La Stampa 19.7.1993
 

La lettera dei FAMIGLIARI 

«Lo sentiamo ancora vicino».
I familiari del giudice (Agnese, Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino) hanno scritto una lettera che l’attrice Lina Sastri ha proposto durante lo Speciale Tg 1 di ieri. Ecco il testo:
 
«Anche per noi è giunto così il momento di ricordare che è trascorso un anno, da quando nostro marito e padre è stato crudelmente sottratto da questa vita, solo per essere stato un uomo onesto e leale anche con coloro che egli sapeva non avessero fatto la sua stessa scelta. «Ma lui è ancora così vicino alle persone che ama che per noi un anno sembra solo un lungo giorno che non giunge mai al tramonto. E’ triste pensare che per coloro che gli hanno voluto e che continueranno a volergli male, questo sia invece un lungo anno di una “non vita” fatta di paure, rimorsi e tentativi di nascondersi; pertanto non vivremo questo 19 luglio come un giorno di morte ma come un giorno in cui riflettere sul vero significato della vita. «Se una scila persona fra tante accoglierà questo messaggio, allora ciò basterà perché nostro padre continui a vivere non da eroe ma da uomo normale, padre, marito, amico, magistrato. Non ci consola sentire nostro padre chiamato eroe, perché è un modo per continuare ad attribuire ad un uomo solo le responsabilità che dovrebbero essere di migliaia di uomini. E’ triste pensare che il fuoco di quel 19 luglio non abbia distrutto con sé il male residuo dell’animo umano. Esso tuttavia ha alimentato la bontà e l’amore di tanti uomini, che hanno il me rito di avere reso il nostro dolore sopportabile, condividendolo riempendoci d’affetto. «Grazie a questi “nuovi amici a cui spesso non abbiamo potuto dire quanto eravamo loro grati e quanto una loro parola, una let tera, un gesto, ci abbiano fatte re cuperare anni di vita che in un attimo credevamo di avere perso, Grazie a tutti coloro che con il loro vivere semplice ed onesto por tano alto il nome di Paolo, incarnandone l’essenza. Grazie a tutti coloro che veramente ci vogliono bene e che desiderano tendere la loro mano alla nostra, non la sciandoci soli, in questo lungo cammino verso la “vera” luce, verso la “vera” vita».
 

Un giorno gridando «Borsellino vive»

Concerti, fiaccolate e una catena umana di quattro chilometri attraverso il capoluogo Concerti, fiaccolate e una catena umana di quattro chilometri attraverso il capoluogo Un giorno gridando: «Borsellino vive» La Sicilia scende in piazza a un anno da via D’Amelio
Fiaccolate e catene umane, come per l’anniversario della strage di Capaci il 23 maggio. Anche questa volta, a un anno dall’eccidio
di via D’Amelio, con vittime il giudice Paolo Borsellino e cinque dei sei agenti della scorta, la gente chiede pace, rinnova l’impegno contro la piovra. Alle 21, ieri, la vedova e i tre figli di Borsellino hanno cominciato una veglia nella chiesa di S. Maria di Marillac.
Quasi alla stessa ora la folla ha assiepato lo stadio comunale di Marsala (Borsellino vi fu procuratore della Repubblica  per 4 anni), dove la rockstar Sting ha dedicato alle sei vittime «Fragile», uno dei brani del suo concerto concluso a tarda ora con una fiaccolata. E sempre ieri un fiorire di manifestazioni, incontri e iniziative in Sicilia e fuori dell’isola.
Il giudice Antonino Caponnetto ha parlato nell’atrio della Biblioteca comunale ricordando «Paolo» e «Giovanni» e i poliziotti che hanno sacrificato le loro giovani esistenze accanto a loro.
Vi sono stati momenti d’intensa commozione, ma pure di conferma che i siciliani non intendono più subire. Nel coro di condanna, una nota stonata a margine della protesta antimafia di 150 persone a San Giuseppe Jato, 30 km da Palermo, il paese dei Brusca, il clan più legato a Totò Riina, ma pure di Bal- duccio Di Maggio, il pentito che ha consentito la cattura del capo di Cosa nostra.
Un ragazzo che non ha partecipato si è.infatti lamentato: «Non c’è lavoro. Combattono la mafia, ma noi siamo disoccupati». Una giustificazione che sottintende l’adesione alla mafia e che ricorda le proteste di gruppi di edili palermitani che anni fa, davanti al municipio, inneggiarono alle cosche, sostenendo che quando i boss avevano campo libero c’era lavoro per tutti.
Ad Agostino Catalano, il capo della scorta di Borsellino, è stata dedicata la piazza principale del rione popolare Zen in cui abitava, e in piazza Magione, dove nacque Borsellino, è stato allestito un musical. A Sestu (Cagliari) le donne del digiuno del comitato dei lenzuoli, partite da Palermo in traghetto, hanno portato la loro solidarietà ai familiari di Emanuela Loi, l’unica donna tra le vittime. Oggi una pianta d’ulivo, giunta da Gerusalemme, sarà posata in via D’Amelio da dove partirà una catena umana sino a piazza Magione, più di 4 chilometri. Il vicecapo della polizia Dell’Orco deporrà fiori davanti alla lapide in memoria degli agenti uccisi nella caserma Lungaro, e il programma prevede anche assemblee di magistrati e poliziotti, mentre verrà il presidente della Regione Giuseppe Campione, scoprirà una lapide a Palazzo d’Orléans. Antonio Ravidà LA STAMPA 19 luglio 1993