TUTTI I PIANI PER UCCIDERE PAOLO BORSELLINO

 

 

PAOLO BORSELLINO, il coraggio della solitudine in attesa di essere ammazzato

 


Prima della strage di Capaci, Cosa Nostra aveva progettato l’eliminazione “eclatante” del giudice Paolo Borsellino, con un’autobomba a Marsala  ma i boss si rifiutarono.  Sarebbero morte troppe persone. A raccontarlo in Corte d’Assise il pentito Carlo Zichittella, nel processo a carico del superlatitante Matteo Messina Denaro, per le stragi del 1992. Borsellino dirigeva la procura della Repubblica a Marsala, tra la fine del ’91 ed i primi del ’92. Il pentito ha raccontato di aver saputo da Gaetano D’Amico della riunione che si tenne a Mazara del Vallo. I capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara, si rifiutarono di eliminare Borsellino in “modalità eclatanti” e per questo furono uccisi.



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I PIANI PER UCCIDERE BORSELLINO
– Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, “Cosa Nostra” portò avanti una pluralità di progetti di omicidio nei suoi confronti, con il compimento di una serie di attività preparatorie.
Uno di questi piani criminosi avrebbe dovuto realizzarsi presso la residenza estiva del Magistrato, nella zona di Marina Longa. Tale episodio è stato ricostruito nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), dove si è evidenziato che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha riferito di una concreta attività posta in essere dall’organizzazione mafiosa per seguire i movimenti del magistrato, all’epoca Procuratore della Repubblica a Marsala, e studiarne le abitudini di vita durante la sua permanenza estiva a Marina Longa, in vista dell’esecuzione di un attentato ai suoi danni. A tal fine Salvatore Riina aveva dato incarico a Baldassare Di Maggio – in quel periodo sostituto per il mandamento di San Giuseppe Jato di Brusca Bernardo, detenuto dal 25 novembre 1985 al 18 marzo 1988 e successivamente agli arresti domiciliari sino al 22 ottobre 1991 – di recarsi a Marina Longa, servendosi come punto di appoggio per l’attività di osservazione della vicina abitazione di Angelo Siino. Tale attività era stata poi sospesa per ragioni che il Brusca non ha precisato. Questo racconto ha trovato preciso riscontro nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale ha riferito che in “Cosa Nostra” vi erano stati commenti assai negativi perché Paolo Borsellino aveva pubblicamente denunciato un calo di tensione nell’attività di contrasto alla mafia e che Pino Lipari aveva espresso la convinzione che il magistrato, che aveva un temperamento più irruente, avesse dato voce al pensiero dell’amico Giovanni Falcone, più cauto di lui, tanto che in “Cosa Nostra” venivano indicati rispettivamente come “il braccio e la mente”. Subito dopo, e cioè intorno al luglio del 1987 o del 1988, egli aveva visto a Marina Longa il Di Maggio, che era venuto a trovarlo con una scusa che egli non faticò a riconoscere come pretestuosa e che successivamente tornò in quel luogo, sicché egli comprese che l’interesse del Di Maggio era rivolto al magistrato. Il Siino aveva successivamente appreso da Francesco Messina, inteso “Mastro Ciccio”, che il progetto di uccidere Borsellino aveva incontrato l’opposizione dei marsalesi di “Cosa Nostra“, i quali avevano lasciato trapelare quel progetto all’esterno, sicché erano state predisposte delle rigorose misure di sicurezza, come egli stesso aveva potuto constatare a Marina Longa. A loro volta le indicazioni del Siino sull’opposizione dei marsalesi all’uccisione del Magistrato ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di Antonio Patti, appartenente proprio alla “famiglia” mafiosa di Marsala. Quest’ultimo collaborante ha, infatti, riferito che dopo il duplice omicidio di D’Amico Vincenzo, rappresentante della “famiglia” di Marsala, e di Craparotta Francesco, consumato l’11 gennaio 1992, suo cognato Titone Antonino, persona assai vicina al D’Amico, gli aveva confidato che la reale motivazione della soppressione dei due andava ricercata nell’opposizione che essi avevano manifestato al progetto di uccidere Borsellino quando questi era Procuratore della Repubblica a Marsala.
Un ulteriore progetto omicidiario era destinato a trovare realizzazione nei pressi dell’abitazione del Dott. Borsellino, sita a Palermo in Via Cilea.
Sul punto, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si rileva come dalle dichiarazioni sostanzialmente conformi di Anselmo Francesco Paolo, Cancemi Salvatore, Galliano Antonino, Ganci Calogero e La Marca Francesco, appartenenti ai “mandamenti” della Noce e di Porta Nuova, emerga che nel corso del 1988 ebbe a concretizzarsi un altro progetto di attentato in danno di Paolo Borsellino da attuarsi questa volta a Palermo, nei pressi della sua abitazione di via Cilea, approfittando sia del fatto che si erano attenuate le misure di protezione nei suoi confronti, essendo stato revocato il presidio di vigilanza fissa sotto la sua abitazione, sia dell’abitudine del magistrato di recarsi la domenica da solo presso la vicina edicola per l’acquisto del giornale. In un’occasione gli attentatori ebbero a mancare solo per pochi secondi la loro vittima, dopo essere partiti dal vicino negozio di mobili di Sciaratta Franco, sito in Viale delle Alpi, perché erano giunti sul posto a bordo di un motociclo poco dopo che Paolo Borsellino aveva richiuso il portone di ingresso del palazzo. L’attentato doveva essere eseguito con una pistola cal. 7,65, in modo da non attirare l’attenzione su “Cosa Nostra” e da far pensare piuttosto all’opera di un isolato delinquente, tenuto conto della pendenza in grado di appello del maxiprocesso di Palermo, di cui si confidava in un esito favorevole per il sodalizio mafioso. Tale progetto era stato poi abbandonato dopo gli appostamenti protrattisi per circa quattro domeniche consecutive, verosimilmente per non pregiudicare l’esito di quel giudizio, non essendo stata possibile una rapida esecuzione.
Questo secondo episodio ha formato oggetto delle deposizioni rese, nel presente procedimento, dai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, Francesco La Marca (escussi all’udienza del 25 settembre 2014) e Antonino Galliano (esaminato all’udienza del 7 ottobre 2014).
In particolare, l’Anzelmo (già sotto-capo della “famiglia” della Noce, il cui rappresentante era Raffaele Ganci) ha dichiarato che, intorno al 1987-88, mentre egli si trovava in stato di latitanza e il Dott. Borsellino era Procuratore della Repubblica di Marsala, approfittando di una riduzione delle misure di protezione attorno all’abitazione di quest’ultimo, le “famiglie” della Noce e di Porta Nuova ricevettero il mandato di uccidere il Magistrato. L’esecuzione del progetto criminoso era affidata allo stesso Anzelmo, a Francesco La Marca, a Raffaele e Domenico Ganci, a Salvatore Cancemi. Come base operativa venne utilizzato un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi, di proprietà di Franco Sciarratta, dove i killer – ruolo, questo, assegnato all’Anzelmo e al La Marca – erano appostati, in attesa della “battuta” che avrebbe dovuto essere data da Raffaele o Domenico Ganci, o Salvatore Cancemi, o Antonino Galliano. L’agguato avrebbe dovuto scattare di domenica, quando il Dott. Borsellino si recava presso un pollaio per acquistare delle uova, oppure presso un’edicola per prendere il giornale. Si sarebbe dovuto trattare di un omicidio da commettere recandosi immediatamente sul luogo con un motoveicolo ed utilizzando le pistole per uccidere il Magistrato. Tuttavia, dopo un paio di appostamenti, Raffaele Ganci comunicò che bisognava sospendere l’esecuzione del delitto, e il progetto quindi si bloccò.
Il collaborante ha specificato che, secondo le regole di “Cosa Nostra”, sia il progetto omicidiario, sia la sua sospensione, sia l’inizio di una nuova fase esecutiva, dovevano essere decisi dalla “Commissione”. Ha, inoltre, precisato che la motivazione del progetto criminoso si ricollegava all’attività giudiziaria del Dott. Borsellino e al maxiprocesso.
Le dichiarazioni dell’Anzelmo sono di seguito trascritte:

AVV. SINATRA – Le chiedo anche: lei ha mai sentito parlare di un progetto che riguardava l’uccisione di alcuni magistrati di Palermo, nella specie il dottore Falcone, il dottore Borsellino?
TESTE F.P. ANZELMO – Risale a molto tempo prima di quando poi sono stati effettivamente uccisi.
AVV. SINATRA – E quando?
TESTE F.P. ANZELMO – Sicuramente il dottor Borsellino quando si trovava a Marsala, che si vide che ci avevano levato… che lui sotto casa aveva un furgone sempre là piantonato e poi, tutta ad un tratto, ce l’hanno tolto ‘sto furgone e quindi noi, in particolar modo noi della Noce, con la collaborazione di Porta Nuova, di Totò Cancemi, avevamo avuto questo mandato di uccidere il dottor Borsellino. E anche… e anche per Falcone si cercava, però non ricordo il periodo preciso quello del dottor Falcone; si parlava di fare in tanti modi.
AVV. SINATRA – Sì, dico, un attimino, parliamo per il momento di questo progetto nei confronti del dottore Borsellino prima. Me lo sa indicare nel tempo? Quindi, lei ha detto che nel…
TESTE F.P. ANZELMO – Allora, io sono andato latitante dall’84 all’89 e quindi non lo so, penso verso l’87, l’88, una cosa del genere.
AVV. SINATRA – Anni ’87 – ’88. E può essere più preciso in ordine a questo progetto? Cioè era un progetto che lei l’aveva saputo da chi precisamente?
TESTE F.P. ANZELMO – Io dal mio capomandamento, da Ganci Raffaele l’avevo saputo.
AVV. SINATRA – Cosa le disse di specifico Ganci Raffaele?
TESTE F.P. ANZELMO – Che dovevano ammazzare il dottor Borsellino e ci dovevamo organizzare, e così abbiamo fatto, ci siamo organizzati.
AVV. SINATRA – Aspetti, aspetti un attimo. Quando le disse che si doveva ammazzare il dottore Borsellino e quindi poi si doveva passare alla fase esecutiva, le ha fatto riferimento chi decise?
TESTE F.P. ANZELMO – Quelli erano decisioni di commissione, perché non è che lo decideva Ganci Raffaele, quelle erano decisioni prese dalla commissione e avevamo avuto mandato noi di farlo.
AVV. SINATRA – Eh, quindi gliel’ha riferito e si passa alla fase, diciamo, organizzativa. Può essere più preciso su questo?
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, siamo passati alla fase organizzativa e si… si doveva fare di domenica, perché lui durante la settimana era là; lo dovevamo fare quando usciva di casa, perché lui mi ricordo che…
AVV. SINATRA – Dove? In quale casa?
TESTE F.P. ANZELMO – In via Cilea, abitava nel nostro territorio, non come territorio di Noce, ma come territorio Malaspina, però era… Malaspina faceva mandamento da noi, quindi eravamo noi.
TESTE F.P. ANZELMO – Si doveva fare di domenica, quando lui… siccome c’erano ‘ste notizie che lui andava da un pollaio a prendere le uova, per quello che ricordo, oppure da… dall’edicolante, che c’era un edicolante là, e lui si andava a prendere il giornale là e lo dovevamo fare in questo frangente. E noi come base avevamo un magazzino di mobili, dove si vendevano dei mobili, che faceva capo a Franco Sciarratta, che era un uomo d’onore della nostra famiglia, ed eravamo appostati là. Nel momento in cui ci arrivava la battuta, uscivamo, perché quelli che avevamo incarico era io… che lo dovevamo fare materialmente ero io e Ciccio La Marca.
AVV. SINATRA – Quindi lei e La Marca.
TESTE F.P. ANZELMO – Sì.
AVV. SINATRA – Sì, dico, lei e La Marca. E come doveva essere fatto questo attentato materialmente?
TESTE F.P. ANZELMO – Non era un attentato, era un agguato, un omicidio con le pistole.
AVV. SINATRA – Oltre a lei e a La Marca vi furono altri che in quel preciso frangente, ovviamente con riferimento a questo segmento, ebbero un ruolo?
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, c’era Ganci Raffaele, Totò…
AVV. SINATRA – Esecutivo.
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, c’era Ganci Raffaele, Totò Cancemi, se non ricordo… se non ricordo male c’era… c’era pure Calogero Ganci. Mi sente?
AVV. SINATRA – Sì, sì, la sento. Tutti lì appostati eravate?
TESTE F.P. ANZELMO – Sì, eravamo tutti in questo magazzino dove si vendevano i mobili, che facevamo la base là. Mentre c’era Ganci Raffaele o Totò Cancemi, o non mi ricordo se c’era pure il Galliano Nino che giravano per… per portarci poi la battuta a noi per dire: “E’ uscito”, e noi partivamo con la moto, perché noi eravamo appostati in via delle Alpi, quindi via delle Alpi – via Cilea è un tiro, con la moto arrivavamo in un baleno.
AVV. SINATRA – Lei sa le ragioni per cui era stata deliberata la morte del dottore Borsellino?
TESTE F.P. ANZELMO – Ma la morte del dottor Borsellino e del dottor Falcone è tutta unica, era la situazione che… cioè non… non davano tregua e poi c’era il fatto del maxiprocesso, tutto di lì parte. Quella era la motivazione, per questo si dovevano uccidere.
AVV. SINATRA – Non davano tregua, nel senso dal punto di vista giudiziario, dico, per…
TESTE F.P. ANZELMO – Dal punto di vista giudiziario, sì, certo.
[…]
TESTE F.P. ANZELMO – Ma negli anni precedenti se ne… se ne parlava che si doveva uccidere il dottor Falcone e il dottor Borsellino. Mi ricordo che c’erano dei progetti, si facevano dei progetti che certe volte si parlava e si doveva fare con un lancia-missile, con un bazooka, con un… cioè c’erano tanti…
(…)
AVV. SINATRA – Ma lei non può escludere che ci siano stati anche precedentemente, per averlo saputo, dico, se gliene ha mai parlato Ganci, anche altri fatti e altri episodi dove c’erano stati degli appostamenti già con le armi, pronti per uccidere il dottore Falcone o in questo caso a noi interessa il dottore Borsellino?
TESTE F.P. ANZELMO – No, no, no.
AVV. SINATRA – Lei di questo ne sa proprio di appostamenti?
TESTE F.P. ANZELMO – No, io questo appostamento so questo, dove c’ho partecipato io.
AVV. SINATRA – Ecco, chiaro.
TESTE F.P. ANZELMO – Le ripeto, c’erano… c’erano progetti omicidiari sia ai danni del dottor Falcone che del dottor Borsellino, ma già da anni prima, però io mi sono trovato in questo.


Il collaboratore di giustizia Francesco La Marca ha riferito che, intorno al 1988, Salvatore Cancemi (capo della “famiglia” di Porta Nuova, cui egli apparteneva) lo incarico di recarsi presso un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi per commettere un omicidio.
Dal canto suo, il collaboratore di giustizia Antonino Galliano ha affermato che, nel periodo in cui il Dott. Borsellino prestava servizio a Marsala, egli insieme a Raffaele Ganci, Domenico Ganci, Salvatore Cancemi, e qualche volta anche Francesco La Marca effettuarono una serie di appostamenti presso l’abitazione del Magistrato, soprattutto nei giorni di sabato e domenica, nei quali la vittima designata si recava in chiesa per assistere alla Messa e poi presso un pollaio per acquistare alcune uova.
Dopo uno o due mesi i predetti appostamenti vennero però sospesi. […] si desume, quindi, che intorno al 1988 venne attuata, con una precisa organizzazione di mezzi e di persone, tutta la fase preparatoria di un progetto di omicidio del Dott. Borsellino, che avrebbe dovuto essere realizzato tendendogli un agguato nelle vicinanze della sua abitazione di Palermo, con modalità non eclatanti (verosimilmente, per non compromettere le aspettative di un esito favorevole del maxiprocesso), mentre egli era intento a compiere atti della propria vita quotidiana. Tuttavia, dopo una serie di appostamenti, il progetto venne accantonato, per decisione della stessa “Commissione” che lo aveva deliberato. Anche questo piano delittuoso era motivato dall’attività giudiziaria svolta dal Dott. Borsellino, il quale non dava tregua a “Cosa Nostra”.  (pagg 145-164)


Ero  latitante a casa, ma nessuno mi cercava “Eravamo tranquilli non come dopo stragi Falcone e Borsellino”


13 luglio 1992  Il ROS di Palermo comunica ai vertici della Procura e delle forze dell’ordine che è stato segnalato da attendibili fonti confidenziali l’arrivo di un carico di esplosivo in città.
I possibili obiettivi, sempre secondo l’informativa, sono Borsellino, il maresciallo Canale, il capitano dei carabinieri Sinico, i politici Salvo Andò e Calogero Mannino. Nel pomeriggio, un poliziotto della scorta guarda Borsellino in volto, lo vede preoccupato, teso, troppo teso, non puó fare a meno di chiedergli: “Dottore, cosa c´é? È successo qualcosa?” Borsellino, come se non potesse trattenersi, gli dice di botto: “Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che é arrivato il trirolo per me e non voglio coinvolgervi.” L´agente sbianca, resta senza parole. Di quei giorni, gli ultimi della vita di Borsellino, la moglie Agnese ricorda la fretta, la frenesia di lavorare, la paura di avere poco tempo, la consapevolezza di essere un bersaglio vivente. “Era turbato. Gli facevo tante domande, e lui non mi rispondeva. E io dicevo: “Ma perché non mi rispondi?”. “Non vi voglio esporre” mi ripeteva “e poi: non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare…” Era turbato, sí, tantissimo.” Agnese ricorda quell´angoscia di correre contro il tempo, per arrivare alla veritá prima di essere fermato.
Ma quale veritá? “Ricordo – racconta Agnese – che Paolo mi ripeteva sempre: é una corsa contro il tempo, per arrivare alla veritá prima di essere fermato. Ma quale veritá? “Ricordo – racconta Agnese – che Paolo mi ripeteva sempre: é una corsa contro il tempo quella che io faccio. Sto vedendo la mafia in diretta, devo lavorare tanto, devo lavorare tantissimo.”    
“Il tritolo é arrivato con un carico di “bionde”, l´ha scoperto la finanza ed é arrivato per me, Orlando ed un ufficiale dei carabinieri.” É la rivelazione che Borsellino fa in un giorno di giugno a padre Cesare Rattoballi, dirigente dell´Agesci, l´associazione cattolica degli scout, il sacerdote che é diventato suo confidente nelle ultime settimane.
Don Rattoballi é cugino di Rosaria Schifani, é rimasto vicino alla giovane vedova che ha lanciato l´anatema contro i mafiosi, dal pulpito della chiesa di San Domenico, nel giorno dei funerali di Falcone, e delle altre vittime di Capaci. Conosce Borsellino fin dagli anni settanta, gli si é avvicinato in modo particolare in quelle settimane di fuoco, dopo il “botto” sull´autostrada, imparando a leggerne i silenzi, le inquietudini, a rispettarne gli sforzi per scoprire la veritá sull´attacco allo stato.
Anche in questi giorni di luglio, mentre la cittá si va svuotando per le ferie, don Cesare sente il bisogno di andare a far visita all´amico, senza una ragione precisa, guidato dall´affetto o dall´istinto. Il sacerdote é solo, varca il metal detector del Palazzo di giustizia, s´infila nel vecchio ascensore, sale al secondo piano, scivola silenzioso fino in procura. Bussa alla porta di Borsellino. Lo saluta, gli sorride. Si siede di fronte a lui. Non sa ancora che questo sará il loro ultimo incontro.
“Quella mattina, non lo dimenticheró mai – ricorda il sacerdote – era un giorno di luglio, me ne andai in procura, non ricordo per quale ragione, bussai alla porta di Borsellino, lo salutai, lui mi accolse con un sorriso, ci mettemmo a chiaccherare. Parlammo di tante cose, era sereno, preoccupato solo per il futuro dei suoi ragazzi.
Ad un tratto mi disse: “Io sono come quello che guarda i quadri, chissá se li potró piú vedere”. Più tardi, quando fui sul punto di andarmene, mi fermó di colpo e mi chiese: “Aspetta, prima di andare via mi devi confessare”. E lí, nel suo ufficio, tra le sue carte, si raccolse e si confessó.
Rattoballi non era il suo confessore abituale. “Paolo – ricostruisce oggi il parroco – sosteneva che il sacramento della riconciliazione si puó ottenere da qualsiasi sacerdote, e quindi non aveva un confessore fisso”. Quella mattina, chiaccherando con don Cesare, l´amico, ma soprattutto il sacerdote, Borsellino coglie al volo l´occasione. Si confessa. Vuole essere purificato. Vuole essere pronto.


Venerdì 19 giugno 1992 Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, comandante del ROS, invia un rapporto al comando generale dei carabinieri in cui si riporta che numerose fonti, mafiose e non, hanno parlato di una decisione di Cosa Nostra di eliminare fisicamente Paolo Borsellino.
Altri possibili obiettivi sono il maresciallo Canale, il Ministro della Difesa Andò e l’ex-ministro Calogero Mannino. Il rapporto numero 541 intitolato “Minacce nei confronti di personalità ed inquirenti” afferma che nell’ultimo anno gli organi dello Stato hanno esercitato un’indiscutibile pressione sulla criminalità organizzata, sia in termini di inasprimento normativo, che in termini di positivo impegno investigativo…nelle ultime settimane abbiamo proceduto ad una analisi dei dati disponibili, con l’obiettivo di ottenere un quadro delle strategie operative di Cosa Nostra e di individuare il movente e gli esecutori di eclatanti delitti di mafia riconducibili anche ad una precisa strategia di attacco allo Stato. 
Il documento cita l’uccisione del maresciallo Guazzelli, di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e degli uomini della scorta, dell’eurodeputato Salvo Lima. Poi il rapporto prosegue delineando un panorama molto preoccupante: le informazioni raccolte sia in ambienti estranei al crimine organizzato sia all’interno di quel mondo hanno consentito di ottenere da più fonti di fiducia notizia sull’esistenza di una volontà dei vertici di Cosa Nostra di opporsi con determinazione all’offensiva dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti. Il primo consiste nel fare pressioni, in forme indirette, su esponenti politici per ridurre l’impegno dello Stato contro la criminalità.
Il secondo invece consiste nell’eliminare fisicamente alcuni inquirenti che si sono messi in evidenza nella recente proficua attività di repressione di Cosa Nostra. Poi il rapporto prosegue mettendo in rilievo le caratteristiche dei possibili obiettivi:  gli onorevoli Calogero Mannino e Salvo Andò potrebbero essere future vittime di Cosa Nostra…il maresciallo Canale potrebbe correre pericolo per la sua incolumità poiché si è distinto in operazioni antimafia e per avere in particolare contattato alcuni esponenti di spicco della criminalità siciliana successivamente colpiti da provvedimenti della magistratura. Il Cap. Umberto Sinico correrebbe pericolo di vita per l’attività di contrasto di una delle maggiori famiglie mafiose palermitane…il Procuratore aggiunto Paolo Borsellino correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità ai vertici di Cosa Nostra. 
Del contenuto del documento furono subito informati i diretti interessati prima ancora che fosse completato e spedito al comando generale dei carabinieri e da questo alla Procura di Palermo, alla Prefettura, alla Questura ed all’Ufficio dell’Alto Commissariato.[36] Ai due politici fu rafforzata la scorta, il Cap. Sinico ricevette l’invito di lasciare la Sicilia, il maresciallo Canale ricevette un analogo invito ma decise di restare per motivi familiari e professionali e cominciò a girare con un’auto blindata. Borsellino vide raddoppiata la sua scorta.

www.19luglio1992.it



7 maggio 1992 VOLEVANO UCCIDERE IL GIUDICE BORSELLINO

Il capo della cosca è un rispettatissimo notabile dc che da sedici anni è consigliere comunale nel suo paese. Ha fatto l’ assessore, è stato pure sindaco. Mai accusato di nulla, mai una grana con la giustizia, neanche una contravvenzione per divieto di sosta. La sua qualifica dentro Cosa Nostra: “reggente” della famiglia di Castelvetrano. Un capomafia vero, discreto e potente, un uomo al di sopra di ogni sospetto con tanti amici sparsi per la Sicilia e per il mondo. Trafficanti di stupefacenti, onorevoli della Regione, avvocati, agenti di custodia, “fratelli” di una loggia segreta e, per sua sfortuna, anche un uomo d’ onore che si è pentito. E che ha raccontato tutto quello che sapeva su Antonino Vaccarino e il suo clan, 43 affiliati arrestati nella notte fra la Sicilia, Roma, Milano e un’ altra dozzina di città italiane. Nell’ inchiesta sono finiti come “indagati” anche 85 personaggi di vario spessore, da insospettabili corrieri a consiglieri comunali del trapanese, un po’ di fiancheggiatori, qualche penalista. In gergo l’ hanno chiamata “operazione Concorde”, il nome viene dal superaereo sul quale uno dei boss volava per raggiungere New York. Poi dal superaereo sul quale uno dei boss volava per raggiungere New York. Poi andava a Santo Domingo, lì Tommaso Inzerillo aveva un’ attività di import-export e anche un “allevamento di aragoste”. Oltre naturalmente la base di traffici e affari, eroina e cocaina soprattutto. Nell’ elenco dei 43 arrestati ci sono anche due romani. Il primo è Giuseppe Schiavone, un impiegato in pensione della Cassazione. Tutti lo conoscevano come “il cancelliere”, favoriva gli amici degli amici dirottando certi processi di mafia, come dice il procuratore capo Giammanco “ai giudici più buoni” della Suprema Corte. Il secondo è Francesco Lamonaca, quel geometra comunale preso un anno fa a Ostia con le mani nel sacco, una tangente di 17 milioni per agevolare l’ iter della concessione di una licenza edilizia. Chi è l’ uomo d’ onore che ha deciso di collaborare con i giudici? Si chiama Vincenzo Calcara, è un mafioso con un passato da semplice “soldato” in Cosa Nostra, s’ è pentito poco prima dell’ esecuzione di un “piano” studiato dalla mafia di Castelvetrano: uccidere il procuratore Borsellino. Sei mesi di indagini L’ “operazione Concorde” è nata dalle rivelazioni di Vincenzo Calcara e da 6 mesi di investigazioni sull’ asse Castelvetrano-Palermo-Roma con puntate a Milano e a Torino e anche in Germania dove sono stati catturati tre emissari della “famiglia” siciliana. Più di 500 gli uomini schierati per il blitz, bersaglio centrato, i latitanti sono solo 3. “Possiamo affermare, e a ragion veduta, di avere reso inoffensiva una cosca”, spiega il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco all’ inizio di una conferenza stampa convocata insolitamente alle 9 del mattino. Accanto a lui c’ è il procuratore Borsellino e ci sono anche i sostituti Natoli e Lo Voi, alle loro spalle tutti gli uomini dell’ “intelligence”, gli ufficiali dei carabinieri del Ros, i funzionari della Dia, dello Sco, del Nucleo anticrimine, della Criminalpol, tutte le sigle dei nuovi reparti speciali anticlan. L’ operazione, al di là dei 43 arresti e del Ko inflitto alla “famiglia” di Castelvetrano, è importante per almeno due ragioni. E’ la prima volta che s’ indaga a fondo in questa parte di Sicilia al confine fra le province di Trapani e Agrigento, territorio fino a pochi mesi inesplorato, una sorta di “zona franca” dove sembrava quasi che la mafia non esistesse. Ed è anche la prima volta della Dia, annuncia il superpoliziotto Gianni De Gennaro, il numero due della nuova task force antimafia. Insomma, è la prima volta che il cosiddetto coordinamento sembra aver funzionato davvero (a parte qualche malumore per un servizio radiofonico che attribuiva il “merito” dell’ operazione a un questore che ben poco sapeva fino all’ altro ieri di quello che stava accadendo), polizia e carabinieri hanno lavorato bene insieme, si sono divisi i compiti, continuano ad indagare su traffici di droga sulla rotta Medio-Oriente Sicilia via Milano. E anche su vecchi carichi sbarcati anni fa nell’ isola, come un grosso quantitativo di morfina destinato alla raffineria di Alcamo, il più grosso laboratorio per la raffinazione di eroina mai impiantato in Europa, quello scoperto da Carlo Palermo. Ma la “famiglia” di Castelvetrano non si occupava soltanto di droga e non era interessata solo a infiltrare uomini come Vincenzo Calcara o Salvatore Cinardo nel duty free shop dell’ aeroporto di Milano per avere libero accesso in dogana. Il clan gestiva il business degli stupefacenti ma aveva le sue radici a Castelvetrano e in alcuni paesi vicini. Radici e interessi. Anche politici. Il pentito Calcara racconta ad un certo punto ai giudici come si pilotavano le campagne elettorali per il rinnovo del consiglio comunale o di quello provinciale. “Ho ricevuto l’ incarico, con il benestare del Vaccarino, di procurare voti a Di Benedetto Filippo (Pli n.d.r.), cugino dell’ avvocato Pantaleo Gino, che era candidato per il consiglio provinciale…”. Il pentito spiega anche il sistema del controllo del voto basandosi sulla scelta delle “terne” e delle “quaterne”. Scrivono i magistrati: “Veniva fatto credere al singolo elettore contattato che il suo sarebbe stato l’ unico voto così “composto” nella sua sezione elettorale, e che sarebbe stato facile verificare se l’ indicazione era stata rispettata”. I candidati dei boss Per chi votava la mafia di Castelvetrano? Il commento dei magistrati: “I boss sostenevano i loro candidati e manifestavano una sostanziale indifferenza per il partito politico cui appartenevano”. Sarà anche così, ma il “reggente” della cosca di Castelvetrano è da più di tre lustri un big della Dc locale con agganci a Trapani, il più stretto con Giuseppe Giammarinaro, deputato regionale della corrente andreottiana. Nelle 250 pagine che raccontano l’ “operazione Concorde” ci sono i nomi di altri uomini politici locali e anche quello dell’ ex deputato Massimo De Carolis. Un’ informativa ricostruisce un incontro di 10 anni fa, a Selinunte, tra l’ ex parlamentare dc e 3 mafiosi siciliani, il Vaccarino, Stefano Accardo e Michele Lucchese, “picciotto che operava a Paderno Dugnano e Seregno”. Nell’ inchiesta c’ è anche traccia di una loggia massonica segreta frequentata da uomini d’ onore, gli investigatori dicono che stanno indagando anche su questo fronte. Come indagano dentro il carcere di Marsala. Un agente di custodia, Giovanni Romano, è già stato arrestato ma ben poco si sa sul ruolo che avrebbe svolto dietro le mura. Le storie svelate da Vincenzo Calcara sono state confermate anche da altri 2 pentiti, Rosario Spatola e Giacoma Filippello, i collaboratori della giustizia che nell’ estate del 1991 fecero i nomi di 6 uomini politici siciliani. Allora non furono creduti. O meglio, si disse che erano attendibili ma solo in parte, solo quando parlavano di droga e di armi, di picciotti e di boss. Mai di onorevoli. LA REPUBBLICA 

 

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