LIBERI DI SCEGLIERE, un futuro diverso per madri e figli che dicono no alla mafia


ALESSANDRA CERRETI – Sostituto Procuratore Direzione Distrettuale Antimafia
 

Liberi di scegliere

Un progetto, una rete di supporto alle donne e ai minori che si allontanano dai contesti mafiosi. “
Assicurare una concreta alternativa di vita ai soggetti minorenni provenienti da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata o che siano vittime della violenza mafiosa e ai familiari che si dissociano dalle logiche criminali.”


24.8.2023 – Le donne sono centrali nelle organizzazioni criminali. Quelle che decidono di allontanarsene spesso non sanno a chi rivolgersi. Perciò esiste un protocollo per proteggerle e sostenerle, senza necessità che collaborino. La testimonianza della magistrata Alessandra Cerreti.
La mafia non è stata sconfitta. Le donne continuano a rivestire ruoli centrali nelle organizzazioni criminali e chi decide di non farne parte o di voler abbandonare la famiglia mafiosa, di smettere di essere schiava, di essere minacciata e obbligata a far rispettare i codici malavitosi e spesso a compiere reati a sua volta, non sempre sa a chi rivolgersi.

 

Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, è una donna impegnata in prima linea da anni anche con il protocollo “Liberi di scegliere”, un progetto che assicura alle donne e ai minori abusati una concreta e diversa scelta di vita.

«Funziona: il protocollo è operativo dal 2013 e sinora al Sud si sono verificati più di ottanta casi in cui è stato adottato con esiti prevalentemente positivi.
È meno noto al Nord, anche se a Milano lo abbiamo già applicato a una donna coniugata con un appartenente a Cosa Nostra siciliana.
Se ne parla poco, perché, in generale, si parla meno di mafia, soprattutto al Nord.
Il binomio donne e mafia è considerato un sub-tema.

Tuttavia, queste ultime non sono sparite: anche nel Milanese, le nostre indagini rilevano vari ruoli delle donne che possono anche essere apicali».
Sono spietate, vendicatrici, vengono reclutate da altri settori criminali, diventano prestanomi e, una volta accertata la loro fedeltà, ambiscono a ottenere un upgrade: diventare un capo mafia.
Al Nord le associazioni mafiose operano con modalità a volte differenti: la cellula mafiosa può essere composta da non appartenenti alla famiglia naturale, cosa più insolita nel meridione d’Italia.
Hanno più bisogno di trovare soggetti esterni e li individuano in donne dedite al narcotraffico, all’estorsione, alla raccolta dei soldi, con un ruolo di controllo e di disciplina degli adepti.
Vengono informalmente affiliate senza bisogno di rituali, con un’investitura di fatto».
Molte donne che hanno deciso di pentirsi o di diventare testimoni di giustizia lo fanno per proteggere i propri figli da un destino già scritto, ma i figli vengono anche utilizzati come ricatto da parte della famiglia per impedire alle madri di allontanarsi, di testimoniare.
È l’aspetto più debole, ma al contempo può diventare una forza «perché genera quel desiderio di staccarsi per dare loro un futuro di libertà.
Proprio a questo mira il protocollo: un passo in avanti rispetto all’ordinaria protezione dello Stato prevista per collaboratrici e testimoni di giustizia.
Aiuta una donna ad andare via anche senza dover dichiarare nulla.
Questa è la differenza eccezionale: la proteggeremo anche se non sa nulla o se non vuole parlare.
La donna e il minore verranno protetti in una struttura, che li accoglierà con il prezioso supporto di “Libera contro le mafie”, con i medici, gli psicologi, gli insegnanti».
I minori spesso sono in pericolo: subiscono un indottrinamento sui valori mafiosi, vengono utilizzati per recapitare ambasciate al papà latitante e ricevono una contro-educazione senza conoscere un’alternativa.
I rapporti tra la famiglia d’origine e il minore saranno ugualmente garantiti, ma protetti, come con i genitori che abusano o maltrattano e, a diciotto anni, una volta acquisiti strumenti culturali adeguati e non più crescendo in una bolla, potranno scegliere con libertà e maggiore consapevolezza.  L’ESPRESSO 


ALESSANDRA CERRETI, LA PM CHE ASCOLTO’ GIUSEPPINA PESCE  

 

Prima di lei, nessuna donna di ‘ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a un magistrato. Ma Giuseppina Pesce, 33 anni da Rosarno, figlia di un boss e imputata per associazione mafiosa, ha guardato negli occhi i suoi figli e ha intravisto per loro un futuro diverso. A rischio della propria vita.
Di fronte a lei un’altra donna: Alessandra Cerreti, siciliana di Messina, pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Che ascolta Giuseppina e porta alla sbarra, nell’inchiesta All Inside, 76 capi e gregari della feroce cosca Pesce, di cui 11 già condannati in primo grado.
Cerreti seguiva anche il tragico caso di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta suicida il 20 agosto 2011. Con la magistrata, tentiamo un ritratto delle donne di ‘ndrangheta, una holding criminale dal fatturato annuo di 44 miliardi di euro.
Perché il pentimento di Giuseppina Pesce segna una rottura? Nella ‘ndrangheta, la famiglia mafiosa spesso coincide con quella di sangue, il che complica il percorso collaborativo e ha generato il falso mito dell’invincibilità della ‘ndrangheta. Le collaborazioni al femminile sono eccezionali sul piano sociale, prima che giudiziario: dimostrano che le donne possono ribellarsi alla cultura maschilista della mafia calabrese, intaccandone il prestigio criminale.    
Anche il loro ruolo subalterno nella cosca è un falso mito? 
Certo. Quando gli uomini sono detenuti, le donne portano le “ambasciate” nei colloqui in carcere, garantendo la prosecuzione dell’attività criminale. Sono cassiere della cosca o intestatarie fittizie, e trasmettono ai figli il vincolo mafioso. Esiste persino la “ninna nanna du malandrineddu”, in cui la mamma canta al bimbo: cresci in fretta, vendica tuo padre…   
Come può nascere il pentimento, in un sistema tanto chiuso? 
Per queste donne, la collaborazione con la giustizia è un atto d’amore verso i figli, per i quali desiderano un futuro di scelte libere: che i ragazzi non diventino soldati della cosca e che le ragazze non sposino un mafioso, com’è toccato a loro. Spesso si affacciano al mondo attraverso i social network: sebbene allevate secondo modelli obsoleti, per aprire i loro orizzonti basta un clic, e la ‘ndrangheta non può controllarlo. A volte intraprendono relazioni in rete e, per la prima volta a 30 anni, sono corteggiate non come le figlie del boss ma come donne qualunque. È comprensibile che esplodano emotivamente
Com’è la vita di una donna di mafia in Calabria?
Le collaboratrici dicono che, di norma, a 13 anni si viene spinte al matrimonio per rinsaldare alleanze mafiose e a 14 si ha il primo figlio. In quella subcultura la donna è un patrimonio, strumento di alleanze. I bambini maneggiano coltelli già a 12 anni, e a 14 la pistola. Ma una donna mandava il figlio all’oratorio contro il volere del marito, dimostrando che una madre può recidere il laccio mafioso. Quel bimbo, oggi, vuole diventare carabiniere.
Perché Giuseppina Pesce s’è fidata proprio di Alessandra Cerreti?
Un magistrato donna può abbattere la barriera del pudore, che in loro è forte. Una volta, con un collega, interrogai una donna reticente sulla sua relazione extraconiugale. Lei mi chiamò in disparte dicendo: “Mi vergogno perché c’è un giudice uomo. Se vuole lo dico a lei”.
Solo con l’omicidio Fortugno nel 2005 e la strage di Duisburg nel 2007 si sono accesi i riflettori sulla ‘ndrangheta. Come mai tanto ritardo? La Calabria ha subito un desolante silenzio informativo.
Le testate nazionali non hanno una sede qui e gli eventi criminali, tranne quelli eclatanti, sono ridotti a beghe calabresi.
Ma le recenti inchieste, prima fra tutte Crimine, condotta in coordinamento tra la nostra procura e quella di Milano, hanno dimostrato che la ‘ndrangheta non è un’accozzaglia di bande bensì una mafia tra le più potenti al mondo, con il cuore e il cervello in provincia di Reggio e ramificazioni ovunque.
Ha una struttura unitaria, articolata nei tre mandamenti tirrenico, jonico e Reggio città, e coniuga riti tribali e modernità: un altro suo punto di forza. I figli dei boss oggi studiano all’università, sono professionisti. E se prima era il politico a chiedere voti al boss, oggi i boss cercano di far eleggere i propri uomini.
Lei ha iniziato la carriera a Milano, per poi venire a Reggio. Scelta o caso?
Una scelta, un atto doveroso: volevo stare in prima linea nel mio Sud. Sono arrivata qui il 20 gennaio 2010, durante la stagione delle bombe alla procura di Reggio, ma anche nel pieno di un nuovo impulso investigativo: l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Michele Prestipino avevano compreso che, per sconfiggere una ‘ndrangheta che è una e forte, le forze dell’ordine e le procure devono fare squadra. I risultati sono evidenti: 2.297 arresti e oltre due miliardi di euro di beni sequestrati in soli 4 anni.
Quali i prossimi passi?
Nel maxiprocesso a Cosa Nostra, i giudici Falcone e Borsellino ottennero una sentenza definitiva che dimostrava che la mafia esiste. In Calabria non abbiamo una sentenza analoga: in ogni processo dobbiamo dimostrare prima l’esistenza della ‘ndrangheta e poi l’appartenenza del singolo imputato. Un lavoro immane. Se la sentenza Crimine diverrà definitiva, il panorama giudiziario cambierà. E se pensa che la ‘ndrangheta è stata inserita tra le associazioni mafiose solo nel 2010, capirà quanto ancora ci sia da fare.  Io donna, 13 ottobre 2012


ALESSANDRA CERRETI   “La ‘ndrangheta esiste, che fatica dimostrarlo ogni volta”  

 

“Per condannare un imputato dobbiamo sempre provare che la mafia calabrese è attiva” dice il pubblico ministero. E per “inchiodare” i padrini punta sulle donne Prima di lei nessuna donna di ’ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a un magistrato.
Ma Giuseppina Pesce, 33 anni da Rosarno, figlia di un boss e imputata per associazione mafiosa, ha guardato negli occhi i suoi figli e ha intravisto per loro un futuro diverso.
A rischio della propria vita. Di fronte a lei un’altra donna: Alessandra Cerreti, siciliana di Messina, pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Che ascolta Giuseppina e porta alla sbarra, nell’inchiesta “All Inside”, 76 persone, tra capi e gregari, della feroce cosca Pesce, di cui 11 già condannati in primo grado. Cerreti seguiva anche il tragico caso di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta suicida il 20 agosto 2011. Con la magistrata tentiamo un ritratto delle donne di ’ndrangheta, una holding criminale dal fatturato annuo di 44 miliardi di euro.
Perché il pentimento di Giuseppina Pesce segna una rottura?
Nella ’ndrangheta, la famiglia mafiosa spesso coincide con quella di sangue, il che complica il percorso collaborativo e ha generato il falso mito dell’invincibilità della ’ndrangheta. Le collaborazioni al femminile dimostrano che le donne possono ribellarsi alla cultura maschilista della mafia calabrese, intaccandone il prestigio criminale.
Anche il loro ruolo subalterno nella cosca è un falso mito? Certo. Quando gli uomini sono detenuti, le donne portano le “ambasciate” nei colloqui in carcere, garantendo la prosecuzione dell’attività criminale. Sono cassiere della cosca o intestatarie fittizie e trasmettono ai figli il vincolo mafioso. Esiste persino la “ninna nanna du malandrineddu”, in cui la mamma canta al bimbo: cresci in fretta, vendica tuo padre…
Come può nascere il pentimento, in un sistema tanto chiuso?  
Per queste donne la collaborazione con la giustizia è un atto d’amore verso i figli, per i quali desiderano un futuro di scelte libere: che i ragazzi non diventino soldati della cosca e che le ragazze non sposino un mafioso, com’è toccato a loro. Spesso si affacciano al mondo attraverso i social network: per aprire gli orizzonti basta un clic e la ’ndrangheta non può controllarlo. A volte intraprendono relazioni in rete e per la prima volta, magari a 30 anni, sono corteggiate non come figlie del boss ma come donne. Comprensibile che esplodano emotivamente. di Emanuela Zuccalà – 09 ottobre 2012 IO DONNA


La ribellione delle donne raccontata da un pm Le donne che si ribellano alle mafie lo fanno per «amore per i propri figli» e dalla voglia di «restituire a loro un futuro».

 

È questa l’analisi fatta… Le donne che si ribellano alle mafie lo fanno per «amore per i propri figli» e dalla voglia di «restituire a loro un futuro». È questa l’analisi fatta dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, nel corso del Festival Trame.4 in corso a Lamezia Terme. Il pubblico ministero Cerreti ha rappresentato l’accusa in molti processi contro le cosche della ‘ndrangheta dell’area della Piana di Gioia Tauro ed ha raccolto la testimonianza di alcune collaboratrici di giustizia che hanno deciso di ribellarsi alle cosche.
Tra le principali c’è Giuseppina Pesce che, con la sua collaborazione, ha consentito di smantellare una delle più potenti cosche calabresi. Durante il festival Trame.4 questa sera è stato presentato il libro “Donne di mafia.
Donne contro la mafia”, scritto da Francesca Incandela, insegnate di italiano e storia nelle scuole superiori. «La forza delle donne – ha detto Alessandra Cerreti – nel ribellarsi alla mafia arriva dall’amore per i propri figli, dalla voglia di restituire ad essi un futuro. Sono un magistrato e con la mia professione non opero contro qualcosa ma a favore della giustizia». Francesca Incandela ha affermato che la «donna di mafia vive una crisi d’identità, abituata al codice dell’omertà, oggi lo viola cercando il suo posto in una società inadeguata. Vivo la lotta alla mafia cercando di essere protagonista con la mia associazione contro le velate minacce, l’omertà, dialogando con giovani uomini e donne ed insegnando loro a non abbassare la testa». CORRIERE DELLA CALABRIA 18.6.2014


DONNE CONTRO LA ‘NDRANGHETA, PARLA IL PROCURATORE DI REGGIO ALESSANDRA CERRETI   

“Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”: così Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria, ha aperto il suo intervento nella serata conclusiva degli incontri antimafia organizzati dal Collegio S. Caterina di Pavia, dal titolo “La forza espansiva della ‘ndrangheta”. Il procuratore ha ricordato Lea Garofalo e Giuseppina Pesce; è intervenuta poi anche la direttrice di Fimmina Tv.
“Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”: così Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria, ha aperto il suo intervento nella serata conclusiva degli incontri antimafia organizzati dal Collegio S. Caterina di Pavia, dal titolo “La forza espansiva della ‘ndrangheta”.“Quando sono arrivata alla DDA di Reggio Calabria – ha spiegato il procuratore – mi è stato detto che le donne all’interno delle cosche mafiose non contavano nulla. Ma io, fin da subito, ci credevo poco”. Infatti, ha raccontato la Cerreti, le intercettazioni utilizzate dalla procura nelle indagini hanno rilevato una componente femminile fondamentale nelle associazioni di ‘ndrangheta, e già nel 1882 due donne furono condannate perché affiliate, anzi “punciute”.
Donne di ndrangheta, e donne che si ribellano. Sempre di più – Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale soprattutto nel portare messaggi dei familiari dal carcere al mondo esterno, ma soprattutto, purtroppo, nell’insegnare la cultura e i valori mafiosi ai loro figli. Ma negli ultimi anni le donne sono sempre più in prima linea contro la ‘ndrangheta, ribellandosi a questo meccanismo socio-culturale e criminale.
A questo proposito, il procuratore ha ricordato naturalmente il sacrificio di Lea Garofalo, e ha espresso tutto il suo rimpianto per non aver protetto forse abbastanza la collaboratrice di giustizia che è stata  raggiunta e uccisa a Milano dal marito – aguzzino. La Cerreti ha raccontato poi una storia positiva, quella di Giuseppina Pesce, giovane mamma calabrese che, grazie alla sua testimonianza, ha permesso l’arresto dei familiari e il sequestro di beni per 224 milioni di euro. E forse sta riuscendo, finalmente, a ritrovare la libertà.
Le fimmine ribelli – Dopo il procuratore di Reggio, è intervenuta nel dibattito Raffaella Rinaldis, direttrice dell’emittente calabrese Fimmina TV, che ha raccontato come le sue trasmissioni cerchino di mostrare un’alternativa di giustizia ai giovani calabresi facendo parlare sempre più le donne: un modo per ribaltare quel processo di trasmissione di cultura mafiosa in cui le stesse donne di ‘ndrangheta sono state protagoniste nel silenzio.
Di questi temi si è occupato anche Trame. Festival dei libri sulle mafie, che si è svolto a Lamezia Terme nel giugno scorso con la collaborazione dell’Associazione Antiracket di Lamezia e dell’Associazione italiana editori. E, a proposito, di donne che si ribellano alla ‘ndrangheta, non possiamo non ricordare Anna Maria Scarfò, minacciata e isolata dalla sua comunità a San Martino di Taurianova per aver denunciato un branco di ragazzi del paese affiliati alle cosche che l’avevano violentata ripetutamente per tre anni, da quando ne aveva tredici. Poche settimane fa gli stupratori cono stati condannati in secondo grado per violenza sessuale di gruppo. Claudia Borgia 18/11/2013


Liberi di scegliere Un progetto, una rete di supporto alle donne e ai minori che si allontanano dai contesti mafiosi

 

“Assicurare una concreta alternativa di vita ai soggetti minorenni provenienti da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata o che siano vittime della violenza mafiosa e ai familiari che si dissociano dalle logiche criminali.”Da qualche anno, su impulso del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, ha preso avvio un’azione di raccordo delle componenti istituzionali e sociali che si occupano a vario titolo della tutela dei minori attraverso  “Liberi di scegliere”. Il progetto nasce con l’obiettivo di aiutare i giovani che vivono in contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso ad affrancarsi da tali logiche che vincolano i membri più piccoli di famiglie mafiose ad un progetto di vita di tipo criminale. Ma al contempo si è rivelato una grande opportunitàanche per quegli adulti, in particolare donne e madri, che si ritrovano in una situazione familiare e relazionale mafiosa contro la loro volontà o, dopo aver pagato il loro debito con la società, ritengono che quello mafioso non può più essere il contesto dove continuare a vivere e far crescere i propri figli.
Nel concreto si prende in considerazione la possibilità dell’allontanamento dei minori dalle rispettive famiglie ed eventualmente la fattibilità di assicurare una reale alternativa ai familiari che si dissociano dalle logiche criminali, prevedendo lo spostamento temporaneo in altre regioni d’Italia. In questi anni abbiamo seguito 49 situazioni – persone singole e nuclei familiari – più di 120 persone. Attualmente sono 24 le situazioni che, in modi diversificati, accompagniamo: una cinquantina di persone, delle quali una decina i nuclei familiari e alcune coppie di fratelli.

Nasce come protocollo interministeriale e vede l’attiva partecipazione della società civile. Nell’ultima versione del 31 luglio 2020 a sottoscriverlo sono: Ministero della giustizia, Ministero dell’interno, Ministero dell’istruzione, Ministero dell’università e della ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministro per le pari opportunità e la famiglia, Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Conferenza Episcopale Italiana, Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Libera. Associazioni, Nomi e Numeri contro le Mafie .
Per Libera che già da anni si occupava di questi temi, il Protocollo è stato, oltre che un gran lavoro, anche la formale legittimazione ad una azione di grande responsabilità civile che già da tempo veniva portando avanti. Da anni le stesse persone che integrano realtà istituzionali chiedono una mano alla nostra Associazione, per alcune delicate situazioni di sicurezza personale, che riguardano minori o adulti. Spesso ci si è trovati, e ci si trova, nell’urgenza di aiutare una persona o un nucleo familiare, a cambiare ambiente perché la loro casa, la loro città non sono più luoghi sicuri. Importante è tenere in considerazione che attualmente le persone, minorenni o adulti pur volendosi dissociare allontanandosi dall’ambiente criminale di origine, non possono essere tutelate in modo congruo dallo Stato in quanto non appartengono alla figura giuridica, attualmente prevista, del “collaboratore di giustizia” o del “testimone di giustizia”.
Allontanati contemporaneamente dal loro territorio e dai rispettivi contesti familiari, questi ragazzi hanno la possibilità di sperimentare orizzonti culturali, sociali, affettivi, psicologici diversi arricchendo la propria vita di esperienze caratterizzate da sana e grande vitalità. Allo stesso tempo tale progettualità permette agli operatori della giustizia minorile, assistenti sociali, psicologi, famiglie affidatarie e comunità, di lavorare liberi dalle pressioni ambientali del contesto di origine.
L’obiettivo del progetto non è indottrinare, ma semplicemente dimostrare a questi ragazzi, per un periodo di tempo, che fuori dagli spazi chiusi delle proprie case esiste un altro mondo, un’alternativa allo stile di vita che hanno conosciuto sino a quel momento… Non si chiede loro di rinnegare i padri e le madri, ma di offrire la possibilità a sé stessi di porsi la domanda: “davvero io voglio il futuro – questo futuro criminale – che la mia famiglia ha già scelto per me?”.
Un conto i reati, altro conte chi sbaglia. Il contrasto alla criminalità organizzata passa per una cultura della legalità democratica, della responsabilità, della giustizia e del rispetto alla dignità delle persone. Via via sempre più consapevoli che le prime vittime dei criminali sono gli stessi propri famigliari, il nostro contributo ha sempre voluto distinguere tra l’azione criminale e il soggetto che la compie. La tesi da cui partiamo infatti è che tra questi soggetti criminali, siamo certi, moltissimi, avessero sperimentato contesti differenti avrebbero esercitato con maggior decisione la loro libertà di scegliere: scegliendo azioni alternative a quelle criminali. Non è un percorso senza difficoltà, tuttavia, la cura dedicata a ogni singolo percorso, l’assenza di automatismi e di freddezze burocratiche, resi possibili in molte occasioni da una buona collaborazione tra istituzioni e società civile, porta anche a risultati inaspettati.
Contrasto efficace alla cultura mafiosa. Liberi di Scegliere si è rivelato da subito uno strumento potente di contrasto alla cultura mafiosa: fin dai primi momenti sono state le madri dei ragazzi, mogli dei boss mafiosi, a comprendere che ciò che offriva il Progetto era una reale possibilità sia per i loro figli come pure per loro stesse. Nasce così un capitolo inaspettato e ricco di conseguenze, dove si intuisce che l’adesione delle donne di mafia a questo Progetto, oltre che a portarle a scrivere pagine di vita nuova nelle loro storie personali, porta ad incrinare quella monolitica realtà familiare che costituisce uno dei punti di forza della cultura mafiosa.
Ruolo della Società Civile. Le Istituzioni pubbliche anche quelle giudiziarie, pur con tanti limiti dovuti a prassi difficili da scalfire, sono sollecitate a mettere in gioco, in questo progetto, necessarie e indispensabili condizioni affinché un ragazzo possa sperimentare una possibilità differente di guardare e di ripensare la propria vita. Ma abbiamo constatato che la differenza, per un esito positivo, viene fatta dal coinvolgimento della società civile, “persone comuni” che nella quotidianità fanno percepire che è possibile ricominciare, che condividono i tanti timori e le gioie dei piccoli passi verso una maggior autonomia di pensiero e di scelte. Presenze amicali che condividono la fatica della scuola o del primo inserimento lavorativo, presenza di associazioni o gruppi di persone disposti ad accompagnare con empatia ed umanità questi percorsi di nuovo inizio, presenze amicali che sono determinanti affinché i ragazzi e gli adulti, coinvolti nel Progetto, possano attingere a quelle risorse di umanità e di libertà a lungo nascoste dentro di se.   
Nuove prospettive. Offrire la possibilità, a persone che sono condizionate dalla cultura criminale mafiosa, di scegliere se cambiare vita: è questo un progetto che per noi ha un sogno implicito, quello che Istituzioni, Società Civile, e le nostre stesse comunità, si chiedano la concreta disponibilità di favorire il futuro di un nuovo paese. Costruire insieme un paese dove le Istituzioni e la Società Civile, ciascuno secondo le proprie responsabilità, offrono una alternativa concreta ed efficace perché dei ragazzi e delle ragazze possano scegliere, lontano da condizionamenti criminali, guardando con speranza al futuro della loro vita. Tutto ciò significa togliere la motivazione che spesso porta molti giovani a delinquere, perché non sono state presentate a loro delle alternative concrete. LIBERA

 

ALESSANDRA CERRETI, pm antimafia