[di Stefano Baudino per 𝐿’𝐼𝑛𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒, 5 Ottobre 2024]
Si è ufficialmente aperto l’ennesimo processo sul più grande depistaggio della storia repubblicana: quello sull’inchiesta in merito alla strage di Via D’Amelio, in cui morì il giudice Paolo Borsellino, che vede sul banco degli imputati quattro poliziotti. Eppure, questa volta, in sede processuale sono stati tirati in ballo direttamente i vertici delle istituzioni. Infatti, accogliendo le richieste degli avvocati di varie parti civili, il giudice dell’udienza preliminare David Salvucci ha citato la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno quali responsabili civili del processo sui depistaggi delle indagini sull’omicidio Borsellino. Si tratta della nuova tappa di un iter giudiziario lungo ed estenuante, spesso sfociato in risultanze fumose e contraddittorie, che dopo 32 anni sembra ancora ben lontano dalla sua definitiva conclusione.
In questo processo sono imputati i poliziotti palermitani Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco, tutti ex appartenenti del gruppo investigativo Falcone-Borsellino guidato dal “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera, giudicato il “perno” del depistaggio nell’ambito del processo Borsellino-Quater. Secondo la Procura, avrebbero mentito nella cornice del procedimento incentrato sul ruolo avuto dal falso pentito Vincenzo Scarantino, che sarebbe stato costretto dalla Polizia a raccontare falsità ai magistrati sull’organizzazione ed esecuzione della strage del 19 luglio 1992. Eppure, con l’accoglimento della richiesta della citazione del Viminale e di Palazzo Chigi come responsabili civili, lo scenario si apre ulteriormente. In sostanza, infatti, si mettono alla sbarra anche le istituzioni, che avrebbero coperto gli autori del depistaggio (o comunque, non avrebbero vigilato adeguatamente sulle loro condotte). Ove i poliziotti a processo incorreranno in condanne, dunque, a rispondere saranno anche il ministero dell’Interno, da cui dipende la Polizia, e la presidenza del Consiglio dei ministri, da cui dipendono invece i servizi segreti. In questa storia aleggia anche l’ombra dello 007 Bruno Contrada, uomo su cui Paolo Borsellino aveva posto la sua attenzione investigativa dopo una serie di rivelazioni offertegli dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo nel luglio del 1992. All’indomani della strage, in totale spregio delle norme che vietano ogni rapporto diretto tra magistratura inquirente e servizi segreti, il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra chiese proprio a Contrada – allora numero due del SISDE – di contribuire alle indagini sull’eccidio.
Sulle decisioni del Gip non mancano, però, alcuni punti di non ritorno. Infatti, a differenza dei figli di Paolo Borsellino, il fratello Salvatore – fondatore del Movimento delle Agende Rosse – e i familiari degli agenti di scorta rimasti uccisi in Via D’Amelio, non sono stati ammessi come parte civile. Ufficialmente, come scritto nell’ordinanza, per «difetto dei requisiti». «Da quanto ho appreso, all’interno dell’ordinanza si fa riferimento a una carenza di requisiti, ma questi non vengono esplicitati – dice a 𝐿’𝐼𝑛𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 Salvatore Borsellino –. A ogni modo, dopo il rinvio a giudizio faremo un altro tentativo. Abbiamo diritto di partecipare attivamente alla ricerca della verità su questi fatti gravissimi». Negli ultimi anni, in merito alla lettura dei retroscena della strage, sono emerse incolmabili divergenze tra la parte della famiglia Borsellino rappresentata dai figli del giudice e quella rappresentata dal fratello. Se i primi potranno far valere in Aula le proprie istanze, Salvatore Borsellino non avrà la possibilità di farlo.
Lo scorso giugno, in un processo parallelo che vede alla sbarra altri tre poliziotti per il depistaggio Borsellino, la Corte d’Appello di Caltanissetta aveva dichiarato prescritto il reato di calunnia per il funzionario di polizia Mario Bo e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra. I poliziotti, che dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati simbolo della lotta alla mafia in Italia fecero parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, erano stati accusati dai pm di avere imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che si auto-accusò di avere portato a compimento la strage di via D’Amelio. Ma che, in realtà, non era nemmeno un mafioso e non aveva avuto alcun ruolo nell’organizzazione e nell’esecuzione del massacro. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, il Tribunale aveva precedentemente sancito che non fu soltanto Cosa Nostra a concepire ed eseguire la strage di Via D’Amelio e che la mafia non ebbe nessun ruolo nel furto dell’agenda rossa del magistrato, avvenuto nelle ore subito successive allo scoppio della bomba. «L’istruttoria dibattimentale – hanno messo nero su bianco i giudici – ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino».