ANTONINO SCOPELLITI, vittima del patto ‘ndrangheta Cosa nostra

 

9.8.2023 «Dopo 32 anni senza giustizia per mio padre mi “tappo la bocca”». Il silenzio di Rosanna Scopelliti

 

La figlia del magistrato ucciso “diserta” per la prima volta l’anniversario, «fino a quando non ci dimostreranno di fare sul serio»

ROMA «Le parole sono finite. È finita la pazienza, è finito il tempo della speranza, il tempo della fiducia. Oggi rimarrò in silenzio. Vi prego di rispettare la mia scelta». Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino ucciso il 9 agosto del 1991, annuncia all’Agi che oggi si «tapperà la bocca». Le parole le ha dette tutte in questi anni e, fedelmente a quanto aveva annunciato l’anno scorso, rimarrà in silenzio in occasione delle commemorazioni del padre. Un silenzio che parla più di mille parole.
Lo scorso 9 agosto aveva affidato ai social un appello durissimo in cui, pur nel «massimo rispetto della magistratura», aveva chiesto di «ricominciare da zero» nelle indagini. Aveva implorato di arrivare finalmente a quella Giustizia, altrimenti «non ci sarà un altro 9 agosto. La morte di mio padre tornerà a essere un fatto intimo personale familiare della comunità che ha amato mio padre, fino a quando non ci avranno dimostrato di fare sul serio nella ricerca della verità». E così, un anno dopo, sarà per Rosanna Scopelliti e per sua figlia. «Avevo sette anni il 9 agosto del 1991. Oggi è mia figlia ad avere la stessa età e a chiedermi perché il nonno è stato ucciso e non la può portare a mare. Trentadue anni dopo – commenta – ascolto da mia figlia le stesse domande che mi ponevo quando cercavo di ritrovare tra le stanze di una casa vuota un abbraccio o un sorriso perso per sempre. E non ho una risposta».
Un omicidio ancora senza giustizia e verità processuale. Anche se sin da subito piuttosto chiaro, tanto che il dottor Giovanni Falcone ebbe a scrivere solo otto giorni dopo su La Stampa: «L’ultimo delitto eccellente, l’uccisione di Antonino Scopelliti, è stato realizzato, come da copione, nella torrida estate meridionale cosicché, distratti dalle incombenti ferie di Ferragosto e dalla concomitanza di altri gravi eventi, quasi non vi abbiamo fatto caso. Unico dato certo è la eliminazione di un magistrato universalmente apprezzato per le sue qualità umane, la sua capacità professionale e il suo impegno civile. Ma ciò ormai non sembra far più notizia, quasi che nel nostro Paese sia normale per un magistrato, e probabilmente lo è, essere ucciso esclusivamente per aver fatto il proprio dovere». Il proprio dovere, appunto. Ovvero rappresentare la pubblica accusa all’udienza del 30 gennaio 1992 nel Maxiprocesso a Cosa nostra. Purtroppo non ci arriverà.
La conclusione della figlia Rosanna che oggi è presidente della Fondazione che porta il nome del padre è amarissima ma lucida. «Dieci, venti trenta trentadue gli anni in cui si è cercata verità e giustizia. Trentadue i colpi inflitti alla nostra voglia di resistere, di crederci, di avere fiducia ancora e ancora e ancora. Trentadue ulteriori colpi inflitti alla memoria di un magistrato, un Uomo che ha servito questo Paese con passione e impegno. Chiedo scusa a Papà, chiedo scusa a mia figlia perché evidentemente in questi trentadue anni non sono riuscita a fare abbastanza per far comprendere l’importanza della verità, la necessità di ottenere delle risposte in tempi celeri dalla magistratura. Chiedo scusa perché ancora oggi si fatica a comprendere che il sacrificio di Antonino Scopelliti appartiene al Paese e non alla nostra famiglia». (Agi)


 
“L’ultimo delitto eccellente, l’uccisione di Antonino Scopelliti è stato realizzato, come da copione, nella torrida estate meridionale cosicché, distratti dalle incombenti ferie di Ferragosto e dalla concomitanza di altri gravi eventi, quasi non vi abbiamo fatto caso. Unico dato certo è la eliminazione di un magistrato universalmente apprezzato per le sue qualità umane, la sua capacità professionale e il suo impegno civile. Ma ciò ormai non sembra far più notizia, quasi che nel nostro Paese sia normale per un magistrato e probabilmente lo è essere ucciso esclusivamente per aver fatto il proprio dovere”.
(Giovanni Falcone)

 

Il 9 agosto 1991 il dottor Antonino Scopelliti a bordo della propria autovettura viaggia in direzione della casa paterna di ritorno dal mare; all’altezza di una curva, poco prima del rettilineo che immette nell’abitato di Campo Calabro, il magistrato viene raggiunto da due colpi calibro 12, che lo colpiscono alla testa e al collo, causandone l’immediato decesso: la macchina finisce la corsa, senza controllo in un terrapieno, facendo inizialmente pensare che la causa del decesso fosse da imputare ad un incidente stradale.Dalle indagini risulterà che il dott. Scopelliti, era arrivato nel paese d’origine per trascorrere qualche giorno di vacanza (era rimasto in servizio fino alla fine del mese di luglio) e si era fatto spedire da Roma gli atti del maxi-processo per cominciarne lo studio in vista del giudizio di legittimità in cui avrebbe rappresentato la pubblica accusa.


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Omicidio Antonino Scopelliti (9 agosto 1991) 

Antonio Scopelliti e il patto tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra. Indagato Messina Denaro  Porta in provincia di Trapani e ad un summit di mafia cui ha preso parte anche il boss Matteo Messina Denaro la nuova indagine, a quasi 28 anni, sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991 a Villa San Giovanni mentre faceva rientro dal suo paese natale Campo Calabro. Sono 18, le persone indagate dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e sono boss e affiliati alle cosche siciliane e calabresi e tra questi c’è anche Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Titolari dell’inchiesta sono gli aggiunti Gaetano Calogero Paci e Giuseppe Lombardo. Il summit che decise la morte – Il summit fu fatto in primavera nelle campagne di Trapani. Era il 1991 e c’era anche il boss castelvetranese quando Cosa nostra e ‘ndrangheta strinsero un patto che prevedeva, tra le altre cose, l’eliminazione del giudice di Cassazione Antonio Scopelliti, che venne infatti ucciso in Calabria nell’agosto successivo. TP24 aPRILE 2019


 Antonino Scopelliti nasce a Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria, il 20 gennaio 1935. Frequenta il liceo classico a Reggio Calabria e l’Università a Messina; si laurea in giurisprudenza a soli 21 anni (il 24 novembre 1956) discutendo una tesi dal titolo “Il Contratto astratto”: relatore il prof. Angelo Falzea. A soli ventiquattro anni vince il concorso in magistratura. Nominato uditore giudiziario il 10 aprile 1959, è destinato prima al Tribunale di Roma – dove prenderà possesso il 27 aprile 1959 – e poi a quello di Messina per svolgere il prescritto tirocinioIl 7 giugno 1960 gli vengono conferite le funzioni giudiziarie e, a domanda, viene trasferito alla Pretura di Roma, dove prende possesso l’11 ottobre 1960 con le funzioni di Vice Pretore. Nel rapporto redatto per l’ammissione all’esame pratico per la nomina ad aggiunto giudiziario, il dirigente della sezione alla quale è assegnato il dott. Scopelliti, sottolinea, tra l’altro, come lo stesso, in poco più di un mese: “ha presieduto n. 10 udienze e redatto complessivamente n. 34 sentenze. Dalla redazione delle sentenze, di cui talune importanti per le questioni di diritto processuale civile e di diritto civile, che risolvevano, risulta che il dott. Scopelliti possiede un’ottima cultura giuridica e una precisa conoscenza della giurisprudenza”. Il 15 febbraio 1962 il dott. Antonino Scopelliti risulta idoneo nell’esame pratico per la nomina ad aggiunto giudiziario ed il 17 maggio 1963 viene trasferito alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo in qualità di Sostituto Procuratore della Repubblica, dove rimane fino al dicembre del 1964. Per l’attività investigativa svolta per assicurare alla giustizia i membri della Banda Cavallero (una banda che negli anni ’60 fu autrice di numerose e sanguinose rapine in diversi istituti di credito fra Piemonte e Lombardia), il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Brescia, il 18 febbraio del 1964, tributandogli un partecipato encomio, evidenzia tra l’altro come: “…ho potuto rendermi conto del Suo zelo, e di quelle particolari attitudini alle funzioni del P.M., denominate intelligenza, intuito, prontezza, che i Suoi superiori sempre le riconobbero, nell’affidarLe compiti di speciale rilievo”. Il 5 maggio 1964 il Consiglio Giudiziario presso la Corte di appello di Brescia esprime parere favorevole alla promozione del dott. Antonino Scopelliti a magistrato di Tribunale (all 6 fascicolo procura). Nel suo rapporto informativo, il Procuratore della Repubblica di Brescia osserva come il dott. Scopelliti:” ha confermato vieppiù le sue doti di Magistrato veramente valoroso messe in evidenza nei rapporti precedenti. Ha intuizione rapida ed acuta, profonda preparazione dottrinale e giurisprudenziale. […] Dotato di facile, forbito eloquio, impronta le sue requisitorie ad alto senso di umanità ed equità, fornendo un contributo determinante nella soluzione dei processi…. […] Gentile, serio, dignitoso, esemplare nella vita pubblica e privata, instancabile nel lavoro, ha saputo accattivarsi le simpatie ed il rispetto dei Magistrati, del Foro, dei Funzionari e del pubblico che in lui vedono un Giudice di particolare prestigio”. Con provvedimento in data 17 luglio 1964, il Consiglio Superiore della Magistratura delibera la promozione del dott. Scopelliti a magistrato di Tribunale, ed in data 19 dicembre 1964 il magistrato prende possesso delle funzioni di Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Durante la permanenza nel capoluogo lombardo, il dott. Scopelliti si occupa di delicati procedimenti per i quali riceve diverse attestazioni di apprezzamento da parte dei dirigenti degli uffici coinvolti. Sostiene, infatti, la pubblica accusa nel procedimento nei confronti della Banda Cavallero ricevendo, per il proprio operato, l’elogio sia del Presidente della Corte d’assise di Milano che quello del Procuratore della Repubblica presso il medesimo Tribunale. Si occupa, inoltre, del processo a carico di Mario Capanna per il sequestro del professor Pietro Trimarchi, docente dell’Università Statale di Milano e figlio del Presidente della Corte d’appello di Milano. Anche in questo caso il dott. Scopelliti per “lo stile, il garbo, la compostezza e, soprattutto, il tempismo e l’equilibrio dimostrati” riceve l’elogio del Presidente della Corte e quello del Procuratore della RepubblicaLe doti professionali ed umane del dott. Scopelliti vengono inoltre sottolineate dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano che, nell’apprendere dell’imminente trasferimento del magistrato alla Procura della Repubblica di Roma, con gesto non comune, anche per i toni utilizzati, tributa al magistrato un caloroso ed ossequioso saluto mettendo in risalto “…come questo Consiglio abbia più volte ritenuto giusto il compito di esprimere – in una leale collaborazione – meditate opinioni (raccolte con ogni scrupolo di prudenza) che, talora, sono manifestate con consapevoli critiche: ma proprio per tale ragione crede sia anche giusto renderLe nota la generale stima di cui il dott. Scopelliti gode nell’ambiente forense milanese. Di qui la ragione di rincrescimento ancor maggiore per la di Lui partenza; non disgiunta dalla speranza – i cui sensi soprattutto desideriamo indirizzare direttamente al dott. Scopelliti – di un Suo ritorno tra noi: campanilisti – se pure con tutta cordialità, come sempre – noi vorremmo proprio che la Curia milanese annoverasse sempre tra le sue file i migliori”. Il 7 novembre 1969 il dott. Antonino Scopelliti si insedia quale Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, dove presta servizio fino al 29 novembre 1970 per poi tornare ad esercitare le funzioni di Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, prima di essere nuovamente e, definitivamente, assegnato alla Procura di Roma dal 12 giugno 1973. Il 13 maggio 1975 il Consiglio giudiziario presso la Corte di appello di Roma, nell’esprimere parere positivo alla nomina del dott. Scopelliti a magistrato di Corte d’appello rimarca, tra l’altro, come: “In relazione poi, al servizio prestato dal dott. Scopelliti presso la Procura della Repubblica di Roma, […] valga, da ultimo, al riguardo quanto di lui ha scritto il Presidente della Corte di assise di Roma dott. Antonio Valeri in  data 16 aprile 1975 ”. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 23 settembre 1975, delibera la nomina del dott. Antonino Scopelliti a magistrato di Corte d’appello, ed il 22 ottobre 1976 l’organo di governo autonomo della magistratura stabilisce che lo stesso venga applicato alla Procura Generale presso la Corte di cassazione. Il 10 dicembre 1976 prende possesso del nuovo ufficio. Il Consiglio giudiziario presso la Corte di appello di Roma, il 18 giugno 1979, esprime parere favorevole alla nomina del dott. Scopelliti a magistrato di Corte di cassazione e, citando il rapporto redatto dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, sottolinea come il magistrato: “ […] ha luminosamente confermato nelle delicate funzioni di legittimità le doti di seria e profonda conoscenza del diritto, intuizione giuridica nella risoluzione dei problemi interpretativi, studio competo ed accurato dei singoli procedimenti al suo esame, assoluta indipendenza e imparzialità di giudizio, equilibrio e alto senso di responsabilità, grande capacità oratoria e signorilità di comportamento. […]Altrettanto eccezionale in termini quantitativi è stato il suo apporto all’ufficio sia per il numero di udienze a cui ha partecipato sia per il numero di requisitorie scritte elaborate per la Camera di Consiglio della Corte di cassazione”. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con provvedimento del 23 gennaio 1980, delibera la nomina del dott. Antonino Scopelliti a magistrato di Cassazione. Come Sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione, si occupa, tra gli altri, di delicati procedimenti di terrorismo e criminalità organizzata. È infatti il dott. Scopelliti che viene delegato a rappresentare la pubblica accusa in alcuni giudizi su fatti che hanno segnato la storia italiana più recente: il processo “cd. Valpreda” per la strage di Piazza Fontana a Milano , il processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia, quello per l’omicidio dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, e quelli per l’omicidio del colonnello dei carabinieri Antonio Varisco e per l’uccisione del capitano Emanuele Basile. Segue inoltre i processi per la morte del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici e della sua scorta (chiede il rigetto dei ricorsi degli imputati ma la I sezione della Corte di cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, annulla la sentenza per vizi nella motivazione) nonché quelli per la morte del giudice Vittorio Occorsio, del giudice Mario Amato (in questo caso la I sezione della Corte di cassazione, presieduta dallo stesso giudice Corrado Carnevale, accoglie in toto le richieste della Procura Generale) e del giornalista Walter Tobagi, nonché quelli relativi al ccdd. “casi Calvi e Sindona”. Designato a rappresentare  la pubblica accusa all’udienza del 30 gennaio 1992 nel cd. maxi-processo a Cosa Nostra, come noto, viene barbaramente assassinato prima di poter adempiere a questo ulteriore, delicato, compito.


Cosa Nostra cercò di corrompere Scopelliti, poi ne decise l’eliminazione. Ma si rivelò deleteria

Scriveva così Giovanni Falcone il 17 agosto del 1991 sulle pagine de La Stampaa proposito dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, avvenuto il 9 agosto: “Unico dato certo è l’eliminazione di un magistrato universalmente apprezzato per le sue qualità umane, la sua capacità professionale e il suo impegno civile. Ma ciò ormai non sembra far più notizia, quasi che nel nostro Paese sia normale per un magistrato – e probabilmente lo è – essere ucciso esclusivamente per aver fatto il proprio dovere”.

Da allora sono passati trentadue anni e questo appare ancora essere uno dei pochi “dati certi”, visto che per quell’omicidio straordinario non sono stati condannati né esecutori, né mandanti, nonostante diversi processi siano stati celebrati e negli ultimi anni un collaboratore di giustizia, Maurizio Avola, legato al clan Santapaola di Catania, si sia persino auto accusato del delitto, facendo trovare un fucile che sarebbe stato quello adoperato per l’esecuzione. Esiste oggi un’interpretazione prevalente dell’omicidio, che pure non ha consentito sul piano della giustizia penale di definire responsabilità precise e che apparare ragionevolmente fondata, anche se non riesce a soddisfare completamente una serie di punti interrogativi.

L’interpretazione è nota: Cosa Nostra aveva scaricato sull’iter del maxi processo una violenza crescente con evidenti finalità intimidatorie, a mano a mano che il processo camminava per la sua strada e le possibilità di farlo deragliare si assottigliavano. Lo ricorda Falcone in quel medesimo articolo (“il maxiprocesso che gronda del sangue dei migliori magistrati e investigatori italiani è approdato all’ultima istanza del giudizio”): dalla fase delle indagini, fino all’assassinio del giudice Saetta, ammazzato insieme al figlio, Cosa Nostra aveva usato tutti i canali utili per far capire quale valore, anche simbolico, attribuisse al processo istruito dal pool prima coordinato da Chinnici, ammazzato nel 1983, poi da Caponnetto, e composto da Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello.

La posta: l’impunità della “cupola” come misura di un potere inossidabile. Cosa Nostra sapendo che a rappresentare la pubblica accusa nell’ultimo e decisivo grado di giudizio, la Cassazione, sarebbe stato proprio il giudice Scopelliti, avrebbe quindi cercato prima di avvicinarlo per corromperlo, poi di spaventarlo, infine avrebbe deciso la sua eliminazione. Con l’obiettivo di terrorizzare ulteriormente quanti avrebbero avuto a che fare con il processo in Cassazione, e in ogni caso di far perdere tempo scommettendo, in subordine, sul decorso dei tempi per la carcerazione preventiva.

Non erano obiettivi di per sé velleitari ed è proprio questo che rende l’interpretazione dell’omicidio ragionevole. In effetti il terrore seminato in chi doveva avere a che fare con il “Maxi” aveva dato i suoi frutti (basti pensare alle difficoltà che si ebbero nel formare il collegio giudicante in primo grado, fino a trovare la disponibilità del dott. Alfonso Giordano) e pure le tattiche dilatorie avrebbero potuto dare qualche frutto, nonostante il decreto legge suggerito da Falcone che già in precedenza aveva stoppato le scarcerazioni per decorrenza termini. E che sia stata la mafia (Cosa Nostra, ‘ndrangheta, “Cosa Unica”) a premere il grilletto lo suggeriscono alcuni fatti, riportati dal giornalista Massimo Bugnone nel podcast sull’omicidio Scopelliti, in particolare “l’ambasceria” della ‘ndrangheta cui preme far sapere alla famiglia Scopelliti, da tutti rispettata a Campo Calabro, che almeno avevano ottenuto che il giudice non fosse ucciso nel territorio di Campo Calabro.

In effetti il commando assassino sparò in località Piale, ancora nel Comune di Villa San Giovanni. Ma tutto ciò non basta. Perché per la mafia l’omicidio Scopelliti si rivelò deleterio e controproducente: la sentenza di Cassazione arrivò veloce e durissima, andando oltre quella di appello (che aveva alleggerito il carico delle condanne) e aderendo sostanzialmente alla sentenza di primo grado (quella emessa da Giordano, con Grasso giudice a latere). E’ come se ci fosse qualcosa di più (non di meno!) nell’omicidio Scopelliti, come se ci fosse una posta in gioco che trascenda l’esito stesso del “Maxi”: la fase storica è già cambiata.

A questo proposito è di interesse quanto dice il collaboratore Avola, secondo il quale la strategia terroristico-stragista di Cosa Nostra (“Cosa Unica”) comincerebbe proprio con l’omicidio Scopelliti e non, come comunemente ritenuto, con l’omicidio di Salvo Lima del 12 marzo ’92. Ci sarebbe almeno un dato oggettivo a sostegno delle parole di Avola: l’omicidio Scopelliti verrà rivendicato dalla sigla “Falange Armata”, della quale oggi sappiamo quanto basta per inserire i delitti rivendicati con questa sigla in un sistema criminale complesso le cui finalità andavano oltre quelle tipiche di una organizzazione mafiosa. Mi pare insomma che la posta in gioco dell’omicidio Scopelliti, trascendendo il “Maxi”, si possa inserire in quello che chiamo il “Terzo dopoguerra italiano”, con il suo fitto strascico di negoziati e assestamenti (spesso traumatici). Tra l’omicidio di Saetta e l’omicidio di Scopelliti infatti non passano soltanto tre anni, passa un mondo: Saetta viene ucciso nel 1988, Scopelliti nel 1991, tra queste due date ci stanno la “caduta del muro di Berlino” e l’ammissione in Parlamento da parte di Giulio Andreotti dell’esistenza di Gladio.

L’omicidio Scopelliti, che non servì a Cosa Nostra, anzi, ricorda un altro delitto che non servì a Cosa Nostra: quello di Paolo Borsellino. E chissà che anche per Scopelliti possano valere le parole che Paolo Borsellino consegnò alla moglie Agnese: “mi uccideranno e forse saranno mafiosi quelli che materialmente. Davide Mattiello FQ 9.8.2023


Il pensiero, le idee, le parole 

 

 Antonino Scopelliti è magistrato universalmente apprezzato per le qualità umane, la capacità professionale e l’impegno civile; il suo pensiero e le sue idee possono essere ripercorsi attraverso alcuni interventi pubblicati per la rivista “Gli oratori del Giorno: rassegna mensile d’eloquenza”. Di sconvolgente attualità è ad esempio la concezione del magistrato in merito ai rapporti tra magistratura e mass media, contenuta in un celebre scritto dal titolo Libertà d’informazione o di diffamazione (pubblicato in “Gli Oratori del Giorno”, Roma, luglio 1987 Anno LV) in cui, tra l’altro, con grande equilibrio, afferma: ”Grande quindi la responsabilità del giudice e del giornalista in ogni momento ed in ogni piega della propria attività[…] stampa e magistratura sono oggi i protagonisti più potenti della società italiana; […] hanno il potere di distruggere l’immagine di chiunque con una frettolosa comunicazione giudiziaria o con un insidioso articolo nella pagina interna di un giornale; che la nostra è una società in cui un qualsiasi pentito (vero o presunto) o un subdolo corsivo possono delegittimare la più autorevole delle persone e dissolvere il prestigio di ogni istituzione; che in questo gioco perverso il magistrato e il giornalista stanno coltivando un pericoloso ruolo primario ed è quindi inevitabile che si entri in rotta di collisione non avvedendosi, né l’uno né l’altro che delegittimare è delegittimarsi, uccidere è un po’ suicidarsi”. E ancora: “ Ora noi magistrati, che abbiamo l’istituzionale compito di regolare i rapporti sociali e garantire l’ordine collettivo e voi giornalisti che avete il compito di informare e che quindi come noi vivete di quotidianità, stiamo diventando un po’ troppo protagonisti della straordinarietà: noi aggrediti dal virus di prima pagina, voi prigionieri dell’enfasi e della drammatizzazione ritenute necessarie per fare il giornale e venderlo…”. Altro tema affrontato in diversi articoli dal dott. Scopelliti è la difesa del ruolo del giudice, che nel pensiero e nelle parole del magistrato non diventa mai difesa della categoria, ma resta sempre salvaguardia dell’Istituzione, cui deve essere garantita la necessaria indipendenza ma che deve anche saperla preservare e custodire, per poter essere al servizio alla collettività: “…Non c’è ormai nessuna inchiesta di rilievo che non scateni campagne denigratorie e frettolosi processi sommari contro i giudici che se ne occupano. Se si cerca di far luce sul terrorismo e di colpire i protagonisti e fiancheggiatori, si insinua che i giudici sono collegati a centrali politiche e che l’unica loro intenzione è quella di favorire i giochi oscuri dei partiti al governo o all’opposizione. […] Non dovrebbe dimenticare il giudice – come acutamente annotava un autorevole giurista – che nell’esercizio del potere giurisdizionale non ha che una linea da seguire ed è quella indicata dalla Costituzione essendo quest’ultimo il testo che consacra in termini generali e superpartitici i valori sociali nei quali la nostra comunità statuale crede ed alla cui realizzazione essa aspira. Il giudice che opera al di fuori o va oltre e non realizza questo messaggio finisce inevitabilmente per tradire l’unico vero ruolo «politico» che il suo mandato gli attribuisce. […] Non dovrebbe dimenticare il giudice la virtù dell’equilibrio quando sia malauguratamente tentato di riempire gli spazi che vengono a lui offerti ispirandosi al suo patrimonio ideologico. Non dovrebbe in sostanza dimenticare che il cittadino ha il diritto di attendersi dal suo giudice l’uso della massima prudenza prima di emettere qualsivoglia provvedimento; ha il diritto di non tollerare catture e perquisizioni spettacolari quanto inopportune; ha il diritto di non tollerare inchieste fondate sul poco o sul niente; ha il diritto di vedere il suo giudice «con la testa stretta fra le mani» (sono le parole di un compianto penalista) nel momento del decidere e del giudicare”.(Difesa dei giudici. Discorso alla gente che sta dietro l’angolo, in Gli Oratori del Giorno, maggio – giugno 1987). Ancora, in altro scritto dal titolo “Difesa del giudice. Il giudice e la politica – Il giudice e i rotocalchi – Il giudice e lo sciopero – Il giudice e le formule (edito sempre da: Gli Oratori del Giorno, Sett/ott 1975, Anno XLIII n. 9-10), il dott. Scopelliti osserva: “ La giustizia è in crisi. Non sono pochi però, quelli che ne identificano le cause, o comunque la più insidiosa e preoccupante nel protagonista principale e più qualificato: il Giudice. Il giudice fa politica? Il giudice è sensibile alla prima pagina del rotocalco? Il Giudice sciopera per i quattrini? Il Giudice soffre ancora di un linguaggio accademico rituale e quindi oscuro? Il Giudice mostra eccessive indulgenze verso criminali? Son tutte domande pertinenti che meritano una risposta, una risposta chiara, critica ed anche severa. Direi che il discorso è opportuno e necessario perché l’informazione sulla giustizia è generalmente frammentaria e pressappochista. E, a volte, un’informazione «ad effetto» con la quale non credo si renda un buon servigio al cittadino. Crisi della Giustizia. Certo, esiste ed ha gravemente coinvolto il prestigio del Magistrato. Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia e se è vero – come è stato autorevolmente osservato – che rendere giustizia è il momento etico dello Stato, perde nello stesso tempo fiducia nell’eticità dello Stato ed il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi crisi dello Stato. Ma sotto processo oggi è unicamente il Giudice. Ed il processo ha tutta l’aria di un processo sommario.[…] La macchina della Legge non funziona perché l’intero apparato burocratico non funziona. Tribunali superflui, Preture inutili. Ci sono i giudici – e sono anche tanti – ma mancano le attrezzature tecniche, gli ausiliari. L’Italia – osservava un pubblicista – continua ad avere eserciti con molti generali ed il fucile 91. Si lavora ancora con codici vecchi di 40 anni, con procedure asmatiche. Il cavillo fa aggio sul diritto. La vittima è il cittadino qualunque, indifeso e impotente”Nella sua ultima intervista televisiva, sette mesi prima della sua morte, nella trasmissione “Telefono giallo” (ancora visibile sul sito della Rai a questo indirizzo), in merito ad alcune pronunce della Corte di cassazione che avevano suscitato profonda eco anche nell’opinione pubblica, volle sottolineare, come già aveva fatto in diverse occasioni, il necessario rispetto che deve essere garantito a chi è chiamato ad applicare le norme: “….purtroppo è da molto tempo che si fanno processi sommari contro il giudice che diventa il cireneo di ogni disfunzione, responsabile di ogni cosa che non va, quando il giudice, invece, è l’ultimo anello di una catena per cui l’attenzione del cittadino si pone soltanto su quell’ultima attività di questo anello, e quindi sul giudice, il quale scarcera, il quale mette in giro i delinquenti”. Ed evidenziando quella cattiva pratica di non realizzare una corretta informazione, che aveva più volte rimarcato in altre pubbliche dichiarazioni commenta: “Si appuntano gli strali contro la Cassazione che annulla, che assolve e tutto questo mi sembra non corrispondente alla realtà. La Cassazione non assolve nessuno, la Cassazione annulla determinati provvedimenti rispedendoli al giudice perché motivi meglio, perché svolga certe indagini che non ha svolto, quindi nessuna assoluzione”, rimarcando poil’importanza del ruolo della Corte di cassazione edil dovuto rispetto che deve essere accordato alla stessa nel proprio insieme, nella delicata funzione che è chiamata ad esercitare: “La Cassazione, io non voglio difendere né la prima, né la seconda, né la terza, voglio dire soltanto che la Cassazione ha come specifico obiettivo quello di garantire l’esatta interpretazione e uniformità dei provvedimenti. La Cassazione, accanto agli annullamenti di sentenze, è un giudice che praticamente rigetta ogni giorno decine e decine di ricorsi proposti da delinquenti, ma, purtroppo, questi non fanno notizia!” Nella medesima intervista, citando le parole usate due anni prima in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, si espone in merito alla possibilità di prevedere una gradazione degli effetti della presunzione di non colpevolezza, con quel rigore e quell’intransigenza che aveva già più volte dimostrato nelle aule di giustizia, acuendo, forse, l’allarme di chi quella presunzione tende a sfruttare per la ricerca dell’impunità: “Il Procuratore Generale della Cassazione due anni fa nell’anno giudiziario ha detto con molta prudenza e con molta serietà che questa presunzione di non colpevolezza, che è prevista dalla nostra Costituzione, mentre dovrebbe avere degli effetti di un certo spessore per chi è ancora inquisito dalla polizia, dovrebbe avere altri effetti per chi, per esempio, è stato condannato all’ergastolo una prima e una seconda volta. Questo, il nostro Procuratore Generale, ha detto a chiare lettere. Eppure è successo che la sera stessa o il giorno dopo in una trasmissione televisiva sono intervenuti alcuni personaggi che hanno detto che il Procuratore Generale della Cassazione che si era permesso di dire quelle cose che il cittadino di buon senso subito approva, doveva essere destituito dalla Magistratura perché si era permesso di mettere in discussione i principi della Costituzione”.

Il filo “rosso” del maxi-processo Quello stesso filo che appare aver legato le sorti dei più rappresentativi esponenti del pool di Palermo – Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – sembra unire anche il giudice Antonino Saetta ad Antonino Scopelliti: quel filo è rappresentato dal maxi-processo a Cosa nostra. Saetta era tra i candidati con le più concrete possibilità di presiedere la Corte d’appello per il maxi-processo a Cosa Nostra, ed aveva già mostrato la propria inflessibilità nel processo di appello per la strage di Via Pipitone Federico, dove avevano perso la vita il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici e gli uomini dalla sua scorta. Con Antonino Saetta per la prima volta viene colpito un magistrato giudicante; con Antonino Scopelliti per la prima volta viene colpito il vertice della magistratura italiana: quella Corte di cassazione che spesso, in virtù di interpretazioni estremamente garantiste, aveva annullato diversi processi di mafia. Cosa nostra aveva già avuto modo di “conoscere” il magistrato Scopelliti; egli aveva infatti sostenuto la pubblica accusa, tra l’altro, nei processi per l’omicidio del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici e in quello per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile; Cosa nostra aveva dunque avuto modo di verificare come lo stesso fosse integerrimo, affatto malleabile, critico nei confronti dell’eccessivo garantismo della prima sezione penale della Corte di Cassazione. Evidente che Cosa Nostra avrebbe avuto tutto l’interesse a non veder sostenuta la pubblica accusa nel giudizio di legittimità del maxi-processo da parte di un magistrato come il dott. Scopelliti che: “…più volte ed in vicende di primissimo piano (ed anche in periodi di tempo assai prossimi a quello della sua morte) il suddetto mostrò di non essere un sostenitore della linea di assoluto rigore formale privilegiata dai giudici di quella sezione e di non ritenere che le decisioni dei giudici di merito meritassero di essere stravolte per vizi non attinenti il piano sostanziale dei processi”(Sentenza della Corte di assise di Reggio Calabria nel processo per l’omicidio di Antonino Scopelliti – 11 maggio 1996 – pag 144). Inoltre “Il Ministro di Grazia e Giustizia, onorevole Claudio Martelli, a ciò anche stimolato dalla presenza al suo fianco del Dott. Giovanni Falcone, nella qualità di Direttore degli Affari Penali del Ministero, avendo constatato il profondo ed evidente scollamento tra i principi interpretativi adottati dai giudici di merito che si occupavano di processi di criminalità organizzata e quelli applicati dalla Prima Sezione penale della Cassazione (informati ad un rigoroso formalismo) cui era demandata in esclusiva la trattazione di tali tematiche, aveva deciso di realizzare un monitoraggio sulla produzione di quella stessa sezione. Il lavoro si concluse con la verifica che le pronunce più controverse della Prima Sezione erano state assunte, nella stragrande maggioranza dei casi, da collegi presieduti dal Dott. Carnevale ed in cui il relatore era stato il Dott. Dell’Anno. Il Guardasigilli, ben consapevole di non poter assumere iniziative formali in danno di tali magistrati senza al tempo stesso esporsi alla obiezione di intaccare l’autonomia della giurisdizione, e tuttavia ugualmente determinato ad impedire che la loro concezione potesse comportare lo stravolgimento di altri processi, decise di usare le armi della polemica che alimentò costantemente con i mezzi a sua disposizione allo scopo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e, al tempo stesso, provocare una qualche modifica della situazione. Fu così che, particolarmente attorno a Corrado Carnevale, si creò un clima di ostilità montante tale da turbarne pesantemente la condizione professionale e la reputazione. Sebbene il magistrato, almeno inizialmente, reagisse con fastidio a questo stato di cose e si mostrasse quindi intenzionato a non farsene travolgere e a non abdicare, neanche in minima misura, alle proprie funzioni, i colleghi che gli erano più vicini (e tra questi Paolino Dell’anno, Umberto Feliciangeli e Francesco Pintus) compresero che la particolarità del momento esigeva un passo indietro da parte sua. Gli consigliarono pertanto, consapevoli della grande attenzione riposta sul maxiprocesso, di affidare ad un altro giudice la presidenza del collegio che avrebbe giudicato i ricorsi ad esso attinenti. Il presidente Carnevale, dopo aver tentato di resistere all’invito dei colleghi, si rese ben presto conto dell’insostenibilità della sua posizione e del grave appannamento che essa avrebbe potuto causare alla sentenza da emettere quale che ne fosse il contenuto. Accettò pertanto di lasciare ad altri l’incarico e, attorno al mese di maggio, convocò una riunione dei magistrati della Prima Sezione ed annunciò che il suo posto sarebbe stato preso dal presidente Pasquale Molinari mentre gli altri componenti del collegio sarebbero stati i giudici Buogo, Pompa, Schiavotti e Papadia. La decisione, accettata con spirito di servizio dal Molinari, fu immediatamente comunicata al Presidente Brancaccio il quale ne prese atto pur con qualche riserva legata al non lontano pensionamento del subentrante. Proprio per via di tale preoccupazione il Primo Presidente ritenne di inviare una nota scritta al collega Carnevale sollecitandolo ad intensificare gli sforzi organizzativi per la gestione del maxiprocesso così da prevenire qualsivoglia ostacolo che potesse impedirne la definizione o comunque ritardarla oltre la data del pensionamento del Molinari. avrebbe avuto invece tutto l’interesse a veder sostenute” (Corte di assise di Reggio Calabria dell’11 maggio 1996 – pagg. 135 e ss) Palese, dunque, la preoccupazione di Cosa nostra che in quella sostituzione può aver visto  allontanarsi la possibilità di ottenere un annullamento della sentenza di II grado – che avrebbe anche significato il mancato riconoscimento del cosidetto “teorema Buscetta” – insieme al rischio di veder sostenuta la pubblica accusa da un magistrato intransigente e, quindi, inavvicinabile, come Antonino Scopelliti. Il maxi-processo è stato scandito fin dalle sue prime fasi investigative da omicidi di magistrati e investigatori con conseguente pesante e inevitabile condizionamento psicologico di quanti, a diversi livelli, se ne sarebbero dovuti occupare: l’uccisione del dott. Scopelliti avrebbe dunque potuto influenzare pesantemente il clima dello svolgimento di quest’ultima tappa del processo. “Non era solo questo tuttavia il danno che la mafia avrebbe potuto ricevere da una negativa conclusione del maxiprocesso. C’era ancora un problema di immagine. Tutte le organizzazioni criminali di tipo mafioso sono tali in quanto possiedono un quid pluris rispetto ad ogni altro tipo di organizzazione e cioè la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo che a sua volta provoca assoggettamento ed omertà nella maggior parte dei soggetti la cui strada si incroci con la mafia. Si tratta tuttavia di un elemento che non è immutabile e non è eterno. Esso deve essere continuamente alimentato da dimostrazioni esteriori della sua esistenza ed in questa logica le attività più utili sono quelle volte a rendere visibile e convincente l’idea di una mafia invincibile, in grado di resistere ad ogni attacco, anche quello più duro, che venga portato dai nemici, primo tra tutti lo Stato. Ora, poichè il principale, e comunque il più utilizzato, strumento di risposta statale al fenomeno mafioso è certamente costituito dalle iniziative giudiziarie, Cosa Nostra aveva assoluta necessità di dimostrare coram populi di essere tetragona anche sotto tale aspetto. Troppo sarebbe stato infatti il danno di immagine derivante dalla percezione di una mafia perdente nelle aule giudiziarie tanto più a fronte di una passata casistica da cui trapelava la sostanziale incapacità delle Istituzioni di trovare la chiave di volta per arrivare a sanzionare adeguatamente le condotte criminali degli uomini d’onore.” ”(Corte di assise di Reggio Calabria dell’11 maggio 1996 – pag 124 e ss). Il delitto serve anche come dimostrazione di forza: in Calabria c’è solo un precedente, l’assassinio dell’avvocato generale dello Stato Francesco Ferlaino il 3 luglio 1975. Sul punto il collaboratore di giustizia Leonardo Messina in audizione avanti la Commissione parlamentare antimafia, il 4 dicembre 1992, alla richiesta di notizie in merito all’omicidio del dott. Scopelliti, avrà modo di sottolineare: ”Posso dire quello che si diceva dopo l’uccisione di Falcone. Si pensava che quell’incarico fosse ricoperto da Cordova. Si diceva come è stato ucciso Scopelliti i calabresi uccideranno pure lui. […] Appena Cordova va alla superprocura (dopo l’omicidio di Falcone si cominciò a vociferare il nome di Cordova) saranno i calabresi a fare quello che hanno fatto con Scopelliti”. E, alla richiesta del Presidente della Commissione, Luciano Violante, se fossero stati i calabresi a decidere la morte del giudice, Leonardo Messina risponderà: “E’ sempre Cosa nostra a decidere […]Sì. La ‘ndrangheta è solo un nome. La struttura è tutta Cosa nostra”. Sul motivo per il quale il magistrato sarebbe stato ucciso il collaboratore di giustizia dichiarerà: “Avevano la sicurezza che il maxiprocesso sarebbe finito in un bluff; le sentenze definitive, cioè, non dovevano accettare il “teorema Buscetta” […]non l’avevano potuto controllare (il dott. Scopelliti n.d.r.); quando non controllano i magistrati, li uccidono. Guardi quanti ne hanno uccisi e si faccia il conto. […] So che non l’avevano potuto contattare, e in ogni caso non era persona contattabile.”. (XI Legislatura – Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e  sulle associazioni criminali similari – Seduta del 4 dicembre 1992 pagg 541 ss) 


Le tappe della vicenda processuale relativa all’omicidio del dott. Antonino Scopelliti Il 9 agosto 1992 Antonino Scopelliti a bordo della propria autovettura viaggia in direzione della casa paterna di ritorno dal mare; all’altezza di una curva, poco prima del rettilineo che immette nell’abitato di Campo Calabro, il magistrato viene raggiunto da due colpi calibro 12, che lo colpiscono alla testa e al collo, causandone l’immediato decesso: la macchina finisce la corsa, senza controllo in un terrapieno, facendo inizialmente pensare che la causa del decesso fosse da imputare ad un incidente stradale. Dalle indagini risulterà che il dott. Scopelliti, era arrivato nel paese d’origine per trascorrere qualche giorno di vacanza (era rimasto in servizio fino alla fine del mese di luglio) e si era fatto spedire da Roma gli atti del maxi-processo per cominciarne lo studio in vista del giudizio di legittimità in cui avrebbe rappresentato la pubblica accusa.

Per l’omicidio del magistrato la Corte di assise di Reggio Calabria con sentenza dell’11 maggio 1996 condannerà i vertici di Cosa nostra, Salvatore Riina, Pippo Calò, Francesco Madonia, Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, all’ergastolo per aver ordinato l’esecuzione del magistrato. La sentenza di primo grado verrà integralmente riformata dalla Corte d’assise di appello di Reggio Calabria il 28 aprile 1998. Un nuovo processo verrà celebrato nei confronti di altri elementi della cd. cupola dalla Corte d’assise di Reggio Calabria. Il 18 dicembre 1998 per l’omicidio del dott. Scopelliti verranno condannati Bernardo Provenzano, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Raffaele Gangi, Giuseppe Farinella, Francesco Giuffrè e Benedetto Santapaola. Anche in questo caso, la Corte di assise di appello di Reggio Calabria il 14 novembre 2000 riformerà la sentenza di primo grado pronunciando sentenza di assoluzione nei confronti dei predetti imputati. Con sentenza del 1 aprile 2004 la Corte di cassazione, rigettando il ricorso proposto dal Procuratore Generale di Reggio Calabria, confermerà le assoluzioni  decise dal giudice di appello. Il 9 agosto 2018 a margine delle cerimonie per la commemorazione dell’anniversario della morte del dott. Antonino Scopelliti il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria annuncia che in seguito ad un’attività ispettiva condotta dalla Dda di Reggio Calabria è stata rinvenuta l’arma utilizzata per l’omicidio del dott. Scopelliti. Il ritrovamento potrebbe aprire importanti scenari circa le responsabilità di un omicidio su cui rimangono, ancora oggi, più ombre che luci…

 

I documenti pubblicati


Dopo 27 anni trovata l’arma che sparò a un giudice “incorruttibile”. Bombardieri: “Si aprono scenari importanti”. La morte del magistrato aprì di fatto la stagione delle stragi “È senza dubbio un passo in avanti per raggiungere la verità. Il ritrovamento apre scenari importanti per appurare i responsabili di questo odioso crimine, confermando importanti recenti intuizioni investigative”. La “verità” a cui fa riferimento il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, è quella sull’omicidio – ancora oggi irrisolto – del giudice Antonino Scopelliti, compiuto il 9 agosto di 27 anni fa (nel 1991) con un agguato a Campo Calabro, mentre rientrava dal mare. Scopelliti, in quei giorni, stava lavorando al maxiprocesso a cosa nostra, di cui avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa in Cassazione. Secondo le ricostruzioni i killer furono almeno due, accostati lungo la strada che collega Villa San Giovanni a Campo Calabro, e (probabilmente) su una moto fecero fuoco con un fucile calibro 12 caricato a pallettoni, colpendo mortalmente alla testa il giudice. E quel fucile, stando all’annuncio del procuratore Bombardieri dato oggi nel corso dell’annuale commemorazione di Scopelliti, è stato finalmente ritrovato. Nel catanese. La morte del magistrato aprì la stagione stragista che avrebbe portato, poco tempo dopo, alle bombe di Capaci e via d’Amelio in cui furono uccisi Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le loro rispettive scorte. Per l’uccisione di Scopelliti furono istruiti e celebrati ben due processi (uno nel 1996 contro Salvatore Riina e sette boss della “commissione” di cosa nostra, ed un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri sei boss) ma tutti gli imputati furono assolti, in quanto le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia vennero giudicate discordanti. Eppure oggi è importante ricordare il secondo processo, perché fra i sei boss a giudizio con Provenzano, vi era Nitto Santapaola, proprio il capomafia catanese da sempre alleato ai corleonesi. E proprio nel “suo” territorio è stata ritrovata l’arma che portò alla morte del giudice calabrese. ANTIMAFIA DUEMILA 9.8.2018


9 agosto 1991 – Campo Calabro – viene assassinato il giudice di Cassazione Antonino Scopelliti, in un agguato di chiara matrice mafiosa.
Dalla pag. 221 di “Noi, gli Uomini di Falcone” 
“Angiolo, vieni. Sali tu in macchina qui con me, dai!”. Mi infilai veloce dentro e chiusi lo sportello. “Così evitiamo che salga qualcuna della autorità presenti”. Giovanni Falcone mi strinse la mano e mi strizzò l’occhio. Poi face cenno all’autista di partire. La Fiat Croma ministeriale sfrecciò via svelta, facendosi strada in mezzo alla folla e al caravanserraglio di auto blu e superscorte che assiepavano la piccola piazza di Campo Calabro…Il solito rituale che eravamo abituati a vedere da una vita, davanti alle bare listate con il tricolore.

 

 

Antonino Scopelliti. L’omicidio del magistrato calabrese e le parole di Giovanni Falcone  Il 17 agosto il 1991 sulle pagine del quotidiano La StampaGiovanni Falcone illustrò il significato dell’omicidio di Antonino Scopelliti, il primo magistrato ucciso dalla ‘Ndrangheta a cinquantuno anni, qualche settimana prima, il 9 agosto 1991Scrive Falcone: “L’ultimo delitto eccellente l’uccisione di Antonino Scopelliti è stato realizzato, come da copione, nella torrida estate meridionale cosicché, distratti dalle incombenti ferie di Ferragosto e dalla concomitanza di altri gravi eventi, quasi non vi abbiamo fatto caso. Unico dato certo è la eliminazione di un magistrato universalmente apprezzato per le sue qualità umane, la sua capacità professionale e il suo impegno civile. Ma ciò ormai non sembra far più notizia, quasi che nel nostro Paese sia normale per un magistrato e probabilmente lo è essere ucciso esclusivamente per aver fatto il proprio dovere”.

 

Chi era Scopelliti? entrato in magistratura a ventiquattro anni, aveva lavorato dapprima presso la Procura di Roma e poi in quella di Milano. Aveva sostenuto anche, tra le altre cose, la pubblica accusa nel “caso Moro”, poi per i fatti della Strage di Piazza Fontana e della Strage del Rapido 904. Soprattutto, all’inizio degli anni Novanta, avrebbe avuto l’onere e l’onore di svolgere la funzione di pubblico ministero nel maxiprocesso di Palermo, giunto al terzo grado di giudizio e da discutere pertanto in Cassazione.Scopelliti, soprannominato il “giudice solo”, è stato descritto come un magistrato inavvicinabile e incorruttibile (tanto da aver rifiutato, così riportano le cronache, una tangente da 5 miliardi di Lire). Soprattutto fu persona dalla grande levatura morale. “Il pubblico ministero deve fare anzitutto il proprio dovere. La popolarità è un privilegio di cui il giudice non deve tenere conto”, diceva Scopelliti in una delle rarissime interviste televisive concesseIl suo omicidio si inserisce nella lunga stagione della guerra della mafia allo Stato, almeno a una parte di esso: a quelle istituzioni che avevano portato avanti arresti e processi, infliggendo pesanti condanne ai mafiosi. Nel 1988 era stato assassinato il giudice Antonino Saetta, insieme al figlio, per aver accolto la tesi del pool antimafia durante il maxiprocesso. Dopo l’omicidio di Scopelliti, una tragica morte sarebbe toccata proprio a Giovanni Falcone e poi a Paolo Borsellino.

Sono le parole di Falcone a descrivere il significato dell’assassinio del giudice calabrese:Ma se, mettendo da parte per un momento l’emozione e lo sdegno per la feroce eliminazione di un galantuomo, si riflette sul significato di questo ennesimo delitto di mafia, ci si accorge di una novità non da poco: per la prima volta è stato direttamente colpito il vertice della magistratura ordinaria, la suprema corte di Cassazione. Non è questa la sede per azzardare ipotesi, né si pretende di suggerire nulla agli investigatori; ma il dato di cui sopra è sicuramente di grande importanza e merita particolare attenzione. Non importa stabilire quale sia stata la causa scatenante dell’omicidio, ma è certo che è stato eliminato un magistrato chiave nella lotta alla mafia, uno dei più apprezzati collaboratori del procuratore generale della corte di Cassazione, addetto alla trattazione di gran parte dei più difficili ricorsi riguardanti la criminalità organizzata. Queste qualità della vittima, ignote al grande pubblico, erano ben conosciute invece dagli addetti ai lavori e, occorre sottolinearlo, anche dalla criminalità mafiosa. L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la suprema corte di Cassazione era stata investita della trattazione del maxiprocesso alla mafia siciliana e ciò non può essere senza significato. Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla suprema corte, non ne avrebbe comunque potuto prescindere nel senso che non poteva non essere evidente che l’uccisione avrebbe influenzato pesantemente il clima dello svolgimento del maxiprocesso in quella sede. E se tale ovvia previsione non ha fatto desistere dal delitto, ciò significa che il gesto, anche se non direttamente ordinato da “Cosa Nostra”, alla stessa non era sgradito. Non si dimentichi, si ribadisce, che Antonino Scopelliti era un magistrato la cui uccisione avrebbe sicuramente determinato l’addensarsi di pesanti sospetti su “Cosa Nostra”, come in effetti è avvenuto. Si aggiunga che l’omicidio di Scopelliti è avvenuto in terra di Calabria, in una zona cioè dove finora non erano stati uccisi magistrati o funzionari impegnati nella lotta alle cosche. Ciò è stato correttamente interpretato come un preoccupante “salto di qualità” che non potrà non influenzare il futuro della lotta alle organizzazioni mafiose calabresi e che, già da adesso, suona come un grave segnale di pericolo per tutti coloro che in quelle terre sono impegnati in questa, finora impari, battaglia. Se così è e purtroppo ben pochi dubbi possono sussistere al riguardo le conseguenze sono veramente gravi. È difficilmente contestabile, infatti, che le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ‘ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente e che le stesse non soltanto ben conoscono il funzionamento della macchina statale, ma non hanno esitazioni a colpire chicchessia, ove ne ritengano l’opportunità; e alla luce dell’esperienza fatta non si può certo dire che finora queste organizzazioni abbiano fatto passi falsi. Non sembri un caso che il maxiprocesso qualunque ne sia la valutazione che ognuno ritenga di darne in termini di efficacia nella lotta alla mafia sia stato scandito in tutte le sue fasi, a cominciare dalle investigazioni preliminari, da assassinii di magistrati e di investigatori con conseguente pesante e inevitabile condizionamento psichico per tutti coloro che per ragioni di ufficio se ne sono dovuti occupare. Adesso il maxiprocesso che gronda del sangue dei migliori magistrati e investigatori italiani è approdato all’ultima istanza del giudizio, la Cassazione, ed era stato affidato a chi, Antonino Scopelliti, già più volte, con serenità e coraggio, aveva espresso il punto di vista della pubblica accusa, in ultimo opponendosi alla scarcerazione per decorrenza dei termini degli imputati; scarcerazione poi concessa dalla suprema corte con conseguente intervento governativo per bloccare le erronee scarcerazioni. Non ci vuol molto a capire, allora, che, a parte le eventuali particolari causali dell’omicidio di Scopelliti, lo stesso sarebbe stato inevitabilmente recepito dagli addetti ai lavori come una intimidazione nei confronti della suprema corte e che se è stato tuttavia consumato, le organizzazioni mafiose non temono le eventuali reazioni dello Stato. Ognuno è in grado di comprendere, dunque, qual è il grado di pericolosità raggiunto dalle organizzazioni mafiose. L’opinione pubblica, nel periodo del terrorismo, ha cominciato a rendersi conto della sua pericolosità con l’inizio degli attentati contro persone che, sconosciute ai più, rivestivano in realtà grande importanza nei meccanismi produttivi del Paese […]. Probabilmente stiamo attraversando adesso, nel campo della criminalità organizzata, una fase analoga”.

Le intuizioni di Giovanni Falcone sarebbero state confermate anche da alcuni pentiti.Gaspare Mutolo nel settembre del 1992 riferì che: “l’omicidio del dottor Antonio Scopelliti sarebbe stato commesso su mandato di Cosa Nostra e collegato con la partecipazione del magistrato, in qualità di pubblico ministero, al giudizio di Cassazione concernente il maxiprocesso” per condizionare un esito favorevole alla mafia. Mutolo non parlava a caso e aggiungeva: “Ebbi poi specifica conferma, verso il novembre 1991, periodo in cui mi trovavo nel carcere di Spoleto, insieme a Gambino Giacomo Giuseppe “u tignusu”, capo del mio mandamento. […] Nel contesto del discorso con Gambino – racconta ai magistrati – io chiesi da chi fosse stato eseguito materialmente il delitto, posto che era avvenuto in Calabria e mi sembrava impossibile, dati i rapporti tra Cosa nostra e la ‘ndrangheta, che avessero operato i killer di Cosa nostra […] Gambino mi spiegò che l’omicidio era stato eseguito da killer calabresi, ma su richiesta di Cosa nostra e per fare un favore a quest’ultima”. Affermazioni confermate anche da altri pentiti eccellenti in seno alla mafia siciliana – come Leonardo Messina, Antonino Calderone e Tommaso Buscetta – e anche da due ‘ndranghetisti: Giacomo Ubaldo Luaro e Filippo Barreca, che hanno collegato l’omicidio del giudice alla “pacificazione” avvenuta all’interno della ‘Ndrangheta, permeata dalla seconda guerra di mafia che aveva interessato la cosca De Stafano e che aveva poi coinvolto altre famiglie ‘ndranghetiste. La guerra di mafia calabrese, iniziata nel 1985, sarebbe terminata nel 1991 proprio a seguito dell’omicidio Scopelliti, dopo aver lasciato dietro di sé circa settecento morti. E a far da pacere fra le famiglie calabresi sarebbe intervenuto proprio Salvatore Riina. Barreca affermò: “L’intervento dei siciliani, oltre gli interessi iniziali di cui ho parlato, fu ulteriormente motivato, strada facendo, dalla sopravvenuta loro esigenza di eliminare il giudice Scopelliti per motivi connessi al maxiprocesso di Palermo. Tutte le attività criminose di qual si voglia natura, devono passare al vaglio della cupola che ne autorizza l’esecuzione o la vieta”. E l’omicidio del giudice fu avallato, secondo Barreca, di concerto con Cosa Nostra. Laura, uomo della cosca Imerti, precisò: “Il delitto Scopelliti ci ha indotto a venire a patti con la cosca De Stefano-Tegano-Libri, perché ha determinato un intervento di tutti”. Non intendendo, ovviamente, solo la ‘Ndrangheta.

Si svela una trama complessa ed articolata, in cui la morte di Antonino Scopelliti rimane tutt’ora da chiarireRicorda il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Vittorio Sgroi, che “nell’approssimarsi della data della celebrazione in Cassazione del cosiddetto maxiprocesso, l’avvocato generale Dr. Lombardi, che all’epoca – come sovrintendente del servizio penale – predisponeva il calendario delle udienze dei singoli sostituti, mi riferì che il collega Scopelliti si era proposto per la sostituzione quale sostituto d’udienza». Era il giugno del 1991. Una circostanza che il pubblico ministero Bruno Giordano, titolare della prima inchiesta sull’omicidio di Scopelliti, ha sottolineato: “Con siffatto comportamento, il Dr. Scopelliti rivelava un interesse di natura quasi extraprocessuale e una particolare motivazione verso la trattazione di quel processo, a dispetto della vistosa traccia di sangue che esso aveva seminato lungo il suo iter. Pertanto, delle due l’una: o il Dr Scopelliti era stato perché interferisse in senso favorevole agli imputati, o viceversa, le ragioni che lo spingevano erano di natura esattamente opposta”. Concludendo, è bene evidenziarlo, che vi erano segnali inequivocabili della dura presa di posizione di Scopelliti contro il fenomeno mafioso.

Indagare ancora. C’è un altro pentito di mafia, Gaetano Costa, proveniente da Messina, che recentemente ha dichiarato: “I legami fra Cosa Nostra e ’Ndrangheta erano strettissimi. Si arrivò anche a progettare e a dare forma (parliamo del periodo successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) a una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la Cosa Nuova, questa serviva anche a inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche”. E l’omicidio di Scopelliti sarebbe ascrivibile a questa sinergia tra mafie italiane. “La manifestazione più cruenta di questa alleanza è l’omicidio di Scopelliti”, conclude il pentito. Parole che confermerebbero ancora una volta l’intuizione di Giovanni Falcone. Dopo le bombe e le stragi degli anni 1992 e 1993, però, l’organicità tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta solo apparentemente sembra interrompersi. O quanto meno si interrompono i rapporti con la fazione dei corleonesi. Le mafie, invece, iniziano un lungo periodo di inabissamento per giungere al cuore economico e politico della Repubblica italiana.

Cosa rimane. Per l’omicidio di Antonino Scopelliti sono stati celebrati due processi. Il primo contro Salvatore Riina e sette capi mafia della “Commissione” di Cosa Nostra e il secondo contro Bernardo Provenzano e altri sei mafiosi, tra cui Filippo Graviano e Benedetto Santapaola. Nonostante le condanne in primo grado, in appello seguì l’assoluzione. Nel 2012, nell’ambito del processo “Meta”, Antonino Fiume, uomo dei De Stefano, ha dichiarato che ad uccidere Scopelliti, sarebbero stati due sicari, scelti tra i più bravi in circolazione, appartenenti alle due famiglie ‘ndranghetiste all’epoca della guerra di mafia contrapposte. Ad oggi esecutori e mandanti, pertanto, rimangono ignoti.Giovanni Falcone, al termine dell’articolo del 1991, scriveva “Si spera che l’ultimo infame assassinio faccia comprendere quanto grande sia la pericolosità criminale delle organizzazioni mafiose e che se ne traggano le conseguenze. Al riguardo, nel rilevare che attualmente è tutto un fiorire di ricette per battere la criminalità organizzata, ci si permette di suggerire che, ferma l’opportunità di scegliere moduli organizzativi adeguati, è giunto ormai il tempo di verificare sul campo la bontà degli stessi e, nel concreto, l’effettivo impegno antimafia del governo”. COSA VOSTRA


 

ROSANNA SCOPELLITI – 9 Agosto 2020È una giornata strana oggi. C’è silenzio.   Piove. Per la prima volta dopo tanti anni mi sveglio con calma. L’emergenza Covid ci ha imposto di evitare le consuete iniziative legate all’anniversario della morte di papà. Mi sono mancati i ragazzi del campus che la Fondazione organizza di solito in questo periodo. Quest’anno ci sarà la messa alle 18 e un momento di raccoglimento in sua memoria vicino l’Ulivo che ho piantato per lui. Ho più tempo per me. Ne approfitto. Guardo la mia piccolina che dorme e immagino di vederla crescere. Come sarà il suo sorriso, quali saranno i suoi sogni a 15 anni, le ambizioni a 20, chissà se indosserà qualche vestito dei miei… Penso a papà, chissà quante volte mi ha guardata mentre dormivo e si è chiesto se mi avrebbe vista crescere. Chissà se in quegli ultimi giorni, mentre scorreva le carte del “maxi processo” pensava alla promessa di accompagnarmi a scuola, al mare, a prendere un gelato. Chissà se vedendomi crescere, in quei pochi anni vissuti insieme, pensava alla normalità, alla “normalità canonica” che non abbiamo mai vissuto. E che chi lo ha ucciso mi ha rubato per sempre.Immagino i suoi ultimi attimi e spero con tutto il cuore che non abbia avuto il tempo di accorgersi di nulla. Che il panorama dello Stretto alla sua destra abbia distolto il suo sguardo e che lo stupore della bellezza sia arrivato prima di quello della morte. Si, mi piace immaginare così quel momento. La forza della bellezza che vince sul male. La rassegnazione sconfitta dal pensiero che si è seminato bene e che un domani il bene germoglierà sul sangue versato. Sono trascorsi 29 anni. Anni difficili, anni di solitudine, di amarezze, di articoli ignobili. Anni in cui Antonino Scopelliti è stato un’immagine sbiadita nella Storia del nostro Paese. Uno di quei servitori dello Stato il cui ricordo vive nei 40 minuti di annuale commemorazione e poi basta: “arrivederci al prossimo anno”. Sono stati anni in cui l’impegno e la necessità di fare memoria, per noi che siamo vivi, “sopravvissuti” mi verrebbe da dire, sono diventati ragione di vita. In cui l’incessante richiesta di verità e giustizia si fonde con il desiderio di riscatto di un intero popolo che soffre la distanza dalle Istituzioni e il dubbio, per dirla con Corrado Alvaro che “vivere onestamente sia inutile”. Avere una verità giudiziaria, non è solo dare pace a chi Antonino Scopelliti lo ha vissuto ed amato, ma è dare giustizia a tutte quelle persone che credono che vivere onestamente sia non solo utile, ma necessario. Ai giovani, a chi lascia il proprio cuore in questa terra e parte col desiderio di tornare. Per questo dopo tutti questi anni l’appello che faccio ai magistrati che stanno lavorando per scrivere la verità e la parola fine sul caso Scopelliti, è di fare presto. Il tempo sta scadendo, purtroppo. Siamo stanchi. “Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia e se è vero che rendere giustizia e il momento etico dello Stato, perde nello stesso momento fiducia nella eticità dello Stato e il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi, crisi dello Stato” La crisi che ha investito la magistratura facendo emergere tutte quelle contraddizioni che papà già denunciava quarant’anni fa con queste parole rischia di svilire il grande lavoro svolto con passione e umanità da quei magistrati dediti allo studio del diritto e all’amore per il tricolore e la toga. Non possiamo permettercelo.E non sembri retorico affermare che lo dobbiamo a tutti quei servitori dello Stato, che prima e dopo papà hanno contribuito con il loro sacrificio ed il loro esempio a rendere le Istituzioni credibili e questo Paese un luogo in cui valga la pena vivere. Non è retorica: è orizzonte di senso.


Caso Scopelliti, chi è Maurizio Avola, il pentito che ha fatto riaprire l’indagine  – Un killer seriale con decine di assassini in curriculum ha portato i magistrati sulle tracce dell’arma che, secondo lui, ha ucciso il giudice calabrese

Un sicario spietato. Un viveur. Un pentito importante, ma capace di far saltare il programma di protezione per tornare alle rapine. Nel corso della sua vita, Maurizio Avola, il collaboratore che ha dato nuove gambe alle indagini sull’omicidio Scopelliti, è stato molte cose. Tante sono state ricostruite, altrettante le ha raccontate lui stesso, dentro e fuori dalle aule di giustizia.
Autore reoconfesso di più di 80 omicidi, in grado di freddare senza esitazione, né rimpianti, giornalisti, boss, e persino il suo migliore amico, negli anni di piombo catanesi, a lui il boss Nitto Santapaola affidava le più delicate missioni di morte con la certezza che non avrebbe né sbagliato, né parlato. Perché uccidere gli piaceva. «Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole. Non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite» ha detto più volte in udienza.
È irrisolto l’omicidio che nel 1991 in Calabria diede inizio alla stagione delle stragi. Ora un’inchiesta indaga sui lati oscuri del magistrato. E dello Stato 
Collaboratore dal ‘94, non ha mai esitato a toccare argomenti sensibili. Ha fatto il nome di Cesare Previti e Marcello Dell’Utri come uomini al servizio delle mafie ed è stato il primo a mettere in relazione la stagione degli attentati continentali con Silvio Berlusconi e Forza Italia. Si è autoaccusato di omicidi eccellenti, ha indicato mandanti ed esecutori di attentati che hanno fatto rumore e di altri solo progettati, ha rivelato la riunione di Enna servita per progettare quelle leghe regionali che avrebbero dovuto regalare ai clan una nazione. 

Per gli altri pentiti è uno che sa, perché aveva il ruolo e il rango per essere informato. Ne parlano in tanti e ne ricordano la ferocia. Nessuno si è mai azzardato a definirlo un uomo dominato dalla paura. Eppure, per l’ex sicario dagli occhi di ghiaccio diventato collaboratore di giustizia, la vita numero tre, è iniziata con un’implicita richiesta di aiuto. 
«Temevo e temo molto i circuiti massonici a cui Matteo Messina Denaro e la sua famiglia sono legati. Sono molto potenti e hanno al servizio numerosi esponenti delle istituzioni» dice ai magistrati per spiegare come mai sulla primula nera di Castelvetrano non abbia mai proferito verbo. «Sono queste le persone che mi fanno paura, non il mafioso o il delinquente. Persone che portano le notizie, che hanno rapporti con i servizi centrali, che possono individuare un soggetto anche sotto protezione perché ci sono uomini dello Stato che fanno il doppio gioco». Per questo, ammette, lui ha scelto il silenzio su Messina Denaro e la sua rete come assicurazione sulla vita. Poi, dice, «ho deciso di non nascondere più nulla perché lo dovevo ai miei figli».
In realtà, ragiona chi sta vagliando le sue dichiarazioni, probabilmente ha capito che gli investigatori si stavano avvicinando e le indagini avrebbero finito per coinvolgerlo, perchè la confidenza affidata ad un compagno di cella era arrivata all’orecchio dei magistrati. Lo ha realizzato quando il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, gli si è seduto davanti e gli ha rivolto una sola domanda: «cosa mi sa dire dell’omicidio del giudice Scopelliti?». Avola ha capito che sulla primula rossa di Cosa Nostra non avrebbe potuto più tacere. E ha iniziato a parlare.  
In oltre un quarto di secolo, dal 1992 fino alle udienze dei processi in corso, i collaboratori di giustizia hanno dato varie versioni sulla morte del pm della Cassazione. Brani scelti da un labirinto dove la giustizia si è smarrita 
Ha raccontato di quell’estate catanese del ’91, iniziata fra spiagge, locali e discoteche e interrotta da una richiesta arrivata direttamente da Aldo Ercolano, nipote del boss Nitto e numero 2 della famiglia Santapaola. «Mi dice che bisognava fare un omicidio d’urgenza e che dovevo esserci io». La vittima designata era il giudice Scopelliti. Un bersaglio eccellente per il quale è stato messo insieme un commando eccellente. «Io dovevo portare la motocicletta a Vincenzo Salvatore Santapaola» rivela Avola, che poi aggiunge che in Calabria «c’era anche Messina Denaro, che ha commesso con me materialmente l’omicidio».  Dalla Sicilia, partono il killer più affidabile dei catanesi, il figlio del boss che nell’89 aveva detto no ai corleonesi che progettavano di uccidere Falcone a Catania e il capo di uno dei due gruppi di riservati alle dirette dipendenze di Totò Riina. Il tempo era poco, toccava organizzarsi in fretta. La morte del giudice era stata decisa da tempo, «ad aprile, maggio» durante una riunione a Castelvetrano «a cui avevano partecipato – racconta Avola -Aldo Ercolano, Matteo Messina Denaro, suo padre e altre persone di cui non mi hanno fatto il nome». Ma condizioni e occasione per l’omicidio sono maturate solo ad agosto «perché Scopelliti se ne stava andando da Reggio per tornare a Roma e era necessario ucciderlo nella località in cui si trovava in Calabria». Perché? «Nella capitale non si poteva fare perché non volevano un omicidio eccellente là, anche quello di Falcone – racconta il collaboratore –  è saltato per lo stesso motivo».  Indicazioni di Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia, intimo del “Divo” Giulio e referente di Cosa Nostra. «Lui era un uomo nostro. D’Agata mi ha detto che è stato lui a dare notizie sulle mosse di Scopelliti. Al giudice, lo ha rovinato Falcone. Ercolano mi disse che Falcone aveva continuato a interessarsi al maxi, per i mafiosi faceva di più di quello che avrebbe dovuto fare. Si era incontrato con il dottore Scopelliti, gli aveva parlato, lo aveva indicato per la Cassazione».  La successione degli eventi nazionali e internazionali che portano dal bipolarismo Usa-Urss a Tangentopoli e alla Seconda Repubblica Altro ad Avola non hanno detto. Ma a lui forse è bastato per capire che quello non era un omicidio come gli altri, che il fucile utilizzato non andava distrutto, ma conservato in un luogo sicuro. Per sicurezza. Lo ha fatto ritrovare agli investigatori della Mobile di Reggio Calabria nell’agosto scorso, sepolto in un fondo agricolo del catanese, accuratamente avvolto in una felpa e conservato in una borsa insieme ai proiettili.  Dopo anni sotto terra, il calcio era in pezzi e la stoffa quasi fusa alla canna, ma i periti sono fiduciosi. Qualcosa si può recuperare. Gli accertamenti sono in corso e pesano come una spada di Damocle sui 18 indagati del terzo fascicolo sull’omicidio Scopelliti. Quello che potrebbe finalmente restituire verità ad un omicidio che da 30 anni non ha colpevoli, né spiegazione. DI ALESSIA CANDITO 06 maggio 2019 L’ESPRESSO

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF