Quelle foto…

Il generale dei Carabinieri Angiolo Pellegrini lo chiamavano “Billy the Kid”. E’ stato uno degli uomini di Giovanni Falcone. Un mastino, classe 1942, sbarcato nella “terra di mezzo” nell’anno 1981 mentre infuriava la guerra di mafia, mentre le lupare venivano sostituite dai fucili d’assalto di fabbricazione sovietica, mentre i corleonesi spargevano terrore sotto il Monte Pellegrino e sulla tratta Palermo-Catania correvano appalti e subappalti, spregiudicate operazioni immobiliari, mazzette, false fatturazioni miliardarie, industriali collusi, colletti bianchi e rispettabilissimi cavalieri del lavoro.

Per la prima volta, l’allora capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini, oggi generale in pensione, attraverso i suoi ricordi raccolti dal giornalista e scrittore Francesco Condoluci racconta le mille avventure di quella stagione insanguinata, vissuta a stretto contatto con colui che sarebbe saltato in aria a Capaci il 23 maggio 1992: strage ancora lontana nel tempo, eppure così vicina già in quegli anni Ottanta che percorrono le pagine del libro “Noi, gli uomini di Falcone. La guerra che ci impedirono di vincere” (Sperling & Kupfer). 

Una volta giunto a palermo Pellegrini mette insieme una squadra di fedelissimi – appunto, la banda del capitano Billy The Kid – guadagnandosi l’amicizia di Giovanni Falcone. E’ il tempo dell’azione congiunta tra carabinieri, polizia e magistrati che culmina nel rapporto dei 162 e nell’estradizione di Tommaso Buscetta. E’ il periodo più drammatico della lotta a Cosa Nostra, portata avanti mentre i “soldati” di Totò Riina e Bernardo Provenzano falcidiavano a colpi di Kalashinikov le vecchie famiglie e per le strade di Palermo trucidavano Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Cassarà, Montana. E’ il periodo del maxiprocesso. Che poteva essere il colpo decisivo e che invece non lo fu. Perché?

Forse – ed è questa la tesi di Pellegrini  perché “il vero nemico rimase senza volto: un oscuro, ambiguo potere politico che prima negò i mezzi, risorse e possibilità, e poi smantellò la squadra. In fondo, a voler vincere quella guerra, erano davvero in pochi”. Il generale racconta inoltre come Falcone, seguendo la scia del ciclone Buscetta (nel frattempo altre due confessioni, quella di Totuccio Contorno, vecchio braccio destro di Bontate, e quella di Nino Calderone, fratello del boss catanese Pippo, offrivano nuovi spunti di indagini), riuscì a far luce sui delitti politici di Reina, Mattarella, La Torre. E a ordinare altri due arresti epocali: quelli dei cugini Nino e Ignazio Salvo, gli ex intoccabili esattori di Salemi, finiti in manette sotto gli occhi di una Palermo sgomenta.  Di quel terzo livello politico-mafioso fatto di nomi eccellenti e comitati d’affari. Si poteva cantare vittoria? Macché. Da quel preciso momento inizia a propagarsi quella che Pellegrini chiama “contestazione strisciante” capitanata dai “crociati del garantismo, da magistrati che sollevarono dubbi procedurali sul maxiprocesso, da una campagna stampa contro la giustizia spettacolo e il pentitismo”. L’ex capitano racconta la strana agitazione provata in quel periodo. Una sorta di presagio gli faceva ronzare in testa il vecchio detto siciliano del “più si vince, più si perde” (in palermitano: chiussai si vince e chiussai si perde). Un giorno – ricorda – si chiude nel suo ufficio (circolava voce che l’avrebbero trasferito: cosa che avvenne nel 1985) – e annota nell’agenda personale le sue riflessioni a proposito delle cose successe negli ultimi anni: dal processo Chinnici ai viaggi in Brasile, alle confessioni di Buscetta, al blitz di San Michele, agli ultimi clamorosi arresti.

Tra le chicche del libro di Pellegrini (che fu il primo – scrive Attilio Bolzoni nella prefazione – a inseguire segretamente Provenzano custodendo le carte in una grande scatola di acciaio di fronte alla scrivania) spunta la spedizione compiuta nel novembre 1984 in Sud America per assistere alle rogatorie dei complici di Buscetta arrestati l’anno prima e ancora in attesa di estradizione. Arrivati laggiù, il pool guidato da Falcone viene travolto da una forza mediatica che nessuno si aspettava. I canali tv aprono i telegiornali con la notizia dello sbarco degli investigatori. “Solo in quel momento – racconta Pellegrini – mi resi davvero conto di quanto la fama di Giovanni Falcone avesse ormai varcato i confini dell’Italia. Tutti, all’estero, sapevano chi fosse e che cosa stesse facendo. I processi che aveva istruito, le indagini che stava conducendo e la collaborazione con le più alte personalità del mondo giudiziario americano gli avevano fatto guadagnare un rispetto e un’ammirazione che forse non aveva nemmeno nel suo Paese”. Del resto, avevano fatto il giro del mondo le immagini della scorta, dell’auto blindata e di quell’elicottero che seguiva dal cielo ogni suo spostamento. E lui, Falcone? “Si schermiva. Il più divertito era invece Paolo Borsellino (vedi video intervista Rai News a Pellegrini). Con i brasiliani riusciva persino a conversare nella loro lingua. Lo guardavamo increduli mentre si lanciava in lunghe e approfondite chiacchierate con i giornalisti”. Sosteneva che era facile il portoghese, che era uguale al dialetto genovese.

Assediati da cronisti e fotografi, con le telecamere e i microfoni sempre puntati addosso, a Falcone e ai suoi uomini non resta che inventare una via di fuga. Una domenica mattina sgattaiolano dal sottopassaggio che dall’hotel di Rio de Janeiro dove pernottano conduce direttamente alla spiaggia. “Lo avevo scoperto durante il sopralluogo che avevo fatto al nostro arrivo, per ragioni di sicurezza. Così proposi di sgusciare via da lì per andare a visitare le feiras, i famosi e coloratissimi mercatini che nei giorni di festa si tengono a Ipanema, al confine con Copacabana”. Ma, nonostante le precauzioni, un flash riesce a immortalare la passeggiata degli strani “turisti”. E l’indomani il quotidiano O Globo pubblica un primo piano del giudice intento a osservare il banchetto dei piranha sotto un titolo che dice: “A Rio il nemico della mafia”. Qualche settimana dopo l’FBI avrebbe rivelato riservatamente che, in occasione di quel viaggio in Brasile, era stato programmato un attentato contro la delegazione siciliana: non era chiaro chi fosse il mandante, ma i dettagli sull’esecuzione non mancavano (c’era il camorrista napoletano trapiantato in Sud America e c’era il funzionario di polizia brasiliana pagato per spiare i movimenti del magistrato). Se il colpo è saltato – dicono ancora i federali – il merito è di quella torma di fotoreporter che non vi ha mollati un attimo. Falcone ordina che l’informazione rimanga riservata: “Non vorrei doverli pure ringraziare pubblicamente” mugugna. Si riferiva ai giornalisti…

 

 IN CANADA

Nel gennaio di 33 anni fa, una delegazione partì da Palermo per il Canada. 
“Capitano, come va? La chiamo per comunicarle che a gennaio sarò in missione a New York per una rogatoria internazionale. Da lì andrò a Montréal per gli accertamenti su Ciancimino. So che non è un periodo facile per lei ma vorrei mi raggiungesse in Canada. La sua esperienza e le sue conoscenze in materia mi sarebbero molto utili.” 
Non era una richiesta. Mi stava dicendo di andare e basta. Ormai lo conoscevo bene. Non si sarebbe preso la briga di chiamarmi durante le ferie natalizie per chiedermi una cortesia. Il corso per Capitani sarebbe ricominciato a metà gennaio, ma all’inizio dell’anno comunicai alla Scuola ufficiali che avevo un impegno di lavoro all’estero e sarei rientrato in seguito. Il 19 gennaio 1985 salì su un Boeing che faceva rotta verso Montréal. Il giorno seguente ero al cospetto di Giovanni Falcone. Lui era appena arrivato da New York dove, dopo la rogatoria, aveva assistito all’interrogatorio di Buscetta da parte dei viceprocuratori distrettuali Charles Rose e Richard Martin, all’interno di una base militare dove l’ex boss era stato condotto e messo in detenzione. L’esame del superpentito di Cosa Nostra da parte delle autorità giudiziarie americane rientrava nell’accordo che Italia e Stati Uniti avevano stipulato l’estate precedente, al momento dell’estradizione di don Masino dal Brasile. Il giudice era sbarcato in Nord America insieme ai colleghi magistrati Guarnotta e Giusto Sciacchitano; in quella missione li accompagnavano i due ufficiali Antonino Rametta e Pasquale Petrosino della Guardia di Finanza, e Alessandro Pansa del nucleo centrale anticrimine di Roma.
La foto che pubblichiamo è inedita. Per cui se condividerete sarà corretto riportarne la fonte. Ci è stata gentilmente inviata dal Generale Angiolo Pellegrini che nei primi anni 80 collaborò a varie indagini con l ufficio istruzione di Palermo. Il pezzo è estratto dal suo libro memoria su quegli anni”Noi, gli uomini di Falcone”.
Nello scatto in Canada, da sinistra, il Generale Pellegrini, il Giudice Falcone, il Capitano Petrosino GdF, un Ispettore della polizia canadese e il Sost. Proc. Sciacchitano. 

Fonte:  Gruppo FB Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino 7 Gennaio 2018

 

 

Progetto San Francesco con il Generale Angiolo Pellegrini :

 

  La TRAMA

 Angiolo Pellegrini 

 

Speciale “Paolo Borsellino, il coraggio della solitudine

 

A cura di Claudio Ramaccini – Resp. Ufficio Stampa e Comunicazione Centro Studi Sociali contro le mafie – PSF