ALESSANDRA CERRETI, pm antimafia

 

Entra in magistratura nel 1997. Primo incarico presso il Tribunale di Milano, quale Giudice del Lavoro; dal 1999 al 2009 Giudice del Tribunale Ordinario di Milano: dapprima quale Giudice a latere presso la Sezione ottava penale (competente in materia di reati di criminalità organizzata) e, dall’anno 2005, quale Giudice per le indagini preliminari.  Presso il Tribunale di Milano, ha avuto modo di occuparsi di complessi procedimenti di criminalità organizzata (“cosa nostra” siciliana, ndrangheta, terrorismo di matrice estremista islamica).  Dal marzo all’ottobre 2009 ha svolto le funzioni di Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria. Dal gennaio 2010 trasferita, su sua richiesta, presso la Procura Tribunale Reggio Calabria. Dal settembre dello stesso anno fa parte della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Presso la DDA di Reggio Calabria è titolare del procedimento cd. ALL INSIDE, che ha consentito l’arresto di più di 80 individui accusati, a vario titolo, di appartenenza alla cosca mafiosa PESCE. Nell’ambito di questo procedimento, ha gestito la collaborazione della prima donna di “ndrangheta”  Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce.  Ha gestito, infine, insieme al collega dott. Giovanni Musarò, la collaborazione con l’Autorità giudiziaria di Maria Concetta Cacciola  Giuseppina Multari, moglie di Antonio Cacciola.  Si è, altresì, occupata dell’indagine cd. “Deus”, che ha consentito di disarticolare la cosca mafiosa CREA di Rizziconi, nell’ambito della quale ha gestito la coraggiosa scelta dell’ex Sindaco di Rizziconi, Antonio Bartuccio, di testimoniare contro gli appartenenti alla cosca mafiosa, responsabili di aver “sciolto” il Consiglio Comunale del paese e di efferati delitti sul territorio. Si è occupata, infine, di azione di contrasto al narcotraffico internazionale attraverso il porto di Gioia Tauro.  Dal marzo 2015 fa parte della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Milano. Dall’aprile 2016 fa parte del Consiglio Giudiziario presso la Corte d’Appello di Milano.

 

26 10.2019. Al teatro Massimo di Pescara, cerimonia di consegna dei riconoscimenti nell’ambito del 24esimo “Premio Borsellino”. Alessandra Cerreti. Un esempio di magistrato sobrio e rigoroso. Da anni è in prima linea nel contrasto alla mafia.


2.3.2016 – La prima edizione del  Premio “Valarioti – Impastato ” ha celebrato il suo riconoscimento  ai magistrati: Federico Cafiero De Raho, Alessandra Cerreti, Roberto Di Palma, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo.


 GALLERIA FOTOGRAFICA

VIDEO

IL PM ALESSANDRA CERRETI INCONTRA GLI STUDENTI DEL LICEO “R.PIRIA” – Martedì 21 Maggio 2013. Percorsi di Legalità. Lectio magistralis 

 

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  • “Un solo imprenditore che ha denunciato in più di 15 anni di storia della Dda di Milano” per la sostituta procuratrice della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano Alessandra Cerretiè un record negativo che Milano si porta dietro“. “E questo – afferma a margine delle commemorazioni per il 31esimo anniversario della strage di Capaci – la dice lunga sullo stato di consapevolezza e di contiguità sulla mafia ed in particolare sulla ‘Ndrangheta, che sul territorio milanese ma anche su quello nazionale è quella più potente“. In Lombardia e a Milano sono presenti tutte le principali organizzazioni criminali. Il dato è ancor più negativo allora, sottolinea, “rispetto a territori tipicamente infiltrati come la Calabria e la Sicilia dove è paradossalmente più facile ottenere una denuncia da parte degli imprenditori”. Tuttavia, aggiunge, “registro quello positivo, recentemente verificatosi, di un coraggioso giovane imprenditore che non solo non si è piegato alla ‘Ndrangheta che gli imponeva affari ma ha denunciato e per questo ancora subisce intimidazioni molto gravi”. Per Cerreti, quindi, “tanto si è fatto ma tanto ancora dobbiamo fare, partendo da Milano” a maggior ragione perché “in Lombardia la criminalità economica va a braccetto con la mafia”. “Dobbiamo evitare il pericolo sempre presente, strisciante di sottovalutazione, che si annida talvolta anche nei palazzi della giustizia. A Milano – ha concluso – questo pericolo è ancora altissimo”.

 

Procuratore antimafia di Milano: “La ‘ndrangheta punta al business dei tamponi e mascherine”. In Lombardia esiste un altro virus oltre al Covid. Quello della ‘ndrangheta, presente sul territorio ormai da anni e che oggi, con l’emergenza sanitaria in corso, rischia di “infettare” imprenditori e farsi spazio in nuovi business: “Abbiamo avvisaglie che la criminalità organizzata stia puntando al mercato delle mascherine e dei tamponi”, spiega il procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Cerreti in un’intervista a Fanpage.it. La Lombardia è al centro anche di questa seconda ondata Covid. Lo era già stata dallo scorso febbraio, da quella prima diagnosi al pronto soccorso di Codogno, e da allora il Coronavirus non se ne è più andato. Ma il Sars-Cov2 non è l’unico “virus” a infettare la Lombardia: da anni il territorio lotta contro la criminalità organizzata che si infiltra nell’economica sana e la fa propria. La prima grande e vera “diagnosi” è stata nel 2010 con l’operazione Infinito della Direzione distrettuale antimafia di Milano che elencò tutte le locali di ‘ndrangheta presenti in Lombardia. A risvegliare i cittadini dall’omertà del Varesotto sono stati anche gli ultimi arresti del luglio 2019 e del settembre 2020 quando l’operazione Krimisa portò alla luce i legami tra la locale di Legnano-Lonate Pozzolo e funzionari pubblici. A coordinare le indagini c’è il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Milano Alessandra Cerreti, insieme alla dottoressa Vassena, che in un’intervista a Fanpage.it mette in guardia gli imprenditori a non cedere alla criminalità organizzata in questi tempi di emergenza sanitaria ed economica.

Procuratore, questa nuova chiusura di attività commerciali aumenta il rischio di un avvicinamento tra imprenditori e criminalità organizzata? Non è tanto la decisione di chiudere o tenere aperto a far aumentare il rischio, quanto piuttosto la tempestività con cui lo Stato interviene per stanziare aiuti. Più gli aiuti saranno concreti e veloci, più il piccolo e medio imprenditore lombardo non si lascerà tentare dalla liquidità sempre presente nelle mani della criminalità organizzata. La ‘ndrangheta sul territorio è abile ad adattarsi alle realtà socio economiche del momento e infiltrarsi nei nuovi mercati.

Soprattutto in momenti di emergenza sanitaria come questi?  Sì, abbiamo avvisaglie che la criminalità organizzata stia puntando al mercato delle mascherine e dei tamponi. Ovvero il business più lucroso che ci sia in questo momento. Dalla loro hanno tanta liquidità che possono facilmente investire. Tra le ipotesi, quella di acquistare mascherine dal mercato illegale e rivenderle sul territorio a un prezzo molto più alto. Potrebbe succedere anche per tamponi e vaccini: in tanti sarebbero disposti a pagare a prezzi spropositati se necessario pur di avere una dose per il parente più anziano. Per questo la sanità pubblica deve intervenire tempestivamente e non può permettersi ritardi. Mentre sul territorio locale è necessario creare un fronte comune tra enti statali, associazioni di categoria e rappresentanze sindacati per supportare l’imprenditore.

Qualcosa che manca in Lombardia? Qui si fa poca rete. Cosa che invece succede nelle regioni del Sud dove, ahimè, le stragi sono state sì un duro colpo per il territorio, ma hanno fatto anche prendere consapevolezza al cittadino della presenza delle mafie. In Calabria e in Sicilia ci sono tante associazioni antiracket, l’imprenditore sa quindi a chi rivolgersi per chiedere aiuto.

Lei ha lavorato sia in Calabria che in Lombardia e ora soprattutto sul caso di Lonate Pozzolo. La ‘ndrangheta qui agisce in modo diverso rispetto al Sud? Assolutamente no. Occupandomi del Varesotto ho notato le stesse dinamiche di giù: il cittadino comune a Lonate Pozzolo si rivolgeva alla ‘ndrangheta per risolvere i suoi problemi. Non si rivolge allo Stato. Esattamente lo stesso succede in Calabria. Eppure in Lombardia è più comodo pensare che la ‘ndrangheta resti sempre un problema del Sud. Si sbagliano. In Lombardia però c’è silenzio totale. Basti pensare che nessun Comune o altri enti istituzionali si costituiscano parte civile nei processi. Cosa che invece avviene sempre in regioni come la Calabria e la Sicilia.

C’è chi però ha avuto coraggio. Un filone delle indagini sulla locale di Lonate Pozzolo è iniziato grazie alla denuncia di un giovanissimo imprenditore: una cosa più unica che rara? Non capitava da anni che un imprenditore lombardo denunciasse, ha avuto coraggio. Oggi è l’unica denuncia, durante il processo a Busto Arsizio contro la locale di ‘ndrangheta c’è stato persino qualcuno che davanti ai giudici ha preferito prendersi una denuncia per falsa testimonianza piuttosto che andare contro gli ‘ndranghetisti. Piuttosto negano tutto pur di denunciare.

Perché secondo lei? Per pura convenienza. L’imprenditore non denuncia e diventa colluso con la ‘ndrangheta perché gli conviene. Ma non capiscono che una volta che fai entrare la criminalità organizzata nella tua azienda poi ne diventi schiavo. Non te ne liberi più. Come quello che può succedere ora con la pandemia, non è che se chiedi liquidità alla ‘ndrangheta finita l’emergenza te ne liberi. No, diventa padrone della tua azienda.

Lo stesso vale per il rapporto tra politica e ‘ndrangheta, esattamente come è successo a Lonate Pozzolo? La ‘ndrangheta mira al centro del potere e quindi alle amministrazioni politiche. Cercano un canale comunicativo e spesso lo trovano nei piccoli paesi di provincia. Ma non per questo vuol dire che non cerchino di infiltrarsi nella politica delle grandi città. È sicuramente più difficile perché il politico è più esposto mediaticamente, ma ci provano. A Lonate Pozzolo era tutto alla luce del sole: c’erano reati spia come incendi, linciaggi e percosse nel centro della piazza del paese. Ma nessuno ha detto o fatto nulla.

La ‘ndrangheta è un “virus” di cui la Lombardia non si libererà mai? No, ma bisogna insistere. L’operazione Infinito di dieci anni fa è stato un duro colpo alla criminalità organizzata, per tanti indagati poi si sono aperte le porte del carcere. Ma una volta scontata la pena, i boss sono ritornati al loro posto e hanno ripreso il controllo del territorio. La loro grande capacità è quella di adattarsi alle nuove realtà socio economiche. Per questo i cittadini devono prendere coscienza della presenza della ‘ndrangheta sul territorio e lo Stato deve insistere per contrastarla. 16 NOVEMBRE 2020  di Giorgia Venturini FANPAGE

 

 

Lombardia, poche associazioni antiracket credibili per aiutare imprenditori vittime di ‘ndrangheta In Lombardia si sta combattendo la battaglia contro il Covid-19, ma qui, dieci anni dopo l’operazione Infinito che ha dato un duro colpo alla ‘ndrangheta sul territorio, la criminalità organizzata è ancora ben presente. Magistrati e forze dell’ordine mettono in guardia gli imprenditori a non cedere alla liquidità della ‘ndrangheta. Ma le denunce per estorsione sono quasi a zero e sul territorio scarseggiano associazioni antiracket e antiusura credibili. Quando pensi alla Calabria, così lontana dalla Lombardia, pensi anche ai suoi imprenditori coraggiosi. Persone che non solo hanno denunciato il tentativo di estorsione della ‘ndrangheta ma hanno fatto nomi e cognomi esponendosi mediaticamente, diventato sul territorio un esempio da seguire e da ammirare. Quando pensi alla Calabria, pensi a imprenditori come Tiberio Bentivoglio che ha pagato sì a caro prezzo il suo coraggio – ogni giorno davanti alla sua Sanitaria Sant’Elia nella centralissima Reggio Calabria c’è una camionetta dell’esercito che sorveglia sulla sua famiglia e sulla sua attività – ma non c’è studente in Italia che non lo conosca: le sue lezioni nelle scuole da Nord a Sud hanno lasciato il segno. Se pensi a Palermo, anche lei così lontana dalla Lombardia, pensi ai suoi imprenditori coraggiosi. Non c’è 29 agosto che non si ricordi il sacrificio di Libero Grassi, nel 1991 ha pagato con la vita il suo coraggio. Anche oggi a Palermo ci sono imprenditori, italiani e stranieri, che senza paura non cedono a Cosa Nostra: si rivolgono alle forze dell’ordine e si affidano alle tante associazioni antiracket presenti sul territorio, come Addio Pizzo. L’ultimo che ci ha messo le faccia è Giuseppe Piraino, l’imprenditore edile che per ben due volte ha filmato con una telecamere nascosta chi veniva a chiedergli il pizzo. I video poi sono finiti nelle mani delle forze dell’ordine e sono scattati gli arresti. Perché in Calabria e Sicilia c’è chi denuncia e quindi la criminalità organizzata, come avevano spiegato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, il più delle volte, sa a quale imprenditore chiedere il pezzo, o meglio la “messa a posto”, e a chi no. Sa quando rischia la denuncia e quando no. Una cultura, quella della denuncia, quasi del tutto assente in Lombardia. Qui piuttosto gli imprenditori raccontano il falso davanti ai giudici nelle aule di tribunale. “Gli conviene”, come ha spiegato a Fanpage.it il procuratore antimafia di Milano Alessandra Cerreti. Poco presenti in Lombardia sono anche le associazioni antiracket, gruppi di persone non rappresentanti dello Stato che accompagnano l’imprenditori verso la denuncia. Sia chiaro, in Lombardia esiste il movimento antimafia: non è un caso che il primo corso di dottorato in Italia dedicato alla criminalità organizzata sia all’Università degli Studi di Milano. Ma scarseggiano ancora organizzazioni antiracket e antiusura credibili sul territorio. Indispensabile per affiancare, soprattutto oggi, il lavoro di magistrati e forze di polizia in questi mesi di pandemia. Un’assenza che oggi, forse più di ieri, si fa sentire.  17 NOVEMBRE 2020  di Giorgia Venturini FANPAGE

 


Collaboratrici di giustizia per amore dei figli L’altra Calabria – La magistrata Alessandra Cerreti ha raccolto le prime collaborazioni al femminile nella ‘ndranghetaÈ un magistrato di punta della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e in tale veste segue processi importanti come All Inside 1 e 2 e prima ancora giudice dell’udienza preliminare in processi rilevanti come “Bellu Lavuru”. Alessandra Cerreti ha lavorato a Milano per dodici anni nei processi di terrorismo islamico nel periodo post 2001. Alessandra Cerreti è stata pioniera nel raccogliere le prime collaborazioni al femminile nella ‘ndrangheta: Giusy Pesce e Maria Concetta Cacciola. L’abbiamo incontrata a Reggio Calabria, città dove ora vive.

Lei ha trascorso diversi anni a Milano per poi scegliere la Calabria per il suo lavoro di magistrato, oggi si ritiene soddisfatta?Assolutamente sì. A Milano ho vissuto un’esperienza eccezionale sia dal punto di vista personale che professionale. Sono meridionale e mi sentivo un po’ in colpa nei confronti dei colleghi che lavoravano al sud in condizioni più complesse e difficili, l’esigenza di lavorare in territori più a rischio mi ha indotto a scegliere Reggio, dove in quel periodo la ‘ndrangheta alzava un po’ il tiro: era il 2010, l’anno del bazooka e delle bombe.

Vive sotto scorta da dodici anni, prima a Milano e poi a Reggio. Che tipo di minacce ha subito dalla ndrangheta? Guardi la mafia raramente minaccia direttamente, manda messaggi in tanti modi: con le dichiarazioni del boss mafioso che “esterna” dal 41bis durante l’udienza, oppure attraverso i giornali che sono più o meno consapevoli della loro “funzione”. Oggi non faccio un passo senza i miei angeli custodi, perché in un territorio piccolissimo come Reggio se io andassi a comprare il pane senza i carabinieri di scorta dopo un’ora lo saprebbero tutti.

Cosa teme di più la ‘ndrangheta nei territori dove lei opera? Le cosche temono non solo e non tanto gli arresti, ma i sequestri dei beni. L’arresto si mette in conto come un rischio d’impresa, ma se viene intaccato il patrimonio è danneggiato il prestigio criminale, la cosca perde credibilità e potere non solo al suo interno, ma all’esterno con la gente.

Le donne in magistratura sono entrate tardi rispetto agli uomini, oggi fanno fatica a imporsi secondo lei? Il protagonismo maschile c’è, ma è appunto un dato storico. Le donne in Magistratura sono state introdotte nel ’69, e da meno tempo fanno antimafia. Ma nel mio ufficio la situazione è diversa: ho avuto ed ho dei capi eccezionali e tali limiti mentali non sono neanche immaginabili.

Cosa succede, invece, con gli imputati di ‘ndrangheta? In un grosso processo che si sta celebrando a Palmi, gli imputati appena mi hanno visto entrare si sono messi ad urlare “vogliamo Di Palma, vogliamo Di Palma”, cioè il collega uomo contitolare del procedimento. Gli imputati di ndrangheta non riconoscono una donna come interlocutore valido, ma la devono subire, non hanno alternativa!

Lei è stata pioniera di un grande risultato: le prime collaborazioni al femminile con Giusy Pesce e Maria Concetta Cacciola. Come è riuscita a rompere i silenzi di quelle donne? Mi ha agevolato l’essere donna. Le donne di ‘ndrangheta sono costrette a subire, anche se sono intelligenti e se hanno studiato. Ma hanno un senso del pudore molto elevato, parlare di sé di fronte ad un uomo per loro è impensabile. Una volta trattavamo di una possibile relazione extra coniugale, questa ragazza si era chiusa e negava. Poi durante una pausa si è avvicinata e mi ha detto che davanti al collega si vergognava e che avrebbe parlato solo con me. Loro vivono pensando di meritare la morte per il tradimento. Una donna che tradisce l’uomo non è un evento che intacca solo la coppia, riguarda la famiglia, la ‘ndrina, intacca il prestigio criminale.

Che cosa ha spinto le donne di ndrangheta a collaborare oltre all’amore e ai figli? E che significato assumono queste collaborazioni? Decidere di collaborare può diventare un atto d’amore nei confronti dei propri figli perché gli si dà la libertà di scegliere. Loro ripetono sempre: “Mia figlia sposerà un mafioso, poi verrà arrestato e farà la vita mia. Mio figlio a 14 anni avrà una pistola, farà il killer, poi passerà di grado nella ‘ndrangheta” vedendo in questo una predestinazione. Noi siamo riusciti a fare leva su queste convinzioni e a romperle. Ci sono donne particolarmente attente e intelligenti, usano internet che è uno strumento eccezionale perché apre una finestra sul mondo e consente di emanciparsi. Ma spesso mi sento dire da queste donne “I figli sono miei, i figli sono miei” ripetuto come un mantra quasi per sollevarsi dai sensi di colpa nell’accusare la famiglia. L’amore per i figli è più forte dell’amore per il padre, per la madre, per i fratelli. Le collaborazioni femminili sono viste in maniera assolutamente nefasta dalla ‘ndrangheta. È una spina nel fianco, perché intacca il potere e il prestigio criminale all’esterno perché vuol dire che la cosca non riesce a tenere a bada più le proprie donne. In alcuni processi è emerso che una cosca avversaria alla notizia di una collaborazione femminile abbia festeggiato.

Da alcuni processi viene fuori un quadro terribile: ci sono casi in cui le donne rifiutano di sposarsi con il boss vengono rapite e violentate. Sono rapporti di sopraffazione nei quali la donna è solo un oggetto di scambio. Si può ribaltare questa condizione allo stato delle cose o no? Si può ribaltare se interviene il ripudio dei valori della cultura mafiosa, perché accanto ai pochi episodi di donne che alzano la testa e che si ribellano, ne abbiamo decine e decine che sono fedeli al dettato mafioso, sono donne combattive che hanno dei ruoli attivi all’interno dell’organizzazione mafiosa.

Che ruoli ha la donna all’interno delle cosche? I ruoli che noi siamo riusciti a fotografare sono quelli di ambasciatrice, di intestataria fittizia, anche ruoli attivi nelle estorsioni, sono cassiere. Ci sono donne che prendono i proventi delle estorsioni e li portano ai maschi detenuti in carcere. Fino ad ora si pensava che le donne non avessero nessun ruolo, a mio avviso c’è stato un errore prospettico di genere: lo pensavano gli investigatori maschi, poliziotti maschi, magistrati maschi, c’era il pregiudizio, gli si ritagliava un ruolo molto più ristretto come quello di vivandiera. Le cose sono cambiate in questi ultimi anni. In alcuni processi è emerso che, nel corso di una faida, proprio le donne aizzavano i congiunti maschi ad uccidere anche donne e bambini, per evitare che si riproducessero. Una detenuta mi ha detto che per loro costituisce una novità il fatto che si arrestano anche le donne.

Secondo lei c’è uno specifico ‘femminile’ che le donne impegnate nella Magistratura e nelle forze dell’ordine possono mettere o forse stanno già mettendo? Sicuramente si, non dico niente di nuovo. La donna apporta una professionalità di tipo diverso perché ha un intuito diverso da quello maschile, un’altra sensibilità che a volte premia. La donna, anche con la stessa professionalità, riesce a vedere da un angolo prospettico diverso. Non siamo tantissime nella Dda di Reggio, fino a poco tempo fa eravamo in tre, ora siamo in due donne su dodici, però ci siamo! Maria Fabbricatore Domenica, 13/01/2013 –  NoiDonne di Gennaio 2013

Vi racconto le donne dei boss Gli studenti del liceo classico Cairoli di Varese hanno ascoltato il magistrato della direzione antimafia di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, che ha parlato di legalità e ruolo delle donne nella criminalità organizzata

Due ore intense e di grande attenzione da parte degli studenti del liceo classico Cairoli di Varese quelle della mattinata di sabato 25 ottobre presso Villa Recalcati, dove il magistrato della direzione antimafia di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, ha parlato di legalità e ruolo delle donne nella criminalità organizzata. La dottoressa, nota alla stampa per aver seguito il pentimento di Giuseppina Pesce, figlia, sorella e nipote di boss di una delle più potenti cosche della ‘ndrangheta, ha parlato ai giovani con semplicità e chiarezza, raccontando la propria carriera fatta di sacrifici, scelte e soddisfazioni che l’hanno portata a lavorare al fianco del Procuratore Giuseppe Pignatone dal 2010.
«Nonostante la diffidenza verso le donne dovuta principalmente a motivi culturali, siamo infatti tre magistrati donne su 100 sul suolo nazionale, ho avuto l’opportunità, grazie a Pignatone che io amo definire “illuminato”, di scavare a fondo sulla questione della criminalità organizzata in Calabria. È un argomento che, diversamente da quanto pensano in tanti, riguarda tutti e non solo il Sud dell’Italia. Voi giovani, che siete i rappresentanti del domani, avete il dovere di conoscere ciò che garantisce sicurezza e giustizia al nostro paese».
Dopo un inizio tutto rivolto agli studenti, il magistrato ha portato la testimonianza dei casi Pesce, Cacciola e Garofaro, di cui si è occupata in prima persona, e ha approfondito il ruolo delle donne all’interno dell’organizzazione criminale calabrese che conta ormai troppe presenze su tutto il territorio nazionale.
Ad essere intervenute all’incontro, anche il vicario del questore di Varese, Maria Dolores Rucci e il comandante della compagnia Carabinieri varesina, Gerardina Corona, che hanno parlato della propria esperienza ricordando quanto sia fondamentale l’amore verso la professione, specialmente in un lavoro delicato e importante quanto il loro. Le tre testimonianze, ospiti dalla splendida villa varesina, hanno confermato la volontà, da parte dello stato italiano, di seguire una strada già intrapresa, e per gran parte percorsa, da Giovanni Falcone, che dal passato parla con straordinaria attualità: “è tempo per gli italiani di andare avanti con l’impegno ordinario di tutti: la giustizia”. VARESE NEWS 25.10.2014


LA PM CHE ASCOLTO’ GIUSEPPINA PESCE  Prima di lei, nessuna donna di ‘ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a un magistrato. Ma Giuseppina Pesce, 33 anni da Rosarno, figlia di un boss e imputata per associazione mafiosa, ha guardato negli occhi i suoi figli e ha intravisto per loro un futuro diverso. A rischio della propria vita.

Di fronte a lei un’altra donna: Alessandra Cerreti, siciliana di Messina, pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Che ascolta Giuseppina e porta alla sbarra, nell’inchiesta All Inside, 76 capi e gregari della feroce cosca Pesce, di cui 11 già condannati in primo grado.
Cerreti seguiva anche il tragico caso di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta suicida il 20 agosto 2011. 
Con la magistrata, tentiamo un ritratto delle donne di ‘ndrangheta, una holding criminale dal fatturato annuo di 44 miliardi di euro.

Perché il pentimento di Giuseppina Pesce segna una rottura? Nella ‘ndrangheta, la famiglia mafiosa spesso coincide con quella di sangue, il che complica il percorso collaborativo e ha generato il falso mito dell’invincibilità della ‘ndrangheta. Le collaborazioni al femminile sono eccezionali sul piano sociale, prima che giudiziario: dimostrano che le donne possono ribellarsi alla cultura maschilista della mafia calabrese, intaccandone il prestigio criminale.    

Anche il loro ruolo subalterno nella cosca è un falso mito? Certo. Quando gli uomini sono detenuti, le donne portano le “ambasciate” nei colloqui in carcere, garantendo la prosecuzione dell’attività criminale. Sono cassiere della cosca o intestatarie fittizie, e trasmettono ai figli il vincolo mafioso. Esiste persino la “ninna nanna du malandrineddu”, in cui la mamma canta al bimbo: cresci in fretta, vendica tuo padre…   

Come può nascere il pentimento, in un sistema tanto chiuso? Per queste donne, la collaborazione con la giustizia è un atto d’amore verso i figli, per i quali desiderano un futuro di scelte libere: che i ragazzi non diventino soldati della cosca e che le ragazze non sposino un mafioso, com’è toccato a loro. Spesso si affacciano al mondo attraverso i social network: sebbene allevate secondo modelli obsoleti, per aprire i loro orizzonti basta un clic, e la ‘ndrangheta non può controllarlo. A volte intraprendono relazioni in rete e, per la prima volta a 30 anni, sono corteggiate non come le figlie del boss ma come donne qualunque. È comprensibile che esplodano emotivamente

Com’è la vita di una donna di mafia in Calabria? Le collaboratrici dicono che, di norma, a 13 anni si viene spinte al matrimonio per rinsaldare alleanze mafiose e a 14 si ha il primo figlio. In quella subcultura la donna è un patrimonio, strumento di alleanze. I bambini maneggiano coltelli già a 12 anni, e a 14 la pistola. Ma una donna mandava il figlio all’oratorio contro il volere del marito, dimostrando che una madre può recidere il laccio mafioso. Quel bimbo, oggi, vuole diventare carabiniere.

Perché Giuseppina Pesce s’è fidata proprio di Alessandra Cerreti? Un magistrato donna può abbattere la barriera del pudore, che in loro è forte. Una volta, con un collega, interrogai una donna reticente sulla sua relazione extraconiugale. Lei mi chiamò in disparte dicendo: “Mi vergogno perché c’è un giudice uomo. Se vuole lo dico a lei”. 

Solo con l’omicidio Fortugno nel 2005 e la strage di Duisburg nel 2007 si sono accesi i riflettori sulla ‘ndrangheta. Come mai tanto ritardo? La Calabria ha subito un desolante silenzio informativo. Le testate nazionali non hanno una sede qui e gli eventi criminali, tranne quelli eclatanti, sono ridotti a beghe calabresi. Ma le recenti inchieste, prima fra tutte Crimine, condotta in coordinamento tra la nostra procura e quella di Milano, hanno dimostrato che la ‘ndrangheta non è un’accozzaglia di bande bensì una mafia tra le più potenti al mondo, con il cuore e il cervello in provincia di Reggio e ramificazioni ovunque. Ha una struttura unitaria, articolata nei tre mandamenti tirrenico, jonico e Reggio città, e coniuga riti tribali e modernità: un altro suo punto di forza. I figli dei boss oggi studiano all’università, sono professionisti. E se prima era il politico a chiedere voti al boss, oggi i boss cercano di far eleggere i propri uomini.

Lei ha iniziato la carriera a Milano, per poi venire a Reggio. Scelta o caso? Una scelta, un atto doveroso: volevo stare in prima linea nel mio Sud. Sono arrivata qui il 20 gennaio 2010, durante la stagione delle bombe alla procura di Reggio, ma anche nel pieno di un nuovo impulso investigativo: l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Michele Prestipino avevano compreso che, per sconfiggere una ‘ndrangheta che è una e forte, le forze dell’ordine e le procure devono fare squadra. I risultati sono evidenti: 2.297 arresti e oltre due miliardi di euro di beni sequestrati in soli 4 anni.

Quali i prossimi passi? Nel maxiprocesso a Cosa Nostra, i giudici Falcone e Borsellino ottennero una sentenza definitiva che dimostrava che la mafia esiste. In Calabria non abbiamo una sentenza analoga: in ogni processo dobbiamo dimostrare prima l’esistenza della ‘ndrangheta e poi l’appartenenza del singolo imputato. Un lavoro immane. Se la sentenza Crimine diverrà definitiva, il panorama giudiziario cambierà. E se pensa che la ‘ndrangheta è stata inserita tra le associazioni mafiose solo nel 2010, capirà quanto ancora ci sia da fare.  Da Io donna, 13 ottobre 2012


ALESSANDRA CERRETI   “La ‘ndrangheta esiste, che fatica dimostrarlo ogni volta”  “Per condannare un imputato dobbiamo sempre provare che la mafia calabrese è attiva” dice il pubblico ministero. E per “inchiodare” i padrini punta sulle donne Prima di lei nessuna donna di ’ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a un magistrato. Ma Giuseppina Pesce, 33 anni da Rosarno, figlia di un boss e imputata per associazione mafiosa, ha guardato negli occhi i suoi figli e ha intravisto per loro un futuro diverso. A rischio della propria vita. Di fronte a lei un’altra donna: Alessandra Cerreti, siciliana di Messina, pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Che ascolta Giuseppina e porta alla sbarra, nell’inchiesta “All Inside”, 76 persone, tra capi e gregari, della feroce cosca Pesce, di cui 11 già condannati in primo grado. Cerreti seguiva anche il tragico caso di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta suicida il 20 agosto 2011. Con la magistrata tentiamo un ritratto delle donne di ’ndrangheta, una holding criminale dal fatturato annuo di 44 miliardi di euro.

Perché il pentimento di Giuseppina Pesce segna una rottura? Nella ’ndrangheta, la famiglia mafiosa spesso coincide con quella di sangue, il che complica il percorso collaborativo e ha generato il falso mito dell’invincibilità della ’ndrangheta. Le collaborazioni al femminile dimostrano che le donne possono ribellarsi alla cultura maschilista della mafia calabrese, intaccandone il prestigio criminale. 

Anche il loro ruolo subalterno nella cosca è un falso mito? Certo. Quando gli uomini sono detenuti, le donne portano le “ambasciate” nei colloqui in carcere, garantendo la prosecuzione dell’attività criminale. Sono cassiere della cosca o intestatarie fittizie e trasmettono ai figli il vincolo mafioso. Esiste persino la “ninna nanna du malandrineddu”, in cui la mamma canta al bimbo: cresci in fretta, vendica tuo padre… 

Come può nascere il pentimento, in un sistema tanto chiuso?  Per queste donne la collaborazione con la giustizia è un atto d’amore verso i figli, per i quali desiderano un futuro di scelte libere: che i ragazzi non diventino soldati della cosca e che le ragazze non sposino un mafioso, com’è toccato a loro. Spesso si affacciano al mondo attraverso i social network: per aprire gli orizzonti basta un clic e la ’ndrangheta non può controllarlo. A volte intraprendono relazioni in rete e per la prima volta, magari a 30 anni, sono corteggiate non come figlie del boss ma come donne. Comprensibile che esplodano emotivamente. di Emanuela Zuccalà – 09 ottobre 2012 IO DONNA


La ribellione delle donne raccontata da un pm Le donne che si ribellano alle mafie lo fanno per «amore per i propri figli» e dalla voglia di «restituire a loro un futuro». È questa l’analisi fatta… Le donne che si ribellano alle mafie lo fanno per «amore per i propri figli» e dalla voglia di «restituire a loro un futuro». È questa l’analisi fatta dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, nel corso del Festival Trame.4 in corso a Lamezia Terme. Il pubblico ministero Cerreti ha rappresentato l’accusa in molti processi contro le cosche della ‘ndrangheta dell’area della Piana di Gioia Tauro ed ha raccolto la testimonianza di alcune collaboratrici di giustizia che hanno deciso di ribellarsi alle cosche. Tra le principali c’è Giuseppina Pesce che, con la sua collaborazione, ha consentito di smantellare una delle più potenti cosche calabresi. Durante il festival Trame.4 questa sera è stato presentato il libro “Donne di mafia. Donne contro la mafia”, scritto da Francesca Incandela, insegnate di italiano e storia nelle scuole superiori. «La forza delle donne – ha detto Alessandra Cerreti – nel ribellarsi alla mafia arriva dall’amore per i propri figli, dalla voglia di restituire ad essi un futuro. Sono un magistrato e con la mia professione non opero contro qualcosa ma a favore della giustizia». Francesca Incandela ha affermato che la «donna di mafia vive una crisi d’identità, abituata al codice dell’omertà, oggi lo viola cercando il suo posto in una società inadeguata. Vivo la lotta alla mafia cercando di essere protagonista con la mia associazione contro le velate minacce, l’omertà, dialogando con giovani uomini e donne ed insegnando loro a non abbassare la testa». CORRIERE DELLA CALABRIA 18.6.2014


DONNE CONTRO LA ‘NDRANGHETA, PARLA IL PROCURATORE DI REGGIO ALESSANDRA CERRETI   “Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”: così Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria, ha aperto il suo intervento nella serata conclusiva degli incontri antimafia organizzati dal Collegio S. Caterina di Pavia, dal titolo “La forza espansiva della ‘ndrangheta”. Il procuratore ha ricordato Lea Garofalo e Giuseppina Pesce; è intervenuta poi anche la direttrice di Fimmina Tv.

Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”: così Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria, ha aperto il suo intervento nella serata conclusiva degli incontri antimafia organizzati dal Collegio S. Caterina di Pavia, dal titolo “La forza espansiva della ‘ndrangheta”.“Quando sono arrivata alla DDA di Reggio Calabria – ha spiegato il procuratore – mi è stato detto che le donne all’interno delle cosche mafiose non contavano nulla. Ma io, fin da subito, ci credevo poco. Infatti, ha raccontato la Cerreti, le intercettazioni utilizzate dalla procura nelle indagini hanno rilevato una componente femminile fondamentale nelle associazioni di ‘ndrangheta, e già nel 1882 due donne furono condannate perché affiliate, anzi “punciute”.

Donne di ndrangheta, e donne che si ribellano. Sempre di più – Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale soprattutto nel portare messaggi dei familiari dal carcere al mondo esterno, ma soprattutto, purtroppo, nell’insegnare la cultura e i valori mafiosi ai loro figliMa negli ultimi anni le donne sono sempre più in prima linea contro la ‘ndrangheta, ribellandosi a questo meccanismo socio-culturale e criminale. A questo proposito, il procuratore ha ricordato naturalmente il sacrificio di Lea Garofalo, e ha espresso tutto il suo rimpianto per non aver protetto forse abbastanza la collaboratrice di giustizia che è stata  raggiunta e uccisa a Milano dal marito – aguzzino. La Cerreti ha raccontato poi una storia positiva, quella di Giuseppina Pesce, giovane mamma calabrese che, grazie alla sua testimonianza, ha permesso l’arresto dei familiari e il sequestro di beni per 224 milioni di euro. E forse sta riuscendo, finalmente, a ritrovare la libertà.

Le fimmine ribelli – Dopo il procuratore di Reggio, è intervenuta nel dibattito Raffaella Rinaldis, direttrice dell’emittente calabrese Fimmina TV, che ha raccontato come le sue trasmissioni cerchino di mostrare un’alternativa di giustizia ai giovani calabresi facendo parlare sempre più le donne: un modo per ribaltare quel processo di trasmissione di cultura mafiosa in cui le stesse donne di ‘ndrangheta sono state protagoniste nel silenzio. Di questi temi si è occupato anche Trame. Festival dei libri sulle mafie, che si è svolto a Lamezia Terme nel giugno scorso con la collaborazione dell’Associazione Antiracket di Lamezia e dell’Associazione italiana editori. E, a proposito, di donne che si ribellano alla ‘ndrangheta, non possiamo non ricordare Anna Maria Scarfò, minacciata e isolata dalla sua comunità a San Martino di Taurianova per aver denunciato un branco di ragazzi del paese affiliati alle cosche che l’avevano violentata ripetutamente per tre anni, da quando ne aveva tredici. Poche settimane fa gli stupratori cono stati condannati in secondo grado per violenza sessuale di gruppo. Claudia Borgia 18/11/2013

 

 

Biblioteca Borsellino, il pm antimafia Cerreti “sommerso” dalle domande degli studenti