- GIUSEPPE PIGNATONEeletto all’unanimità. Una toga antimafia alla procura di Roma. Dai killer di Capaci alla lotta alla ‘ndrangheta Una carriera in magistratura lunga quasi 40 anni, tra Sicilia e Calabria, ... SEGUE
- INTERVISTA AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI REGGIO CALABRIA, GIUSEPPE PIGNATONE– Da quando si è messo a combattere la ’ndrangheta centinaia d malavitosi sono finiti in carcere, sono state sequestrate tonnellate di cocaina e si è scoperchiata la pentolaccia degli affari loschi tra l’imprenditoria del Nord e il malaffare del Sud: il conto dei beni confiscati alla mafia calabrese è stellare. Le cosche, per ringraziarlo, a inizio ottobre gli hanno fatto trovare vicino all’ufficio una “sorpresa”: un bazooka … SEGUEdi Vittorio Zincone 7.11.2010
- Pignatone, «politica affida ai giudici i problemi etici che non risolve»Bilancio di fine carriera del procuratore di Roma: l’Italia è un Paese in cui non si rinuncia a usare le indagini per delegittimare gli avversari – 6.5.19
- L’uscita di scena di Giuseppe PignatoneDopo una vita trascorsa nei tribunali più complessi ed esposti del Paese, il procuratore capo di Roma va in pensione. Abbiamo cucito insieme alcune sue recenti affermazioni sui temi caldi che riguardano il rapporto tra politica e giustizia È un lungo commiato, quello di Giuseppe Pignatone da capo della Procura della Repubblica di Roma. Fatto di interviste ponderate e snocciolate nel tempo e un libro recente, scritto … SEGUE
- NON SOLO MAFIA CAPITALE. Così Pignatone ha scritto la nuova storia di Roma. Il procuratore andrà in pensione il 9 maggio. Nel suo mandato ben poche sconfitteCon lui si apriva e ora si chiuderà un’era. Infatti uno che la sapeva lunga sul conto del procuratore capo Giuseppe Pignatone, all’epoca in odore di trasferimento nella Capitale e oggi prossimo alla pensione, di lui diceva: “ha già buttato all’aria la Calabria, farà lo stesso anche a Roma”. SEGUE
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GIUSEPPE PIGNATONE
Una carriera in magistratura lunga 45 anni, tra Sicilia e Calabria, nel segno della lotta alla criminalità organizzata: Giuseppe Pignatone, ex Procuratore di Reggio Calabria, IL 15 febbraio 2012 diventa Procuratore della Repubblica di Roma per decisione unanime del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. Nato Palermo nel 1949, Giuseppe Pignatone entra in magistratura nel 1974. Dopo un’esperienza come Pretore a Caltanissetta, nel 1977 viene trasferito alla Procura di Palermo, dove nel 2000 è nominato Procuratore aggiunto. Qui con Piero Grasso dirige la Direzione distrettuale antimafia, e porta a termine molte indagini contro Cosa nostra. Negli anni ’80 incrimina Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo poi condannato per mafia e corruzione, e, iindaga l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, chiedendo una condanna a otto anni. Coordina le indagini che portano all’arresto di Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza.Nel 2008 è nominato procuratore capo di Reggio Calabria, dove assesta numerosi colpi alla ‘ndrangheta. In concomitanza arrivano una serie di atti intimidatori. Il più clamoroso: il ritrovamento di un bazooka, indirizzato proprio a Pignatone, di fronte alla sede della Procura di Reggio nell’ottobre 2010. Nel febbraio del 2012, il Consiglio Superiore della Magistratura, all’unanimità lo nomina Procuratore capo di Roma.
Nato a Roma il 1957, in foto con Giuseppe Pignatone è Procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Roma dopo esserlo stato a Palermo e Reggio Calabria. Entrato in magistratura nel 1984, è stato per dieci anni componente della Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Dal 1998 ha indagato sulle diverse articolazioni del sistema Provenzano fino all’arresto del capo di Cosa Nostra
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PRESENTAZIONE A TERRA FUTURA – FIRENZE 26 MAGGIO
La CISL presenta il volume
IL CONTAGIO
come l’ndrangheta ha infettato l’italia di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino Giuseppe Pignatone, Michele PrestipinoL’evento è stato promosso dal CENTRO STUDI CONTRO LE MAFIE “Progetto San Francesco” |
PRESENTAZIONE ALL’UNIVERSITA’ BOCCONI |
IL CONTAGIO Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia”, organizzato dal Dipartimento di Economia “Ettore Bocconi”, è stato presentato l’8 maggio,
LA STRETTA DI MANO NEGATA – PIGNATONE: “Rifiutarsi di stringere la mano a un mafioso è il modo per non riconoscere il suo ruolo ed eroderne il potere”. Presenti anche i colleghi Ilda Boccassini e Michele Prestipino. Se il problema fosse ‘militare’, lo Stato avrebbe trionfato da tempo. Ma la mafia e la ‘ndrangheta sono organizzazioni molto complesse, che si reggono sulle relazioni e il consenso sociale, sul fattore reputazionale. Non stringere la mano a un sospetto mafioso è un gesto simbolico ma di alto valore, che va a lederne la reputazione”. Lo ha detto Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, intervenuto aL convegno all’Università Bocconi per la presentazione del volume Il Contagio. |
19.6.2012 – Roma – PRESENTAZIONE AL SENATO della REPUBBLICA
La sfida delle istituzioni e della società civile alla criminalità organizzata
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IL CONTAGIO LA DEDICA DEGLI AUTORI al PSF – . |
Agli amici del Progetto San Francesco che abbiamo incontrato nel loro viaggio tra la Sicilia e la Lombardia e che hanno capito tra i primi l’importanza del problema ‘ndrangheta in tutta Italia, restandoci vicini in questi anni. Agli amici della CISL e a tutti coloro che operano concretamente ogni giorno nei luoghi di lavoro e ovunque per la legalità, la solidarietà ed il bene comune. Giuseppe Pignatone – Michele Prestipino
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- 24.3.2011 Lettera appello al Corriere del Procuratore Giuseppe Pignatone
- Video – Un metodico di grande esperienza
DOPPIO GIOCO – Talpe di Stato in Procura. Giuseppe Pignatone fra gli spiati… Un bellissimo docfilm che ci fa vivere in presa diretta i due mondi che si contrappongono nella, fin troppo lunga, lotta tra mafia e Stato, quello degno di essere chiamato così. Purtroppo, non si combatte solo contro il potere occulto della mafia, ma anche contro certi servitori infedeli che non esitano a porsi a servizio della stessa, appropriandosi dei suoi comportamenti, linguaggi, metodi. Dedicato a chi nello Stato ancora ci crede ed agli investigatori e magistrati che con pazienza lavorano per fare in modo che un giorno potremo essere finalmente liberi da questa cappa oscura che ci soffoca ed affossa economicamente il nostro Paese, oltre ad impedirci di vivere finalmente liberi in un Paese civile.
Pignatone: “Sciascia spietato con i magistrati traditori della giustizia”. di Giuseppe Pignatone L’ex procuratore di Roma, attualmente presidente del Tribunale Vaticano, analizza la posizione di Leonardo Sciascia sul maxiprocesso di Palermo
“Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo.” Sono parole di Leonardo Sciascia che riflettono una concezione pressoché sacrale della giustizia e del compito di chi l’amministra. Penso al “piccolo giudice” che in ‘Porte aperte’, un romanzo tratto da una storia vera, si gioca con piena consapevolezza la carriera rifiutando di condannare alla pena di morte l’autore di tre efferati omicidi, nonostante le pressioni del regime fascista e anche dei suoi superiori.
Dall’altro lato, proprio per questa concezione quasi sacrale Sciascia è spietato verso quanti – magistrati in primo luogo – tradiscono quell’ideale o, peggio ancora, fanno della giustizia uno strumento del Potere, magari ammantando questo tradimento con il richiamo ad alti ideali o a ciò che sembra politicamente o socialmente utile.
La necessità di andare oltre le apparenze, anche le più convincenti, è ricorrente in Sciascia ed è un tema cruciale ancora oggi per ogni intellettuale e – forse a maggior ragione – per il magistrato che si deve sforzare di accertare prima, e valutare poi, ogni elemento e ogni circostanza legati a un fatto reato, rinunciando ai propri pre-giudizi e alle proprie convinzioni personali e ideologiche e resistendo altresì alle pressioni esterne.
Sciascia rimane ancora oggi colui che prima e meglio di ogni altro ha fatto conoscere con i suoi scritti (a cominciare da “II giorno della civetta”, del 1961), che cosa era la mafia, quale era la sua incidenza nella vita concreta e quotidiana della Sicilia, quali erano i suoi rapporti con le altre componenti della società isolana. Però non dobbiamo commettere, io credo, l’errore che per primo Sciascia condannerebbe: quello di considerare ogni singolo articolo, ogni singola frase da lui scritta come verità immutabili.
In queste settimane, nella ricorrenza del centenario della nascita (8 gennaio 1921), sono stati pubblicati alcuni suoi scritti che contengono severe critiche ai primi maxiprocessi celebrati contro le cosche e all’uso processuale dei cosiddetti “pentiti”, certamente ispirate dalla vicenda di Enzo Tortora, arrestato il 17 giugno 1983, nonché dall’esito del maxi-processo alla camorra. Ugualmente critica era stata, almeno inizialmente, la sua posizione sul maxiprocesso di Palermo. Lo stesso Sciascia, però, in un articolo pubblicato il 27 dicembre 1987, subito dopo la sentenza di primo grado, aveva commentato positivamente la decisione in cui, scriveva, “si intravede anzi quell’osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine”. Un cambiamento di posizione notevole, su cui pesava non poco, come egli spiegava, l’assoluzione di Luciano Liggio, “decisione rassicurante per chi è ancora affezionato al diritto e (che) quasi assurge a segno del tabula rasa che i giudici hanno saputo fare dei pregiudizi esterni, piuttosto clamorosi e pressanti”.
Lo scrittore, tuttavia, aggiungeva di non recedere “dall’opinione che i maxiprocessi mettono in pericolo l’amministrare giustizia”, ribadendo poi di non aver mai creduto e di non credere “che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale”. Posizioni tutte ribadite da Sciascia nei due anni successivi, fino alla morte avvenuta il 20 novembre 1989, ma che meritano di essere rimeditate alla luce dell’esperienza maturata nell’arco di questi tre decenni. E alla luce, altresì, delle modifiche normative, anche molto significative ma sempre nel rispetto dei principi costituzionali, imposte dalle manifestazioni di eccezionale pericolosità della mafia e dalla accresciuta consapevolezza di tale pericolosità da parte della società civile.
Dopo quello di Palermo, che allora fu una soluzione obbligata per riuscire a dimostrare l’esistenza stessa, la struttura e le regole di Cosa nostra, ci sono stati altri maxiprocessi in varie parti d’Italia, certo non paragonabili per numero di imputati e complessità delle questioni da decidere e sempre meno frequenti anche per l’impostazione del nuovo codice di procedura. Anche in questi casi, evidentemente ritenuti inevitabili in relazione alla situazione concreta, l’esperienza ha dimostrato che, con le necessarie risorse organizzative e con un adeguato impegno dei giudici e delle parti, è possibile rendere sentenze che tengano conto di tutte le risultanze processuali e, in primo luogo, della diversità delle posizioni degli imputati.
Anche riguardo al ruolo processuale dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, la situazione è ben diversa da quella degli anni ‘80. Non solo per le modifiche normative che sono intervenute, ma soprattutto perché ormai le conoscenze sulle mafie sono cresciute talmente che le dichiarazioni dei collaboratori, pur sempre utilissime, possono essere vagliate molto meglio nella loro attendibilità anche alla luce di altre fonti di prova completamente autonome, a cominciare dalle intercettazioni. Anzi, oggi molti processi di mafia prescindono completamente dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Infine, oggi nessuno, neanche coloro che trent’anni fa condividevano la posizione di Sciascia, pone più in dubbio, dopo centinaia di processi, il carattere unitario – quanto meno in questo periodo storico – della mafia siciliana.
Rimane invece sempre valido, al di là dell’evoluzione del fenomeno criminale e dei progressi delle tecniche investigative, il nucleo essenziale del pensiero di Sciascia sulla mafia e sui temi della giustizia: “La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, ‘ndrangheta e camorra”. E ancora: “La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo”.
Non credo che si possa dire altro, e meglio. La Stampa 15.2.2021