TUTTI I PIANI PER UCCIDERE PAOLO BORSELLINO

 

 

 

BRUSCA e i programmi per assassinare Paolo Borsellino


NEL MIRINO di COSA NOSTRA dall’’84 (Audio deposizione G. Brusca)


Prima della strage di Capaci, Cosa Nostra aveva progettato l’eliminazione “eclatante” del giudice Paolo Borsellino, con un’autobomba a Marsala  ma i boss si rifiutarono.  Sarebbero morte troppe persone. A raccontarlo in Corte d’Assise il pentito Carlo Zichittella, nel processo a carico del superlatitante Matteo Messina Denaro, per le stragi del 1992. Borsellino dirigeva la procura della Repubblica a Marsala, tra la fine del ’91 ed i primi del ’92. Il pentito ha raccontato di aver saputo da Gaetano D’Amico della riunione che si tenne a Mazara del Vallo. I capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara, si rifiutarono di eliminare Borsellino in “modalità eclatanti” e per questo furono uccisi.


“Borsellino doveva essere ucciso a Marsala, ma i boss si rifiutarono”

Parla Carlo Zichittella, pentitot della famiglia mafiosa della città lilibetana ed ex uomo d’onore avversario dei corleonesi, nel processo a carico di Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992: “Sarebbero morte troppe persone, i capi marsalesi dissero no e Riina li fece uccidere”

La rivelazione è di Carlo Zichittella, pentito della famiglia mafiosa di Marsala ed ex uomo d’onore avversario dei corleonesi, nel processo a carico di Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992: “Paolo Borsellino doveva essere ucciso a Marsala – ha raccontato ieri Zichittella in Tribunale -. Ma i boss si rifiutarono, sarebbero morte troppe persone”.
Borsellino era stato nominato Procuratore della Repubblica a Marsala nel dicembre 1986. Il giudice palermitano doveva essere ucciso “con modalità eclatanti” ma i capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara del Vallo, si rifiutarono e per questo furono uccisi. Il motivo del rifiuto a Totò Riina venne giustificato dal clamore che avrebbe generato a Marsala un omicidio così eclatante, tanto da provocare la presenza massiccia di forze di polizia sul territorio. Totò Riina ne ordinò dunque l’esecuzione, commissionando i delitti ad Antonio Patti. 
La morte di D’Amico e Craparotta provocò una violenta guerra di mafia a Marsala, faida ordinata da Riina, all’epoca latitante proprio nella zona di Mazara. Durante una cena il boss corleonese pronunciò il perentorio invito a disfarsi delle “spine”, ossia gli avversari dei corleonesi. In quella occasione decretò lo scioglimento del mandamento mafioso di Marsala per ricondurlo sotto il controllo del mandamento di Mazara del Vallo. La faida determinò la morte di decine di uomini d’onore
Zichittella è stato sentito nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta (presieduta da Roberta Serio) contro il super latitante Matteo Messina Denaro, già condannato per le stragi del 1993, e qui accusato di essere stato tra i mandanti per quelle di Capaci e di via d’Amelio. In particolare il pentito ha raccontato di aver saputo da Gaetano D’Amico della riunione che si tenne a Mazara del Vallo: “Dovevamo ammazzare Borsellino in collaborazione con quelli di Palermo – ha detto -. La decisione venne proprio da Palermo”. 
Rispondendo alla domanda del procuratore aggiunto Gabriele Paci su cosa si intendesse per “modalità eclatanti” ha aggiunto: “Non c’era un posto giusto dove si poteva fare. Nel tragitto che Borsellino faceva ogni giorno sarebbero morte anche altre decine e decine di persone e allora i marsalesi non ci stavano a questa storia qua e non hanno accettato. Loro dicevano che erano tranquilli lì a Marsala e chiesero di trovare un altro posto con meno clamore. Non ricordo se Borsellino all’epoca dormiva in caserma. Nel tragitto che faceva ogni giorno comunque era impossibile mettere una bomba”.
PALERMO TODAY 14.12.2018


Mafia-appalti, Totò Riina voleva far uccidere Borsellino, prima ancora di Falcone

Paolo Borsellino, quando era alla Procura di Marsala, chiese copia del dossier dei Ros che era stato appena depositato a Palermo su richiesta di Falcone  La prima parola chiave nelle cinquemila pagine di motivazioni della sentenza di primo grado sul processo trattativa Stato- mafia è “accelerazione”. Il concetto che la sentenza intende esprimere è che il contatto avuto dagli ufficiali ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, avrebbe accelerato la strage di via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Non ci sono prove oggettive, ma solo deduzioni logico fattuali. Nelle motivazioni della sentenza, in linea con la tesi della procura, si fa cenno a un passaggio di ciò che ha detto Totò Riina, intercettato nel 2013, al suo compagno durante l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. «Non era studiato da mesi, ma studiato alla giornata!», ha detto Riina al detenuto Alberto Lorusso riferendosi all’attentato. Elemento che rafforzerebbe, appunto, la tesi sull’accelerazione. Ma in realtà il motivo lo ha spiegato sempre Riina. Cosa nostra conosceva gli spostamenti di Paolo Borsellino perché aveva messo sotto controllo il telefono del giudice e della madre. Per questo il 19 luglio 1992 fu facile per boss e picciotti pianificare e mettere in atto la mattanza di via D’Amelio, sotto la casa della madre di Borsellino. «Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: “domani mamma vengo”», ha raccontato sempre l’ex capo dei capi. Ma perché quell’attentato si è dovuto fare in giornata? Totò Riina ha spiegato che la sorella di Borsellino si accorse di qualcuno che stava mettendo mano alla centralina telefonica del palazzo della madre. Quindi ecco spiegato il motivo: per paura che la sorella si insospettisse e quindi potesse far fallire l’attentato, Riina dette l’ordine di attuarlo nell’immediato, quindi in giornata. Ma la tesi dell’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio a causa della presunta trattativa Stato- mafia dovrebbe crollare definitivamente dal momentoche si era da tempo venuti a conoscenza di un fatto, per nulla riportato in maniera adeguata all’opinione pubblica. Prima ancora di uccidere Giovanni Falcone ( quindi molto prima che si avviasse la presunta trattativa), Cosa nostra aveva progettato l’eliminazione ‘ eclatante’ di Paolo Borsellino. Un progetto fallito per il rifiuto di alcuni componenti del clan marsalese. Sì, perché, per ordine di Riina, Borsellino doveva essere ucciso con un’autobomba a Marsala tra il ‘ 91 e i primi del ‘ 92. Lo stesso Riina, come si evince dalle trascrizioni delle conversazioni intercettate quando era al 41 bis, ha detto riferendosi a Borsellino: «Eh … sì, sì. Minchia. Ma poi era il numero, non so il numero due. secondo… di Magistrato era un potentoso Magistrato … come Falcone, perché erano amici insieme… e dovevano… avevano fatto carriera insieme, hanno fatto tutto insieme. Che era Procuratore… a… a … là a Trapani, a Marsala era Procuratore di Marsala… lui. Ha fatto diversi anni là a Marsala. Minchia, l’ho cercato ( in gergo mafioso “cercare” vuol dire uccidere, ndr) una vita a Marsala… mai agganciato. Mai. Mai. Minchia! L’ho cercato, lo cercavo… Ma picciotti sbrigatevi, vedete…». Ciò che ha detto Riina confermano le rivelazioni dei pentiti Antonino Patti e Carlo Zichittella fatte nel 1996 che hanno consentito all’allora procura distrettuale di Palermo di emettere ottanta ordini di custodia cautelare. Antonino Patti, all’epoca 37enne, che si è autoaccusato di quaranta omicidi, ha raccontato che «a D’ Amico e Craparotta era stato chiesto se volessero cooperare all’omicidio di Borsellino, con modalità eclatanti, in particolare con un’autobomba. Craparotta e D’ Amico fecero sapere che non volevano organizzare un attentato “di tale gravità” a Marsala. Da quel giorno furono protetti da due guardiaspalle, ma furono fatti ugualmente sparire». Versione confermata anche dal pentito Carlo Zichitella. Quest’ultimo, a distanza di decenni, non ha cambiato versione. A dicembre nel 2018 è stato sentito nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta contro il super latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Alle domande poste dal procuratore nisseno Gabriele Paci, il pentito ha ribadito che Borsellino doveva essere ucciso “con modalità eclatanti” ma i capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara del Vallo, si rifiutarono e per questo furono uccisi. Il motivo del rifiuto a Totò Riina venne giustificato dal clamore che avrebbe generato a Marsala un omicidio così eclatante, tanto da provocare la presenza massiccia di forze di polizia sul territorio. Rispondendo sempre alla domanda del procuratore Paci su cosa intendesse per ‘ modalità eclatanti’, il pentito Zichitella ha aggiunto: «Non c’era un posto giusto dove si poteva fare. Nel tragitto che Borsellino faceva ogni giorno sarebbero morte anche altre decine e decine di persone e allora i marsalesi non ci stavano a questa storia qua e non hanno accettato. Loro dicevano che erano tranquilli lì a Marsala e chiesero di trovare un altro posto con meno clamore. Non ricordo se Borsellino all’epoca dormiva in caserma. Nel tragitto che faceva ogni giorno comunque era impossibile mettere una bomba». Quindi, secondo i piani, Borsellino sarebbe dovuto morire già quando era a Marsala e quindi prima di Falcone. Perché? Se da una parte c’è la tesi della presunta trattativa ( ma che sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone) come movente della strage, dall’altra c’è una sentenza definitiva dove i giudici hanno scritto nero su bianco che la concausa è da ritrovarsi nel filone mafia appalti. In esclusiva Il Dubbio può rivelare che Paolo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, già chiese copia del dossier mafia- appalti che era appena stato depositato ( il 20 febbraio 1991 su spinta di Falcone) nella cassaforte della procura di Palermo. In un verbale di assunzione di informazione, si evince che nel 1998, innanzi all’allora sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Biagio Insacco, il capitano Raffaele Del Sole ha spiegato che dal 1987 al 1992 ha guidato la compagnia di Marzara del Vallo. Ha raccontato che su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti in Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”. È probabile che il primo tentativo di attentato eclatante, poi fallito per via di una diserzione, sia da collegarsi proprio all’evidente interessamento di mafia- appalti? Di certo si tratta di un ulteriore tassello che smentisce categoricamente il passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado sulla trattativa, dove si scarta l’ipotesi mafia- appalti come movente, quando si scrive che Borsellino non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier.

di Damiano Aliprandi SABATO 28 DICEMBRE 2019  IL DUBBIO
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TUTTI I PIANI PER UCCIDERE BORSELLINO
– Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, “Cosa Nostra” portò avanti una pluralità di progetti di omicidio nei suoi confronti, con il compimento di una serie di attività preparatorie.
Uno di questi piani criminosi avrebbe dovuto realizzarsi presso la residenza estiva del Magistrato, nella zona di Marina Longa. Tale episodio è stato ricostruito nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), dove si è evidenziato che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha riferito di una concreta attività posta in essere dall’organizzazione mafiosa per seguire i movimenti del magistrato, all’epoca Procuratore della Repubblica a Marsala, e studiarne le abitudini di vita durante la sua permanenza estiva a Marina Longa, in vista dell’esecuzione di un attentato ai suoi danni. A tal fine Salvatore Riina aveva dato incarico a Baldassare Di Maggio – in quel periodo sostituto per il mandamento di San Giuseppe Jato di Brusca Bernardo, detenuto dal 25 novembre 1985 al 18 marzo 1988 e successivamente agli arresti domiciliari sino al 22 ottobre 1991 – di recarsi a Marina Longa, servendosi come punto di appoggio per l’attività di osservazione della vicina abitazione di Angelo Siino. Tale attività era stata poi sospesa per ragioni che il Brusca non ha precisato. Questo racconto ha trovato preciso riscontro nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale ha riferito che in “Cosa Nostra” vi erano stati commenti assai negativi perché Paolo Borsellino aveva pubblicamente denunciato un calo di tensione nell’attività di contrasto alla mafia e che Pino Lipari aveva espresso la convinzione che il magistrato, che aveva un temperamento più irruente, avesse dato voce al pensiero dell’amico Giovanni Falcone, più cauto di lui, tanto che in “Cosa Nostra” venivano indicati rispettivamente come “il braccio e la mente”. Subito dopo, e cioè intorno al luglio del 1987 o del 1988, egli aveva visto a Marina Longa il Di Maggio, che era venuto a trovarlo con una scusa che egli non faticò a riconoscere come pretestuosa e che successivamente tornò in quel luogo, sicché egli comprese che l’interesse del Di Maggio era rivolto al magistrato. Il Siino aveva successivamente appreso da Francesco Messina, inteso “Mastro Ciccio”, che il progetto di uccidere Borsellino aveva incontrato l’opposizione dei marsalesi di “Cosa Nostra“, i quali avevano lasciato trapelare quel progetto all’esterno, sicché erano state predisposte delle rigorose misure di sicurezza, come egli stesso aveva potuto constatare a Marina Longa. A loro volta le indicazioni del Siino sull’opposizione dei marsalesi all’uccisione del Magistrato ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di Antonio Patti, appartenente proprio alla “famiglia” mafiosa di Marsala. Quest’ultimo collaborante ha, infatti, riferito che dopo il duplice omicidio di D’Amico Vincenzo, rappresentante della “famiglia” di Marsala, e di Craparotta Francesco, consumato l’11 gennaio 1992, suo cognato Titone Antonino, persona assai vicina al D’Amico, gli aveva confidato che la reale motivazione della soppressione dei due andava ricercata nell’opposizione che essi avevano manifestato al progetto di uccidere Borsellino quando questi era Procuratore della Repubblica a Marsala.
Un ulteriore progetto omicidiario era destinato a trovare realizzazione nei pressi dell’abitazione del Dott. Borsellino, sita a Palermo in Via Cilea.
Sul punto, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si rileva come dalle dichiarazioni sostanzialmente conformi di Anselmo Francesco Paolo, Cancemi Salvatore, Galliano Antonino, Ganci Calogero e La Marca Francesco, appartenenti ai “mandamenti” della Noce e di Porta Nuova, emerga che nel corso del 1988 ebbe a concretizzarsi un altro progetto di attentato in danno di Paolo Borsellino da attuarsi questa volta a Palermo, nei pressi della sua abitazione di via Cilea, approfittando sia del fatto che si erano attenuate le misure di protezione nei suoi confronti, essendo stato revocato il presidio di vigilanza fissa sotto la sua abitazione, sia dell’abitudine del magistrato di recarsi la domenica da solo presso la vicina edicola per l’acquisto del giornale. In un’occasione gli attentatori ebbero a mancare solo per pochi secondi la loro vittima, dopo essere partiti dal vicino negozio di mobili di Sciaratta Franco, sito in Viale delle Alpi, perché erano giunti sul posto a bordo di un motociclo poco dopo che Paolo Borsellino aveva richiuso il portone di ingresso del palazzo. L’attentato doveva essere eseguito con una pistola cal. 7,65, in modo da non attirare l’attenzione su “Cosa Nostra” e da far pensare piuttosto all’opera di un isolato delinquente, tenuto conto della pendenza in grado di appello del maxiprocesso di Palermo, di cui si confidava in un esito favorevole per il sodalizio mafioso. Tale progetto era stato poi abbandonato dopo gli appostamenti protrattisi per circa quattro domeniche consecutive, verosimilmente per non pregiudicare l’esito di quel giudizio, non essendo stata possibile una rapida esecuzione.
Questo secondo episodio ha formato oggetto delle deposizioni rese, nel presente procedimento, dai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, Francesco La Marca (escussi all’udienza del 25 settembre 2014) e Antonino Galliano (esaminato all’udienza del 7 ottobre 2014).
In particolare, l’Anzelmo (già sotto-capo della “famiglia” della Noce, il cui rappresentante era Raffaele Ganci) ha dichiarato che, intorno al 1987-88, mentre egli si trovava in stato di latitanza e il Dott. Borsellino era Procuratore della Repubblica di Marsala, approfittando di una riduzione delle misure di protezione attorno all’abitazione di quest’ultimo, le “famiglie” della Noce e di Porta Nuova ricevettero il mandato di uccidere il Magistrato. L’esecuzione del progetto criminoso era affidata allo stesso Anzelmo, a Francesco La Marca, a Raffaele e Domenico Ganci, a Salvatore Cancemi. Come base operativa venne utilizzato un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi, di proprietà di Franco Sciarratta, dove i killer – ruolo, questo, assegnato all’Anzelmo e al La Marca – erano appostati, in attesa della “battuta” che avrebbe dovuto essere data da Raffaele o Domenico Ganci, o Salvatore Cancemi, o Antonino Galliano. L’agguato avrebbe dovuto scattare di domenica, quando il Dott. Borsellino si recava presso un pollaio per acquistare delle uova, oppure presso un’edicola per prendere il giornale. Si sarebbe dovuto trattare di un omicidio da commettere recandosi immediatamente sul luogo con un motoveicolo ed utilizzando le pistole per uccidere il Magistrato. Tuttavia, dopo un paio di appostamenti, Raffaele Ganci comunicò che bisognava sospendere l’esecuzione del delitto, e il progetto quindi si bloccò.
Il collaborante ha specificato che, secondo le regole di “Cosa Nostra”, sia il progetto omicidiario, sia la sua sospensione, sia l’inizio di una nuova fase esecutiva, dovevano essere decisi dalla “Commissione”. Ha, inoltre, precisato che la motivazione del progetto criminoso si ricollegava all’attività giudiziaria del Dott. Borsellino e al maxiprocesso.
Le dichiarazioni dell’Anzelmo sono di seguito trascritte:

AVV. SINATRA – Le chiedo anche: lei ha mai sentito parlare di un progetto che riguardava l’uccisione di alcuni magistrati di Palermo, nella specie il dottore Falcone, il dottore Borsellino?
TESTE F.P. ANZELMO – Risale a molto tempo prima di quando poi sono stati effettivamente uccisi.
AVV. SINATRA – E quando?
TESTE F.P. ANZELMO – Sicuramente il dottor Borsellino quando si trovava a Marsala, che si vide che ci avevano levato… che lui sotto casa aveva un furgone sempre là piantonato e poi, tutta ad un tratto, ce l’hanno tolto ‘sto furgone e quindi noi, in particolar modo noi della Noce, con la collaborazione di Porta Nuova, di Totò Cancemi, avevamo avuto questo mandato di uccidere il dottor Borsellino. E anche… e anche per Falcone si cercava, però non ricordo il periodo preciso quello del dottor Falcone; si parlava di fare in tanti modi.
AVV. SINATRA – Sì, dico, un attimino, parliamo per il momento di questo progetto nei confronti del dottore Borsellino prima. Me lo sa indicare nel tempo? Quindi, lei ha detto che nel…
TESTE F.P. ANZELMO – Allora, io sono andato latitante dall’84 all’89 e quindi non lo so, penso verso l’87, l’88, una cosa del genere.
AVV. SINATRA – Anni ’87 – ’88. E può essere più preciso in ordine a questo progetto? Cioè era un progetto che lei l’aveva saputo da chi precisamente?
TESTE F.P. ANZELMO – Io dal mio capomandamento, da Ganci Raffaele l’avevo saputo.
AVV. SINATRA – Cosa le disse di specifico Ganci Raffaele?
TESTE F.P. ANZELMO – Che dovevano ammazzare il dottor Borsellino e ci dovevamo organizzare, e così abbiamo fatto, ci siamo organizzati.
AVV. SINATRA – Aspetti, aspetti un attimo. Quando le disse che si doveva ammazzare il dottore Borsellino e quindi poi si doveva passare alla fase esecutiva, le ha fatto riferimento chi decise?
TESTE F.P. ANZELMO – Quelli erano decisioni di commissione, perché non è che lo decideva Ganci Raffaele, quelle erano decisioni prese dalla commissione e avevamo avuto mandato noi di farlo.
AVV. SINATRA – Eh, quindi gliel’ha riferito e si passa alla fase, diciamo, organizzativa. Può essere più preciso su questo?
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, siamo passati alla fase organizzativa e si… si doveva fare di domenica, perché lui durante la settimana era là; lo dovevamo fare quando usciva di casa, perché lui mi ricordo che…
AVV. SINATRA – Dove? In quale casa?
TESTE F.P. ANZELMO – In via Cilea, abitava nel nostro territorio, non come territorio di Noce, ma come territorio Malaspina, però era… Malaspina faceva mandamento da noi, quindi eravamo noi.
TESTE F.P. ANZELMO – Si doveva fare di domenica, quando lui… siccome c’erano ‘ste notizie che lui andava da un pollaio a prendere le uova, per quello che ricordo, oppure da… dall’edicolante, che c’era un edicolante là, e lui si andava a prendere il giornale là e lo dovevamo fare in questo frangente. E noi come base avevamo un magazzino di mobili, dove si vendevano dei mobili, che faceva capo a Franco Sciarratta, che era un uomo d’onore della nostra famiglia, ed eravamo appostati là. Nel momento in cui ci arrivava la battuta, uscivamo, perché quelli che avevamo incarico era io… che lo dovevamo fare materialmente ero io e Ciccio La Marca.
AVV. SINATRA – Quindi lei e La Marca.
TESTE F.P. ANZELMO – Sì.
AVV. SINATRA – Sì, dico, lei e La Marca. E come doveva essere fatto questo attentato materialmente?
TESTE F.P. ANZELMO – Non era un attentato, era un agguato, un omicidio con le pistole.
AVV. SINATRA – Oltre a lei e a La Marca vi furono altri che in quel preciso frangente, ovviamente con riferimento a questo segmento, ebbero un ruolo?
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, c’era Ganci Raffaele, Totò…
AVV. SINATRA – Esecutivo.
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, c’era Ganci Raffaele, Totò Cancemi, se non ricordo… se non ricordo male c’era… c’era pure Calogero Ganci. Mi sente?
AVV. SINATRA – Sì, sì, la sento. Tutti lì appostati eravate?
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, eravamo tutti in questo magazzino dove si vendevano i mobili, che facevamo la base là. Mentre c’era Ganci Raffaele o Totò Cancemi, o non mi ricordo se c’era pure il Galliano Nino che giravano per… per portarci poi la battuta a noi per dire: “E’ uscito”, e noi partivamo con la moto, perché noi eravamo appostati in via delle Alpi, quindi via delle Alpi – via Cilea è un tiro, con la moto arrivavamo in un baleno.
AVV. SINATRA – Lei sa le ragioni per cui era stata deliberata la morte del dottore Borsellino?
TESTE F.P. ANZELMO – Ma la morte del dottor Borsellino e del dottor Falcone è tutta unica, era la situazione che… cioè non… non davano tregua e poi c’era il fatto del maxiprocesso, tutto di lì parte. Quella era la motivazione, per questo si dovevano uccidere.
AVV. SINATRA – Non davano tregua, nel senso dal punto di vista giudiziario, dico, per…
TESTE F.P. ANZELMO – Dal punto di vista giudiziario, sì, certo.
[…]
TESTE F.P. ANZELMO – Ma negli anni precedenti se ne… se ne parlava che si doveva uccidere il dottor Falcone e il dottor Borsellino. Mi ricordo che c’erano dei progetti, si facevano dei progetti che certe volte si parlava e si doveva fare con un lancia-missile, con un bazooka, con un… cioè c’erano tanti…
(…)
AVV. SINATRA – Ma lei non può escludere che ci siano stati anche precedentemente, per averlo saputo, dico, se gliene ha mai parlato Ganci, anche altri fatti e altri episodi dove c’erano stati degli appostamenti già con le armi, pronti per uccidere il dottore Falcone o in questo caso a noi interessa il dottore Borsellino?
TESTE F.P. ANZELMO – No, no, no.
AVV. SINATRA – Lei di questo ne sa proprio di appostamenti?
TESTE F.P. ANZELMO – No, io questo appostamento so questo, dove c’ho partecipato io.
AVV. SINATRA – Ecco, chiaro.
TESTE F.P. ANZELMO – Le ripeto, c’erano… c’erano progetti omicidiari sia ai danni del dottor Falcone che del dottor Borsellino, ma già da anni prima, però io mi sono trovato in questo.


Il collaboratore di giustizia Francesco La Marca ha riferito che, intorno al 1988, Salvatore Cancemi (capo della “famiglia” di Porta Nuova, cui egli apparteneva) lo incarico di recarsi presso un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi per commettere un omicidio.
Dal canto suo, il collaboratore di giustizia Antonino Galliano ha affermato che, nel periodo in cui il Dott. Borsellino prestava servizio a Marsala, egli insieme a Raffaele Ganci, Domenico Ganci, Salvatore Cancemi, e qualche volta anche Francesco La Marca effettuarono una serie di appostamenti presso l’abitazione del Magistrato, soprattutto nei giorni di sabato e domenica, nei quali la vittima designata si recava in chiesa per assistere alla Messa e poi presso un pollaio per acquistare alcune uova.
Dopo uno o due mesi i predetti appostamenti vennero però sospesi. […] si desume, quindi, che intorno al 1988 venne attuata, con una precisa organizzazione di mezzi e di persone, tutta la fase preparatoria di un progetto di omicidio del Dott. Borsellino, che avrebbe dovuto essere realizzato tendendogli un agguato nelle vicinanze della sua abitazione di Palermo, con modalità non eclatanti (verosimilmente, per non compromettere le aspettative di un esito favorevole del maxiprocesso), mentre egli era intento a compiere atti della propria vita quotidiana. Tuttavia, dopo una serie di appostamenti, il progetto venne accantonato, per decisione della stessa “Commissione” che lo aveva deliberato. Anche questo piano delittuoso era motivato dall’attività giudiziaria svolta dal Dott. Borsellino, il quale non dava tregua a “Cosa Nostra”.  (pagg 145-164)


Ero  latitante a casa, ma nessuno mi cercava “Eravamo tranquilli non come dopo stragi Falcone e Borsellino”


Tutti i piani mafiosi per uccidere il giudice Paolo Borsellino

Noi dunque lo conoscevamo bene il dottore Paolo Borsellino, ancora meglio del dottore Falcone, e anche per lui era dall’inizio degli anni Ottanta che pensavamo di combinare qualcosa, perché aveva cominciato anche a fare indagini sulla famiglia Riina, aveva arrestato anche il fratello di zio Totò, Giacomo, a Bologna, e aveva svolto indagini particolari con quel capitano dei carabinieri, Emanuele Basile – che poi era stato ucciso – che aveva portato all’arresto di Francesco Madonia e di suo figlio.
E i palermitani ce lo dicevano sempre: se abbiamo dovuto uccidere il capitano Basile, la colpa è del dottore Borsellino, che se si stava un poco buono e non dava fastidio ai nostri vecchi amici, ai soci di combriccola, non creava tutti questi macelli. E quindi dopo Basile, per noi, era venuto il momento di Borsellino, solo che l’occasione non c’era stata mai. Avevamo anche tentato di avvicinarlo in qualche modo: c’eravamo mossi a Palermo, a chiedere: la famiglia, qualche compagno di scuola, un abboccamento, un’amicizia, ma, come per il dottore Falcone, non c’era possibilità; anzi, Borsellino si era messo in testa che doveva arrivare a prendere i killer di Basile, e non voleva essere accomodante. E ancora doveva esserci tutta la vicenda del Maxiprocesso… Comunque, per lui la sentenza era stata emessa da tempo.
Era stata rinviata solo l’esecuzione. Ogni volta che lo vedevamo, ripetevamo la stessa frase: rompiamoci le corna. Quando Borsellino arrivò a Marsala, ci sembrò quasi una provocazione. E quindi cercammo di capire il da farsi. Studiammo i suoi passi, la scorta, il viaggio che faceva da Palermo, a che ora era a Marsala, dove pranzava, se il caffè lo pigliava al bar. Scoprimmo che amava fare certe passiate tipo il commissario Montalbano, quello di Camilleri, a piedi, al lungomare della Spagnola, dopo pranzo.
Ci si poteva lavorare, come idea. Nel 1988 avevamo tutto pronto, e una mano amica sembrava volerci indicare la strada. Non lo sapete, ma in quel periodo al dottore Borsellino stavano quasi per levare la scorta ‒ a uno dei magistrati più a rischio in Italia ‒ e si discuteva di «alleggerire» la sua protezione. E così fu. Fu revocato il presidio fisso sotto casa sua. Non c’era più nessuno a fare da guardia. Buono.
Poi lui era abitudinario: andava sempre a messa la domenica, comprava ogni giorno i quotidiani alla stessa edicola. Sapevamo pure da quale pollaio comprava le uova fresche. Aveva questo pallino delle uova, gli piacevano a sucare, sarà. Ci faceva il buco, e poi se le beveva ancora calde del culo di gallina.
Magari come noi ci metteva dentro un goccio di vino marsala, quando nei rigori dell’inverno uno starnuto o un raschiamento della gola annunciavano un possibile raffreddore ed era il caso di metterci un rinforzino.
Un giorno era fatta. Fatta, vi dico, fatta. Ci partimmo, ognuno con il suo compito, muovendoci a bordo di un motorino dalla nostra base, che era vicino un negozio di mobili in Viale delle Alpi, a Palermo, e andammo sotto casa del dottore Borsellino.

Lo vedemmo scendere dall’auto, accelerammo mentre lui si guardava attorno, mettemmo le mani nella giacca, il ferro era pronto e muto come sempre, stavamo per sparare, ma Borsellino ebbe come un presentimento, accelerò il passo, entrò nel portone e se lo chiuse dietro con un grande sbam. A noi non rimase che ricacciare indietro la delusione, restare agghiuttuti giusto una frazione di secondo, e poi ripartire, e andare via di là senza fare capire niente a nessuno, prendendoci anche un colpo di «cornuti!» per un sorpasso avventato. Anche qui, non dovete pensare che era tutto improvvisato. Avevamo studiato. E avevamo scelto questa formula, i colpi da un motorino in corsa, perché volevamo confondere le acque.

Insomma, se fosse stata un’autobomba, o un’azione come si deve, come con il prefetto Dalla Chiesa o il dottore Chinnici, tutti avrebbero capito che c’era la nostra firma. In quel modo, invece, volevamo ingenerare confusione: chi ha ammazzato Borsellino? Mah, due picciottazzi a bordo di un motorino rubato. E infatti anche la pistola era stata scelta con cura.

Avevamo il bendidio di armi, e ci piacevano moltissimo i kalashnikov come le P38, ma in quell’occasione avevamo optato per una banale calibro 7 e 65, corta e semiautomatica, un giocattolino, roba da delinquenti di strada. Fallito quel colpo, avevamo ripreso gli appostamenti, soprattutto nei giorni festivi. Chissà perché, non solo era scritto che avremmo ucciso prima o poi il dottore Borsellino, ma che lo avremmo fatto di domenica.

Ma era in corso il processo d’appello del Maxi, e a un certo punto pensammo che uccidere Borsellino poteva comunque essere, in quel periodo, una cattiva pubblicità per tutti noi. Era meglio aspettare. Intanto non solo Borsellino non si calmava, anzi, aumentava il suo lavoro, e la cosa ci dava sempre più fastidio, perché qui dobbiamo dire un’altra cosa. Che i due magistrati, Falcone e Borsellino, non erano la stessa cosa.

Oggi siete abituati a vederli insieme nella vostra toponomastica con cui lastricate i sensi di colpa, ma non è così. Noi li conoscevamo bene. Erano persone diverse, con caratteri diversi, e idee molto diverse, a volte anche in contrasto. Il dottore Borsellino era assai più irruente dell’amico, ad esempio, e anche più operativo.

Il dottore Falcone era più un tipo da grandi strategie, relazioni. Spesso avevamo la sensazione che Borsellino, quando parlava e lanciava i suoi strali sul «calo di attenzione nella lotta alla mafia», avesse dato voce al pensiero di Falcone, che era più cauto. E infatti li chiamavamo «il braccio e la mente».

Un altro attentato allora volevamo farlo nella casa a mare di Borsellino, a Marinalonga, nei pressi di Carini. Era vicino del nostro Angelo Siino, sembrava cosa facile anche lì. Andò Di Maggio a casa di Siino a fare una serie di appostamenti, per capire se si poteva fare la cosa.

Il residence, infatti, aveva una sola uscita, e in pratica dalla rete metallica della villa di Siino si vedevano proprio tutti gli spostamenti e i movimenti di Borsellino, le occasioni in cui si allontanava dai due che gli facevano la scorta, tutte le volte che usciva con il vespino.

Tanto che Di Maggio ci aveva preso gusto, sembrava un lavoro facile; e tra un bagno e una mangiata di pesce questo vai e vieni da casa di Siino era durato due settimane. E Di Maggio poi aveva riferito tutto. Ma siccome Siino conosceva al dottore Borsellino, l’ha visto e l’ha messo in guardia. Siino infatti pensava: qui, se succede qualcosa, il primo che si inculano sono io. E allora, mentre c’era Di Maggio, chiamò Borsellino nel bungalow di suo fratello e cercò di parlargli per avvisarlo.

Ma la cosa fu tragica, perché Siino era convinto di poter parlare molto in amicizia, di dirgli: «Ma chi glielo fa fare, ma perché sta facendo tutte queste cose», «Ma dottore, perché…». E invece Borsellino impazzì e si mise a urlare: «Ora lei mi deve dire chi la manda, che cosa vuole dire!». E Siino: «Dottore, non c’è nessuno motivo… era per parlare». Morale: Borsellino si infuriò, e anche Siino ci rimase male. Ma come, pensava, io ti sto dicendo questa cosa, di stare attento, anche perché qui a Marinalonga non hai nessun tipo di scorta, e tu reagisci così? Siino dopo l’incontro si pigliò di confusione.

Lui non era cosa di fare mediazioni e sensalie, ogni volta combinava danno. E qui il danno era grosso. Perché aveva fatto saltare l’attentato al giudice, e come ringrazio quello lo aveva sicuramente già segnalato. Convinto che lo arrestassero, per sì e per no, Siino fece la cosa che sapeva fare meglio: tagliare la corda. E se ne andò con la barca in Tunisia. Anche perché, pensava, se davvero fanno a Borsellino, è meglio che mi levo dai piedi.

E saltò anche questo progetto. In qualche modo avevamo capito che se dovevamo liberarci del dottore Borsellino, l’attentato, alla fine, avremmo dovuto farlo noi, senza delegare ad altri. La cosa non ci calava molto, perché significava uscire dalla nostra invisibilità, ma Borsellino era procuratore a Marsala, a casa nostra, e se avessimo aspettato che se ne ritornava a Palermo, gli amici di lì non ce l’avrebbero mai perdonato.

Dal libro “Matteo va alla guerra”, di Giacomo di Girolamo