Gioco patologico: in Italia i numeri sono in aumento e le scommesse la terza “industria” per fatturato

 

Non chiamatela ludopatia. Perché, come dice ironicamente il past presidente di FederserD Alfio Lucchini, per quanto questo termine possa sembrare anche simpatico in realtà non significa proprio niente. Non chiamatelo neppure vizio perché, come spiega Claudia Mortali, ricercatrice dell’Istituto superiore di sanità, il vizio è quando si sceglie di spendere soldi per qualcosa di appagante, come abiti costosi o macchine lussuose. Quando invece c’è una dipendenza non si sceglie. Si gioca e si sta male. Si gioca per diventare ricchi, per pagare i debiti o per compensare le perdite e, quando si entra in questo vortice, il gioco non è più puro e sano divertimento ma diventa patologico.

Gli Stati Uniti d’America se ne sono accorti dal 1980, tanto che l’American psychiatric association aveva inserito il gioco d’azzardo nel secondo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DsmII) e, una decina d’anni dopo, lo ha classificato come “disturbo del controllo dell’impulso”. Il manuale rappresentò una vera e propria evoluzione rispetto a una diffusa cultura politica e sociale che equiparava ancora il gioco d’azzardo a un vizio, a un peccato e talora finanche a un reato. Ancora oggi, il manuale nelle sue evoluzioni, resta uno dei principali strumenti per le diagnosi adoperato da psicologi e psichiatri.

Il legislatore si muove anche in Italia

In Italia si è dovuto aspettare l’aumento del numero di giochi autorizzati dallo Stato, la nascita di due nuove concessionarie autorizzate (Lottomatica e Snai che hanno affiancato la Sisal, vecchia concessionaria di lotteria e Totocalcio) e l’apertura definitiva del mercato a centinaia di società (anche straniere) che gestiscono slot machine, videolottery e lotterie a estrazione istantanea per accorgersi che gli italiani giocavano sempre più spesso e che non avevano più bisogno di andare al casinò per farlo ma potevano scendere al bar sotto casa o, meglio ancora, starsene comodamente seduti sul divano del proprio salotto.

Ecco perché nel 2012 la politica ha cercato di correre ai ripari con un decreto, che porta il nome dell’ex ministro della Salute Renato Balduzzi, che attribuiva finalmente alla “ludopatia” il riconoscimento clinico e giuridico di disturbo da gioco d’azzardo (così come richiesto anni addietro anche dall’Organizzazione mondiale della sanità). Il decreto, convertito poi nella legge 189 dello stesso anno, inserisce il gap nei Livelli essenziali di assistenza, sancendo quindi il diritto alle cure rimborsate dal Servizio sanitario nazionale, promuove attività di informazione e di prevenzione e disciplina a livello normativo la gestione dei giochi, che restano (e sono ancora oggi) gestiti dal Monopolio di Stato.

Il piano d’azione nazionale

Il legislatore prevede anche un Piano d’azione nazionale improntato sul contenimento dei messaggi pubblicitari relativi alle vincite da gioco, sulla diffusione di messaggi relativi al rischio di dipendenza e sulla “early detection” (la diagnosi precoce) con lo scopo di individuare nel più breve tempo possibile i giocatori a rischio. E infine istituisce l’Osservatorio per il contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo e al fenomeno della dipendenza grave ma non stanzia un solo euro per finanziare il nuovo organismo che nascerà concretamente solo nel 2019. Bisognerà difatti approvare la legge di stabilità del 2015 per istituire un Fondo da 50 milioni all’anno destinato esclusivamente alla dipendenza da gioco d’azzardo, di cui un milione riservato alla sperimentazione di un software per il controllo dei soggetti a rischio dipendenza.

I numeri aumentano

Ma il numero dei giocatori in Italia non è mai diminuito. Non è calato neppure nel 2018 quando, in Parlamento dopo una dura battaglia tra i partiti, venne inserito nel decreto Dignità il divieto assoluto di pubblicità dei giochi d’azzardo insieme all’obbligo per le amministrazioni locali (comuni e regioni) di limitare gli orari di apertura dei giochi e di disporre distanze minime tra i locali autorizzati al gioco e i luoghi sensibili (come scuole, parrocchie e centri per anziani). La prova di questo fallimento è nel Libro Blu dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli secondo cui nel 2021 gli italiani hanno speso 111 miliardi di euro nel gioco, cifra che sale a 136 miliardi nel 2022 superando la spesa sanitaria (128 miliardi), quella educativa (52 miliardi) e la somma dei bilanci di tutti i comuni italiani (77 miliardi) e rappresentando il 36,20 per cento del gettito erariale dello Stato.

Numeri questi che fanno del gioco la terza “industria” nazionale per fatturato. Quanti sono allora gli italiani che giocano? Ma, soprattutto quanti sono i giocatori patologici che hanno sviluppato una dipendenza? Nessuno lo sa e appare probabile che non lo sappia neppure il ministero della Salute e quindi, nonostante il Consiglio superiore di sanità lo abbia inserito nella lista delle nuove dipendenze (insieme al sesso e d internet) il disturbo da gioco d’azzardo resta ancora una patologia sommersa che viene alla luce solo per caso. E forse è proprio la mancanza di dati certi il primo campanello di allarme sulla diffusione di questa dipendenza che continua a essere minimizzata da un convincimento culturale difficile da sradicarsi sia da parte di chi ne è vittima e sia da parte di chi deve garantire loro, per legge, le cure necessarie per uscire dal tunnel.

L’incertezza dei dati

Secondo il Dipartimento delle Politiche Antidroga, che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri, gli italiani con un problema di dipendenza da gioco d’azzardo oscillerebbero tra i 300 mila e un milione e 300 mila. Una forbice troppo ampia per essere indicativa anche per il Dipartimento stesso che, nell’ultimo report pubblicato sul sito ufficiale, la definisce una stima incerta, dovuta alla tendenza dei “ludopatici” a negare il problema e alla loro riluttanza a chiedere aiuto. Nulla infatti si sarebbe saputo della dipendenza da gioco e dei debiti milionari accumulati dai calciatori Sandro Tonali, Nicolò Zaniolo e Nicolò Fagioli se non fossero finiti in un’inchiesta della procura di Torino su un giro di scommesse illegali.

“La dipendenza da gioco d’azzardo non è immediatamente riconoscibile né da chi ne soffre né da chi gli è vicino – spiega lo psichiatra Alfio Lucchini – perché, a differenza delle dipendenze da sostanze o da alcol non si manifesta immediatamente in una dipendenza fisica ma solo come dipendenza mentale, più difficile e lenta da accertare. L’atteggiamento comportamentale e lo stile di vita continuano a non subire alterazioni fino a quando inevitabilmente non compaiono i primi atteggiamenti compulsivi ed ossessivi”. Ci si accorge insomma di avere un problema con il gioco quando si perdono molti soldi e non ci si riesce più a controllare. “Più perdi e più diventi ansioso – aggiunge la ricercatrice dell’Iss Claudia Mortali – e più giochi per recuperare le somme perdute con il desiderio di vincere e più ti assale l’ansia e la sofferenza”.

Identikit del giocatore

Per sopperire alla sommarietà dei dati, nel 2018 l’Istituto Superiore di Sanità ha svolto la prima indagine epidemiologica in Italia con lo scopo di avere un quadro più chiaro della diffusione del fenomeno. L’indagine ha rilevato che, su 14 milioni e mezzo di italiani (pari al 36,4% della popolazione) che hanno ammesso di aver praticato il gioco d’azzardo almeno una volta all’anno, circa un milione e mezzo sono stati classificati come giocatori problematici. Questo studio ha sfatato anche il pregiudizio del prototipo del giocatore d’azzardo maschio di mezza età “poco raccomandabile”.

Vero che si gioca di più tra i 40 e i 64 anni, ma è altrettanto accertato che giocano tutti e che si comincia a giocare tra i 18 e i 25 anni. Anche i minorenni che, per legge non potrebbero farlo, giocano. Il focus dell’indagine si è concentrato sui minori tra i 14 e i 17 anni e sugli over 65. A giocare maggiormente sono gli studenti del Sud Italia, seguiti da quelli del Centro e del Nord, e quasi il 20 per cento è rappresentato da donne. Il risultato è che sia nella fascia dei minori che in quella degli adulti i giocatori problematici sono il 3 per cento, pari appunto al milione e mezzo di stima accertato a livello nazionale.

Pochi chiedono aiuto

“Prevediamo di avviare una seconda indagine l’anno prossimo” annuncia Claudia Mortali. Frattanto, a ottobre scorso, è stato pubblicato il primo rapporto Oised. L’Osservatorio impatto socio-economico delle dipendenze, nato nel 2022 da una iniziativa congiunta del Centro di Ricerca Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità) e di Ce.R.Co (Centro Studi e Ricerche Consumi e Dipendenze), è il primo Centro Studi e think thank dedicato interamente al settore della cura delle dipendenze. Il rapporto conta 250 mila utenti in carico presso i servizi pubblici adibiti alla cura delle dipendenze, di cui appena il 6 per cento è rappresentato dai giocatori d’azzardo patologici.

Il numero esiguo di giocatori patologici è confermato anche da Alfio Lucchini: “A noi risultano circa 15 mila persone in trattamento presso i Serd – dichiara lo psichiatra per anni a capo di FederSerD e ora direttore del Centro Studi Ce.R.Co. – il che significa che, su un milione e mezzo di giocatori problematici, solo l’uno per cento decide di intraprendere un percorso terapeutico per liberarsi dalla dipendenza. Eppure in Italia i centri che curano il disturbo da gioco d’azzardo esistono, sia nel pubblico che nel privato”.

I centri pubblici in Italia e le difficoltà di accesso alle cure

Il Centro nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto superiore di sanità ha censito i centri pubblici presenti in Italia che curano la dipendenza da Gda e, sulla piattaforma online www.usciredelgioco.it creata ad hoc, ha realizzato una mappa geolocalizzata che consente a chiunque, in completo anonimato e in modo molto semplice e veloce, di individuare il centro più vicino al proprio comune di residenza. I centri censiti sono 210 di cui 87 al nord, 56 al centro e 67 al sud (isole comprese). La Toscana è la regione con più centri all’attivo (24), segue il Piemonte (23), il Lazio (18), la Sicilia (17), la Puglia (16) e il Veneto (15).

L’Emilia Romagna, con i suoi dieci centri, è una delle regioni che lavora bene e oltretutto investe mezzo milione di euro all’anno in progetti di prevenzione e di cura della dipendenza da Gda. A differenza di Valle d’Aosta e Molise che, invece, si piazzano in coda alla classifica: entrambe hanno un solo centro o almeno così sembra perché, anche in questo caso, non ci si può affidare completamente ai numeri. Il Molise, infatti, è vero che ha un solo centro censito ma all’Iss ne risultano tre. “Il censimento avviene attraverso i referenti regionali – dichiara la ricercatrice dell’Iss – e capita che questo lavoro subisca un intoppo quando alcuni di loro vanno in pensione e c’è un ritardo sulle nuove nomine”.

Nessun obbligo di censimento

L’inaffidabilità dei numeri è data anche dal fatto che non esiste alcuna legge che obbliga i centri pubblici al censimento. I centri che si censiscono lo fanno di loro spontanea volontà così come di propria iniziativa il Centro dipendenze e doping ha avviato il censimento e realizzato la mappa geolocalizzata. “Lo abbiamo fatto – aggiunge Claudia Mortali – proprio per far conoscere alle persone che esistono centri in cui ci si può curare gratuitamente perché, purtroppo, la gente ancora non lo sa”. Ci sono province in cui il servizio risulta completamente assente o, se dovesse esserci non risulta censito e quindi mappato, come a Benevento, Vibo Valentia, Reggio Calabria e Caltanissetta. Tutte città del sud, meno popolose delle grandi metropoli ma non di certo meno problematiche.

“Attenzione alle province – avverte Alfio Lucchini – i cui dati contano molto di più delle metropoli, perché hanno un territorio più esteso con più problemi da affrontare. Problemi spesso dovuti al funzionamento della macchina burocratica, alla gestione della sanità e alla programmazione a livello locale”. Il problema principale resta in ogni caso la carenza di personale medico e paramedico. Infatti in alcune zone del sud Italia, racconta Mortali, ci sono più Serd in cui opera lo stesso personale, costringendo gli operatori a girovagare tra i vari centri distanti tra di loro anche settanta o ottanta chilometri, rendendo così impossibile la copertura del servizio nell’arco di una sola giornata.

“Non è di certo un bel momento questo: c’è mancanza di medici e infermieri in tutta la nazione – ammette Lucchini – ma speriamo di risolvere il problema nei prossimi cinque anni”. E la differenza tra nord e sud Italia aggrava maggiormente la situazione. “Nelle regioni settentrionali e del centronord troviamo tutte le figure professionali richieste – precisa Lucchini – nel sud invece mancano gli psicologi. Al sud è una figura molto meno utilizzata e questo è un grosso problema perché nella terapia da Gda quella dello psicologo è la figura professionale principale, è il primo step dell’approccio alle cure e non può assolutamente mancare”.

Le liste d’attesa

Secondo l’Oised, dal 2015 al 2021, il personale operante nei Serd è stato ridotto di quasi il 20 per cento in quasi tutte le regioni d’Italia, eccetto quelle del nordovest dove si è registrato un incremento di circa il tre per cento. La carenza di personale rallenta non solo l’avvio del piano terapeutico ma mette anche un freno alle richieste di aiuto che, stando ai numeri raccolti, sono già molto esigue. Il Telefono verde nazionale istituito dal Centro dipendenze e doping dell’Iss è attivo da ottobre 2017 ed è stato possibile attivarlo grazie ad un fondo speciale stanziato dai Monopoli di Stato. In sei anni sono state solo 15.000 le persone che si sono rivolte al numero verde 800.55.88.22, numero che però nel corso degli anni è andato sempre più aumentando grazie anche al decreto Dignità che ha deciso di stampare il numero verde sui biglietti dei Gratta&Vinci e su tutti i giochi online e cartacei.

Chiunque chiami il numero verde sarà messo in contatto con il centro di cura più vicino al suo comune di residenza. Non tutti i centri sparsi sul territorio hanno però un numero diretto a cui poter telefonare. Molti sono gestiti dai Cup regionali (Centro unico di prenotazione) e così accade spesso che l’utente sia costretto ad attendere anche sei mesi prima di essere contattato per avviare il percorso terapeutico. “Al Sud ci sono certamente più problemi di questo tipo – dice la ricercatrice dell’Iss – ma non per cattiva volontà quanto piuttosto per carenza di risorse umane ed economiche. Molte persone richiamano il nostro numero verde per chiedere di sollecitare la propria Asl di competenza”.

Il numero verde

Ma sei mesi sono troppi per un dipendente da gioco d’azzardo e così capita pure che chi aveva deciso di farsi curare e aveva cominciato a darsi un freno bloccando il proprio conto sulla piattaforma online di giochi richiami il numero verde dell’Iss per chiedere informazioni su come sbloccarlo. Il Telefono verde nazionale è attivo dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 16.00. Perché solo sei ore?

“Perché – spiega Claudia Mortali – gli psicologi che rispondono al telefono non fanno solo questo, sono ricercatori che lavorano alla ricerca, preparano materiali informativi per la popolazione e curano le mappature dei servizi. Servirebbero di certo finanziamenti specifici per potenziare l’attività del telefono e permettere di rispondere a più richieste di quelle attuali”.

Anche FederserD gestisce da anni un servizio di psicoterapia online gratuito (numero verde 800.15.10.00 e piattaforma www.giocaresponsabile.it) che conta migliaia di iscritti e dove i tempi di attesa sono più corti ma comunque c’è da attendere dai 30 ai 45 giorni per essere inseriti in un percorso. “La consulenza di base di solito avviene immediatamente – spiega Alfio Lucchini – poi l’analisi degli utenti porta al percorso terapeutico. In ogni caso dare la possibilità agli utenti di seguire un percorso di terapia online è un’arma vincente. La sanità sta correndo sempre più veloce verso il modello digitale. L’Europa è avanti in questo, in Italia invece siamo ancora alla fase di sperimentazione”.

Gli investimenti

“Da circa otto anni la maggior parte dei soldi pubblici stanziati per la cura di tutte le dipendenze sono destinati al gioco d’azzardo e mi riferisco non solo ai 50 milioni del Fondo specifico del 2015 ma anche alle altre risorse provenienti dai vari Piani di Azione regionali, da progetti coordinati dal Dipartimento Antidroga, da progetti del privato, arrivando quasi a cento milioni” dichiara Alfio Lucchini. Eppure la carenza di personale è sotto gli occhi di tutti gli operatori del settore e la disparità di accesso alle cure tra le diverse regioni è più che evidente.

Secondo Lucchini, per quanto riguarda il personale, dovrebbe esserci un incremento del 35 per cento almeno per garantire un servizio efficiente. Così come sarebbe necessaria la riorganizzazione delle piante organiche di cui si parla in uno degli ultimi decreti ministeriali. Ma la cosa più importante sarebbe istituire un corso di specializzazione di Clinica delle dipendenze che attualmente manca. Per quanto riguarda invece gli investimenti pubblici, secondo lo psichiatra non sarebbe solo un problema di carenza di finanziamenti “perché – dice – anche se i soldi ci sono, non sempre vengono spesi dalle Regioni o orientati su attività poco attinenti alle dipendenze e in specie agli interventi di cura”.

Differenze regionali

La differenza tra le regioni italiane si nota anche nella spesa sostenuta per questo tipo di percorsi terapeutici. Le regioni italiane con la maggiore diffusione del gioco d’azzardo sono la Lombardia, il Lazio, la Campania e la Puglia. In Lombardia, nel 2020, la spesa pro capite per il gioco d’azzardo è stata di circa 2.200 euro, il valore più alto d’Italia. Nel Lazio si attesta sui 1.900 mentre in Campania scende a 1.800. La Lombardia è anche la regione che ha più videolottery di tutto il sud Italia e, insieme alla Campania, vanta il primato di quasi un milione e mezzo di nuovi conti aperti online per giocare sulle piattaforme. Nel Libro Blu dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli è stato rilevato anche che questi nuovi conti sono stati aperti da ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni e ciò è avvenuto nonostante le autorizzazioni e le concessioni per le società di giochi online siano calate dalle 109 del 2019 alle 96 del 2021.

Due anni fa l’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, firmò un decreto che conteneva un regolamento per l’adozione delle “Linee di azione per garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette dal gioco d’azzardo patologico”. L’intento era che le amministrazioni regionali avrebbero dovuto favorire l’integrazione tra i servizi pubblici e le strutture private accreditate (nonché gli enti del Terzo settore e le associazioni di autoaiuto della rete territoriale locale) per favorire le cure. Ma nel decreto non c’era traccia di ulteriori finanziamenti pubblici.

L’Osservatorio per il contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo

A gennaio scorso il suo successore Orazio Schillaci, di concerto con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ha ricostituito l’Osservatorio per il contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo istituito da Balduzzi e ha aperto alle associazioni maggiormente rappresentative del settore la possibilità di candidarsi per far parte dell’Osservatorio stesso. È stato nominato anche un gruppo di valutazione per vagliare le domande, ma di soldi per finanziare le cure neanche qui si fa menzione.

Infine nell’ultima legge di riforma fiscale approvata ad agosto scorso è stata conferita al Governo la delega per il riordino delle disposizioni vigenti in materia di giochi pubblici che detta principi direttivi volti a diminuire i limiti di giocata e di vincita, rafforzare i meccanismi dell’autoesclusione nei giochi online, inasprire le sanzioni per chi viola le norme sul gioco a distanza, disporre piani annuali di controllo senza però mai accennare ad ulteriori risorse economiche da stanziare per i percorsi di cura e per i centri che li effettuano. L’unica novità che introduce è l’obbligo annuale da parte del ministero dell’economia e finanze di relazionare alla Camera sul gioco pubblico, con dati anche sui volumi della raccolta e sui progressi in materia di tutela dei consumatori e della legalità. E i dati sugli utenti in carico ai servizi di cura pubblici chi li assicura? Di certo non rientrano tra i principi direttivi della legge delega. ABOUTPharma