RINO GERMANÀ: “Il mio faccia a faccia con Messina Denaro”

 

 

IL MIO FACCIA A FACCIA CON MESSINA DENARO


CALOGERO GERMANA’ : “Serve anche fortuna..”


 

Matteo Messina Denaro e l’agguato contro il commissario Rino Germanà

 

Matteo in questa nostra guerra era un generale presente e attento. Ci metteva la faccia, certo, prendeva decisioni, stava soprattutto accorto a che il fronte rimanesse compatto, e niente lo gasava di più che stanare chiunque tra noi non mostrasse la massima adesione al progetto di guerra allo stato.

Stava anche attento, però, a non sporcarsi le mani. Lo faceva per noi, per il nostro bene: più il suo nome rimaneva nell’ombra, più nel nostro territorio potevamo continuare ad agire nella più assoluta indifferenza.

Era incredibile; eravamo in trincea, ma era una trincea tranquilla – in doppiopetto, potremmo dire –, giravamo alla luce del sole, senza che nessuno dicesse né ai né bai, e se qualcosa ci tradiva non era mica per la spirtizza di chi avrebbe dovuto fermarci, ma per la nostra euforia, che a volte ci portava a commettere errori.

Errori Matteo non ne faceva, teneva tutto sotto controllo, sembrava sempre con il pensiero altrove. Però anche lui aveva le sue debolezze. E non parliamo né di auto né di orologi, né di donne o stecche di sigarette intere da fumarsi tra un appostamento e l’altro.

La debolezza di Matteo era consumare qualche piccola vende personale. Anche lui aveva una sua lista nera, solo che non la tirava fuori, non voleva creare confusione nella mischia che c’era. E fu quando il signor Riina disse che sì, era venuto il momento di levarci qualche spina – non solo per senso di vendetta, ma anche per tenerci in allenamento nell’attesa che gli eventi si chiarissero, e per far fare un po’ di festa ai cani che tenevamo al posto del cuore –, che Matteo finalmente accennò un sorriso, e pensò a un uomo in particolare, un ispettore di polizia o commissario o quello che è, catanese, il dottore Rino Germanà, che gli stava molto sui coglioni, anche troppo, per diversi motivi.

Perché era un’anima inquieta, faceva troppe domande, e aveva capito qualcosa della guerra di mafia, e dei Messina Denaro. Ora, in questo caso, la prima cosa che si faceva con un poliziotto che era bravo era di delegittimarlo, con esposti anonimi, lettere, qualche calunnia. La seconda cosa era trasferirlo. E così era stato anche per Germanà.

Però il suo trasferimento per noi fu una punizione, perché nel suo girovagare tra Questura di Trapani e Commissariato di Mazara, tra Castelvetrano e procura di Marsala, in realtà Germanà andava mettendo pezzi su pezzi, ci stava mappando. Aveva scoperto, ad esempio, che eravamo pure dentro le istituzioni, con i nostri suggeritori, e faceva gli schemini con i perdenti e i vincenti della guerra di mafia, e pareva giocasse a quel gioco, nome, cose, città, e a ogni città cominciava ad associare un nome, e una cosa, e poi a tutte le cose il nome dei Messina Denaro.

Lo avevano spostato a Catania, alla fine, ed eravamo tutti convinti che fosse finita lì, anche perché era stato nominato dirigente della sezione della Criminalpol di Caltagirone, incarico prestigioso se non fosse per il fatto che quella sezione non esisteva e non sarebbe mai stata costituita. E nonostante doveva timbrare il cartellino dall’altra parte della Sicilia, lui quando poteva era sempre tra i piedi a Mazara e Castelvetrano, e continuava a girare, a fare domande.

Aveva messo il naso nelle banche, cominciato a indagare su certi notai e logge massoniche. E quindi Matteo decise che la sua spina da levare era Germanà, e che avremmo dovuto ucciderlo. Era tutto pianificato, il 14 settembre del 1992.

L’Italia era nel suo solito caos, con i politici che venivano arrestati, altri che si suicidavano, e ad aggiungere ancora più confusione era arrivata quella specie di guerra civile in Jugoslavia, dove un aereo italiano che doveva portare coperte e aiuti era pure caduto. Quel giorno, al lungomare di Mazara del Vallo, Germanà era a bordo della sua Panda bianca come l’innocenza.

Lo affiancammo con una Fiat Tipo, il motore che accelerava, la marcia in seconda, poi la terza, poi più forte, poi di nuovo la seconda per rallentare, un colpo di clacson, un altro, per farlo girare. Sembrava fatta. Primo colpo di fucile. Mancato. Secondo colpo. Vetro dell’auto in frantumi. Lui, ferito alla testa dalle schegge, accosta e riesce a fuggire. Una scena che pare un cinema. Altri colpi: il commissario è in spiaggia che corre, e ha anche il coraggio di girarsi e rispondere al fuoco. Si getta in mare. Non resta che scappare. Ma questa volta a scappare siamo noi.

E pensare che era stato tutto preparato nel dettaglio, nel villino del fratello di Giovanni Bastone, a Mazara, e Matteo aveva scelto gli uomini migliori tra noi, pure Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano aveva voluto nella squadra: aveva pensato a chi doveva fare da staffetta, a chi avrebbe dovuto «pulire» il luogo dell’attentato. Ma niente, non fu cosa, il diavolo ci aveva messo lo zampino.

E anzi Matteo, dopo, aveva la stessa faccia di uno che il diavolo l’aveva visto in persona, perché ne andava del suo onore e della sua reputazione, e gli veniva in mente quella frase: ci vogliono venti anni per farsi una reputazione, e cinque minuti per distruggerla. È andata male, ripeteva, è rimasto vivo, mentre le radio già davano la notizia, e la storia dell’attentato a Germanà apriva i telegiornali della sera, e qualcuno di noi che commentava, amaro: «Vuol dire che il suo destino era di restare in vita». […].


Il sopravvissuto. «Denaro voleva uccidermi, fuggii gettandomi in mare»

Chi era e chi è Messina Denaro?

È un personaggio di primo piano, una mente raffinatissima. Ma anche capace di azioni violentissime. Pensiamo alle bombe del 1993 a Roma, Firenze e Milano, o al rapimento e uccisione del piccolo Di Matteo.

Come è riuscito a condurre una latitanza così lunga?

Sicuramente è stato abile a nascondersi ma altrettanto sicuramente è stato molto aiutato. Ricordo che su incarico di Borsellino stavo indagando proprio sui rapporti tra mafia trapanese, il suo “regno”, e la politica.

Per questo le spararono?

Nelle cose di mafia c’è sempre una componente di vendetta. A un certo punto al magistrato, al poliziotto, gliela fanno pagare ma non per uno sgarro personale. Ci può essere una componente emotiva ma lo fanno esclusivamente per l’attività compiuta di contrasto all’organizzazione criminale. Come si dice in Sicilia “ci fice danno”.

Ora Messina Denaro potrebbe collaborare?

Ora dovrà confessare, e non solo a Dio, ma anche ai “fratelli”, a partire dai magistrati. Avrebbe molto da dire.

Se lo incontrasse cosa gli direbbe?

Che ha seminato morte e distruzione. Ma a cosa è servito? Cosa gli è rimasto? Nulla. I mafiosi devono riflettere, il bene trionferà sempre. Quando mi hanno sparato ho detto “Madonna mia salvami” e mi sono salvato. Io penso che si crede di più, oppure uno si accorge cosa è la fede, dopo. Il destino ha voluto che rimanessi vivo e la vita, dopo il ’92, ha regalato a me e a mia moglie un terzo figlio, Francesco.


RINO GERMANA’, poliziotto di razza

Poliziotto di razza, classe 1950,  dirigente del commissariato di Mazara del Vallo.  Capo della Squadra Mobile di Trapani nel 1987 proprio nel periodo in cui Paolo Borsellino aveva assunto l’incarico di procuratore di Marsala. Già braccio destro di Paolo Borsellino, qualche mese dopo l’uccisione del giudice (14 settembre 1992) sfugge ad un attentato.  A bordo di una Panda viene inseguito da un auto con tre killer a bordo.  Gli arriva una fucilata che lo ferisce di striscio alla testa. Dentro l’auto  tre esponenti di peso di Cosa nostra: Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Germanà con grande sangue freddo scende dalla macchina prende la pistola di ordinanza e risponde al fuoco contro la vettura del commando.  I killer fanno di nuovo fuoco contro di lui sparando con un kakashnikov a colpo singolo. Lui continua a sparare contro di loro senza mai voltare le spalle e va verso il mare. I killer si allontanano e poi ritornano altre due volte sparando a raffica contro di lui.  Al terzo tentativo andato a vuoto  il gruppo di fuoco desiste e se ne va.


Interviste a Rino Germanà 

AUDIO


 


 


I killer e la fuga in mare, 30 anni fa l’attentato a Rino Germanà

“Spesso mi chiedo perché non sono morto e non so darmi una spiegazione, quell’attentato non è stato fatto solo nei confronti miei ma di tante altre persone che si trovavano a mare, visto che il commando non ha avuto pietà a sparare mentre mi trovavo in acqua. Il destino ha voluto che rimanessi vivo e la vita, dopo il ’92, ha regalato a me e mia moglie un terzo figlio, Francesco”. Rino Germanà, ex questore in pensione, ricorda ogni istante di terrore quel 14 settembre 1992. Da oggi una lapide commemora l’attentato che subì trent’anni fa sul lungomare Fata Morgana di Mazara del Vallo. Il commando, inviato da Totò Riina e formato da Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, fece fuoco, ma Germanà riuscì a salvarsi perché si tuffò in mare. “Oggi ritornare qui mi fa uno strano effetto perché torno indietro con la memoria a 30 anni fa, quando facevo il poliziotto in questa città e sono scampato alla morte – racconta -. Colgo il desiderio di umanità che è presente tra i mazaresi e che oggi me lo testimoniano con affetto”. Alla cerimonia sono stati presenti il questore di Trapani Salvatore La Rosa, il sindaco Salvatore Quinci, il vescovo monsignor Domenico Mogavero.

Le offese di Totò Riina

Nei colloqui di Totò Riina, intercettati qualche anno fa nel carcere milanese di Opera, il padrino corleonese si gonfiava il petto per quell’attentato e si rammaricava per il fatto di non avere compiuto la missione di morte: “Partivamo la mattina da Palermo a Mazara. C’erano i soldati poverini a fila indiana a quel tempo… era pomeriggio, tutti i giorni andare a venire, da Mazara. A chi hanno fatto spaventare? A nessuno, che poi quello si è buttato in mare”. “Questo Germanà, il commissario di polizia, sono andati ad ammazzarlo, gli hanno sparato – aggiungeva Riina -… figlio di puttana, si salvò nell’acqua con tutti i pantaloni, tutte le cose nell’acqua… c’erano questi questi fratelli Graviano… erano picciriddi… gli è sembrato una cosa troppo facile”. Sulle sue capacità di “grandissimo investigatore” si sofferma Massimo Russo, che alle indagini sulla mafia trapanese ha dedicato una grossa fetta della sua vita professionale: “E’ l’esempio, per fortuna vivente, della vera antimafia: antieroe, serio, riservato, senza etichette, che non ha ‘spettacolarizzato’, né mai strumentalizzato la sua vicenda umana e professionale e che non hai mai chiesto nulla: e che dallo Stato e da tutti noi ha ricevuto meno, molto meno di quello che meritava”.

“Una vera icona, altro che antimafia farlocca”

Le parole di Russo sono dure: “Una vera icona, a dispetto di certa antimafia farlocca, folcloristica, parolaia, di auto blu a sirene spiegate, costruttrice di carriere, di interessi e relazioni se non anche di affari, che ha strumentalizzato storie e dolori, che cerca la vetrina, che parla di eroi per costruire le proprie fortune, che ha fatto e continua a fare tanti danni. Ma nessuno alla mafia”. Ed invece Germanà “li ha fatti, avendo avuto il fiuto per scoperchiare le pentole giuste, ha fatto tanti danni alla componente militare di Cosa Nostra ma anche a quella colletti bianchi e per questo il gotha di Cosa nostra attentò alla sua vita a Mazara del Vallo dove per una scelta scellerata se non criminale del Viminale era stato mandato nuovamente a dirigere il Commissariato. La sera stessa Germanà era a Roma, nella ‘guerra’ tra lo Stato e la mafia non c’è stato più posto per lui: voglia di proteggerlo o di levarlo di mezzo?“ “23 maggio, 19 luglio e 14 settembre: un sequenza di orrore mafioso e terroristico che deve essere letto unitariamente per tentare di capire altri pezzi di verità, forse i più difficili da conseguire – conclude Massimo Russo -. Ma dell’attentanto a Germanà si è sempre parlato poco: in Italia si è eroi solo se si muore. E perché avere gli eroi fa comodo Gli ultimi anni Germanà li ha trascorsi come Questore di Forlì e poi di Piacenza: con tutto il rispetto, come avere Messi e farlo giocare a basket”.


Ventisei anni fa l’agguato al poliziotto Rino Germanà, una vicenda mai del tutto chiarita   – Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano frono i tre famigerati boss mafiosi, dei quali sono il primo resta ancora latitante, che il 14 settembre del 1992 cercarono di uccidere l’allora dirigente del commissariato di Mazara , Rino Germanà, diventato poi questore e in pensione da poco tempo. Germanà riuscì a sfuggire al piombo mafioso, restò ferito ma si salvò, ma da quel giorno lo Stato nella lotta alla mafia decise di fare a meno di uno dei suoi più preziosi investigatori. Germanà infatti fu trasferito lontano dalla Sicilia, per concludere la sua carriera da Questore di Piacenza. Un attentato che resta ancora senza completa verità, ci sono state le condanne per esecutori e la per la cupola mafiosa, ma ancora non si conosce il perché Germanà doveva morire in quell’anno delle stragi di mafia. Germanà è stato sentito nel processo per la “trattativa”. Così ha risposto ai giudici del collegio presieduto dal giudice Montalto. “Nel giugno 1992 venni trasferito dalla Criminalpol al Commissariato di Mazara del Vallo pochi giorni dopo avere presentato il rapporto al vicecapo della Polizia Luigi Rossi in cui indagavo su un un parlamentare vicino all’ex ministro Mannino”. Pochi giorni prima della strage di Capaci, “intorno al 20 maggio 1992”, Germana’ fu chiamato dall’allora vice capo della Polizia Luigi Rossi, che era a capo della Criminalpol, che gli chiese se dal rapporto fosse emerso il nome del ministro Calogero Mannino. “Io risposi al Prefetto Rossi, non mi pare ci sia qualcosa di specifico, ma c’era timore reverenziale nei suoi confronti e quindi aggiunsi, mi dia tempo di ricontrollare le carte. Poi chiamai il Prefetto Rossi e gli dissi: si fa riferimento a Mannino. Due giorni dopo ci fu la strage di Capaci”. Appena due settimane dopo, cioè’ il 7 giugno del 1992 Rino Germana’ venne trasferito a sorpresa dalla Criminalpol a dirigere il Commissariato di Mazara del Vallo dove aveva già prestato servizio. Per lui era come fare una marcia indietro nella sua carriera che lo aveva visto anche capo della Squadra Mobile di Trapani. “Tornai a dirigere il commissariato senza averlo mai chiesto – raccontò Germanà in aula – Appresi per caso di essere stato trasferito a Mazara la domenica, ricordo che era il 7 giugno 92, dal dirigente del Commissariato di cui avrei preso il posto, il dottor Franchina. “Sai chi verra? Tu, mi disse ma io non ne sapevo nulla. Presi servizio l’8 giugno. Ne parlai anche con il Procuratore di Marsala Paolo Borsellino prima di prendere servizio a Mazara”. “A luglio, quando Borsellino fece il saluto di commiato da Marsala per andare a Palermo – disse ancora Germanà – mi prese in disparte e mi disse: Rino, preparati a venire a Palermo, invece di stare a Mazara”. Poi la strage di via d’Amelio, il 19 luglio 1992. Il 14 settembre 1992 Germanà venne ferito nell’agguato mafioso tesogli dai più terribili mafiosi siciliani, ma rimase miracolosamente vivo. Sui “contatti” con l’ex ministro Mannino , Germanà ricordò ai giudici una telefonata del cugino, Virginio Amodei, nel giugno 1992. “Nel giugno mio cugino mi chiamò al telefono per dirmi che il ministro Calogero Mannino mi voleva parlare, ma io mi rifiutai e decisi di non andare”. C’è aria di una “trattativa” tra Stato e mafia anche in questa brutta vicenda siciliana. Tant’è che Germanà è stato uno dei testi del processo sulla cosiddetta trattativa Stato mafia. Germanà in Sicilia, e dal fronte trapanese, si era occupato di indagini su mafia, politica, massoneria, investigò sui flussi finanziari che riguardavano la mafia e le banche vicine alla mafia . Entrò nelle banche, resta famoso il rapporto che redasse sulla Banca Sicula della famiglia D’Alì. Un comune denominatore delle sue tante indagini era stato, tra gli altri, tal notaio Pietro Ferraro, castelvetranese, nome ricorrente nelle indagini tra mafia, massoneria e politica. Ferraro che, così per dire di che si tratti, era socio nel villaggio turistico Kartibubbo , ora confiscato all’imprenditore Calcedonio Di Giovanni, o ancora lo si ritrova a fare da anello di collegamento con mafiosi mazaresi, oppure indicato come il personaggio che telefonò al presidente della Corte di Assise di Palermo, Salvatore Scaduti, raccomandando “a nome di un politico democristiano di area manniniana ma trombato”, così è scritto in atti giudiziari, gli imputati del processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Ecco Germanà su incarico di Borsellino si stava occupando proprio di questo. Germanà indagando su incarico di Paolo Borsellino non impiegò molto tempo a capire chi era il politico che si interessava al processo dove Scaduti era presidente, si trattava di Vincenzo Inzerillo, ex segretario particolare del ministro della Difesa Ruffini, poi schieratosi sotto l’ala di Lillo Mannino. Mentre indagava sui due politici Germanà fu chiamato a Roma, al Viminale: il prefetto Luigi Rossi, capo della Criminalpol, vice capo della Polizia, gli chiese di quelle indagini. I giorni dell’attentato erano terribili a Mazara, poche settimane dopo l’amministrazione comunale andò in crisi, e scattò lo scioglimento per inquinamento mafioso. In città giravano indisturbati i mafiosi più pericolosi, anche quelli che Germanà anni prima aveva denunciato e fatto arrestare. A capeggiare il clan il potente Mariano Agate, latitante a Mazara c’era anche Totò Riina. Mazara appariva come una sorta di “zona franca” per Cosa nostra, protetta da un intreccio, da un concentrato incredibile di connessioni tra mafia e massoneria, il notaio Ferraro e il senatore Inzerillo erano lì di casa. Quest’ultimo addirittura avrebbe partecipato ad un summit con Matteo Messina Denaro come racconterà il pentito Sinacori, reo confesso della partecipazione all’agguato a Germanà, mentre il giorno dell’attentato a dare la “battuta”, ossia avvertire il commando che Germanà era uscito dal commissariato, fu Diego Burzotta, fratello dell’allora consigliere comunale Pino Burzotta. Poche ore dopo il tentato omicidio, Rino Germanà comparve in tv , davanti le telecamere della Rai, affiancato dall’allora ministro degli Interni Nicola Mancino. Poi sparì dalle indagini antimafia.  “Abbiamo uno Stato – dissero i pm De Francisci e Tarondo nella loro requisitoria al processo anche per il tentato omicidio di Rino Germanà – che sa piangere i suoi morti ma non sa celebrare chi sconfigge Cosa nostra”. Quel giorno della loro requisitoria nell’aula bunker del carcere di Trapani nessuno degli imputati si presentò, disertarono l’udienza. ART21 14.9.2018


Germanà, il questore sfuggito alla mafia: non chiamatemi eroe, è il mio lavoro In un mondo dove i più venderebbero l’anima per essere definiti “eroi”, fosse anche solo per godere di un giorno di gloria, c’è anche chi rifugge quell’etichetta pure avendone titolo. “Ma quale eroe? Quella del poliziotto non era una vocazione. Dovevo lavorare e feci due concorsi, uno per la Marina e uno in Polizia. Vinsi quest’ultimo. Tutto lì. Poi ho cercato di farlo al meglio delle mie possibilità, questo sì”. Chiacchierare conil questore Germanà ha quasi l’effetto di un antidepressivo: ti mette di buon umore. Un po’ filosofeggia, un po’ sorride, quasi sempre sdrammatizza. Diventa praticamente inutile concentrarsi sul fatto che ventidue anni fa, il 14 settembre 1992, qualche settimana dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’uomo che hai di fronte sfuggì a un attentato ordito dai mafiosi del peggior rango (come il superlatitante Matteo Messina DenaroLeoluca Bagarella e Giuseppe Graviano) scappando dall’auto sotto una pioggia di proiettili e gettandosi in mare a Mazara del Vallo. Quando ti risponde, ancora sorridendo: “Mi scusi sa, conosce qualcuno a cui non piace vivere? Quel giorno ho semplicemente cercato di salvarmi la pelle come avrebbe fatto chiunque”, ecco, quando ti risponde così ti mette spalle al muro. Ti viene quasi voglia di buttare via il taccuino. E lo stai davvero per fare quando aggiunge che “quando sento che c’è chi mi definisce superinvestigatore, beh mi viene da sorridere”.  
Rino Germanà non è uno che cerca la celebrità. Ama la normalità, ama la gente, ama le relazioni umane: “Mi piace fare il questore perché incontri tante persone e ognuna ti dà qualcosa e ti arricchisce”. E’ un fervido credente e adora la vita, “ogni attimo, non bisogna sprecare un minuto”. Lo farà anche quando tra qualche mese se ne andrà in pensione: “Mi dedicherò ad altro, ma sarò sempre lo stesso. Farò di tutto con contentezza”. 
Diventa difficile intervistare un personaggio, che è tale, ma che fa di tutto per non esserlo. Ma ci abbiamo provato comunque cercando di scoprire qualcosa in più sull’uomo, Germanà, sul suo vissuto, sulla mafia che lui ha combattuto in prima linea mettendo in gioco la vita e sui rischi di infiltrazioni mafiose nel nostro territorio testimoniati da alcuni recenti rapporti. 

Questore, partiamo da quel giorno: 14 settembre 1992, il giorno dell’attentato. Che ricordo ha? “Più che un ricordo è un giorno di memoria. Il ricordo è automatico. La memoria implica invece una riflessione tra ciò che eri e ciò che sei adesso. Tornando a quel giorno, penso che forse non ho saputo osservare al meglio quello che era il presente di allora, e magari non ho assunto un atteggiamento propositivo di reazione. Forse ho perso del tempo che dovevo dedicare di più alla conoscenza. Mi spiego: si erano verificate situazioni investigative che  forse non valutai compiutamente. Non riuscii a leggere bene il quadro di fondo su cui stavo operando. Forse se l’avessi fatto non ci sarebbe stato l’attentato e avremmo ottenuto risultati investigativi migliori. Ma questi sono ragionamenti che si fanno dopo e per questo non posso dire che sono rammaricato”.

Come è cambiata da allora la vita dell’investigatore Germanà? “La vita la cambia perché uno pensa di vivere cent’anni, pensa che il male non gli appartenga, che le disgrazie riguardino gli altri e che a me non accadrà mai nulla. Invece quello che mi è successo mi ha portato ad apprezzare di più la vita, a non avere paura della morte, a “mordere” la vita gustando ogni attimo. Ma non in funzione egoistica, semmai solidaristica”.

Ha avuto paura? “Non ho avuto il tempo di averla, ma non mi sento un eroe. In certe situazioni nessuno vuole morire e ognuno cerca di salvarsi, reagisce. Pur essendo stato un evento di sofferenza, oggi a distanza di tempo suscita anche momenti di gioia, specialmente nei miei famigliari, perché sono sopravvissuto. Ringrazio il cielo che per una coincidenza quel giorno non ci fosse in auto con me anche mia figlia. Quella gente non avrebbe avuto pietà”.

Ha mai più incontrato qualcuno dei suoi attentatori? Non certo Messina Denaro, ma Bagarella o altri? “Mi era capitato di incontrarli prima dell’attentato, poi mai più”.

Il superboss Messina Denaro è latitante da decenni. Pensa che lo prenderanno prima o poi?
“Certo che lo prenderanno, ne sono sicuro. Non si può mettere in dubbio il lavoro di tanti investigatori che si stanno impegnando in una operazione del genere. Certo che lo prenderanno. Il bene alla fine trionfa sempre”.

E se un giorno lo dovesse incontrare? “Gli direi di pentirsi. Sono una persona credente. Non potrei perdonare perché quello lo può fare solo Dio al quale risponderà dei suoi fatti commessi in vita”.

Chi sono i mafiosi? “Gente malvagia e senza scrupoli che ha un unico obiettivo: trarre profitto con qualsiasi mezzo. A volte li facciamo più potenti di quanto non siano. Il potere esalta le  persone e il piacere più grande per un uomo malvagio è quello di togliere la vita a un altro uomo. I mafiosi affermano la loro volontà attraverso l’omicidio. E’ l’atto più potente al mondo”. 

A volte però si ha la sensazione che lo Stato sia inerme. “Assolutamente no. La mafia verrà sconfitta definitivamente, ne sono sicuro. Lo Stato è più forte”.

Lavorò a stretto contatto con il giudice Paolo Borsellino. Chi era Borsellino? “Avevo un rapporto speciale con lui. Nel suo sorriso rivedevo quello di mio padre. Era un magistrato serio, che dava tanto spazio e che si fidava dei suoi investigatori. Di me particolarmente. Il giorno della strage di via d’Amelio fu un colpo atroce”.

Quanto è difficile fare il poliziotto al sud? “Fare il poliziotto è sempre difficile. E’ il mestiere più altruista del mondo. La gente chiama perché ha bisogno di aiuto. Il poliziotto non chiede mai chi sei. Prende e va a soccorrere. E spesso rischia la vita. Qualsiasi poliziotto rischia la vita, e lo fa anche qui a Piacenza, perché non sai mai cosa ti può capitare. Forse nel meridione c’è una percentuale di rischio maggiore perché si consumano altri tipi di reato, ma fare il poliziotto è il mestiere più difficile”. 

Nei giorni scorsi un report parlava di pesanti infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna e a Piacenza. Sorpreso?  “Non penso che si possa dire che qui a Piacenza ci sia la mafia. Non mi pare che qui giornalmente si registrino denunce di estorsioni, attentati, incendi di magazzini che significano vitalità di un’organizzazione criminale. Come cittadino non le vediamo cose del genere. Si può però dire che ci sono infiltrazioni mafiose, questo purtroppo sì”.

Durante quel convegno è stato detto che “chi impedisce ai lavoratori di entrare a Ikea adotta un comportamento mafioso”. “Vede, la libertà si misura dal reciproco rispetto e non può essere unilaterale. Così come non si impedisce alla gente di scioperare secondo le modalità previste dalle norme, altrettanto non si può impedire alle persone di andare a lavorare. Se uno lo fa, limita la libertà altrui e questo non è giusto”.

Sempre il giorno del convegno un autorevole relatore del report le si è avvicinato e ha esclamato: Germanà, è un onore, lei è un mito… “Sì, è vero. E mi scappa ancora da ridere”. PIACENZA24 6 Giugno 2014 Mirko Rossi


Germanà quel commissario amico di Borsellino che aveva capito i grandi affari tra politici e mafiosi trapanesi Circolaccio  Il  COMMISSARIO GERMANA’ CERCAVA PROVE CONTRO I POLITICI e i Mafiosi trapanesi. Era il 14 settembre del 1992 . Due mesi dopo la morte di Paolo Borsellino ,Germanà riesce a sfuggire ai colpi di Matteo Messina Denaro e altri boss sul lungo mare di Tonnarella. C’è un nesso  legato alle indagini su mafia e appalti tra la morte di Borsellino e il tentato omicidio del commissario? Cercando bene nella vera storia investigativa e non  in quella manipolata, si  possono trovare molti riscontri .  Germanà era arrivato a MAZARA DEL VALLO come il solito dirigente che prende il posto dell’altro che va via. I mafiosi del territorio e i politici loro amici, compresi i funzionari dello Stato da sempre dentro il sistema corruttivo lo sottovalutarono. Uno dei soliti che campa e fa campare.  Erano gli anni 80. Anni di grandi affari nel Belice e nel trapanese. I picciuli giravano a  montagne –  I soldi pubblici arrivavano a quintali . Soldi che avevano lasciato molte vittime di guerre di mafia. A questi affari pubblici,si univano gli affari legati ai proventi della droga. Miliardi di vecchie lire che venivano riciclati in centinaia di attività.Un sistema che dal terremoto in poi aveva fatto ingrassare politici, mafiosi e imprenditori con la solita complicità dei burocrati Dal giorno del suo arrivo , Germanà non si era fermato un momento. Indagini sul Comune, indagini sugli appalti, indagini sui pescherecci che trasportano droga. Indagini sulla città di Mazara e lo sguardo attento a ciò che accadeva intorno. Le inchieste dei giudici di Marsala, i pentiti di Campobello, gli intrighi di Partanna, il silenzio inquietante della Valle del Belice. Dal suo osservatorio speciale, un piccolo commissariato situato in un punto strategico della Sicilia, Rino Germanà stava diventando davvero un poliziotto scomodo. Troppo informato, troppo in contatto con gli uffici centrali dell’ Antimafia. E anche troppo amico di Paolo Emanuele Borsellino. Come 3 o 4 magistrati di questa provincia trapanese, come un paio di marescialli dell’ Arma dei carabinieri, come una sparuta pattuglia di investigatori sparsi per casermette e commissariati solo sulla carta periferici. Potrebbe già bastare questo per spiegare perchè sicari armati di kalashnikov volevano uccidere Rino Germanà? E’ importante tenere conto della cronologia dei fatti. A Luglio muore Borsellino e a settembre dello stesso anno deve morire Germanà. Perchè un altro omicidio eccellente visto quello che era successo a Palermo? Perchè Messina Denaro con i padre, si espongono così tanto  , nonostante le varie operazioni avvenute nel territorio dal maggio del 1992? Stiamo parlando dell’Operazione Palma  di Castelvetrano e di altre operazioni . E’ opportuno ricordare che, in quel periodo Mariano Agate era in carcere e che un omicidio del genere doveva avere, secondo le regole mafiose, l’ok del capo mandamento che in quel periodo era don Ciccio Messina Denaro. Cominciamo allora a raccontare cosa è successo nella città di Mazara del Vallo, secondo documenti del periodo. Mazara del Vallo era la capitale del pesce nel Mediterraneo . Il lavoro nei pescherecci aveva portato   quasi 7000 tunisini  a trasferirsi . Una città dove tutto si poteva fare . “ Nulla, non è successo mai  nulla” a Mazara” disse un pentito ad un magistrato “.  Tanti gli occhi chiusi. Fino al giorno dell’attentato a Germanà, la mafia, la potentissima mafia di Mazara non aveva sparato un solo colpo. Mai un delitto dentro Cosa Nostra, mai un attacco mirato contro uomini dello Stato. Un’ isola nell’ isola Mazara del Vallo, grazie proprio alla strapotere del suo “re”, don Mariano Agate, imputato di peso del maxi processo di Palermo, amico di Totò Riina e di tutti i corleonesi che hanno dettato legge nella mafia. Un’ incredibile quiete fino alle 14 di lunedì 14 settembre 1992, fino alle sventagliate di fucile mitragliatore contro il “nuovo” capo del commissariato Rino Germanà. Nuovo fra virgolette, il dirigente  aveva lavorato già e per alcuni anni ad inchieste sul quel territorio. Germanà voleva andare a Mazara  per riprendere il filo delle investigazioni, un ritorno che dall’ altra parte aveva il sapore di una sfida. E proprio contro questa organizzazione ferrea e impermeabile  Germanà si era scagliato già alcuni anni prima  con una serie di indagini mirate. Storie di droga, di traffici, di affari. Storie che sono sfociate in quello che viene definito il maxi processo di Marsala, che mise alla sbarra 94 imputati  per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti . Chi c’ era fra questi 94 personaggi? C’ è naturalmente Mariano Agate, ma  anche Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. E c’era anche Giuseppe Burzotta, consigliere comunale socialista di Mazara del Vallo. Tutti insieme in un processo che porta la firma di Paolo Borsellino (sua la requisitoria quando era procuratore capo a Marsala) e dei suoi 3 sostituti. Ma a costruire le prime pagine dell’ inchiesta sono stati soprattutto due investigatori, uno dei carabinieri e l’ altro della polizia. Due amici di Borsellino: il maresciallo Carmelo Canale e il commissario Germanà. Questo poteva essere un vecchio “conto” da far pagare al poliziotto che tornava a Mazara? Forse, ma l’ attività investigativa del commissario non si era certo arrestata alle indagini su quei traffici di droga.  Si deduce che Sia Canale che Germanà avessero contezza di molte informazioni investigative  gestite da Borsellino. Entrambi erano suoi fidati collaboratori. Perchè eliminare solo Germanà dopo l’uccisione di Borsellino? Dove stava arrivando l’ex commissario? Da quando aveva messo piede in città l’attenzione di Germanà era puntata sul Comune e sul giro di appalti. Mandava i suoi collaboratori a sequestrare delibere su delibere, aveva ficcato il naso in una serie di appalti che non sembravano molto chiari. Appalti e affari che avevano spinto il poliziotto a indagare. E sul Comune Rino Germanà stava conducendo proprio un’inchiesta a vasto raggio, partendo anche da quel consigliere socialista rinviato a giudizio per mafia e droga insieme nientemeno che a don Mariano e Totò Riina. Si dice pure che stesse preparando qualcosa di grosso, un colpo a sorpresa come un dossier dettagliato da consegnare al Viminale. Un rapporto informativo per far chiedere al ministro dell’Interno lo scioglimento del consiglio comunale. Insomma, una vecchia e una nuova pista si intrecciarono intorno al primo agguato eccellente di mafia nella  storia criminale di Mazara del Vallo. E non sembra certo un caso, una coincidenza, che questo sia avvenuto subito dopo la morte del procuratore Borsellino. Qui, in questa zona, il magistrato aveva colpito duro, aveva fatto “danni” enormi all’ organizzazione Cosa Nostra. Dopo anni di non-indagini, anni di silenzio, il procuratore capo di Marsala aveva in pratica “scoperto” che esistevano le organizzazioni mafiose. Un lavoro che aveva portato risultati non solo immediati. Le sue indagini del 1988 sono servite anzi a sviluppare tutta una serie di filoni e a rafforzare le postazioni antimafia. Con una raffica di operazioni dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale fra Castelvetrano, Mazara e Campobello. Con una cosca smantellata a Partanna . Con un nuovo stile di lavoro giudiziario imposto alla procura di Marsala dopo anni di apparente sonno.  Borsellino veniva dall’esperienza del maxi processo. Con Falcone avevano messo le mani sui grandi affari palermitani . Affari che, inevitabilmente ,collegavano la mafia palermitana a quella trapanese . Il sistema garantiva il potere politico che determinavano i flussi di denaro pubblico. Nel Belice e nel trapanese dagli anni 60 in poi sono arrivati centinaia di miliardi : Tra i  lavori più ghiotti la  costruzione della Diga Garcia, la ricostruzione per il  terremoto del Belice e l’autostrada A29. Non scopriamo l’acqua calda .Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».


CONSEGNATA MEDAGLIA D’ORO AL VALOR CIVILE AL DOTT. GERMANA’   Calogero Germanà, già Questore di Piacenza, è stato insignito della Medaglia d’oro al Valor civile. Il relativo decreto è già stato predisposto: lo ha comunicato il Capo Gabinetto del ministro Alfano al Presidente esecutivo della Banca di Piacenza Corrado Sforza Fogliani. Germanà, 64 anni, è stato questore di Piacenza dal 2011 all’aprile 2015: stretto collaboratore di Paolo Borsellino dal 1986 al 1992, era entrato in polizia nel 1979. Ha ricoperto incarichi alle questure di Enna, Agrigento, Trapani oltre che alla direzione antimafia di Roma. maggio 2016


Va in pensione Rino Germanà. Nel 1992 si salvò da un agguato di Matteo Messina Denaro Va in pensione il questore Rino Germanà. Catanese, 63 anni,  nel 1992 si salvò da un agguato perché il kalashnikov di Messina Denaro s’inceppò. Tra i più stretti collaboratori di Paolo Borsellino, era dirigente del commissariato di Mazara del Vallo. Il 14 settembre di ventitré anni addietro, all’ora di pranzo, sulla strada che costeggia la spiaggia mazarese di Tonnarella, fu inseguito e fatto segno di colpi di kalashnikov da parte di un commando di super killer di Cosa nostra. Ecco il racconto di quella giornata tratto dal Corriere della Sera del giorno successivo:

L’ agguato e’ scattato poco dopo le 14. I sicari hanno fatto fuoco con mitra, lupara e una pistola di grosso calibro. Il loro compito era relativamente semplice: per uccidere un poliziotto che ritorna a casa sulla sua utilitaria non occorrono certo il tritolo e le autobombe. Tre killer piu’ un autista dovevano essere sufficienti. Ma una volta tanto i “ragionieri della morte” hanno fatto male i conti. Dalla parte della vittima non hanno messo la destrezza, il sangue freddo e la necessaria buona sorte. Ieri, dopo aver lasciato l’ ufficio, Germana’ , sposato e padre di due figli, si avvia verso casa alla guida della sua Fiat Panda. Lungo la litoranea che da Mazara porta sino alla contrada marinara di Tonnarella si accorge che qualcosa non va. Una Fiat Tipo con a bordo quattro tipi strani lo segue a poca distanza. Germana’ pensa che e’ meglio rallentare e dare strada, ma a quel punto intravede le armi. Con grande freddezza abbandona la vettura e si butta in mare rispondendo al fuoco dei killer. Sembra di assistere alla sequenza di un film d’ azione. Nella sparatoria Germana’ resta appena ferito di striscio alla testa, ma riesce a scampare alla morte. Ricoverato all’ ospedale di Mazara viene medicato e subito dimesso con una prognosi di sette giorni. Passa appena qualche ora e il poliziotto e’ di nuovo sul luogo dell’ agguato. Con i colleghi e il questore di Trapani, Antonio Pitea, collabora alle prime indagini. Anche se nessuno vuole confermarlo Germana’ avrebbe gia’ fornito una serie di indicazioni che potrebbero portare alla cattura dei sicari o comunque all’ individuazione dei clan sui quali puntare. “Abbiamo avviato un massiccio rastrellamento . dice sibillino il questore ., stiamo lavorando, ci sono buoni elementi per le indagini che comunque non sono facili. Speriamo bene”. Germana’ intanto e’ stato trasferito con tutta la famiglia in una localita’ segreta vicino a Roma. Le forze dell’ ordine non nascondono la preoccupazione: “Lo capirebbe chiunque . dice il questore . che non e’ stato un semplice avvertimento. L’ intenzione dei killer era quella di sopprimere Germana’ , il quale e’ scampato alla morte grazie al temperamento e alla preparazione”. Dunque la mafia ha fallito scoprendo in qualche modo le proprie carte. E chiaro, infatti, che indagare sul perche’ di un agguato con l’ aiuto della vittima designata non e’ la stessa cosa che andare a rovistare nelle sue carte. In tal senso questo omicidio mancato potrebbe essere d’ aiuto per capire la strategia che sta dietro alcuni delitti eccellenti degli ultimi mesi. Il commissario Germana’ e’ una di quelle “memorie storiche” che fanno paura alla mafia, per la loro capacita’ di mettere in collegamento fatti e persone rendendo chiara la ragnatela degli interessi in Sicilia e all’ estero. In proposito il questore di Trapani non ha dubbi: “Non c’ era bisogno di questo episodio per fare una valutazione che viene fuori semplicemente guardando il suo curriculum”. Il poliziotto aveva diretto il commissariato di Mazara gia’ tre anni fa, quindi era stato trasferito alla Mobile di Trapani, dove aveva lavorato a fianco di Borsellino. In quel periodo vengono messe a frutto le dichiarazioni di pentiti come Rosario Spatola e Giacoma Filippello che portano a una serie di arresti tra Mazara, Trapani e Castelvetrano. Due anni fa Germana’ lascia Trapani per un contrasto col giudice Taurisano. Ma in quella circostanza viene fuori tutto il suo carisma: con lui chiedono il trasferimento altri 18 poliziotti. Passato alla criminalpol di Caltagirone collabora col giudice Anna Canepa all’ arresto di sessanta affiliati alle cosche di Niscemi, alcuni dei quali agivano in Germania. Era tornato a Mazara in giugno, proprio mentre la procura distrettuale spiccava sessanta ordini di cattura per un traffico di droga col Marocco.

Poliziotto di razza, classe 1950, a trentaquattro anni era stato nominato dirigente del commissariato di Mazara del Vallo. Germanà era diventato capo della Squadra Mobile di Trapani nel 1987 proprio nel periodo in cui Borsellino aveva assunto l’incarico di procuratore di Marsala. Magistrato e poliziotto si erano quindi ritrovati a lavorare accanto in alcune indagini. Successivamente era stato proprio Paolo Borsellino a chiedere la sua applicazione alla Criminalpol di Palermo per effettuare indagini sulla mafia del Trapanese. “A raccontarla – ricorda Germanà – può sembrare una scena da film: il lungomare Fata Morgana di Tonnarella, io che torno verso casa, una macchina mi affianca e dal finestrino spunta un fucile. Arriva il primo sparo”. “Dopo il primo colpo ho guadagnato qualche metro verso la spiaggia, con una ferita alla testa. I miei aguzzini sono scappati, ma ci hanno ripensato e sono tornati indietro per sparare di nuovo. Quando ti sparano non è come nei film: tu ti muovi per schivare i colpi, ma questi arrivano e non capisci nulla. A quel punto, aiutato dai bagnanti, mi sono buttato in acqua. La macchina è tornata per la terza volta, sparando verso di me e le persone che avevo intorno: non riescono a colpire e fuggono via per l’ultima volta”. Quello stesso giorno a Germanà era arrivata la chiamata dell’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, che gli aveva preannunciato il suo immediato trasferimento a Roma.

I particolari dell’ agguato ed i motivi che spinsero Riina a emettere quella sentenza di morte contro il poliziotto, sono stati svelati da un  pentito di mafia, Gioacchino La Barbera, uno degli autori della strage di Capaci e che partecipò con Bagarella all’ attentato contro il commissario Germanà. Ma quel giorno, il 13 settembre del 1992, Germanà si salvò per due ragioni, ha raccontato il pentito, perché nonostante fosse ferito “rispose al nostro fuoco” e perché Bagarella mancò il bersaglio: “Non sapeva usare – ha detto La Barbera – il kalashnikov”. Il pentito ha rivelato anche i “retroscena” della decisione di Riina. Il commissario Germanà aveva scoperto il ruolo del notaio Pietro Ferraro, “massone deviato” dicono i giudici, arrestato nell’ operazione “Ghibli”. E Cosa Nostra “sapeva” perché “le talpe” dentro il commissariato informavano il boss Mariano Agate e Totò Riina. Lo informavano che Germanà “insisteva” su quella pista, sugli intrecci mafia-massoneria-politica. Con il commando c’era anche il palermitano Giuseppe Graviano, a far da «palo» erano stati i mazaresi Diego Burzotta e Vincenzo Sinacori, mentre a distanza attendeva i sicari in fuga il castelvetranese Francesco Geraci. 07/05/2015 TP24


Processo Borsellino, la testimonianza di Rino Germanà

 

BAGARELLA SBAGLIO’ MIRA IL COMMISSARIO SI SALVO”  “Quel commissario rompeva le scatole, Totò Riina aveva dato l’ ordine di ucciderlo perché era arrivato ai santuari della massoneria legati a Cosa nostra”. E il capo dei capi della mafia, per eliminare quel poliziotto “curioso”, Rino Germanà, dirigente del commissariato di Mazara del Vallo, incaricò il suo più fedele killer, il cognato Leoluca Bagarella. I particolari dell’ agguato ed i motivi che spinsero Riina a emettere quella sentenza di morte contro il poliziotto, sono stati svelati da un nuovo pentito di mafia, Gioacchino La Barbera, uno degli autori della strage di Capaci che da alcuni mesi collabora con la giustizia e che partecipò con Bagarella all’ attentato contro il commissario Germanà. Ma quel giorno, il 13 settembre del 1992, Germanà si salvò per due ragioni, ha raccontato il pentito, perché nonostante fosse ferito “rispose al nostro fuoco” e perché Bagarella mancò il bersaglio: “Non sapeva usare – ha detto La Barbera – il kalashnikov”. Il pentito ha rivelato anche i “retroscena” della decisione di Riina. Il commissario Germanà aveva scoperto il ruolo del notaio Pietro Ferraro, “massone deviato” dicono i giudici, arrestato nell’ operazione “Ghibli”. E Cosa Nostra “sapeva” perché “le talpe” dentro il commissariato informavano il boss Mariano Agate e Totò Riina. Lo informavano che Germanà “insisteva” su quella pista, sugli intrecci mafia-massoneria-politica, un’ inchiesta che avrà clamorosi sviluppi e che porta anche alla curia di Monreale. Nell’ ordinanza di custodia cautelare dell’ operazione Ghibli i magistrati sottolineano l’ attività del commissario Germanà che “aveva mostrato di conoscere – scrivono i giudici – l’ importanza di tali intrecci, in occasione della stesura del rapporto giudiziario contro Mariano Agate (boss di Mazara del Vallo, detenuto, e uomo ‘ fidatissimo’ di Totò Riina), nel quale venivano sottolineati i rapporti della ‘ famiglia’ di Mazara del Vallo con massoni palermitani e torinesi”. E recentemente, aggiungono i magistrati, il funzionario di polizia “aveva ancora una volta posto l’ accento su intrecci mafia-massoneria-istituzioni pubbliche, in occasione di un inquietante episodio che aveva visto protagonista un magistrato, al quale il notaio Ferraro, legato alla massoneria, si era rivolto per favorire alcuni imputati. Fu indagando su questa vicenda che Germanà individuò l’ insospettabile notaio che in una intercettazione afferma che “Riina è come se fosse mio padre” ed al quale aveva già fatto “i favori” avvicinando giudici per “aggiustare” processi. E tra i giudici “avvicinati” ci sarebbe stato anche il magistrato di Cassazione Paolino Dell’ Anno, che in una dichiarazione ha però respinto ogni accusa. Il lavoro di Germanà non fu facile. Quell’ inchiesta gli era stata affidata dalla Procura di Marsala che indagava su un certo “Enzo”, individuato poi nel senatore democristiano Enzo Inzerillo, che ha ricevuto un avviso di garanzia. Il commissario prestava servizio alla Criminalpol di Palermo, allora diretta da Salvatore Di Costanzo e Germanà non fece in tempo a concludere l’ indagine perché nel frattempo era stato trasferito al commissariato di Mazara del Vallo. “All’ agguato – ha detto il pentito – con me e Bagarella partecipò anche un gruppo di fuoco di Castellammare del Golfo. Intercettammo con una jeep l’ automobile di Germanà e quando la sua auto uscì di strada, Bagarella cominciò a sparare con il kalashnikov. Il commissario però reagì subito, uscì dalla sua automobile e pur ferito rispose al fuoco”. Il commissario dovette abbandonare la Sicilia e l’ inchiesta fu continuata e conclusa con successo dai suoi colleghi di Palermo, Trapani e Mazara che hanno individuato anche le “talpe” che tradirono il loro dirigente. L’ inchiesta non è però conclusa. S’ indaga anche su alcune “strane” telefonate che porterebbero alla curia di Monreale, ad un telefonino usato da Bagarella ed intestato a padre Giuseppe Campisi, segretario particolare del chiacchierato vescovo Salvatore Cassisa.   di FRANCESCO VIVIANO  30 dicembre 1993 LA REPUBBLICA


Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Seduta n. 92 di Mercoledì 6 maggio 2015  Audizione di Calogero Germanà, già questore di Piacenza.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del dottor Calogero Rino Germanà, già questore di Piacenza. L’audizione odierna è dedicata alla parabola professionale del dottor Germanà, da pochi giorni collocato in quiescenza al termine di una lunga e prestigiosa carriera in Polizia che lo ha visto da ultimo questore di Piacenza, ma soprattutto in precedenza investigatore in prima linea contro la mafia in Sicilia. In particolare, nel settembre 1992 a Mazara del Vallo il dottor Germanà fu vittima di un terribile agguato mafioso a colpi di kalashnikov a opera di Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, al quale riuscì miracolosamente a sfuggire solo grazie al suo coraggio e alla sua prontezza. Per quella vicenda ancora di recente alcuni deputati e senatori hanno presentato due interrogazioni parlamentari alla Camera e al Senato, di cui sono primi firmatari l’onorevole Mattiello e la senatrice Ricchiuti, membri della nostra Commissione, interrogazioni rivolte al Ministro dell’interno affinché si faccia promotore del conferimento al dottor Germanà della medaglia d’oro al valor civile. Per parte nostra, l’ufficio di presidenza della Commissione ha accolto con favore la proposta del capogruppo del Movimento 5 Stelle, onorevole D’Uva, di convocare oggi in audizione il dottor Germanà, peraltro mai ascoltato prima in Commissione antimafia. Non possiamo conferire medaglie, ma possiamo mostrare la nostra attenzione e la nostra gratitudine ascoltando con grande interesse. Ringrazio, pertanto, il dottor Germanà, che è accompagnato anche dal figlio e dal nipote, per la sua presenza. Do ora volentieri la parola al dottor Germanà per un’illustrazione del suo percorso professionale e umano e per trarne utili spunti per il lavoro della Commissione, ricordando come di consueto che, ove necessario, i lavori potranno anche proseguire in forma segreta.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Inizio così il mio percorso e la mia storia professionale. Sono nato a Catania il 29 aprile del 1952. Ho studiato a Catania, dove ho frequentato l’università. Dopo la laurea ho partecipato al concorso per entrare in Polizia, sono stato assunto e ho preso servizio nel 1979. Dopo il corso di formazione sono stato assegnato alla questura di Enna, dove sono rimasto fino al 1982. Sono stato poi trasferito alla questura di Agrigento, dove ho diretto la squadra mobile, dopodiché sono stato trasferito al commissariato di Mazara del Vallo nel 1984, dove sono rimasto fino al 1987. In quell’anno stato trasferito alla squadra mobile di Trapani, dove sono rimasto fino al 1991, poi sono stato assegnato quale dirigente della terza Criminalpol costituente in Sicilia con sede a Caltagirone. Nel 1992 sono stato trasferito nuovamente al commissariato di Mazara del Vallo, dove il 14 settembre ho subìto un attentato e da dove sono stato trasferito al servizio centrale operativo di Roma fino al 1994, anno in cui sono stato assegnato quale dirigente della Criminalpol Pag. 3Emilia Romagna fino al 1998. Dal 1998 al 2000 ho diretto l’aeroporto di Bologna, poi sono stato alla scientifica e nel 2001 sono stato assegnato quale capo del secondo reparto della DIA. Nel 2003 mi hanno assegnato al corso della Scuola Superiore di Polizia. Nel 2004 sono stato promosso questore, alla questura di Forlì, fino al 2011 e da lì e fino al 30 aprile 2015 sono stato questore di Piacenza. Dal 1o maggio sono in pensione. Questo riguarda l’aspetto professionale. Sotto il profilo investigativo, ad Agrigento, congiunto con Polizia e Carabinieri, abbiamo steso il primo rapporto antimafia contro la mafia agrigentina, poi sono stato al commissariato in Mazara del Vallo, dove ho steso un altro rapporto sempre di mafia che riguardava il capofila Agate Mariano più settantadue o settantaquattro, non ricordo quanti fossero i denunziati. Sono stato poi dirigente della squadra mobile di Trapani, dove abbiamo emesso diverse informative che riguardavano la mafia partannese, di Alcamo e di Mazara. Alla Criminalpol di Caltagirone ho redatto un rapporto che riguardava la mafia calatina che ci ha portato all’individuazione anche di Rampulla Pietro. Nel corso di quell’indagine abbiamo eseguito anche approfondimenti su una compravendita immobiliare molto grossa, di circa 6 miliardi, che riguardava un imprenditore catanese. In quel contesto ci siamo interessati anche dell’incendio del Sigros, avvenuto a Catania. Siamo nel 1991. Sono stato poi nuovamente assegnato al commissariato di Mazara del Vallo. Non ho detto della fase in cui ero dirigente della Criminalpol di Caltagirone, quando sono stato inviato in missione a Palermo dopo l’omicidio Lima. In quel caso, ho steso un rapporto sulla mafia alcamese e sulla guerra che c’era in quegli anni ad Alcamo. In quel periodo, ho esitato un’attività investigativa che riguardava un «avvicinamento» al presidente della Corte d’assise d’appello Scaduti in relazione al processo che si stava celebrando alla cupola mafiosa in riferimento all’omicidio del capitano Basile. In quel caso ho esitato il rapporto nel mese di maggio e poi sono stato trasferito l’8 giugno 1992 a Mazara del Vallo. Il 14 settembre ho subìto un attentato, e quindi finisce la mia «pausa» siciliana.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Germanà. Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

DAVIDE MATTIELLO. Ringrazio il dottor Germanà. Sono anch’io molto lieto di quest’occasione, e ringrazio il collega D’Uva per averla proposta. Anzitutto, come richiamato dalla presidente, alcuni di noi recentemente hanno proposto delle interrogazioni parlamentari al Ministro dell’interno. Io ne ho portata con me una copia, che eventualmente lascio agli atti, ma immagino che la Commissione ce l’abbia. Auspico che questo nostro incontro in Commissione serva anche di stimolo al Ministero dell’interno, che almeno a noi non aveva ancora risposto. Magari dopo quest’audizione una risposta formale arriverà. Dottor Germanà, le propongo due spunti per continuare questo approfondimento, questa ricognizione sulla sua esperienza. Il primo spunto è proprio sul fallito attentato che ha subìto. Immagino che in tutti questi anni ci abbia pensato molto e abbia pensato molto al contesto nel quale è capitato quel tentato omicidio. Quello era il periodo nel quale cosa nostra sembrava capace di atti militari e terroristici per portata e capacità operativa. Nel suo caso, le cose sono andate come sono andate. Che idea si è fatto in questi anni ripensando a quei tragici eventi e a quella capacità militare operativa dimostrata da cosa nostra e probabilmente non soltanto da cosa nostra in altri momenti, se i suoi capi o alcuni di quelli si comportarono come si comportarono tentando di toglierle la vita in quel giorno ?
Vengo al secondo spunto. Lo propongo così e poi, rispondendoci e rispondendomi, mi dirà se ho detto male: io e altri abbiamo l’impressione che a un certo punto lei sia stato allontanato dalla Sicilia, che qualcuno, per riconoscerle un onore, l’abbia promossa spostandola da quella terra nella quale, se non capisco male, non Pag. 4è più tornato con ruoli operativi. Nella mia testa c’è un’altra persona, che credo lei conosca, che è stata recentemente allontanata dalla Sicilia, promossa con un ruolo importante: penso al dottor Linares, attualmente capo centro DIA a Napoli. So che in qualche modo il suo lavoro, dottor Germanà, e quello del dottor Linares si sono intrecciati: vorrei anche su questo, nei modi in cui può e desidera, una sua opinione.

MARIO MICHELE GIARRUSSO. Lei ha accennato al rapporto sull’avvicinamento al magistrato Scaduti. Sappiamo che quel rapporto era alla ricerca di un certo Enzo: vorremmo sapere di più su questa ricerca, dove è approdata e che esiti ha avuto, in particolare in relazione all’intreccio che si è venuto a creare tra questo Enzo e il notaio Ferraro, nel cui studio mi pare ci sia stato l’incontro di cui si è parlato per l’avvicinamento di Scaduti. Va considerato anche che Ferraro era un gran maestro della massoneria, per cui spunti e indagini alla ricerca di questo Enzo in quel 1992 hanno coinvolto rapporti molto pesanti tra politica, mafia e massoneria. Poi abbiamo la sua preposizione all’ufficio di Mazara del Vallo, che il pubblico ministero del processo contro quelli che commisero l’attentato nei suoi confronti ha sostenuto potrebbe essere frutto di qualcuno che l’abbia messa là apposta. Si tratta, infatti, di un ufficio che aveva già diretto negli anni passati e forse di grado inferiore rispetto a ruoli che aveva già ricoperto. Se c’è una progressione di carriera, non si va da un commissariato alla squadra mobile di un capoluogo di provincia: poi come si torna di nuovo al commissariato di una cittadina non di provincia ? Vorremmo capire se quello che ha sostenuto quel pubblico ministero, ovviamente secondo la sua percezione, avesse qualche fondamento e se i rapporti tra mafia, politica e massoneria abbiano avuto qualche ruolo.

GIUSEPPE LUMIA. La sua è una bella testimonianza e anche preziosa per alcuni frangenti della storia della lotta alle mafie. Ha agìto in quel contesto della provincia di Trapani dove agivano insieme boss del calibro di Virga, di Mangiaracina e, appunto, della famiglia di Matteo Messina Denaro, in un contesto massonico molto elevato. Lì abbiamo avuto logge direttamente collegate con cosa nostra, la «Scontrino» docet. Vorrei che potesse descrivere alla Commissione antimafia questo contesto che vede cosa nostra con quei boss – a Mazara su Mangiaracina ha lavorato, così come su altri, Virga e lo stesso Matteo Messina Denaro – la massoneria e la politica. È una bella occasione per dirci cosa pensa in Commissione antimafia, dove non solo bisogna descrivere rapporti strettamente giudiziari, ma c’è anche la possibilità di ricostruire un contesto che lei ha conosciuto e vissuto e che era costituito anche di sensazioni oltre che di conoscenze. Sarebbe importante acquisire anche questa testimonianza.

CLAUDIO FAVA. Ben ritrovato, dottor Germanà. A completamento delle domande dei colleghi, l’agguato al quale scampò, se non ho ricostruito male, vedeva il gruppo di fuoco in macchina formato da Messina Denaro e Graviano. Chi era il terzo ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Bagarella.

CLAUDIO FAVA. Bagarella. Mandante non soltanto ipotetico ma sostanziale era Riina per gli equilibri e per il ruolo che aveva e che ancora adesso ha. Perché quest’agguato ? Se poteva essere legato soltanto alla sua vecchia permanenza su quel territorio, il movente risalirebbe più facilmente in via diretta soltanto a Messina Denaro, che chiede a Riina l’autorizzazione o l’input parte da Riina ? In ogni caso, che spiegazione si è dato di una cosa in cui c’era il timbro bello forte della cupola di cosa nostra, nessuno escluso ? Il collega, senatore Giarrusso, chiedeva del suo rientro a Mazara. È chiaro che per un funzionario i trasferimenti sono sempre in qualche modo concordati, non c’è mai un cablogramma in cui le si dice di andare via. Non dico che ci sarà stata una corrispondenza Pag. 5da parte sua, ma comunque vi sarete dati una spiegazione sulla ragione di questo ritorno in un momento in cui aveva anche sul piano della carriera una posizione diversa. In terzo luogo, perché non è mai tornato in Sicilia ? Per una scelta sua, per ragioni assolutamente legittime di opportunità o di scelta di prospettiva diversa, o in qualche modo c’è stata anche una sollecitazione da parte del Viminale nelle varie fasi perché lei non tornasse in Sicilia con incarichi operativi all’altezza delle sue responsabilità ?

FRANCESCO D’UVA. Ringrazio il dottor Germanà per essere qui. Devo girare tutti i ringraziamenti che mi sono stati formulati al mio gruppo parlamentare, che appunto rappresento in ufficio di presidenza, in particolare al collega Giarrusso, che mi ha sensibilizzato affinché fosse tenuta quest’audizione. Premesso questo, come ha già chiesto il collega Fava, lei ha mai chiesto di rientrare in Sicilia ? Tornando al 1992, dov’era arrivato con le indagini ? Come mai quell’attentato proprio in quel momento ? Cosa aveva «scoperchiato» esattamente, se si può dire ? Chi ha continuato quelle indagini, se qualcuno l’ha fatto, al suo posto quando l’hanno trasferita per motivi di sicurezza ? Dove, eventualmente, è arrivato, che lei sappia, visto che si trovava in altra località ?

PRESIDENTE. Io le rivolgerei la domanda sul caso Rostagno, sul quale anche recentemente si è affermata la sua tesi investigativa. Ci dica se ritiene di dover segretare delle parti.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. No. Che devo segretare ?

PRESIDENTE. Sa, le hanno rivolto delle domande a cui magari una sua risposta chiarisce tutti i misteri della Repubblica.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Presidente, se è mistero, non si può chiarire. Anzitutto, faccio una precisazione. Il fatto che abbia subìto un attentato e che sia rimasto in vita non dipende certo dalla mia capacità di reazione, quasi fossi una specie di Rambo. Vuol dire che era il destino della mia vita. Altri colleghi, uno mio concittadino, il dottor Montana, il dottor Cassarà, persone che ho conosciuto e con cui in qualche modo ho collaborato, purtroppo sono morti. Vuol dire che il mio destino era di restare in vita. Dico con forza che, evidentemente, era destino che dopo quest’attentato in qualche modo ringraziassi avendo il piacere di avere un altro figlio, che si chiama Francesco.
Quanto alle domande poste, faccio questa precisazione. Nelle cose di mafia, almeno a quel tempo, non c’era l’esperto antimafia. Già non si sa come evolvono le dinamiche familiari, figuratevi quelle di cosa nostra, che è un’associazione segreta. Non c’era un esperto antimafia. Se fossi stato esperto o profondo conoscitore delle dinamiche mafiose, avrei già previsto il mio attentato e mi sarei organizzato e invece non mi ero organizzato per niente. Perché il fatto è successo ? Secondo la mentalità mafiosa, può darsi che io costituissi un pericolo per cosa nostra. Poi è avvenuto nel 1992 e quindi, in qualche modo, forse rientrava in questa strategia che processualmente è stata definita stragista. Ricostruendo il mio vissuto da investigatore, non si nasce investigatori. Lo sono diventato forse per un desiderio di conoscenza in generale, e in particolare sotto il profilo investigativo. Debbo rendere merito anche a una persona che non c’è più, il maresciallo Guazzelli, e altri ufficiali dell’Arma di cui ora non mi sovvengono i cognomi, col quale svolgendo indagini sulla mafia agrigentina si discuteva sempre sulla metodologia di approccio di un fatto mafioso. Quando si verificava un omicidio, sicuramente c’era sempre, semplice e lineare, una forma di organizzazione, ma quello che poteva in qualche modo dare l’abbrivio, l’inizio per capire l’area di provenienza deliberativa, se fosse all’interno di uno stesso gruppo o esterno, era dato dalle modalità di esecuzione del delitto, ma anche dalle auto utilizzate. Cito a esempio che in quegli anni le auto venivano rubate un anno prima e tenute nascoste; quando si maturava l’idea di commettere un omicidio, l’auto che era stata rubata un anno prima veniva tirata fuori e utilizzata. Mi sto riferendo agli anni Ottanta, ormai è passato tanto tempo. Tutte le volte trovavamo macchine di piccola cilindrata, la batteria sempre fiammante ed escrementi di topo, da cui deducevamo che la macchina era stata nascosta. Inoltre, erano importanti la zona, l’orario e così via. In qualche modo sto illustrando la mia tecnica investigativa. All’epoca, la maggior parte degli omicidi avveniva in campagna, perché il più delle volte la vittima assumeva anche la veste di imprenditore, aveva un ruolo imprenditoriale. Siccome avveniva in questi contesti, c’era stata sicuramente la preparazione e investigare o intervistare – usiamo questo termine newyorkese, americano – le persone che erano lì intorno era utile, perché così si poteva trovare una piccola traccia magari di personaggio di organizzazione avversa. Questo modo di investigare, sentendo addirittura le persone che ritenevamo essere i mandanti del delitto – all’epoca si seguiva questa tecnica di investigazione – ci ha portato ad acquisire una metodologia che ho seguìto durante tutta la mia permanenza in Sicilia. Il più delle volte queste interviste lasciavano delle tracce che venivano riprese anche in episodi delittuosi successivi, e quindi si accumulava un presente che si dilatava sempre di notizie e di cognizioni. Il rapporto sulla mafia agrigentina scaturiva, ad esempio, a seguito di un anonimo scritto dal figlio di un mafioso di non ricordo quale paesino, nel quale si diceva che la morte di un certo personaggio mafioso era avvenuta per una serie di circostanze, perché non condivideva la strategia. In realtà, pensammo che l’estensore di quest’anonimo fosse stato il figlio, il quale indicava i capomafia della provincia di Agrigento. Lì furono fatte delle intercettazioni, all’epoca curate da un collega che era prima di me alla squadra mobile e che ripresi e approfondii. Sto partendo un po’ da lontano per spiegare perché abbia subìto l’attentato. Da quelle intercettazioni telefoniche emergeva un quadro organico, unitario di cosa nostra. Le ho ascoltate più volte e le prime intercettazioni telefoniche riguardavano Carmelino Colletti – ormai questa è storia – detto «lo sceriffo», il quale colloquiava con Santapaola per telefono. Poi ha avuto altri colloqui con uno dei Minore di Trapani e anche – parlo del 1981 – con quello che prima si riteneva fosse il «ragioniere», Salvatore Riina, mentre dopo dieci-quindici anni è emerso che il ragioniere era Bernardo Provenzano. In ogni caso, questo tipo di intercettazioni mi hanno portato ad avere una visione un po’ «unitaria», globale di cosa nostra, che poi mi è servita quando sono andato a Caltagirone. Presentato questo rapporto, nel 1985-86, quand’ero dirigente del commissariato di Mazara del Vallo, mi telefonò il giudice Salamone, che conoscevo per essere stato giudice istruttore – sto parlando del vecchio rito – ad Agrigento, per dirmi che per l’indagine che stavano svolgendo c’era da approfondire la posizione di un soggetto, Messina Denaro Francesco, padre di Messina Denaro Matteo. Concordammo sulla perquisizione.
Il primo atto contro la famiglia Messina Denaro si è risolto, non ricordo se nel 1985 o nel 1986, in una perquisizione alle ore 14.00: quando siamo andati a casa, l’interessato non c’era. Siccome, però, avevamo predisposto un servizio anche un po’ a largo raggio, sapevamo che aveva una specie di uscita segreta: era stato intercettato da un ispettore collocato in modo da coprire eventuali vie di fuga. Da lì è iniziato questo rapporto di conoscenza professionale con la famiglia di Messina Denaro Francesco, che poi è stata alimentata anche attraverso le dichiarazioni di Calderone Antonino, come mi pare si chiami, il quale parlava di un personaggio dalla provincia di Trapani, tale Messina, ma non ricordava. Fu fatta un’attività istruttoria all’epoca con il procuratore, fino a quando si arrivò a individuare compiutamente questo personaggio autorevole, o comunque pesante, nell’ambito della provincia di Trapani. Qui siamo nel 1987. I dati poi si arricchivano sempre.
Quando ero dirigente della squadra mobile di Trapani c’erano stati diversi omicidi e in qualche modo riuscivamo a collegare i contorni di alcune famiglie mafiose, gli interessi e così via. Sempre in quell’epoca ci interessammo, sotto il profilo investigativo, dell’aumento di capitale sociale della Banca Sicula, perché il figlio di Messina Denaro lavorava in questa banca, e quindi fu fatto anche questo approfondimento, che non sortì effetto, nei confronti di Messina Denaro Francesco per eventuale riciclaggio. Da lì passammo ad altre indagini – la mia struttura, perché avevo dei collaboratori – sulla mafia di Castellammare del Golfo e riuscimmo a individuare grossi personaggi. Uno di questi si trovava a New York e il figlio aveva sposato una dei Caruana o dei Cuntrera. Era latitante per un provvedimento che derivava dagli Stati Uniti per traffico internazionale di sostanze stupefacenti, aspetto che pure curavamo. Indagando sulle famiglie trapanesi, abbiamo avuto anche la fortuna di capire lo spessore criminale – questo è interessante – relativamente all’omicidio del giudice Ciaccio Montalto. Ci siamo imbattuti in una visione interessante. Imputato per l’omicidio del giudice Ciaccio Montalto era uno dei fratelli Evola, catturato dai Carabinieri perché aveva al seguito delle armi, una delle quali si seppe, a seguito di perizie, che era stata utilizzata per l’omicidio del giudice. Passati il primo e il secondo grado, sempre per indagini concernenti la mafia marsalese e alcamese, intercettammo una telefonata in cui il fratello si lamentava dell’imputazione nei confronti del proprio congiunto ritenendola infondata. Sosteneva che le armi trovate al fratello non erano state autorizzate per l’omicidio di Ciaccio Montalto in riferimento a una perizia che era stata svolta. Uno era Natale e l’altro era Peppe Evola. Si mosse personalmente il fratello Giuseppe Evola, andò al processo di Caltanissetta proprio per discutere di questa perizia, dopo l’udienza – magari vi annoio un po’ con queste storie – andò ad Alcamo, lasciando il difensore che l’aveva accompagnato, l’avvocato Anania, arrivò a casa e parlò con la madre. Dopo un po’ ci accorgemmo che la moglie era preoccupata perché al telefono, sotto controllo, diceva che non era tornato e fu in agitazione fino a quando verso le 22.30-23.00 uno della famiglia Evola venne in commissariato dicendo che suo fratello doveva firmare – dei due, Natale e Giuseppe, uno aveva l’obbligo di firma in commissariato – ma non si era presentato. Per farla breve, andammo a cercarlo in campagna e lo trovammo morto ammazzato. La mattina successiva ci segnalarono un incendio, nel corso del quale era stato ammazzato e bruciato l’altro fratello. Intercettiamo il giorno dopo una telefonata da parte di un signore che fa i complimenti a un altro, dicendo che finalmente glieli avevano ammazzati, mentre l’altro risponde come se non sapesse nulla. Questi aspetti non erano altro che tasselli sulla composizione di cosa nostra. Andando avanti negli anni, succedevano altri fatti e ci eravamo fatti un’idea di come funzionasse cosa nostra, o almeno era la nostra idea, non la verità, chi fossero le persone più sentite, quali fossero i loro interessi imprenditoriali e così via. Una volta che mi ero fatto quest’idea – sto andando per grandi passi – sono stato trasferito a Caltagirone, e ormai siamo già nel 1991, deputato a fare attività antimafia. Lì c’era un personaggio di primo piano, Rampulla Pietro, amico di un altro che era scomparso, Villardita, di Caltagirone. Nei controlli del primo iniziammo un’attività che ci portò a scoprire una compravendita per 6 miliardi di euro: una specie di prestazione era stata affidata al capomafia di Caltagirone, tale Ciccio La Rocca, che aveva ricevuto 50 milioni di euro di mediazione, altri 50 erano stati ricevuti da un altro. Avevamo questo quadro bello ampio, e quindi qualcosa restava agli investigatori di Caltagirone. Avevamo attenzionato Rampulla perché veniva indicato da Calderone Antonino quale esperto di esplosivi. Per farla breve, il giorno stesso dall’attentato a Falcone il commissariato di Caltagirone, dove c’era anche la Criminalpol, d’iniziativa va per una perquisizione a casa di Rampulla, ma senza trovarlo, perché era impegnato. Trovano, Pag. 8però, una pistola, per cui viene emesso un provvedimento cautelare nei suoi confronti. Poi dopo un po’ di tempo si scoprì che Rampulla era stato uno degli artefici per la strage di Falcone, perché aveva preparato gli esplosivi. Ho seguìto anche questo caso. Nel 1992, quando sono tornato di nuovo a Mazara del Vallo, ho ricevuto la delega d’indagine dalla procura di Marsala, dai sostituti Russo e Camassa, abbastanza articolata, che riguardava il tentativo di aggiustamento del processo contro gli imputati del capitano Basile. Esitai in circa un mese questa delega d’indagine, chiaramente seguendo i capitoli d’indagine. In buona sostanza, il notaio Ferraro aveva minacciato il presidente Scaduti per influenzarlo su quella che sarebbe stata la decisione del processo. Quando fu sentito sulle ragioni per cui aveva avvicinato il magistrato, da quanto ricordo perché non ho proseguito io le indagini, rispose che lo dipingevano come massone, e quindi aveva sentito l’esigenza, visto che lo conosceva, di rappresentargli questa circostanza, che non deponeva sicuramente a suo favore per un magistrato. Quest’ultimo giustamente sostenne la versione diversa che la minaccia gli era stata fatta perché il notaio Ferraro si era mosso in quanto sollecitato da un suo amico, il quale faceva riferimento a questo Enzo, «politico trombato», sostanzialmente vicino alla mafia e di area manniniana. In base ai capitoli d’indagine, ho trovato il politico, Inzerillo Vincenzo, che definivano trombato perché doveva essere candidato all’elezione regionale siciliana e non lo era stato, mentre era stato candidato al Parlamento, eletto nelle file della DC al Senato. Avevo, inoltre, individuato anche la pista massonica, perché il padre del notaio Ferraro era un gran maestro, spesso si vedevano al ristorante «La Cuccagna» di Palermo, meta di un gran maestro, Savona Luigi, da Torino, che a sua volta anni prima era stato in contatto con i mazzaresi, con Giovanni Bastone e altri soggetti che frequentavano questo ristorante. Il locale era frequentato anche da Lo Nigro, altro mafioso importante. Ho raccolto tutti questi elementi e li ho inseriti nel rapporto, così dando elementi probatori per la consistenza eventualmente della pista massonica, dell’individuazione dei personaggi e così via. Per adesso faccio una pausa e aspetto altre eventuali domande.

PRESIDENTE. Le rivolgo qualche domanda. Ha mai chiesto di tornare in Sicilia e come ha interpretato il fatto che la sua promozione sia coincisa con un trasferimento dalla Sicilia ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Ho presentato questo rapporto il 19-20 maggio alla procura di Marsala. Come ho detto al dibattimento del processo sulla trattativa tra Stato e mafia, fui chiamato dal prefetto dell’epoca, dottor Rossi, e anche in qualità di vicecapo della Polizia, siccome il parlamentare trombato era di area manniniana, mi chiese cosa ci fosse di sostanzioso sul Ministro. Faccio una parentesi. Quando si era accreditato presso il giudice Scaduti, il notaio Ferraro aveva detto che il Ministro Mannino quel giorno doveva partire per l’incontro, e quindi aveva necessariamente urgente bisogno di parlare con il presidente Scaduti. Quest’ultimo, ritenendo che il notaio Ferraro – non sono mie dichiarazioni, ma elementi emersi nell’ambito del processo – dovesse rappresentare un’esigenza del Ministro, acconsentì a riceverlo.
Fatta questa precisazione, quando il prefetto Rossi mi ha chiamato e mi ha chiesto notizie sul Ministro Mannino, gli ho risposto che si parlava di lui, ma che avrei avuto bisogno di rileggere il rapporto per rispondere meglio. La mattina ci siamo sentiti e i termini erano questi: il notaio Ferraro, conosciuto di area manniniana, aveva fatto riferimento al Ministro Mannino e a questo politico trombato di nome Enzo, anch’egli di area manniniana, che avevo poi identificato.
Per quanto riguarda il trasferimento, non ho chiesto di essere trasferito in Sicilia. Il trasferimento è arrivato domenica 7 giugno 1992. Mi è stato comunicato dal dirigente del commissariato di Mazara del Vallo, il dottor Franchina, dal quale appunto ho appreso che ero stato ritrasferito Pag. 9a Mazara del Vallo con decorrenza 8 giugno 1992. Successivamente, dopo l’attentato, come ho detto sono stato al Servizio Centrale operativo (SCO), ma sicuramente per motivi di sicurezza non ho ricevuto proposte per tornare in Sicilia né mi hanno proposto di fare il questore in Sicilia.

PRESIDENTE. Lei, però, non ha più chiesto.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. No. Io non chiedo mai niente. La vita scorre.

PRESIDENTE. L’abbiamo capito. I colleghi vogliono rinnovare qualche domanda ?

DAVIDE MATTIELLO. Le avevo chiesto anche di Linares.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Sì. Per quanto riguarda il collega Linares, siccome avevo steso anche diversi rapporti sul settore dell’imprenditoria, perché avevamo individuato degli imprenditori che ritenevamo essere contigui se non organici di cosa nostra, il dottor Linares ha approfondito determinate mie investigazioni che erano state inoltrate all’autorità giudiziaria e ha titolato l’indagine Rino, non ricordo se Rino uno, due o tre.
Un’indagine, in particolare, riguardava la Marciante, avviata nel 1990-1991, poi sono stato trasferito e non è stato possibile svilupparla. Avevamo fatto una sorta di intercettazioni non ambientali, ma video, e siamo stati sfortunati perché in questa Marciante si riunivano tutti, a Mazara del Vallo. Il cassiere di Totò Riina, detto «il muratore», era per noi un personaggio sconosciuto, e invece era il cassiere della mafia, un muratore di nome Messina, che in dialetto chiamavano «u’ murature». Ne parlavano al telefono con quest’appellativo. Siccome tutto ciò deve essere tradotto processualmente, essendo il muratore appunto un appellativo, bisognava riempirlo processualmente di contenuto, cosa significasse, chi fosse la persona.
In quelle intercettazioni agrigentine, ad esempio, chiamavano Santapaola «il cacciatore» e ne parlavano Carmelino Colletti a Calogero Ferro, di Canicattì. A Mazara del Vallo chiamavano un altro – scusino, mi vengono alla mente così – «u’ putiaro». Ve lo racconto perché è una storia simpatica. Siccome la famiglia mazarese faceva traffico internazionale di tabacchi, lavorati esteri, droga – faceva un po’ di tutto, come tutte le famiglie – ogni tanto aveva degli incontri in Svizzera, dove erano andati Giovanni Bastone, mafioso, e un altro per un appuntamento con un personaggio svizzero famoso. Essendo mancati all’appuntamento e dovendo incontrarlo, durante una conversazione telefonica dalla Svizzera verso il centro carne Bastone Burzotta, un po’ agitati avevano chiesto se il bottegaio fosse lì: «No, non c’è» – «va’ subito a chiamarlo», e lo avevano chiamato. Dovevano concertare una grande movimentazione finanziaria, per cui inizia la conversazione tra chi è in Svizzera – un po’ acculturato, era un architetto – e «’o putiaro»: «Devi dirmi il luogo dell’incontro», ma quello non voleva dirglielo, «Ti ricordi i bambini e il luna park ?», ma quello non capiva, «Devi dirmi il nome dell’albergo», che era il Nova Park Hotel di Zurigo, per cui aveva iniziato coi bambini e col luna park per spiegargli. A un certo punto, gli rivolge una domanda sul numero di telefono per rintracciarlo. All’epoca, quest’attività su Bastone Giovanni portò anche subito a dei collegamenti con la massoneria, che poi noialtri abbiamo sviluppato a compendiato in due o tre rapporti.

CLAUDIO FAVA. Dottor Germanà, prima di tornare a Mazara del Vallo era a Catania ? A Caltagirone ? Parlo dell’ultimo incarico prima di essere nuovamente trasferito.CALOGERO

GERMANÀ, già questore di Piacenza. Sì. Ero dirigente…

CLAUDIO FAVA. Siamo nel 1991.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Sì, nell’estate del 1991, da luglio a settembre e fino a…

CLAUDIO FAVA. Non si è mai chiesto se questo trasferimento fosse legato anche alla necessità che pezzi delle istituzioni in quel momento avevano di proteggere Nitto Santapaola ? Come lei sa, quella è stata un’epoca che, guardata con attenzione, ha rivelato rapporti di intimità preoccupante da parte di rappresentanti delle forze dell’ordine, il colonnello Licata, il capo della squadra mobile di Catania Berretta, col rifugio di Santapaola mancato in un paio di occasioni.
A uno sguardo particolarmente attento e particolarmente pignolo, in una fase in cui la questura di Catania era una sorta di luogo di garanzia per la latitanza di Santapaola, come ahimè risulta agli atti di molti processi, non può essere una delle ragioni per cui lei è stato trasferito ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Non ho svolto indagini mirate su Santapaola. L’abbiamo denunziato. A Caltagirone ho attenzionato un po’ Pietro Rampulla, quello di San Michele di Ganzaria, Francesco La Rocca, Villardita e tanti altri che avevano collegamento in particolar modo con agrigentini.
Come ho detto, ho fatto un’informativa sulla mafia calatina incentrata sulla figura di Francesco La Rocca in riferimento all’operazione immobiliare per un terreno per il valore di 6 miliardi. In quel contesto, ci siamo anche interessati dell’incendio del Sigros come aspetto collaterale. Non aveva attinenza, ma abbiamo appurato, per esempio, che il capannone dato in relazione al Sigros dopo l’incendio era di una fabbrica di birre e che il materiale che c’era dentro era stato tolto dai fratelli di Catania che hanno i camion, ma di cui non ricordo il nome.

CLAUDIO FAVA. Gli Ercolano.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Esatto. In quella circostanza ho sentito anche Ercolano per farmi chiarire la circostanza e quello della Mercedes. Li ho chiamati tutti, perché si sono interessati per trovare questo capannone da dare al Sigros.

MARIO MICHELE GIARRUSSO. Vorrei che approfondissimo, perché credo che sia uno degli elementi del problema viste anche le missioni della nostra Commissione antimafia, come un massone notaio, che fa parte di un gruppo politico, a nome di un senatore della Repubblica cerca di intimidire un presidente di sezione del tribunale di Palermo, per un processo peraltro gravissimo che riguarda l’omicidio del capitano Basile.
In relazione alle indagini che ha condotto, può spiegarci questo contesto e come può avvenire una cosa del genere ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Vede, per quanto riguarda l’aspetto massonico, la famiglia mazarese e anche esponenti palermitani erano in stretto contatto con questo gran massone che abitava a Torino, che si chiamava – ora è morto – Savona Luigi. Questo professore veniva spesso a Palermo e aveva come ufficio il ristorante La cuccagna. In due indagini mi sono imbattuto indagando su Bastone Giovanni su quest’aspetto della massoneria. Per quanto riguarda, come lei dice, le ragioni per cui il notaio Ferraro si interessava di certe cose, evidentemente aveva interesse. Non so per quale motivo si fosse speso per questo. Si è difeso dicendo che avevano dipinto come massone, se non ricordo male, anche il presidente Scaduti, per cui lui si sarebbe mosso in difesa. Questa è la versione che ha dato il notaio. È stato processato, non so se sia stato assolto per quest’accusa, ma io sono arrivato fino a un certo punto, poi non ho proseguito. Che mi abbiano ritrasferito a Mazara del Vallo sarà stata una scelta dell’amministrazione. Non lo so. Certo, mia moglie è di Mazara del Vallo e, se da Caltagirone mi ritrasferiscono a Mazara del Vallo, da una parte professionalmente può anche dispiacere, ma non si vive solo di professione, bensì di sentimento, di relazione e tornare a casa per Pag. 11me poteva avere un senso. Debbo dire che il procuratore Borsellino non l’aveva presa bene e aveva detto: «Non mi pare una cosa bella». Come si dice giù in Sicilia, e mi disse che era giusto che tornassi a dirigere il commissariato di Mazara del Vallo. Debbo aggiungere che sono stato tolto dalla squadra mobile di Trapani perché, come ho scoperto dieci anni dopo leggendo il mio fascicolo personale, dalla procura di Trapani, nella persona del dottor Francesco Taurisano, che era sostituto procuratore, si diceva che non era stata condotta un’indagine seria sul sistema bancario trapanese. Io venivo dipinto come un funzionario che si era mai interessato di queste cose, come se fossi stato amico dei mafiosi. Benissimo. Vengo trasferito dalla squadra mobile di Trapani e assegnato proprio alla Criminalpol: come può la procura sostenere che non era stata condotta un’indagine seria sulla banca quand’ero firmatario del rapporto sull’aumento di capitale sociale della Banca Sicula ? Si diceva che ero colluso con la mafia o simili perché non conducevo indagini serie, e invece mi hanno spostato e mandato alla Criminalpol.

MARIO MICHELE GIARRUSSO. La presidente le aveva chiesto di Rostagno: vuole parlarcene ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Sull’omicidio Rostagno abbiamo ipotizzato la pista mafiosa per le modalità di esecuzione del delitto. Inoltre, al processo che si stava celebrando a Trapani contro Mariano Agate, nel corso di un’udienza questi si lamentò degli operatori dicendo che poteva capire i magistrati, gli avvocati, ma non gli operatori, rivolgendosi appunto all’operatore. Per noi quello era stato un segnale.
Subito dopo l’omicidio abbiamo fatto delle battute durate cinque o sei ore. Quando abbiamo un po’ allentato il servizio di perlustrazione, dopo sei ore abbiamo trovato la macchina utilizzata dai killer bruciata, in un luogo dove eravamo stati noi e i Carabinieri. Era evidente che l’organizzazione c’era e di un certo spessore, perché la macchina era stata rubata un anno prima, poi era esploso il fucile perché sicuramente era stato caricato artigianalmente, insomma una serie di fatti, sicché abbiamo steso questo rapporto individuando la pista mafiosa. Dopo venti o ventuno anni un collaboratore di giustizia ha spiegato tutto e quindi si è scoperto che la matrice era mafiosa.

MARIO MICHELE GIARRUSSO. Per la sua esperienza, visto che ha svolto molta della sua attività professionale nel trapanese, quella provincia è un crocevia di molti interessi, non solo mafiosi e massonici, ma si è parlato anche di eversione, di Gladio, di altre strutture dei nostri servizi. Ci sono ancora dei misteri, come quello dei carabinieri ammazzati nella casermetta di Alcamo, per cui si è riaperto il processo da poco. È una serie di vicende che coinvolge probabilmente anche apparati particolari dello Stato: li ha incrociati nel corso delle sue indagini, del suo lavoro ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. No, non ho incrociato questi apparati a cui ha accennato. L’unico aspetto che abbiamo toccato con mano è stato quello della massoneria, quello sì.

MARIO MICHELE GIARRUSSO. Il torinese ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Il torinese era proprio un Gran maestro, Giovanni Bastone era organico della famiglia mafiosa di Mazara del Vallo e aveva rapporti con lui.
Non sono indagini che ho condotto io, ma successivamente per il mio attentato in alcune intercettazioni ambientali, come è riportato anche nella misura cautelare, si fa riferimento ai servizi segreti e così via, però non è emerso niente di…

MARIO MICHELE GIARRUSSO. Cosa viene a fare in Sicilia un massone di Torino ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Savona è nato a Palermo. Era originario di Palermo. Era ex militare, ufficiale dell’esercito.

MARIO MICHELE GIARRUSSO. Perfetto. Per capire, di che cosa trattava coi mafiosi ? Qual era l’argomento, il business che trattavano mafiosi e massoni ?

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Forse trattavano business di potere. Non so dirglielo. Sicuramente, questo Savona era una specie di consigliere, se si relazionava con Giovanni Bastone. Non ho notizie più precise su quest’aspetto. Che avessero rapporti è sicuro.

PRESIDENTE. Ringraziamo ancora, oltre che per la presenza, soprattutto per il servizio che ha svolto in questi anni. Se continuando il nostro lavoro di Commissione attraversiamo qualche territorio, periodo o tema che l’ha vista coinvolto, potremmo usufruire della sua consulenza, perché credo che forse avrà un po’ di tempo a disposizione.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Sì.

PRESIDENTE. Ho visto che scriverà un libro, che leggeremo con interesse. È doveroso.

CALOGERO GERMANÀ, già questore di Piacenza. Ma non su fatti di polizia.

PRESIDENTE. Perché la vita è molto più grande. Naturalmente, quando sentiremo il Ministro dell’interno, gli faremo presente la nostra interrogazione dell’onorevole Mattiello e della senatrice Ricchiuti. Dichiaro conclusa l’audizione.

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco