A 26 anni dalla morte del giudice restano troppe ombre e troppi punti oscuri nelle investigazioni sulla strage di Capaci e su quella di via DʼAmelio. Le 13 domande della figlia per chiarire
Ventisei anni fa, il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino veniva ucciso da Cosa Nostra nell’agguato di via D’Amelio. “E ancora aspettiamo dalle istituzioni, e non solo, risposte mai arrivate”, scrive la figlia del magistrato, Fiammetta, denunciando “un depistaggio iniziato allora, ordito da vertici investigativi e accettato da schiere di giudici”.
“Ci sono domande – scrive Fiammetta in un intervento pubblicato su Repubblica -, domande che io e miei fratelli Manfredi e Lucia non smetteremo di ripetere, che non possono essere rimosse dall’indifferenza o da colpevoli disattenzioni”.
Il primo quesito è sulla mancata messa in atto di “tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra”, scrive Borsellino, che chiede conto anche della mancata protezione della scena del crimine, con la conseguente sottrazione dell’agenda rossa.
“Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul ‘tritolo arrivato in città’ e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?”, prosegue Fiammetta. “Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?”.
Si fa riferimento alla mancata protezione della scena della strage, che permise la sottrazione dell’agenda rossa; si chiede perché Giuseppe Ayala, allora parlamentare, “fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti”.
I dubbi di Fiammetta continuano con notazioni sul falso pentito Scarantino “(indicato dall’intelligence come vicino a esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?”.
E ancora, “perchè i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima tra Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano?
TGCOM 18.7.2018