ARCHIVIO 🟧 Mafia appalti, da Palermo qualcuno avvisò i vertici dei Ferruzzi Gardini

Un misterioso summit a Ravenna nel 1991 getta nuove ombre su un intricato sistema di collusioni, dove non mancano togati infedeli, che attraversava l’Italia e sfocia nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio    
Nel 1991, un presunto esponente dell’autorità giudiziaria di Palermo si reca a Ravenna per un incontro con i vertici della Calcestruzzi Spa, del gruppo Ferruzzi Gardini. Durante il summit, il soggetto, insieme ad altre autorevoli personalità non identificate, avrebbe sollecitato l’azienda a fare chiarezza sui propri vertici e a «far rientrare chi di dovere».  
L’episodio assume un valore inquietante alla luce degli eventi di quel periodo, quando il dossier mafia- appalti, redatto dagli ex ROS Mario Mori e Giuseppe De Donno,proprio in quei mesi venne depositato alla procura di Palermo per volere di Giovanni Falcone.
In questo dossier già cominciava a delinearsi il coinvolgimento dei boss mafiosi Salvatore e Antonino Buscemi con il gruppo Ferruzzi Gardini e le loro collusioni nella spartizione degli appalti pubblici in Sicilia.
Il dossier, depositato a febbraio del 1991, finisce rapidamente nelle mani dei mafiosi e degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta. L’episodio del summit a Ravenna viene alla luce grazie a un’intercettazione del 14 luglio 1991,condotta dall’ex guardia di finanza Franco Angeloni, all’epoca braccio destro del magistrato Augusto Lama di Massa Carrara, nei confronti di due ingegneri delle cave di Carrara. Questo evento, unito alla precedente fuoriuscita del dossier mafia- appalti dalla procura palermitana, solleva interrogativi inquietanti.
L’intercettazione di Angeloni, riportata nel suo libro “
Gli anni bui della Repubblica”, offre una testimonianza cruciale per comprendere questo periodo controverso.

Nella nota inviata all’ex pm Augusto Lama e all’Alto Commissario per la lotta contro la mafia, Angeloni scrive che dalla conversazione tra l’ingegner Corrotti della Imeg di Massarosa (LU) e un certo Ballerini della Imeg di Montemerano (GR), si evince l’intervento di un “qualcuno” esterno alla società che chiede alla Calcestruzzi Ravenna SPA, controllante la Imeg e la Sam, chiarezza sui vertici della società stessa. Ecco la trascrizione dell’intercettazione: «C’era stato uno qui di Carrara che si era meravigliato che ci fossero sempre le due persone (Cimino e Buscemi) che erano venute dalla Sicilia…». E ora il passaggio cruciale: «… proprio per il fatto che… dice c’era stato un summit supremo da una certa parte… credo a Ravenna… dove c’erano pretori (magistrati, ndr) o roba del genere e uno anche di Palermo e quindi avevano detto che… prefetti prefetti… sembra che abbiano detto alla Calcestruzzi che doveva fare chiarezza sui vertici dell’insieme e che quindi facessero rientrare chi di dovere».

Angeloni interpreta questi passaggi intercettati come prova della volontà di allontanare dal Gruppo Ferruzzi elementi sospettati di legami mafiosi. Ciò suggerirebbe un possibile avvertimento ai vertici per proteggerli da indagini giudiziarie in corso. La situazione diventa ancora più sconvolgente considerando che sempre quell’anno, durante il convegno a Castel Utveggio del marzo 1991, Giovanni Falcone ha riconosciuto il condizionamento mafioso sia nella scelta delle imprese che nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti, senza escludere le imprese del Nord. Falcone ha sottolineato la necessità di un approccio investigativo innovativo, proponendo una sinergia tra intelligence e indagini sul territorio per contrastare il fenomeno mafia- appalti.

Il Convegno si svolge a un mese dal deposito del dossier mafia- appalti, suonando come un campanello d’allarme per mafiosi e contigui. Non a caso, come testimonierà Angelo Siino, il “ministro” dei lavori pubblici di Totò Riina, si infervorò proprio Antonino Buscemi con tanto di esclamazione: «Questo ci vorrebbe consumare tutti!». Sappiamo che Falcone, pochi giorni dopo il deposito del dossier, accetterà la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia. Tuttavia, i suoi collegamenti con le articolazioni operative delle indagini a Palermo non sarebbero stati recisi, come testimonierà la compianta Liliana Ferraro, riferendosi a una telefonata in cui Falcone chiese a Borsellino di tenere d’occhio quell’indagine.

Il periodo in questione era caldissimo. Scoppiarono molte polemiche da parte dei giornali contro il capo della procura Giammanco in merito alla conduzione del procedimento scaturito dal dossier. L’estate del ‘ 91 fu decisamente particolare. Ad agosto di quell’anno accaddero due fatti significativi: l’ex pm Augusto Lama di Massa Carrara inviò un atto alla Procura di Palermo sulle indagini espletate nei confronti della Imeg, riconducibile ai fratelli Buscemi. Tale atto venne preso in carico dall’allora sostituto procuratore Gioacchino Natoli, oggi indagato assieme al generale della Finanza Stefano Screpanti, perché avrebbe – sotto istigazione del capo procuratore di Palermo Pietro Giammanco – insabbiato quell’inchiesta e protetto, tra gli altri, proprio i boss Buscemi.

Nello stesso mese, l’allora capo procuratore inviò irritualmente il dossier mafia- appalti, ancora coperto dal segreto istruttorio, all’allora ministro della giustizia Claudio Martelli. Fortunatamente lo intercettò il giudice Falcone, che si infuriò e lo fece rimandare indietro accompagnandolo con una lettera, sotto suo consiglio durissima, sottoscritta dal guardasigilli. Se l’ipotesi di reato formulata dall’attuale procura di Caltanissetta si rivelasse fondata, ci troveremmo di fronte a un periodo in cui, sotto l’istigazione di Giammanco, si sarebbe dovuto proteggere diversi soggetti mafiosi e imprenditoriali. È sicuramente una coincidenza e probabile errore di sottovalutazione che sempre nell’estate del ’91, quando la procura finalmente conferì deleghe di indagine ai ROS riguardo al procedimento del dossier mafia-appalti, non ci fossero indicazioni per approfondire il ruolo dei fratelli Buscemi.

Solo il 27 ottobre 1992, dopo l’archiviazione del 14 agosto dello stesso anno, venne formulata una proposta di misura di prevenzione personale e patrimoniale nei confronti di Antonino Buscemi. La questione dei mafiosi e grossi imprenditori era stata comunque chiusa durante lo stragismo mafioso del 1992, per essere poi riaperta solo successivamente.

All’epoca, Tangentopoli imperava e c’erano forti collegamenti tra le indagini sul mafia- appalti della procura di Palermo e quelle di Massa Carrara. Si trattava di ingenti somme di denaro.
Considerando solo la Ferruzzi Gardini (e non era l’unica grande impresa coinvolta con la mafia), si parlava di “miliardi come un flusso d’acqua”, come affermò un socio occulto durante l’interrogatorio dell’allora PM Augusto Lama, condotto insieme al maresciallo Franco Angeloni. Tanti conti, come è intuibile, erano stati aperti nelle banche svizzere. Eppure, ancora oggi, c’è chi ha vergognosamente accusato di depistaggio chi sostiene che l’indagine mafia- appalti sia stata la causa dell’accelerazione (e soprattutto della determinazione, come emerge dalla testimonianza di Avola che ha parlato anche del piano B nel caso in cui l’attentato con l’esplosivo fosse fallito) della strage di Via D’Amelio.

Basti pensare agli attacchi ricevuti dall’avvocato Fabio Trizzino, il quale rappresenta la voce dei figli di Paolo Borsellino, soprattutto a seguito delle sue audizioni innanzi alla commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo. Con coraggio, ha spezzato il fronte finora granitico di una certa antimafia che per trent’anni ha proposto diverse tesi, a tratti deliranti, rivelatesi col tempo completamente prive di fondamento. Forse, dopo 32 anni, si riuscirà finalmente a rendere giustizia a Borsellino. Lui che, purtroppo, aveva già predetto la sua morte per mano della mafia, consapevole che alcuni suoi colleghi e altri esponenti avrebbero permesso che ciò accadesse. Così, infatti, testimoniò la moglie Agnese Piraneo:«Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere». 9 luglio, 2024 • IL DUBBIO Damiano Aliprandi


Mafia-appalti, indagato l’ex pm Natoli: «Coprì i boss del clan Buscemi»

 

Secondo la Procura di Caltanissetta, l’ex capo degli inquirenti di Palermo avrebbe insabbiato l’indagine scaturita dalla segnalazione di un collega di Massa-Carrara. Il vertice Ferruzzi Gardini e mafia sarebbero stati aiutati per eludere le indagini. Borsellino, prima della strage, ha appreso il coinvolgimento di Riina nel potentato economico.

L’ex procuratore di Palermo Gioacchino Natoli è indagato dai pm di Caltanissetta. L’accusa? Aver insabbiato un’indagine cruciale che avrebbe dovuto confluire nel procedimento scaturito da “Mafia-appalti”, il dossier redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Paolo Borsellino non solo considerava quel dossier importante, ma lo collegava direttamente alla strage di Capaci.

Aspetto emerso anche dall’ultima intervista rilasciata allo scrittore Luca Rossi. E i verbali desecretati dalla commissione Antimafia, presieduta da Chiara Colosimo, rivelano come negli ultimi giorni di vita il giudice trucidato in via D’Amelio stesse lavorando in maniera capillare sugli appalti. Secondo il pool che indaga sulla causa della strage di via D’Amelio, guidato dai sostituti della procura di Caltanissetta Claudia Pasciuti e Davide Spina, Natoli avrebbe agito in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco (nel frattempo deceduto) e con l’allora capitano della Guardia di Finanza Stefano Screpanti.

L’accusa sostiene che l’ex pm avrebbe aiutato a eludere le indagini sui mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco (dal dossier dei Ros emerge che si incontrava con il boss Angelo Siino) e i vertici del Gruppo Ferruzzi, ovvero gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini. In particolare, al magistrato viene contestato di aver condotto, nell’ambito del procedimento 3589/1991 aperto a Palermo dopo l’invio delle carte da Massa-Carrara su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, una “indagine apparente”. Come? Richiedendo autorizzazioni per intercettazioni telefoniche di brevissima durata e su un numero limitato di utenze, compromettendo così l’efficacia dell’inchiesta. Inoltre, avrebbe disposto, d’intesa con Screpanti, di non trascrivere conversazioni cruciali che rivelavano il coinvolgimento di Di Fresco a favore di Bonura e un possibile “aggiustamento” di un processo pendente.

Il contesto è quello degli inizi degli anni 90. Mentre il dossier “Mafia-appalti”, che già menzionava la Calcestruzzi Spa (colosso delle opere pubbliche controllato dal gruppo Ferruzzi-Gardini e, secondo il pentito Leonardo Messina, da Totò Riina), era stato depositato, giunse alla Procura di Palermo una nota firmata da Augusto Lama, allora sostituto a Massa Carrara. Grazie all’indagine dell’ex Guardia di Finanza Franco Angeloni, la nota indicava i fratelli Buscemi e Bonura. Cosa avevano scoperto? Il legame tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, proprietario della Sam-Imeg, che controllava il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara.

All’epoca, Gardini ottenne un’offerta di favore dall’Eni. Il primo grande affare fu un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, del valore di tremila miliardi di lire. Ma la situazione a Carrara precipitò. Antonino Buscemi prese il controllo delle cave, affidandone la gestione al cognato Girolamo Cimino e a Rosario Spera. I siciliani imposero condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama iniziò a indagare.

Natoli, incaricato di occuparsi della nota, ne chiese l’archiviazione. Non solo: firmò il provvedimento per smagnetizzare le bobine delle intercettazioni e distruggere i brogliacci. L’ex pm ha sostenuto che la frase “e la distruzione dei brogliacci” fosse stata aggiunta dopo il deposito dell’atto. La Procura di Caltanissetta, tuttavia, lo accusa di calunnia per aver incolpato ingiustamente Damiano Galati, responsabile amministrativo del Centro Intercettazioni. Fortunatamente, i funzionari non diedero seguito alla richiesta di smagnetizzazione. Il Gico di Caltanissetta, reparto d’élite della Gdf, ha potuto così recuperarle e riascoltare tutte le intercettazioni.

Le accuse a Natoli non si fermano qui. Secondo i pm nisseni, non avrebbe aperto indagini su Luciano Laghi e Claudio Scarafia, nonostante fossero emersi legami con Bonura. Avrebbe inoltre chiesto l’archiviazione del procedimento senza approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla Procura di Massa-Carrara. I reati, sempre secondo l’accusa, sarebbero stati commessi con “l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa” con riferimento agli interessi della stessa nell’aggiudicazione degli appalti, operazione gestita dal famoso tavolino: mafia, imprenditori nazionali e politica.

L’ex pm di Massa-Carrara Augusto Lama ha recentemente affermato che una maggiore attenzione agli esiti della indagine apuana e, soprattutto, al rapporto dei Ros, e un conseguente approfondimento investigativo, che lui non riuscì a svolgere, avrebbero consentito di avviare l’inchiesta sulla questione “Mafia-appalti” con qualche anno di anticipo.

Un dettaglio cruciale emerge dalle audizioni di Natoli: nell’aprile 1992, una seconda nota inviata da Lama fu “intercettata” da Paolo Borsellino, che la consegnò ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, anziché a Natoli. Perché? Probabilmente perché erano i magistrati titolari del dossier “Mafia-appalti”, che già indicava gli affari dei Buscemi con Ferruzzi-Gardini. Non dimentichiamo che in quel periodo il gruppo Ferruzzi – in pochi anni acquisito e trasformato da Gardini in un gruppo prevalentemente industriale –, unito con la Montedison, divenne il secondo gruppo industriale privato italiano, con ricavi per circa 20mila miliardi di lire, con 52mila dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo. Gruppo che poi finirà nel ciclone di tangentopoli.

Nel ’93, Gardini si suiciderà, anche se rimane il fondato dubbio di un omicidio. E forse non è l’unico strano suicidio. Basti pensare al libro dell’allora magistrato Mario Almerighi, nel quale, attraverso un’attenta analisi tecnico-giuridica e l’attestazione dei fatti, ha sollevato dubbi non solo su Gardini, ma anche sui suicidi di Sergio Castellari, direttore delle Partecipazioni statali, e Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni.

Borsellino conosceva bene il dossier, avendone richiesto copia quando guidava la Procura di Marsala. Il suo interesse emerge, dalle carte desecretate, con chiarezza. L’ultimo suo atto, il giorno prima di essere assassinato, fu prendere il fascicolo relativo a Luigi Ranieri, imprenditore ucciso dalla mafia per essersi opposto al condizionamento mafioso degli appalti. Ma Borsellino aveva anche atti riguardanti la società Sat, intercettazioni telefoniche, verbali d’interrogatorio e materiale sequestrato a seguito dell’omicidio. Borsellino cercava collegamenti. Da notare come risultasse anche il fascicolo processuale relativo al collaboratore Aurelio Pino, contenente diverse note. Chi è? Si tratta dell’imprenditore che il 21 febbraio 1989 riferì ai carabinieri la strategia di Cosa nostra per il controllo degli appalti, specificando che i gruppi mafiosi che gestivano e controllavano gran parte delle gare in provincia di Palermo erano essenzialmente due: il gruppo Modesto e il gruppo Siino, sotto la tutela delle ”amiglie” Salamone e Brusca, le quali avevano come referenti assoluti Riina e Provenzano.

Borsellino cercava collegamenti, aveva anche parlato con Antonio Di Pietro. Diceva di fare presto. Sarà un caso che entrambi, come risulta dall’informativa dei Ros di Milano, erano nel mirino mafioso? Ricordiamo che Borsellino non aveva la delega per le indagini palermitane. L’avrà solamente la domenica mattina del 19 luglio tramite una singolare telefonata da parte di Giammanco. Il legame tra tangentopoli e l’indagine “Mafia-appalti” diventa sempre più evidente. Qualcosa di grosso bolliva in pentola, e Borsellino probabilmente lo intuì. Così come intuì (leggasi verbale di luglio 1992 della sorella di Falcone al Csm) che aveva scoperto qualcosa di terribile in procura. Il “nido di vipere”.

 

 

🟥 MAFIA e APPALTI e l’eliminazione del dottor Borsellino