Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. PAOLO BORSELLINO
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Mafia e politica – Commissione Parlmentare Antimafia 6.4.1993
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IL RAPPORTO FRA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA E GOVERNI LOCALI
Mafia e politica tra fascismo e postfascismo
IL RAPPORTO “AMMINISTRATORI SOTTO TIRO”. AVVISO PUBBLICO: FARE IL SINDACO È ANCORA UN MESTIERE PERICOLOSO
Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia [… ]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! [… ] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto! PAOLO BORSELLINO
Il boss, prima di essere interrogato e rivelare i segreti di Cosa Nostra lo aveva avvertito: “Ti distruggeranno professionalmente e poi…”
La profezia del pentito Buscetta Tre anni fa il primo tentativo di ammazzare Giovanni Falcone Se c’era una parola, un’accusa che lo feriva era quella parola e quell’accusa che ha dovuto leggere sui giornali, che è risuonata nei convegni, che gli rotolava alle spalle – alle spalle, mai sulla faccia – di essere ormai “andato”, di essersi “piegato”, di essere ormai – né più né meno – un “reggicoda” del potere politico che voleva – né più né meno – strozzare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che voleva – né più né meno – impedire allo Stato di recidere il legame doppio tra mafia e politica.
Erano parole, era un’accusa che aveva dovuto leggere e sentire – alle spalle, mai sulla faccia – dal 13 marzo 1991 quando aveva accettato di diventare direttore degli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia. Gli avevano impedito di essere consigliere istruttore (gli avevano preferito per “anzianità” Antonino Meli), avevano distrutto il pool (era diventato un “centro di potere”, avevano detto), avevano smembrato l’inchiesta-collettore su Cosa Nostra (“è un’organizzazione che non ha struttura priramidale”, avevano sentenziato). Lo avevano costretto in un ruolo subalterno alla Procura della Repubblica. Aggiunto procuratore, appunto.
Aveva detto di sì a Roma, allora. Lo aveva detto con la disperazione impotente che hanno i meridionali che sono costretti a partire, a emigrare, a lasciare ciò che si ama, i luoghi della memoria, le “radici antropologiche” diceva lui, per ricominciare altrove il discorso che era stato interrotto e che andava completato.
Giovanni Falcone quando parlava della sua Sicilia, della sua Palermo sceglieva un verso: “Nec tecum nec sine te vivere possum”. E spiegava quella frase con le parole di Leonardo Sciascia, un altro grande siciliano che non sempre gli fu amico: “Amare una terra e una gente al tempo stesso che si detesta, sentirsi somiglianti e diversi, volere e disvolere, bisogna riconoscere che è un bel guaio. In questo guaio viviamo tutti noi siciliani e un guaio non è mai bello. E’ certo più difficile essere siciliani che milanesi. E’ forse per questo faccio il lavoro che faccio. Perchè la mafia non è la Sicilia e il siciliano non è un mafioso”.
Era questa fiducia in se stesso e nella sua terra e nei siciliani che quelle parole, quell’accusa schiacciava. Giovanni Falcone ne era offeso, umiliato, ma non era uomo (era un siciliano, no?) da darlo a vedere più di tanto. Buttava giù il boccone amaro, prendeva tempo (si versava da bere, si guardava intorno), strizzava gli occhi, sorrideva a labbra strette, alzava le spalle con un gesto nervoso e significativo, più eloquente di qualsiasi parola. Se lo conoscevi bene, potevi notare che c’era una piega amara all’angolo della bocca e una luce triste in quegli occhi che, al contrario, erano sempre vivi e luccicanti di ironia, di passione, di eccitazione “perché c’è tanto da fare e bisogna farlo presto e bene”.
Giovanni Falcone, 54 anni, padre funzionario della provincia, madre molto religiosa (della fede sentirà sempre “una nostalgia rispettosa”) si era assegnato un compito. Se l’era assegnato molto tempo fa quando, tra le possibili frasi che sceglie ogni ragazzo per orientare (impregnare) la sua vita, lui aveva scelto una – “un po’retorica” ammetteva – di Giuseppe Mazzini. Era questa. Più o meno. Falcone la ricordava così: “La vita è missione e il suo dovere è la legge suprema”. La missione che s’era scelto era sconfiggere la mafia, annientare Cosa Nostra. “Fin da bambino – ha raccontato a Marcelle Padovani in un libro (Cose di Cosa Nostra) che è ora, tragicamente, il suo testamento spirituale – avevo respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni, assassini. C’erano stati poi i grandi processi che si erano conclusi regolarmente con un nulla di fatto. La mia cultura progressista mi faceva inorridire di fronte alla brutalità, agli attentati, alle aggressioni: guardavo a Cosa Nostra, come all’idra dalle sette teste: qualcosa di magmatico, di onnipresente e invincibile, responsabile di tutti i mali del mondo. Nell’atmosfera di quel tempo respiravo anche una cultura ‘istituzionale’che negava l’esistenza della mafia e respingeva quanto vi faceva riferimento. Cercare di dare un nome al malessere sociale siciliano equivaleva ad arrendersi agli ‘attacchi del Nord’!”.
Invece Cosa Nostra si poteva sconfiggere. Giovanni Falcone lo ripeteva da anni. Ogni volta che era possibile e anche, in anni e in luoghi, dove non era possibile. “Chi ha voglia di capire e ha voglia di lavorare – diceva – può farcela. Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso…”. Mise da parte l’intenzione di iscriversi a medicina, accantonò l’idea di diventare ufficiale di Marina e, laureato in giurisprudenza, a venticinque anni fece il concorso in magistratura. Giovanni Falcone cominciò a farsi le ossa, come diceva, a Trapani.
“La mafia entrò subito nel raggio dei miei interessi professionali – raccontava – Dieci assassini e la mafia di Marsala dietro le sbarre. Mi indicarono un armadio pieno di pratiche, dicendomi: ‘Leggile tutte’. Era il novembre del 1967 e puntuali come un orologio svizzero cominciarono ad arrivarmi cartoline con disegni di bare e di croci. E’ una cosa che tocca gli esordienti e non ne rimasi colpito più di tanto”. Non era facile da Trapani o da Marsala “avere una visione unitaria del fenomeno mafioso”.
Nel 1978 torna a Palermo. Chiese di essere assegnato all’Ufficio istruzione. Lo spediscono al Tribunale fallimentare. Ci resta un anno. Impara a leggere un bilancio, a inseguire i sentieri di un assegno, la discreta presenza di un conto bancario. Impara a orientarsi nei canali finanziari utilizzati da Cosa Nostra per riciclare le ricchezze del narcotraffico. Quando arriva nel pool del consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici, Falcone sa quel che c’è da fare, sa come farlo. E’ in buona compagnia. “Quando Tommaso Buscetta, nel luglio del 1984, ci capita davanti – ricordava – avevamo già quattro anni di lavoro duro alle spalle. Conoscevamo Cosa Nostra nelle sue grandi linee. Ero in grado di capire Buscetta e, quindi, pronto ad interrogarlo”. Prima di Masino Buscetta, lo Stato italiano aveva una conoscenza superficiale del fenomeno mafioso. “Con Buscetta abbiamo avuto finalmente una visione globale del fenomeno, delle sue strutture, delle sue tecniche di reclutamento, delle sue funzioni, del suo linguaggio, del suo codice”.
Fu Buscetta a dirglielo: “L’avverto, signor giudice. Dopo quest’interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E’ sempre del parere di interrogarmi?”.
Quando Falcone raccontava le lunghe ore dell’interrogatorio con Buscetta i suoi occhi si illuminavano come devono essersi illuminati in quel benedetto, maledetto giorno in cui finalmente “si avvicinò sull’orlo del precipizio”, quando gettò uno sguardo oltre l’omertà, oltre quel muro insuperabile che sempre ha protetto Cosa Nostra. Quasi ridevano quegli occhi. Tornavano ad essere entusiasti. Quasi dicevano (e qualche volta arrivava anche a dirlo): “Ormai ho la chiave per capire, sì ho capito, devo avere ora soltanto gli strumenti per avvicinarmi a quella porta, senza fare passi falsi”. Il “passo falso” era la sua ossessione. “Occuparsi di indagini di mafia – diceva – significa procedere su un terreno minato: mai fare un passo prima di essere sicuri di non andare a posare il piede su una mina antiuomo”.
Lo diceva ma non si era accorto che già si era incamminato lungo quel sentiero. Come gli aveva anticipato Buscetta, avevano cominciato ad attaccarlo professionalmente. Doveva essere il successore di Rocco Chinnici (ucciso dal tritolo), il Csm gli preferisce burocraticamente Antonino Meli. Negano il suo intero lavoro istruttorio con disprezzo definito il “teorema Buscetta”, meglio il “teorema Falcone”. Un Corvo lo accusa di aver consegnato licenza d’uccidere al “pentito” Salvatore Contorno. La mafia sistema 50 chili di tritolo sotto la sua casa all’Addaura e nessuno crede all’attentato. C’è chi dice (a Palermo, a Roma): se l’è preparato da solo. Lo accusano di aver “insabbiato” le indagini sui delitti politici. “Corre” per il Csm, lo impallinano i suoi stessi compagni di corrente. Ripiega a Roma, al ministero. Gli dicono che si è inginocchiato al Palazzo.
E’ candidato alla Superprocura. Il Csm lo boccia. Sono gli anni amari di Giovanni Falcone. Aveva gli occhi tristi quando ne parlava. Con orgoglio concludeva: “Alla fine, vedrete, la ragione prevarrà”. Il terreno, invece, era pronto per l’ultimo atto. La mafia doveva solo presentare il conto. Lo ha presentato ieri. Come aveva previsto Buscetta. Come molti, troppi non hanno voluto prevedere. La Repubblica 24 maggio 1992 di GIUSEPPE D’AVANZO
Paolo Borsellino: “Politica dovrebbe fare pulizia di coloro che sono raggiunti da fatti inquietanti, anche se non sono reati”
Il 26 gennaio del 1989, il giudice Paolo Borsellino incontrò gli studenti di Istituto professionale “Remondini” di Bassano del Grappa. Il giudice, nel suo intervento, affrontò i temi che gli stanno più a cuore: la legalità e i rapporti fra mafia e politica
“Sono emerse dalle nostre indagini tutta una serie di rapporti tra esponenti politici e organizzazioni mafiose che nella requisitoria del Maxiprocesso vennero chiamati “contiguità”, cioè delle situazioni di vicinanza o di comunanza di interessi che però non rendevano automaticamente il politico responsabile del delitto di associazione mafiosa. Perché non basta fare la stessa strada per essere una staffetta, la stessa strada si può fare perché in quel momento si trova – almeno da punto di vista strettamente giuridico – si trova conveniente o fare convergere la propria attenzione sullo stesso interesse. Questo non ci ha consentito dal punto di vista giudiziario di formulare imputazioni sui politici, però stiamo attenti, vi è un accertamento rigoroso di carattere giudiziario che si esterna nella sentenza nel provvedimento del giudice e poi successivamente nella condanna, che non risolve tutta la realtà, la complessa realtà sociale. Vi sono oltre ai giudizi del giudice, esistono anche i giudizi politici, cioè le conseguenza, che da certi fatti accertati, trae o dovrebbe trarre il mondo politico. Esistono anche i giudizi disciplinari, un burocrate, un alto burocrate, che ad esempio, dell’amministrazione ha commesso dei favoritismi, potrebbe non aver commesso automaticamente, perché manca qualche elemento del reato, il reato di interesse privato in atto d’Ufficio, ma potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione.
Ora l’equivoco su cui spesso si gioca è questo, si dice: quel politico era vicino al mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire beh ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però siccome dall’indagine sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma erano o rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo “schermo” della sentenza e detto: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia e non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al proprio interno di tutti coloro che sono raggiunti, ovunque, da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato” (Paolo Borsellino – 26 gennaio del 1989)
Borsellino: “La mafia é alternativa allo Stato”
Politica e mafia. Da Nord a Sud si dividono il potere. La storia recente scritta da Falcone e Borsellino lo testimonia. Gli avvenimenti passati e recenti testimoniano un tragico contendersi gli ambiti politici da parte di persone perbene e malavitosi, il cui potere economico si è generato attraverso il crimine. Lo Stato Italiano è stato teatro di contese efferate sorte tra politica e mafia, che ha preteso prepotentemente, con l’ausilio dei propri sconfinati mezzi economici, di sedersi sugli scranni del Parlamento. La storia recente scritta da Falcone e Borsellino lo testimonia. Noi uomini perbene, per i quali la verità è attestata dai fatti, ci chiediamo: “E’ veramente riuscita la mafia ad introdursi nella vita dello Stato italiano o si tratta di un timore fondato certamente sulla constatazione di fenomeni reali e concreti che minacciano la vita delle Istituzioni?” Gli arresti di alcuni malavitosi appartenenti a cosche mafiose, verificatisi negli ultimi mesi in Calabria ed in Sicilia, fanno comprendere che esiste la volontà forte e decisa da parte delle nostre Istituzioni di combattere le organizzazioni criminali o meglio di arginarne gli influssi negli ambiti decisionali. Non vi è dubbio che la partecipazione della mafia alla vita dello stato italiano possa estrinsecarsi in modo indiretto, attraverso favoritismi e clientelismo, ottenuti con tangenti e corruzione (vedi recenti arresti in Lombardia). Non tutto il panorama politico è corruttibile, perché, se così fosse, non vi sarebbe la lotta delle Istituzioni alla mafia e, più genericamente, alla delinquenza che ha fonti economiche smisurate. Possiamo ancora sperare che l’onestà governi la nostra Italia? Certamente, anche se essa deve fare i conti con la disonestà, anche quella più efferata di chi fa del crimine il proprio cavallo di battaglia. Non è, tuttavia, una battaglia impari. L’onestà ha la forza del sapere e dell’intelligenza, in quanto essa vive nell’animo delle menti più eccelse che non hanno bisogno di ricorrere alle strategie orrende del crimine per realizzare i propri obiettivi. E’ vero che il malaffare è scaltro e sa infiltrarsi ovunque, ma è altrettanto vero che esso viene smascherato quando la creatività prende il posto dell’ovvietà, del “così è perché lo decido io che ho potere”. L’economia stessa ha bisogno di menti pensanti e creative e non di strategie del crimine: è questa la speranza che sorregge l’onestà di molti che operano nel contesto politico, sociale ed economico. L’Italia certamente è contesa da due poteri: quella distruttiva del crimine organizzato e quella costruttiva del potere creativo e generativo di benessere per tutti, che sappiamo essere il potere proprio dell’intelligenza . Noi siamo certi che avrà la meglio il potere dell’intelligenza creativa. di Biagio Maimone amduemila 2 Agosto 2019
Comunali a Palermo, Fiammetta Borsellino: “Le cosche non sparano più ma fanno alleanze con politica ed economia”
«Le organizzazioni criminali continuano a trovare alleanze nei settori strategici dell’economia e della politica: per questo non bisogna mai abbassare la guardia». Ne è convinta Fiammetta Borsellino, terzogenita di Paolo, il magistrato ucciso trent’anni fa nella strage di via D’Amelio: ieri, insieme con un nome storico della sinistra, l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, ha portato la sua testimonianza in chiusura della campagna elettorale della lista “Sinistra civica ecologista” che a Palermo sostiene il candidato sindaco del centrosinistra Franco Miceli. Una giornata segnata dall’arresto del candidato forzista al Consiglio comunale Pietro Polizzi per scambio elettorale politico-mafioso.
Che sapore ha questa notizia a pochi giorni dal voto a Palermo?
«Solo perché la mafia non spara più non significa che non esista: le organizzazioni criminali sono bravissime a adeguarsi ai nuovi contesti socio-economici e vivono di alleanze fuori dall’organizzazione. La mafia non è forte in quanto tale, ma perché trova alleanze all’esterno. L’arresto del candidato di Forza Italia dimostra tutto questo. Non bisogna mai smettere di parlare di mafia e di questione morale».
Il sistema politico non ha ancora anticorpi per difendersi?
«No. Ecco perché tutti noi dobbiamo avere un compito di vigilanza, indipendentemente dagli schieramenti politici. Si tratta di forze che lavorano sottobanco e possono riemergere. Siamo molto distanti dall’averle eliminate. Tutti siamo responsabili, in un momento in cui la città, in vista delle elezioni, può crescere e svilupparsi o fare al contrario un enorme passo indietro».
Vede un passo indietro nel sostegno di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri al candidato sindaco del centrodestra Roberto Lagalla?
«Non è moralmente e politicamente accettabile che persone condannate per mafia influenzino l’andamento elettorale o appoggino candidati con le loro liste. Bisogna dire chiaramente da che parte si sta».
Palermo, dunque, è a un bivio?
«A un bivio importante. Tutti siamo coinvolti, anche se non assumiamo direttamente degli incarichi. Oggi un’amministrazione può governare bene solo se ha la collaborazione di tutta la cittadinanza».
Il suo impegno antimafia a chi si rivolge?
«Ai ragazzi: sono tornata a occupare i banchi di scuola. Questa è la mia pratica dell’antimafia quotidiana. Ogni giorno parlo con i ragazzi e li convinco che scegliere il male è sbagliato e non porta vantaggi, se non apparenti. Lo faccio attraverso esempi positivi da seguire: sicuramente mio padre ma anche tanti altri. Trasmettere valori positivi è il miglior modo per togliere consenso alle mafie. Mio padre, del resto, ha fatto della lotta alla mafia una questione di vita».
Palermo è irredimibile?
«Come è stata capitale della mafia, è stata anche capace di dare vita al più grande movimento antimafia mai esistito al mondo. Dobbiamo prenderne atto. Credo nelle persone, credo nei giovani. C’è tanta gente che vuole che le cose cambino e sono le persone che lavorano più in silenzio. Come i docenti delle scuole, per esempio. Nutro un’enorme speranza che Palermo possa riscattarsi». LA REPUBBLICA 10.6.2022
POLITICA e MAFIA. Il rapporto tra politica e mafia è certamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e della storia delle forze politiche e delle istituzioni del nostro Paese. Nonostante l’abbondante produzione di materiali sull’argomento, sotto forma di libri e servizi giornalistici di denuncia, di documenti politici, di relazioni di organi ufficiali, non possiamo dire che finora il tema sia stato adeguatamente affrontato in tutte le sue implicazioni. I concetti impiegati per designare i rapporti tra politica e mafia e viceversa sono spesso generici o inadeguati: si parla di contiguità e di coabitazione, mentre rimangono in secondo piano o restano irrisolti o neppure affrontati problemi di fondo che riguardano la definizione di mafia e la configurazione dei rapporti di dominio e subalternità così come si sono determinati nello scenario politico-istituzionale italiano. Nel tentativo di contribuire a chiarire questi temi di fondo propongo, per ragioni di ordine espositivo, un rovesciamento dei due termini. Prima affronteremo il tema dalla parte della mafia e dopo dalla parte della politica.
Dalla parte della mafia. La mafia come soggetto politico e la produzione mafiosa della politica Si è discusso se la mafia abbia una strategia politica o se intrecciando rapporti con soggetti dell’universo politico si limiti a stringere alleanze tattiche. Secondo la relazione su mafia e politica della Commissione antimafia, Cosa nostra, che rappresenta il gruppo più consistente della mafia siciliana, “ha una propria strategia politica. L’occupazione e il governo del territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata, tutte queste caratteristiche ne fanno un’organizzazione che si muove secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo. La strategia politica di Cosa nostra non è mutuata da altri, ma imposta agli altri con la corruzione e la violenza” (Commissione antimafia 1993). Resta da vedere se questa strategia non venga praticata anche in forza di convergenze di interessi e di accordi stipulati senza bisogno di ricorrere alle armi e alle minacce. Per qualche studioso si tratterebbe solo di alleanze tattiche (Lupo 1993, p. 229). Per avere una visione più adeguata bisognerebbe in primo luogo interrogarsi sulla natura dell’associazionismo mafioso. Ad avviso di chi scrive, anche utilizzando la letteratura più avvertita, la mafia può considerarsi soggetto politico, in duplice senso:
- in quanto associazione criminale la mafia è un gruppo politico, presentando tutte le caratteristiche individuate dalla sociologia classica per la definizione di tale tipo di gruppo;
- essa concorre come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte alla produzione della politica in senso complessivo, cioè determina o contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse” (Santino 1994, pp. 12 s.).
Per la definizione di gruppo politico possiamo rifarci alla classificazione di Max Weber che nel primo volume della sua Economia e società, dedicato alla Teoria delle categorie sociologiche, comincia con il definire il gruppo sociale: “Una relazione sociale limitata o chiusa verso l’esterno mediante regole deve essere chiamata gruppo sociale quando l’osservanza del suo ordinamento è garantita dall’atteggiamento di determinati uomini, propriamente disposti a realizzarlo – cioè di un capo e, eventualmente, di un apparato amministrativo, che in dati casi ha anche potere di rappresentanza”.
Un gruppo sociale è sempre un gruppo di potere quando esiste un apparato amministrativo e per potere “si deve intendere la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto”. Segue la definizione di gruppo politico: “Un gruppo di potere deve essere chiamato gruppo politico nella misura in cui la sua sussistenza e la validità dei suoi ordinamenti entro un dato territorio con determinati limiti geografici vengono garantite continuativamente mediante l’impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte dell’apparato amministrativo”. La riflessione viene perfezionata con la seguente definizione di Stato: “Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (Weber 1981, pp. 47 ss.).
Come associazione criminale con caratteri specifici (si possono richiamare gli elementi indicati dall’art. 416 bis della legge n. 646 del 13 settembre 1982, o legge antimafia: forza di intimidazione del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti e per acquisire direttamente o indirettamente la gestione e il controllo di attività economiche, concessioni, appalti ecc. o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri) la mafia presenta i caratteri fondamentali dei gruppi politici: un ordinamento, cioè un insieme di norme, una dimensione territoriale, la coercizione fisica, un apparato amministrativo in grado di assicurare l’osservanza delle norme e mettere in atto la coercizione fisica. Per designare sinteticamente questa pluralità di funzioni ho adoperato l’espressione signoria territoriale, una forma totalitaria di controllo all’interno e all’esterno, che va dalle attività economiche alla vita personale e relazionale.
La mafia concorre alla produzione della politica agendo all’interno del blocco sociale o sistema relazionale egemonizzato da soggetti illegali e legali (borghesia mafiosa), in vari modi: uso politico della violenza, formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, controllo sull’attività politico-amministrativa.
L’uso politico della violenza si realizza attraverso l’ideazione e l’esecuzione dei cosiddetti delitti politico-mafiosi e delle stragi. I delitti politico-mafiosi mirano a colpire non solo uomini politici o membri della magistratura e delle forze dell’ordine ma anche altri impegnati a vario titolo contro la mafia e l’illegalità e obbediscono a esigenze complessive di salvaguardia degli interessi delle organizzazioni mafiose e di altri soggetti ad esse collegate, interrompendo processi orientati in senso sfavorevole o innescando e rafforzando dinamiche socio-politiche favorevoli al perseguimento di determinati interessi. Si tratta il più delle volte di atti di violenza mirata ma possono esserci anche atti di violenza diffusa, come nel caso delle stragi che hanno colpito indiscriminatamente militanti e partecipanti alle manifestazioni del movimento contadino.
A innescare questa vera e propria politica della violenza possono concorrere vari soggetti (gruppi criminali, gruppi terroristici, logge massoniche, servizi segreti ecc.) in nome di una convergenza di interessi e con la mobilitazione di una pluralità di autori; ma la corresponsabilità di più soggetti, ipotizzabile nella ricostruzione delle dinamiche che portano all’evento criminoso, è difficilmente dimostrabile in sede giudiziaria, non solo per difficoltà oggettive ma soprattutto per effetto di operazioni di nascondimento e di depistaggio quasi sempre portate a buon fine. Non per caso gran parte delle stragi consumate nel nostro Paese, con o senza la partecipazione di soggetti mafiosi, è rimasta impunita. La formazione delle rappresentanze istituzionali può avvenire attraverso la selezione dei quadri, il ruolo nelle campagne elettorali, il controllo del voto o anche attraverso la partecipazione diretta di membri delle organizzazioni mafiose o di soggetti ad essa legati alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive. Il controllo sull’attività politico-amministrativa si realizza attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burocratici, dagli enti locali alle istituzioni centrali, e dà vita a una tipologia variegata che va dallo scambio, limitato o permanente, all’identificazione-compenetrazione, all’affinità culturale e alla condivisione degli interessi. La produzione mafiosa della politica implica una visione della mafia che rifugge da stereotipi diffusi come quelli dell’antistato o del vuoto di Stato. Si è parlato di mafia come antistato soprattutto in relazione ai delitti che hanno colpito uomini delle istituzioni e il vuoto di Stato è un luogo comune che attraversa la storia della Sicilia e dell’intero Mezzogiorno, segnata dalla costituzione di una forma-Stato che ha istituzionalizzato i rapporti di forza esistenti. In realtà la mafia ha un doppio volto. Per un verso ha un suo ordinamento e un sua giustizia (l’omicidio per i mafiosi non è un reato ma una sanzione applicata a chi non si piega ai loro voleri o si contrappone ai loro interessi) e su questi terreni non riconosce il monopolio statale della forza, quindi è fuori e contro lo Stato. Per un altro verso, per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica, la mafia è dentro e con lo Stato. A questa doppiezza della mafia corrisponde, come vedremo, una doppiezza dello Stato, nel senso che esso rinuncia parzialmente al monopolio della forza, legittimando la violenza mafiosa attraverso l’impunità, tutte le volte che viene operata una delega di fatto alla mafia di compiti repressivi. Abbiamo parlato di una variegata tipologia di rapporti ed espressioni come “contiguità” (impiegata, ad esempio, nella requisitoria del maxiprocesso: in Santino 1992, ma ampiamente diffusa) e “coabitazione” (impiegata nella Relazione su mafia e politica del 1993) colgono una parte di tali rapporti, mentre per altri è più adeguata l’espressione “compenetrazione organica” (impiegata sempre nella requisitoria del maxiprocesso). L’Ufficio Istruzione che ha preparato il maxiprocesso, nel commentare le affermazioni della requisitoria, riprendeva l’espressione “contiguità” ma a proposito degli omicidi politici ne sottolineava l’inadeguatezza: “Nella requisitoria del P.M. si fa riferimento alla “contiguità” di determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa nostra. Ed indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa, ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente “voltare pagina”” (in Santino 1992). La sentenza di primo grado riprendeva le varie espressioni impiegate per designare il rapporto tra mafia e politica e tracciava un profilo sintetico della natura istituzionale di Cosa nostra, che sarebbe insieme: contropotere, per la sua natura criminale; potere annidato nel contesto sociale, capace di adattarsi ai mutamenti delle condizioni storiche; ordinamento giuridico che ha in comune con la forma Stato i caratteri essenziali: un territorio, un codice, affiliati che vi si attengono e altri che vi si adattano; gruppo di pressione che programma e realizza piani di estensione geografica e di rafforzamento del ruolo a livello nazionale e internazionale (in Santino 1992,1994) Una rappresentazione che coglieva la complessità del fenomeno mafioso e l’articolazione dei ruoli che esso ha esercitato nei suoi rapporti con la politica e l’assetto istituzionale.
Il cosiddetto terzo livello. Negli ultimi anni, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, l’idea più diffusa è stata che il rapporto mafia-politica si sia concretato con l’operare del cosiddetto terzo livello. L’espressione veniva impiegata in una relazione del 1982 presentata al Consiglio superiore della magistratura da Giovanni Falcone e Giuliano Turone, dal titolo Tecniche di indagine in materia di mafia, in cui si parlava di tre livelli dei reati di mafia. Reati del primo livello sono i reati rientranti “in attività criminali direttamente produttive di movimenti di denaro” (estorsioni, contrabbando di tabacchi, traffico di droghe ecc.); reati del secondo livello sono quelli “che si collegano comunque alla logica mafiosa del profitto ed alle relative lotte fra le cosche per il controllo dei campi di attività” (omicidi interni); reati del terzo livello sono i delitti “che mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso in genere (…si pensi ad esempio all’omicidio di un uomo politico, o di altro rappresentante delle pubbliche istituzioni, considerati pericolosi per l’assetto di potere mafioso)” (Falcone 1994, pp. 221-255).
Successivamente, soprattutto ad opera dei mezzi di informazione, l’espressione “terzo livello” è stata usata non più con riferimento ai reati di mafia ma all’organizzazione mafiosa nel suo complesso, rappresentata come un edificio a tre piani o livelli: al primo livello sono gli esecutori materiali dei delitti; il secondo livello è formato dai capimafia; il terzo livello da un vertice politico-finanziario, una sorta di supercupola, formata da uomini politici, finanzieri, esponenti della massoneria, uomini dei servizi segreti ecc., che sarebbe sovrapposta alla commissione o cupola mafiosa, cioè l’organo direttivo a livello provinciale di Cosa nostra, organizzazione unitaria, piramidale e verticistica.
Le polemiche che per vari anni hanno segnato il dibattito sui rapporti tra mafia e politica erano suscitate da due diverse visioni della mafia e della sua relazione con il mondo politico-istituzionale. L’esistenza del terzo livello era sostenuta da quanti ritenevano che il rapporto mafia-politica fosse organico e pensavano che esso si materializzasse in un’entità sovraordinata all’organizzazione criminale; è stata negata da quanti ritenevano che il rapporto mafia-politica non andasse al di là dei collegamenti episodici fra qualche boss e qualche politico e consideravano la mafia come un’organizzazione criminosa chiusa in se stessa. E siccome Falcone aveva usato quell’espressione solo per i reati di mafia e non per l’organizzazione mafiosa e sosteneva che non esisteva un terzo livello così come veniva rappresentato, qualcuno, più o meno interessatamente, gli ha rimproverato di ignorare il rapporto mafia-politica e ha avanzato il sospetto che tenesse nei cassetti le prove dell’esistenza di tale rapporto (cfr. Santino 1997a, pp.102-116). Una pagina decisamente brutta nella storia della lotta alla mafia e del nostro Paese, frettolosamente dimenticata dopo la strage del 23 maggio 1992 in cui Giovanni Falcone cadeva assieme alla moglie e agli uomini della scorta.
In una relazione del 1989 Giovanni Falcone ribadiva la sua convinzione: “…al di sopra dei vertici organizzativi non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa nostra”. L’organizzazione mafiosa stringe rapporti con organizzazioni similari, ci sono convergenze di interessi fra mafia e altri centri di potere, ci sono uomini politici adepti della mafia ma non in posizione di potere. “Insomma Cosa nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità”. In ogni caso non c’è una “direzione strategica” occulta di Cosa nostra (in Santino 1994). Tale visione non esclude affatto il rapporto mafia-politica, nega soltanto che esso sia configurabile come supercupola. Già nel 1987, in un’ordinanza-sentenza contro 163 mafiosi, Falcone richiamava la criminalità dei colletti bianchi, le connivenze e le collusioni di rappresentanti delle pubbliche istituzioni, la convergenza d’interessi di vari soggetti col potere mafioso, per sottolineare l’esigenza di elaborare la fattispecie del concorso in associazione mafiosa per persone esterne all’organizzazione ma collegate con essa, nella convinzione che la convergenza di interessi “costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra” (Tribunale di Palermo 1987). Su questa base l’elaborazione giurisprudenziale porterà all’uso della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa per affrontare in sede giudiziaria il problema della responsabilità penale di uomini politici e di altri soggetti che fanno parte del sistema relazionale entro cui agiscono i gruppi criminali.
Mafia e forze politiche La mafia non ha ideologia ma ha una spiccata e scaltrita cultura del potere. Nei rapporti con le forze politiche la mafia siciliana ha mostrato una grande capacità di elasticità e di adattamento al mutare del quadro politico e al succedersi dei detentori del potere. Così essa è stata, esclusivamente o prevalentemente, liberale, democristiana e ora è legata ai soggetti politici affermatisi negli ultimi anni. Significativo il comportamento dei mafiosi nelle fasi di transizione, quando varie forze politiche sono in corsa per il potere. Limitandoci al secondo dopoguerra, nei primi anni Quaranta del XX secolo, il ricorso al separatismo, a ridosso dei grandi proprietari terrieri, ebbe soprattutto il significato di un’operazione strumentale mirante ad ottenere un’autonomia regionale che salvaguardasse gli interessi e il potere degli strati dominanti. Alcuni capimafia, come Calogero Vizzini, costituivano insieme la sezione del Partito separatista e quella della Democrazia cristiana, puntavano contemporaneamente su due cavalli, attivandosi per assicurare l’affermazione di quello che si presentava più favorito per vincere la corsa. La vittoria del Blocco del popolo alle elezioni regionali del 20 aprile 1947 stimola l’accentuazione della violenza, già messa in atto per fermare l’avanzata del movimento contadino, e si avrà la strage di Portella del primo maggio, che in concorso con altre scelte maturate a livello nazionale e internazionale, avrà una immediata valenza strategica con l’espulsione delle sinistre dal governo nazionale e con il divieto al loro ingresso in quello regionale. La fase dei governi centristi vede la mafia solidamente attestata con il partito di maggioranza relativa e pronta a ricorrere ancora alla violenza, garantendosi il ruolo di forza armata e di baluardo contro il comunismo, fino alla sconfitta finale del movimento contadino (con una controriforma agraria che stimola gran parte del mondo contadino a scegliere la via dell’emigrazione) e all’assottigliamento della consistenza delle forze di opposizione, emarginate dall’assetto di potere costituito. In questa fase che va dagli anni ’50 agli anni ’60 la mafia si assicura un canale privilegiato di accesso al denaro pubblico, estendendo e radicando il suo sistema relazionale con i rapporti intessuti con professionisti, imprenditori, amministratori e politici, configurandosi come una forma di borghesia di Stato (Santino – La Fiura 1990, pp. 111 ss.). Il rapporto pattizio si incrina per il lievitare dell’accumulazione illegale e della richiesta di occasioni di investimento e di spazi di potere. I delitti che colpiscono uomini del partito di maggioranza (Michele Reina nel 1979, Piersanti Mattarella nel 1980) hanno un preciso significato: la mafia non tollera le aperture politiche verso l’opposizione e in particolare verso il Partito comunista e considera un intralcio ai suoi interessi le azioni moralizzatrici che toccano terreni scottanti come quello degli appalti di opere pubbliche. Il messaggio arriva a segno: le aperture vengono archiviate e al governo della regione vanno personaggi più affidabili (Santino 1989, pp. 287 ss.). Il patto viene definitivamente sciolto con l’uccisione di Salvo Lima (12 marzo 1992), a cui si rimprovera di non aver cancellato gli effetti del maxiprocesso che si è concluso con pesanti condanne per una serie sterminata di omicidi, interni ed esterni, che hanno insanguinato gli anni ’80. Il delitto, che colpisce uno dei personaggi più emblematici del rapporto mafia-politica per decenni, è una sorta di lastra tombale su un intero periodo storico. La mafia ora è alla ricerca di nuovi interlocutori all’interno di un quadro politico profondamente mutato, in cui figurano forze politiche nate sulle ceneri di partiti storici, travolti dai processi per corruzione (la cosiddetta Tangentopoli). Nel 1989 è caduto il muro di Berlino, il socialismo reale è imploso e la mafia ha perduto il suo ruolo storico di baluardo contro il comunismo, in un contesto formalmente aperto ma in realtà sbarrato alle forze di sinistra (quella che ho chiamato “democrazia bloccata”: Santino 1997b). L’ondata di stragi del 1992 e ’93 è il frutto del delirio di onnipotenza criminale dei cosiddetti corleonesi o è suscitata anche da altri soggetti che mirano a condizionare le dinamiche in atto per determinare i nuovi assetti di potere? La risposta giudiziaria, che ha colpito capi e gregari di Cosa nostra, ha lasciato irrisolto questo interrogativo che rischia di aggiungere un altro capitolo al libro dei cosiddetti misteri italiani Quel che è certo è che mafiosi hanno capito che per stringere nuove alleanze debbono controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso l’alto, e per gli ultimi anni si parla di “mafia sommersa” o inabissata, capace di controllare capillarmente il territorio, di inserirsi nella spartizione del denaro pubblico destinato alle grandi opere, sorretta da una borghesia mafiosa diffusa, forte di legami con personaggi del nuovo scenario politico. Stando anche a inchieste giudiziarie in corso, le forze politiche a cui si rivolgono le maggiori attenzioni sono Forza Italia e l’Udc, che rappresenta nella realtà siciliana la linea di continuità con il sistema di potere democristiano.
Dalla parte della politica. La criminalità del potere e la produzione politica della mafia Abbiamo già accennato al ruolo della Democrazia cristiana, per quasi mezzo secolo partito di maggioranza relativo e architrave del sistema di potere. Nella relazione di maggioranza che chiuse i lavori della Commissione parlamentare antimafia (1976) si dice che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti (affermazione che valeva soprattutto per le origini), che la sua specificità è “costituita dall’incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri”, che la DC presentava un indice di personalizzazione (rapporto tra voti di lista e voti di preferenze) più elevato di altri partiti e che il voto di preferenza favoriva l’infiltrazione mafiosa e si puntava il dito sul ruolo di Vito Ciancimino, dirigente democristiano, assessore comunale e per qualche tempo sindaco di Palermo. La relazione di minoranza presentata dal PCI indicava nel gruppo dirigente democristiano siciliano, che avrebbe imbarcato forze liberali e monarchico-qualunquiste legate ai boss mafiosi, il referente politico di una mafia capace di adattarsi ai mutamenti del contesto (Commissione antimafia 1976).
Successivamente nella riflessione su fenomeni come la loggia massonica P2, i comportamenti dei servizi segreti cosiddetti “deviati”, il ricorso alle stragi per arrestare processi di rinnovamento del quadro politico che mettevano in forse l’assetto internazionale, si è utilizzato un concetto elaborato per l’analisi dello Stato nazista (Fraenkel 1983). Mi riferisco alla teoria del “doppio Stato”, fondato su una duplice lealtà dei gruppi dirigenti, verso il proprio Paese e verso lo schieramento internazionale (De Felice 1989). Anche chi scrive ha parlato di una doppiezza dello Stato come schema teorico utilizzabile per analizzare fenomeni come la legittimazione della violenza mafiosa e l’uso illegale della violenza da parte di apparati istituzionali o di soggetti ad essi legati, senza però farne una sorta di dogma interpretativo multiuso (Santino 1994, 1997b)
In sintesi violenza e illegalità sono state una risorsa a cui si è fatto ricorso quando la normale dialettica non riusciva a governare il conflitto sociale o a controllare le dinamiche politiche. Si può parlare di criminalità del potere, con riferimento a tutti quegli eventi che dimostrano che per salvaguardare un determinato assetto di potere, perpetuare l’egemonia di determinate forze politiche, garantire il rispetto dei limiti imposti dalla spartizione del mondo in grandi aree di influenza, non si è esitato ad ideare ed eseguire atti criminosi, come le stragi, o a tollerane il compimento, depistando o insabbiando le indagini per accertare le responsabilità.
Con l’espressione produzione politica della mafia si possono intendere le varie forme con cui forze politiche e istituzioni “contribuiscono a sostenere e sviluppare la mafia, dall’assicurazione dell’impunità per i fatti delittuosi alle attività collegate con il funzionamento delle istituzioni stesse e con l’uso del denaro pubblico. Tali forme possono arrivare fino a configurare un’istituzionalizzazione formale o sostanziale della mafia (criminocrazia) e/o la mafiosizzazione delle istituzioni” (Santino 1994). Questo non significa che tutto è mafia, ma che si sono realizzate forme di privatizzazione-clandestinizzazione-criminalizzazione delle attività politiche, configurabili come una sorta di forma-mafia, che ha visto soggetti come i gruppi neofascisti, legati a uomini di potere, i servizi segreti, le logge massoniche in cui figuravano vertici delle istituzioni, mettere in atto eventi criminosi che niente avevano a vedere con l’uso legittimo del monopolio della forza.
Per quanto riguarda più precisamente il rapporto con la mafia, la legittimazione della violenza con la garanzia dell’impunità ha comportato una demonopolizzazione, cioè una rinuncia al monopolio della forza, elemento costitutivo della moderna forma-Stato (Bobbio 1976). Lo Stato ha recuperato il monopolio della forza per tamponare un’escalation di violenza che tracimava oltre i limiti consentiti, come nel caso della strage di Ciaculli (1963), in cui caddero sette uomini delle forze dell’ordine, dei delitti e delle stragi che hanno colpito personaggi come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino (sono questi i delitti che hanno scatenato rilevanti effetti boomerang). E questo recupero è stato effettuato in una logica più emergenziale che strategica. Questo è stato il limite di fondo delle politiche criminali del nostro Paese.
Anche per quanto riguarda più propriamente il terreno politico, cioè delle competizioni elettorali e della selezione delle rappresentanze, non si andati al di là dell’elaborazione di fattispecie inadeguate e parziali, come quella che prevede lo scambio elettorale politico-mafioso, limitato alla compravendita di voti, attraverso lo scambio tra somme di denaro e la promessa di voti (legge 7 agosto 1992 n. 356, art. 11 ter). La formulazione iniziale era più ampia e più rispondente alla realtà, prevedendo l’acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti ecc., ma è stata ristretta tanto da ridurne, se non cancellarne, l’efficacia.
La responsabilità politica, di cui parlava la relazione della Commissione antimafia del 1993, approvata in pieno clima di emergenza, che dovrebbe concretarsi in un giudizio di incompatibilità con l’esercizio di una funzione pubblica per le persone responsabili di fatti non necessariamente definibili come reati ma pur sempre gravi, è rimasta sulla carta e negli ultimi anni si è assistito a un fatto inedito nella storia dell’Italia repubblicana: la candidatura e l’elezione di personaggi sotto processo per mafia, accompagnate da attacchi di inusitata violenza alla magistratura, responsabile di perseguire uomini di potere, in nome dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Un’altra forma di legalizzazione dell’illegalità che si aggiunge alle leggi a tutela di interessi personali e a salvaguardia dell’impunità di personaggi che si sono dati alla politica per sfuggire ai loro problemi giudiziari e che un elettorato non molto dotato di senso civico premia con valanghe di voti, anche come effetto di un sistema maggioritario che cancella e mortifica le minoranze.
In questo clima i processi ai politici e ai rappresentanti delle istituzioni incriminati per i loro legami con la mafia (da alcuni politici locali ad Andreotti, il cui processo si è concluso con un esito bifronte) hanno avuto risultati impari rispetto a quelli che riguardano l’ala militare, l’accertamento della verità sulle stragi segna il passo e l’intreccio tra il potere del crimine e la criminalità del potere vive una stagione di cui non si vede la conclusione.
Riferimenti bibliografici Bobbio Norberto, voce Politica, in Dizionario di Politica, diretto da N. Bobbio e N. Matteucci, Utet, Torino 1976, pp. 728-737. Commissione parlamentare antimafia, Relazione conclusiva (Carraro), Relazione di minoranza (La Torre e altri), VI legislatura, Doc. XXIII, n. 2, Tipografia del Senato, Roma 1976.
Commissione parlamentare antimafia, Relazione su mafia e politica, Roma 1993, in Mafia e politica, Laterza, Roma-Bari 1993.
De Felice Franco, Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi storici”, n. 3, 1989, pp. 493-563.
Falcone Giovanni, Interventi e proposte (1982-1992), Sansoni editore, Milano 1994.
Fraenkel Ernst, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983.
Lupo Salvatore, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1993. Santino Umberto, L’omicidio mafioso, in G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989, pp. 189-410; Mafia e maxiprocesso: dalla “supplenza” alla “crisi della giustizia”, in Autori Vari, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, F. Angeli, Milano 1992, pp. 97-178; La mafia come soggetto politico, Centro Impastato, Palermo 1994; L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997a; La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997b.
Santino Umberto – La Fiura Giovanni, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1991.
Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione, giudice Giovanni Falcone, Ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 162, Palermo 1987, vol. 2°, pp. 429 ss.
Weber Max, Economia e società, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano 1981.
Mafia e politica dalla prima alla seconda Repubblica Mi chiedo che senso abbia oggi parlare di mafia e in particolare di mafia e politica. Me lo chiedo non perché sono d’accordo con quanti sostengono che la mafia ormai è a pezzi (come si leggeva nella pagina su Palermo del sito Internet delle Nazioni Unite nel dicembre 2000, quando era in corso la conferenza sul crimine transnazionale1) o perché ritengo che sull’argomento ormai si sia detto tutto, o quasi tutto, ma perché penso che il quadro in cui viviamo sia così gravemente compromesso da indurre il ragionevole convincimento che sia inutile parlarne. Le analisi, le riflessioni, le proposte hanno un senso se riescono a intrecciare il percorso della conoscenza con quello di una possibile incidenza sulla realtà. E la realtà non mi pare che sia molto propensa a farsi influenzare dalle analisi e dalle riflessioni. Non solo per quanto riguarda la mafia. Il 2001 è stato l’anno del terrorismo internazionale approdato nel cuore degli Stati Uniti, della guerra in Afghanistan che minaccia di non avere limiti di spazio e di tempo (come dice la stessa sigla prescelta: Enduring Freedom, dopo averne scartato un’altra ancora più “impegnativa”: Infinite Justice), del contagio epistolare di carbonchio preludio a una psicosi collettiva. L’umanità ha imboccato un tunnel di cui non si vede la fine e il terzo millennio, che era stato salutato come l’era della globalizzazione del mercato e della concorrenza, è cominciato con la globalizzazione del terrore e dell’insicurezza. Per il nostro paese, il 2001 è stato l’anno della vittoria della “Casa delle libertà”. Avrà giocato la sua parte il sistema elettorale, ibrido prodotto dell’accoppiamento tra maggioritario e proporzionale, ma non possiamo nasconderci che l’elettorato italiano ha scelto inequivocabilmente di portare al potere uomini e forze politiche che per la loro storia e i loro programmi non si prestavano certo a equivoci e a fraintendimenti. Com’è potuto accadere che buona parte del paese, dopo le stragi mafiose, dopo i maxiprocessi, dopo Tangentopoli, abbia votato per personaggi che erano protagonisti di vicende giudiziarie, vuoi di corruzione vuoi di mafia, ancora in corso? Gli italiani hanno dimenticato, hanno corta memoria o proprio quelle vicende hanno agito da incentivo a votare quei candidati e quei partiti?
Leggiamo cosa ha scritto sulle pagine del quotidiano più prestigioso d’Italia un prestigioso editorialista, preoccupato dello scarso credito di cui gode l’attuale capo del governo all’estero: A noi piacerebbe tuttavia che nel denunciare l’”anomalia Berlusconi”, la stampa straniera cercasse anche di spiegare ai suoi lettori perché tanti italiani, non necessariamente cinici e amorali, abbiano votato per lui. Potrebbe raccontare ad esempio che l’Italia è stata per molti anni pericolosamente vicina a una rivoluzione giudiziaria. Potrebbe scrivere che un gruppo di magistrati inquirenti (funzionari, assunti per pubblico concorso, privi di qualsiasi mandato popolare) si sono creduti autorizzati a comportarsi come un potere dello Stato e ancora non smettono di pensare che la loro volontà debba prevalere su quella del Parlamento. Potrebbe raccontare che le indagini giudiziarie hanno demolito soltanto una parte del palazzo politico e ne hanno profondamente alterato il funzionamento. Potrebbe dire che ciò non sarebbe accaduto se la sinistra, anziché trarre profitto da una immeritata impunità, avesse collaborato a restaurare l’ordine democratico. I suoi lettori capirebbero meglio allora perché molti italiani e lo stesso presidente della Repubblica, pur con grande disagio, abbiano finito per accettare la legge sulle rogatorie2. Tante cose potrebbe scrivere la stampa estera, che almeno fino a oggi ha tirato dritto per la sua strada, e tantissime ne potrebbe scrivere quella italiana ma ormai, grazie alla penna di tanti prestigiosi editorialisti e soprattutto grazie a quella Grande Famiglia che è la televisione di casa nostra, si è fatta strada una verità che ha insieme il crisma dell’ufficialità e l’avallo della condivisione diffusa: negli ultimi 50 anni in Italia hanno dominato i comunisti, ma per fortuna a un certo punto è “sceso in campo” un personaggio che ha riportato la democrazia nel nostro paese. Le “toghe rosse” hanno cercato di “cambiare il corso della storia”, incriminando il nostro eroe e riconsegnando il potere nelle mani dei comunisti, ma gli italiani hanno sventato il “golpe giudiziario” e hanno ridato il potere al nostro eroe e ai suoi amici, alfieri della libertà e campioni dell’anticomunismo. Il prestigioso editorialista è uomo di cultura così larga da rasentare l’onniscienza nonché di multiforme esperienza e certamente non ignora che la divisione dei poteri (e quello giudiziario è fino a prova contraria uno dei tre poteri, accanto al legislativo e all’esecutivo, ma a quanto pare sono in corso le prove generali per ridurlo a una dépendance del secondo) è il fondamento di una democrazia, come non ignora quel che realmente è accaduto nel nostro paese, ma di fronte alle bordate di testate notoriamente sovversive e al soldo della sinistra italiana, come il New York Times, Le Monde, Business Week e l’Economist, vivaddio, il sangue non è acqua e dopo tutto non lo dicono gli inglesi: Right or wrong my country3? Dunque: il problema non è la corruzione, non è la mafia, non è il rapporto con la mafia e le pratiche di corruzione addebitabili a uomini politici, non è il conflitto di interessi che rende l’Italia un unicum tra i paesi occidentali; il problema è il ruolo eversivo di un drappello di magistrati, vincitori di concorso e non eletti dal popolo, e quindi soltanto pubblici impiegati, come si diceva una volta delle mezze maniche, in siciliano dei suca ‘nchiostru, che volevano sovvertire il quadro politico del paese. Berlusconi ha parlato di “guerra civile”; il sottosegretario agli interni, che è stato e ha continuato a essere avvocato di imputati illustri e boss notori, dopo la sentenza della Cassazione che ha assolto Berlusconi ma condannato i dirigenti della Fininvest (particolare ignorato o frettolosamente accantonato), ha proposto di processare i giudici e successivamente ne ha chiesto l’arresto (e quando è stato costretto a dare le dimissioni, il ministro della giustizia ha letto in Parlamento un testo che suona come una condanna inappellabile dei magistrati-persecutori); altri si sono limitati a parlare di “giustizialismo” e di “eccessi giacobini”. Voglio essere franco: espressioni come “Rovescerò l’Italia come un calzino”, “Io quello lo sfascio” (detto da Di Pietro per Berlusconi e riferito dal procuratore Borrelli in udienza e davanti alle telecamere), andavano evitate, come pure a mio avviso non c’era nessun bisogno di inviare la comunicazione dell’incriminazione a Berlusconi mentre si svolgeva la conferenza internazionale di Napoli, e l’uso della carcerazione preventiva per indurre a confessare, le manette a Enzo Carra in aula, come a simboleggiare la Dc in catene, destarono allora e continuano a destare ancor’oggi in chi scrive grandi perplessità. Ma i magistrati non vengono criticati o censurati per le loro intemperanze verbali, per gli errori anche gravi che possono aver commesso; vengono esplicitamente e duramente accusati per avere fatto quelle inchieste, avere sostenuto l’accusa in quei processi, avere osato indagare e avere portato in giudizio uomini di potere, avere ottenuto delle condanne anche se successivamente cancellate o ridimensionate. Ora vanno in scena la rivalsa, il processo sommario e il linciaggio per i giudici più impegnati nelle inchieste più difficili, e gli avvocati diventati uomini di governo incorporano una sorprendente dualità: sono insieme ipergarantisti, quando si tratta dei loro clienti imputati eccellenti, ormai ai vertici del potere, e supergiustizialisti di fronte ai giudici sotto accusa. Non si tratta, come qualcuno ha detto, di un complotto, ma di una strategia apertamente e spettacolarmente dispiegata. Non si usano il fioretto o la sciabola, ma i carri armati. Si potrebbe dire: nulla di nuovo sotto il sole italico. Riaffiora, con una classe dirigente che si presenta come nuova ma è in gran parte riciclata, l’Italia profonda, riemerge l’Italia sommersa, ritorna l’eterno fascismo italiano di cui parlava Carlo Levi4, e potremmo tratteggiare un identikit delle classi dominanti ricordando che la nostra borghesia ha una lunga storia di convivenza con il crimine e l’illegalità, dall’unità d’Italia a oggi. La mafia è stata una modalità dell’accumulazione e del potere e la sua violenza è stata legittimata da una secolare storia di impunità. I nemici erano coloro che mettevano in forse l’assetto di potere e contro di loro ogni mezzo era buono, purché ottenesse lo scopo di disperderli e sconfiggerli. Potremmo ricordare i massacri del movimento contadino, dai Fasci siciliani a Portella della Ginestra e agli anni ’50, la scelta fascista e nel secondo dopoguerra la chiusura a ogni possibilità di cambiamento che ha portato alle stragi mafiose, neofasciste, piduiste ecc. ecc. Potremmo ricordare gli scandali che hanno costellato la storia patria, dalla Regìa dei tabacchi e dalla Banca romana ai nostri giorni, per i quali nessuno dei potenti coinvolti ha pagato. Con le inchieste su Tangentopoli però si è andati al di là di piccoli imprenditori o di politici di terza e seconda fila ed è questo che oggi viene contestato proprio da chi ha ricavato i maggiori vantaggi dalle conseguenze politiche di quelle inchieste, ma non tollera di essere stato e di essere ancora sotto tiro. Non è una grande scoperta ricordare che in uno Stato in cui l’eguaglianza formale dei cittadini non cancella la stratificazione di classe la giustizia non riesce a non essere classista e usa due pesi e due misure e che i magistrati che infrangono questa regola non scritta vanno facilmente incontro al fallimento. E questo se vale per la corruzione vale ancora di più per la mafia e per i rapporti tra mafia e politica. Come vedremo, dal sostituto procuratore Giacosa che indagava sui mandanti illustri dei pugnalatori di Palermo del 1862, a Caselli non è cambiato molto. I cosiddetti delitti politico-mafiosi qualche volta possono vedere puniti gli esecutori, ma mai i mandanti. Ma il più delle volte non hanno né esecutori né mandanti. Per la strage di Portella della Ginestra hanno pagato i banditi della banda Giuliano, ma per le centinaia di omicidi di dirigenti e militanti del movimento contadino non ha pagato nessuno. Nei palazzi di giustizia campeggia la scritta “La Legge è uguale per tutti” ma la realtà parla una lingua diversa. Chiedo venia, ma voglio richiamare due proverbi siciliani, un po’ “forti”, che possono ascriversi alla sapienzialità mafiosa o filomafiosa: La furca è pri lu poviru, la giustizia pri lu fissa. Cu avi dinari e amicizia teni ‘nculu la giustizia, che forse si attagliano di più all’effettivo andamento delle cose, non solo in terra di Sicilia. Basta guardare alla composizione della popolazione carceraria italiana per averne conferma: la maggioranza è composta da tossicodipendenti e marginali. E quello che sta avvenendo in questi giorni ricorda da vicino l’amara denuncia di Ferruccio Parri che nel settembre del 1945 dichiarava: “capita di assistere a un processo di inversione per cui i rei finiscono per giudicare i giudici”5. Sul piano della giurisdizione penale dagli anni ’80 in poi era accaduto qualcosa di nuovo: per la prima volta l’impunità mafiosa aveva ricevuto dei colpi, capimafia e gregari sono stati arrestati, processati e condannati e questo non si era mai verificato prima, se non per qualche caso isolato che rappresentava più l’eccezione che la regola. Dopo la strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 il processo di Catanzaro si era risolto in un buco nell’acqua, la Commissione antimafia aveva raccolto magazzini di documenti, ma nulla ne era scaturito sul piano concreto. Negli anni ’80 e ’90 si era aperta una breccia: la violenza mafiosa era andata oltre i limiti consentiti, colpendo uomini delle istituzioni, alcuni dei quali tanto noti da essere assurti a eroi dell’immaginario collettivo, e la guerra interna era stata così sanguinosa da aprire larghe falle da cui sarebbe fluito il fiume dei “pentiti”. Sul piano internazionale mutava lo scenario, con il crollo dell’equilibrio bipolare. La mafia cessava di essere l’esercito di riserva contro il pericolo comunista, l’Italia non era più a “sovranità limitata”. Si diffondeva l’aspettativa che si potesse guardare oltre la formazione militare, esplorare l’area della cosiddetta contiguità, cioè dei rapporti tra mafia e mondo economico, tra mafia e contesto politico-istituzionale. I giudici si trovarono ad avere un ruolo mai avuto prima. Più che su singoli delitti e singoli imputati, essi indagavano e mettevano sotto accusa una catena di crimini e un sistema di potere, una classe dirigente: imprenditori, professionisti, tra cui anche magistrati, amministratori, politici. Ma mentre il potere giudiziario era impegnato con le sue forze migliori, gli altri poteri si defilavano o limitavano la loro attività al tamponamento delle “emergenze”, con leggi e provvedimenti dettati dalla necessità di far fronte in qualche modo ai grandi delitti e alle stragi. E qui c’era un pericolo che si sarebbe avvertito solo dopo, troppo tardi. Passata l’emergenza, esauritasi l’ondata della delittuosità eclatante, si poteva considerare esaurita la necessità di intervenire. E oggi ci troviamo in una situazione segnata da gravi difficoltà: nessuno più nega, come si faceva fino a pochi anni fa, l’esistenza della mafia, ma dopo l’esito fallimentare dei processi ai personaggi più noti, il tema “mafia e politica” è diventato un tabù ed è diventato pericoloso perfino parlarne.
Parole-chiave: contiguità, terzo livello, coabitazione Nel corso degli anni ’80 e nei primi anni ’90 sul tema dei rapporti tra mafia e politica le parole-chiave più diffuse erano: contiguità, terzo livello, coabitazione. Attraverso le dichiarazioni dei primi pentiti era emersa l’immagine di Cosa nostra come organizzazione unitaria, piramidale, verticistica; si riproponeva, con una base di documentazione più consistente e dettagliata, capace di resistere al vaglio dibattimentale, il quadro già tracciato alla fine del XIX secolo dai Rapporti del questore di Palermo Sangiorgi, con l’articolazione dell’organizzazione mafiosa in gruppi di base, coordinati tra loro e soggetti alla direzione di un capo7. Un quadro allora disatteso in sede giudiziaria e destinato ad essere cancellato da quasi un secolo di stereotipi sulla mafia priva di struttura organizzativa, intesa come mentalità, subcultura, modo di sentire e di essere dei siciliani. La Procura di Palermo nella requisitoria prodotta nel 1985 in preparazione del maxiprocesso sosteneva che le risultanze processuali avevano consentito di “focalizzare “cosa nostra” non solo nelle sue strutture militari ma anche nelle sue ramificazioni politico-finanziarie” 8 e un capitolo, il quinto, aveva per titolo: L’area delle contiguità sociali, politiche, economiche. L’Ufficio Istruzione riprendeva le affermazioni della requisitoria e a proposito dei delitti che avevano colpito uomini politici e rappresentanti delle istituzioni cercava di andare oltre: Nella requisitoria del P.M. si fa riferimento alla “contiguità” di determinati ambienti imprenditoriali e politici con “Cosa Nostra”. Ed indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa, ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa Pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente “voltare pagina”9.
La sentenza di primo grado della Corte d’Assise riprendeva di peso quelle parole, sempre a proposito dei cosiddetti omicidi eccellenti: È lecito supporre che per tali omicidi si sia verificata una singolare coincidenza, ovvero, cosa più probabile, una deliberata convergenza di interessi, rientranti tra le finalità terroristico-intimidatrici dell’organizzazione, ed interessi connessi alla gestione della “cosa pubblica”. Tale ultima ipotesi, se esatta, presuppone un intricato intreccio di segreti collegamenti tra i detentori delle rispettive leve del potere politico e mafioso, che vanno, certamente, al di là della prospettata “contiguità”. La requisitoria del 1985 parlava anche di “interazione” e di “compenetrazione organica” e richiamava i casi di Ciancimino e dei Salvo. Nell’ordinanza-sentenza del maxiter, del 1987, il giudice istruttore Giovanni Falcone si poneva il problema dell’ipotizzabilità del delitto di associazione mafiosa per i comportamenti che rientrano nell’area della contiguità e prospettava l’uso della fattispecie del concorso nel delitto di associazione e del concorso eventuale nel reato plurisoggettivo da parte di persone diverse dai concorrenti necessari12. Se non erro, parte da quelle considerazioni il percorso che porterà a utilizzare la figura del concorso esterno in associazione mafiosa nelle indagini che hanno riguardato personaggi molto noti Com’è risaputo, i magistrati Falcone e Turone in una relazione del giugno 1982, presentata a un seminario del Consiglio superiore della magistratura, avevano parlato di tre livelli di reati e consideravano reati del terzo livello i delitti che mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso in genere (…si pensi ad esempio all’omicidio di un uomo politico, o di altro rappresentante delle pubbliche istituzioni, considerati pericolosi per l’assetto di potere mafioso)13. La distinzione, per effetto della disinformazione e della superficialità dei media, doveva essere applicata all’organizzazione mafiosa, rappresentata come un edificio a tre piani o livelli: il primo costituito dagli esecutori dei delitti, il secondo dai capi, il terzo da un vertice politico-finanziario, una sorta di supercupola. Non mi sembra fuori luogo ricordare le polemiche degli ultimi anni di vita di Falcone, gli attacchi di tanti che di fronte alle affermazioni con cui rifiutava quella rappresentazione sostenevano che così negava l’esistenza del rapporto tra mafia e politica, che teneva chiuse nei cassetti le prove di quel rapporto ecc. ecc. Quelle polemiche, per il modo in cui furono condotte, rientrano tra le vergogne nazionali ma sono ancora più vergognose le santificazioni di Falcone dopo la sua morte da parte di molti che da vivo gli davano del traditore. Ai molti che da denigratori si sono trasformati in santificatori preferisco i pochi che se avevano critiche da fare a Falcone, le facevano quando era vivo e continuano a farle anche dopo la sua morte.
In una relazione del 1989 Falcone esplicitava il suo pensiero: …al di sopra dei vertici organizzativi non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto che, in determinati casi e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere. Cosa Nostra, però, nelle alleanze non accetta posizioni di subalternità; pertanto è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o dirigerne le attività. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell’esistenza di una “direzione strategica” occulta di Cosa Nostra14.
Nell’audizione davanti al Csm del 15 ottobre 1991, Falcone richiamava la sua tesi sui tre livelli dei reati e commentava: Come da questo si arrivi all’affermazione che io sostenevo il terzo livello, cioè una direzione strategica che ordinava alla mafia di comportarsi ora in questa maniera, ora in quell’altra maniera, ripeto, tuttora non riesco a capire. Devo dedurre che non si è voluto comprendere questo, perché si continuano a fare queste affermazioni ad effetto: “Falcone ha cambiato idea! Prima parlava del terzo livello, ora non ne parla più”. Io aggiungo qualcos’altro. Affermo che non parlare di un terzo livello non è un fatto benefico a favore della classe politica, perché magari ci fosse un terzo livello! Basterebbe una sorta di Spectra, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo. Ma purtroppo non è così. Abbiamo dei rapporti molto intensi, molto ramificati e molto complessi. Questo è il punto cruciale su cui bisogna lavorare. Questo ho sostenuto allora e devo dire che questi anni mi hanno sempre più rafforzato in questa idea15. Falcone teneva a precisare: un conto sono le indagini giudiziarie, un altro “la guerra santa alla mafia”16 e ribadiva la sua filosofia giudiziaria che lo aveva portato a scontrarsi con i colleghi: I motivi dei miei contrasti, spesso con colleghi un po’ più anziani di me, derivavano proprio da questa differenza di mentalità. A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare “intanto io contesto il reato, poi si vede”, perché da queste contestazioni poi derivano, soprattutto in determinate cose, conseguenze incalcolabili17. Non ho nessuna intenzione di stendere un velo pietoso sulle vicende che portarono nella seduta plenaria del Csm del 19 gennaio del 1988 alla bocciatura di Falcone come Consigliere istruttore: a mio avviso, più che il tradimento di qualche “Giuda”, ha pesato una profonda incomprensione del fenomeno mafioso da parte di tanti componenti del Csm e dei rappresentanti di Magistratura democratica, con l’eccezione, tra gli altri, di Gian Carlo Caselli. In Md, dopo un interesse iniziale che va dal seminario di Palermo dell’aprile del 1980 a quello di Cosenza dell’ottobre del 1982, che vide la corrente dei magistrati democratici all’avanguardia nella riflessione sulla mafia, prevalse l’idea che si stesse adoperando sul terreno della mafia qualcosa di molto simile al “teorema Calogero” elaborato nei confronti del terrorismo. Ho il massimo rispetto per le preoccupazioni garantiste, ovviamente non per quelle, strumentali e pretestuose, di chi delinque e fa di tutto per sottrarsi alla giustizia, appellandosi a un garantismo a senso unico, se non “personalizzato”, ma il garantismo non è un testo sacro e immodificabile, come il Talmud degli ebrei di stretta osservanza o il Corano dei talebani. Ma credo che abbia influito anche una scelta culturale. Ricordo gli entusiasmi di molti per le tesi di Arlacchi, che negava l’esistenza di un’organizzazione segreta (per scoprirla doveva parlare anni dopo con Antonino Calderone), ipotizzava il passaggio negli anni ’70 da una fantomatica “mafia tradizionale”, in competizione per l’onore, a una “mafia imprenditrice”, che avrebbe scoperto solo allora la competizione per la ricchezza, e la commistione tra uso della violenza e attività imprenditoriale veniva avventurosamente assimilata all’innovazione schumpeteriana18.Sul tema dei rapporti con la politica nei primi anni ’80 la tesi prevalente era che la mafia fosse o tendesse ad essere autonoma: così venivano interpretati, scorrettamente, i delitti che colpivano uomini delle istituzioni19. Non per caso ne sono passati tanti, di anni, dal seminario di Cosenza del 1982 a questo incontro di Palermo, alla fine del 2001. Come sappiamo, la via crucis di Falcone era destinata a continuare e, prima del calvario finale, doveva avere un’altra stazione nelle polemiche con cui si cercò di bloccare la sua nomina a superprocuratore antimafia: veniva giudicato inaffidabile e Martelli-dipendente20.E anche Paolo Borsellino doveva percorrere una sua via crucis: dopo le denunce sullo smantellamento del pool antimafia nel luglio del 1988, le audizioni davanti al Csm lo videro quasi come imputato; i processi ai giudici seriamente impegnati non sono cominciati ora. Dovevano venire le stragi di Capaci e di via D’Amelio per consentire alla Commissione parlamentare antimafia di approvare a larga maggioranza, nel 1993, una relazione su mafia e politica che è fino a oggi il massimo a cui si è arrivati in sede istituzionale. Sembrava l’inizio di un percorso ma la strada doveva interrompersi. Come si ricorderà la relazione parlava di coabitazione con la mafia, di rapporti tra istituzioni e mafia come relazioni tra due distinte sovranità. Il termine “coabitazione” ricorda quello di contiguità e nel testo della relazione si parla anche di integrazione, di legittimazione della mafia da parte dei pubblici poteri e viene presentata una documentazione che va più nel senso della compenetrazione e dell’interazione che in quello della coabitazione. La relazione si soffermava sulla distinzione tra responsabilità penale e responsabilità politica. La prima è accertata dalla magistratura attraverso le regole formali e certe del processo, e si concreta in sanzioni giuridiche prestabilite. La responsabilità politica si caratterizza per un giudizio di incompatibilità tra una persona che riveste funzioni pubbliche e quelle funzioni, sulla base di determinati fatti rigorosamente accertati, che non necessariamente costituiscono reato, ma che tuttavia sono ritenuti tali da indurre a quel giudizio di incompatibilità. Le funzioni politiche si fondano su un principio di fiducia e di dignità. Ciascun politico ha una sua responsabilità aggiuntiva rispetto agli altri cittadini, perché egli coinvolge la credibilità delle istituzioni in cui opera21. Parole che lette a meno di dieci anni di distanza suonano lontane anni luce. La responsabilità politica, essendo priva di sanzione, richiamava la necessità di codici di autoregolamentazione che non sono mai stati adottati e così siamo arrivati alla candidatura, con elezione quasi plebiscitaria, di imputati in processi di mafia in corso. Ai tempi della vituperata egemonia democristiana una cosa del genere, che io ricordi, non era mai accaduta.
Secondo la relazione su mafia e politica della Commissione antimafia, Cosa Nostra ha una propria strategia politica. L’occupazione e il governo del territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata, tutte queste caratteristiche ne fanno un’organizzazione che si muove secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo.
La strategia politica di Cosa Nostra non è mutuata da altri, ma imposta agli altri con la corruzione e la violenza. Si potrebbe osservare che non sempre sono necessarie l’imposizione, la corruzione e la violenza; spesso la strategia politica mafiosa si fonda sull’interazione e sul consenso, frutto della comunanza di interessi e della condivisione di codici culturali. In questo contesto le riflessioni delle scienze sociali, per quel poco che si sono sviluppate, si sono poste il problema se il rapporto mafia-politica, materializzato nelle relazioni con soggetti come massoni, in particolare della loggia P2, membri dei servizi segreti e dei gruppi terroristici, in particolare di quelli neofascisti, amministratori e politici, fosse il frutto di un progetto politico coerente o solo di alleanze tattiche. La mafia è un soggetto politico consapevole, con una sua linea d’azione, un programma, o svolge soltanto una funzione politica? Agisce come un gruppo di pressione (la “lobby politico-mafiosa”) o è qualcosa di più? Manca a tutt’oggi una ricerca che si sia misurata con una fenomenologia complessa e con un quadro in evoluzione. Nei primi anni ’90 una ricerca sulla politica in Sicilia, condotta da un gruppo di politologi, ha studiato soprattutto le scelte elettorali, riscontrando un primato siciliano delle astensioni, un’accentuata personalizzazione del voto, attraverso l’uso delle preferenze plurime23. Alla domanda se ci fosse un rapporto accertabile scientificamente tra mafia e voto di preferenza (cavallo di battaglia di tutte le frequentazioni giornalistiche in tema di mafia e politica), i ricercatori, studiando l’andamento dei voti di preferenza in 52 comuni ritenuti a più alta mafiosità, hanno riscontrato che i tassi di preferenza in questi comuni risultano più bassi che in altri comuni con popolazione inferiore ai 20.000 abitanti e che se la Dc era il partito che faceva registrare nei comuni mafiosi il più alto incremento del tasso di preferenza tra il 1986 e il 1991, pari a oltre sei punti percentuali, immediatamente dopo venivano i Verdi, con un incremento di cinque punti. La provincia con i più alti tassi di preferenza era quella di Messina, in quegli anni ancora etichettata come “provincia babba”, cioè immune dalla mafia24.
La mafia come soggetto politico, produttrice e prodotto della politica Nell’ambito del progetto di ricerca su “Mafia e società” del Centro Impastato pensavamo a una ricerca su mafia e politica che si è realizzata solo in parte. Ricordo i contributi più significativi: una relazione al convegno del 1993 su “La mafia, le mafie, tra vecchi e nuovi paradigmi”, l’opuscolo La mafia come soggetto politico, il volume L’alleanza e il compromesso, in cui ho raccolto, tra l’altro, materiali di una mia battaglia, isolatissima, contro Salvo Lima25. In un periodo in cui si passava da quella che ho chiamato l’”indigestione di informale” all’”overdose del superstrutturato”, cioè da una visione della mafia come mentalità e comportamento, amebica e invertebrata, a un’altra occupata da una mafia iperorganizzata e cartesiana, elaborando il “paradigma della complessità” ho cercato di costruire una griglia interpretativa adeguata, facendo interagire aspetti diversi: crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso. Dal punto di vista strutturale ho proposto di studiare l’organizzazione criminale, documentata e documentabile ben prima dell’epifania di Buscetta, all’interno di un sistema relazionale (espressione che continuo a preferire a “relazioni esterne”, che possono essere eventuali, episodiche, sporadiche), un vero e proprio blocco sociale transclassista, dominato da soggetti illegali e legali (professionisti, imprenditori, pubblici amministratori, politici) per i quali ho proposto la denominazione di “borghesia mafiosa”, utilizzando indicazioni che vanno dal liberale Leopoldo Franchetti al comunista eretico Mario Mineo26. Definizione in cui parecchi hanno voluto vedere la riproposizione di ideologismi morti e sepolti ma che a me sembra la risultanza, si potrebbe dire obbligata, di elementari constatazioni di fatto. I mafiosi affiliati a Cosa nostra e ad altre associazioni similari sono poche migliaia e quasi tutti con un bagaglio culturale molto scarso; sia per le attività illegali complesse, come i traffici di droghe e di armi, il riciclaggio del denaro sporco, e ancor più per le attività legali, a cominciare dagli appalti di opere pubbliche, la cooperazione di vari soggetti, appartenenti alle classi medio-alte e comunque meglio dotati sul piano delle conoscenze e delle esperienze, è assolutamente indispensabile. Immaginate analfabeti o semianalfabeti come Totò Riina e Binnu Provenzano cimentarsi da soli e con altri loro pari con i traffici internazionali, con il riciclaggio dei capitali, con gli investimenti, con le speculazioni in borsa, con gli swaps e i derivati. Qualcuno dei rampolli si è avventurato sulle strade di Internet ma anche per questo non ha fatto ricorso al know how dei padri, certamente più utile su altri piani, dalle pratiche minatorie alle tecniche omicidiarie. Per quanto riguarda l’evoluzione storica, rispetto allo stereotipo mafia vecchia – mafia nuova, riverniciato da dichiarazioni di mafiosi collaboratori di giustizia, secondo cui a una mafia rispettosa delle regole sarebbe subentrata una mafia degenerata, qualcosa di molto simile alla distinzione tra “mafia tradizionale” e “mafia imprenditrice”, e a periodizzazioni tagliate con l’accetta, mi è sembrato più consono alla realtà ricostruire lo sviluppo del fenomeno mafioso, come del resto di tutti i fenomeni di durata, come un intreccio di continuità e trasformazione-innovazione, per cui convivono la persistenza di alcuni aspetti, come la signoria territoriale, e l’elasticità e capacità di adattarsi ai mutamenti del contesto e di cogliere le opportunità che esso offre27. Nelle formulazioni di uso comune i rapporti tra mafia e contesto sociale vengono letti nell’ottica separatezza-infiltrazione (si parla infatti di mafia e economia, mafia e potere, mafia e politica, mafia e istituzioni ecc.), come se si trattasse di mondi diversi, in contatto tra loro per una sorta di disfunzione patologica. Ho cercato di rovesciare l’ottica separatezza-infiltrazione sostituendola con quella unità-distinzione, che vuol dire analisi del contesto e individuazione della specificità. Dico subito che se non si vuole fare di ogni erba un fascio o limitarsi alla registrazione di casi più o meno significativi, ma scollegati tra loro, bisogna rifuggire da una duplice tentazione: la generalizzazione (per cui tutto è mafia: capitalismo, Stato ecc. = mafia) e il riduzionismo, che considera impraticabile qualsiasi tentativo di analisi complessiva e etichetta come scientifici solo i modelli parcellari che si limitano a ispezionare frammenti del reale. Ho cercato di studiare il rapporto mafia-politica ponendomi il problema della politicità del fenomeno mafioso come dato costitutivo e non eventuale e aggiuntivo, chiedendomi se fosse possibile utilizzare le categorie classiche della sociologia e della politologia e in particolare le indicazioni di Weber nella sua Teoria delle categorie sociologiche sui gruppi sociali, gruppi di potere e gruppi politici28. Riassumendo le conclusioni della mia analisi, la mafia è soggetto politico in duplice senso:
- in quanto associazione criminale essa presenta i caratteri fondamentali dei gruppi politici: un ordinamento, o quanto meno un insieme di norme, una dimensione territoriale, la coercizione fisica, un apparato amministrativo per assicurare l’osservanza delle norme e attuare la coercizione. Delle due fonti di finanziamento indicate da Weber (prestazioni volontarie e estorte) prevalgono le seconde e l’estorsione è una forma di tassazione, il prezzo della sicurezza che non significa l’assicurazione della protezione in un mondo genericamente insicuro ma l’astensione dal mettere in atto la minaccia con cui il gruppo mafioso induce insicurezza. Per usare il linguaggio di Popitz, la mafia, una volta soddisfatta la sua richiesta, sospende il suo potere di azione, inteso come “potere di recar danno agli altri con un’azione diretta contro di essi” ma è pronta a riprenderlo alla prima occasione;
- la mafia come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte è insieme produttrice e prodotto della politica, cioè determina o contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse, ma assieme a questa produzione mafiosa della politica si può parlare di una produzione politica della mafia per tutte quelle forme con cui le istituzioni contribuiscono a sostenere e a sviluppare le attività mafiose.
La mafia concorre alla produzione della politica nei seguenti modi:
- uso politico della violenza, con i cosiddetti delitti politico-mafiosi;
- formazione delle rappresentanze nelle istituzioni;
- controllo sull’attività politico-amministrativa.
Delitti politico-mafiosi, pluralità di soggetti e convergenza di interessi I delitti politico-mafiosi non sono qualificabili come tali solo per la personalità della vittima (uomini politici, membri della magistratura e delle forze dell’ordine ma anche altri, impegnati a vario titolo contro la mafia) ma anche per la finalità che essi perseguono: obbediscono a esigenze complessive dei gruppi mafiosi e costituiscono un pesante intervento sul quadro generale, nel senso che mirano a bloccare processi che possono svilupparsi pericolosamente per i mafiosi e i loro alleati e a innescare dinamiche favorevoli. Come abbiamo già visto, questi delitti sono l’esempio più noto delle contiguità, della convergenza di interessi con altri soggetti e quindi della plurisoggettività nella progettazione e nell’esecuzione. Dai primi passi dell’unità d’Italia, con i pugnalatori di Palermo, il delitto Corrao del 1863 e poi il delitto Notarbartolo del 1893, le centinaia di delitti che hanno colpito dirigenti e militanti del movimento contadino, fino agli anni più recenti e alle stragi degli anni ’90, nei casi in cui le indagini hanno dato vita a procedimenti penali, che già sono in numero abbastanza limitato rispetto alla totalità dei delitti, non si è mai andati oltre l’individuazione dei soggetti criminali e mafiosi direttamente responsabili e già questo veniva considerato un successo, quasi un’anomalia, se si tiene conto che nella stragrande maggioranza dei casi i processi finivano con l’assoluzione tipica dei processi di mafia: per insufficienza di prove. Gli investigatori hanno cercato di guardare più in là ma senza riuscirci. Sentiamo cosa scriveva il sostituto procuratore di Palermo, il piemontese Guido Giacosa, che indagava sui pugnalatori del 1862, che si può considerare il primo caso di strategia della tensione nello Stato italiano. I fatti sono noti: il primo ottobre del 1862 ci furono dodici accoltellati per le strade di Palermo; uno dei pugnalatori, Angelo D’Angelo, inseguito e catturato, collabora con la giustizia (potremmo considerarlo il primo “pentito”, anche se per questa vicenda non si parla ancora di mafia), fa i nomi dei complici, indica come finanziatori e mandanti il principe di Sant’Elia, senatore del Regno, e il principe di Giardinelli. Gli esecutori vengono condannati, tre di essi a morte. Il giovane sostituto procuratore non crede al coinvolgimento del principe di Sant’Elia (“uno dei più bei nomi della Sicilia, un nome che non si pronuncia senza essere accompagnato dal plauso degli onesti. Io ho profferito arrossendo quel nome. Iddio perdoni a chi profferì l’empia calunnia”), ma successivamente cambierà avviso e dovrà constatare che la giustizia usa due pesi e due misure: Con basi assai meno imponenti sono stati condannati quei dodici disgraziati, tre dei quali pagheranno tra poco alla giustizia con terribil fio. (…) Gli indizi per noi esistevano ed erano di una gravità e importanza innegabili. Dico di più: gli indizi contro i principi di Sant’Elia e Giardinelli erano maggiori e più imponenti di quelli contro tutti gli altri imputati Se per i delitti politico-mafiosi antichi e recenti non si è riusciti a ricostruire e a sanzionare la trama delle contiguità e della plurisoggettività (e anche le inchieste sulle stragi più recenti sembrano avviate sullo stesso binario), le inchieste che hanno riguardato uomini politici o funzionari dello Stato solo in alcuni casi si sono concluse con condanne. È stato condannato per associazione mafiosa l’ex senatore democristiano e assessore nelle giunte Orlando Vincenzo Inzerillo; sono stati condannati per concorso esterno: l’esponente di Alleanza nazionale Filiberto Scalone, l’ex assessore regionale democristiano Franz Gorgone, il magistrato Giuseppe Prinzivalli, il funzionario di polizia Ignazio D’Antone; il funzionario di polizia e dei servizi segreti Bruno Contrada è stato condannato in primo grado e assolto in appello, mentre il giudice di Cassazione Corrado Carnevale è stato assolto in primo grado e condannato in appello. Come sappiamo, gli imputati più noti (il presidente della provincia di Palermo Francesco Musotto, l’ex presidente del Consiglio e senatore a vita Giulio Andreotti, l’ex ministro Calogero Mannino) sono stati assolti. Gli inquirenti hanno utilizzato la fattispecie di associazione mafiosa, per Andreotti, e di concorso esterno in associazione mafiosa, negli altri casi, fattispecie di elaborazione giurisprudenziale che però ritroviamo già nell’Ottocento, come è stato documentato da una spigolatura tra vecchie pagine (probabilmente con una ricerca apposita si troverebbero altri casi). Ma un conto è “avere scientemente somministrato ricovero… vettovaglie e vesti” ai banditi della banda Capraro, di cui si legge nelle pagine ingiallite del “Circolo giuridico”, che riportano una decisione della Corte di Cassazione di Palermo – Sezione penale del 17 giugno 1875, un altro incriminare Andreotti e altri esponenti politici. Recentemente Caselli e Ingroia si sono posti il problema della giustizia, forte con i deboli e debole con i forti, quasi negli stessi termini in cui se lo poneva il giovane Giacosa. Secondo i dati relativi al 2000 il Tribunale di Palermo ha inflitto o confermato 116 condanne all’ergastolo per omicidi di mafia a imputati interni a Cosa Nostra, ma non ci sono state condanne per imputati esterni. I due magistrati si chiedono a cosa possa essere dovuto uno scarto così clamoroso e formulano tre ipotesi: la Procura è efficiente nei processi agli affiliati ma non lo è negli altri casi; la prova è più difficile quando si tratta di “relazioni esterne”; i criteri di valutazione della prova non sono omogenei. Gli autori inclinano per la terza ipotesi e nei motivi dell’appello alla sentenza per il processo Andreotti presentato dalla Procura si parla di “analisi atomistica” degli elementi probatori e di “destrutturazione del compendio probatorio”36. Si potrebbe dire che anche i magistrati respirano l’aria in circolazione, che è poi quello che gli stessi Caselli e Ingroia lasciano intendere quando scrivono che “le oscillazioni degli indirizzi interpretativi, soprattutto in tema di valutazione della prova, specialmente nei processi di mafia, potrebbero per certi versi ricollegarsi al mutamento degli orientamenti politico-culturali dominanti in un dato momento storico”. E il momento storico che attraversiamo è davvero prodigo di mutamenti, non solo sul terreno della mafia e del rapporto mafia-politica. Riguardo alla contrapposizione tra il “metodo Falcone” e quello di Caselli e dei suoi collaboratori, mi limito a osservare che, ovviamente, ognuno ha la sua personalità e questa non può non pesare nell’attività professionale, ma mi pare che ancora una volta si ricorra a un vecchio espediente: la santificazione del morto e la delegittimazione dei vivi. E forse, nella storia della magistratura italiana, nessuno è mai stato tanto delegittimato, da vivo, come Giovanni Falcone.
Mafia, sistema elettorale e rappresentanza In materia di rappresentanza, di sistema elettorale e di votazioni, si è insistito sull’uso mafioso delle preferenze plurime, delle cordate, sui vizi del proporzionale e le virtù del maggioritario, e si è fatta la scelta di un sistema elettorale (un maggioritario ibridato di proporzionale) di cui personalmente penso tutto il male possibile. Anche se non ci sono dati scientificamente raccolti e interpretati, non mi pare che con il nuovo sistema elettorale i mafiosi abbiano difficoltà a individuare e a appoggiare i loro referenti. Non sono neppure dell’avviso che l’elezione diretta del sindaco o del presidente della regione abbia portato vento nuovo: una volta caduta qualsiasi considerazione per la responsabilità politica o accountability che dir si voglia, la strada è perfettamente spianata, come e forse più di prima, per l’influenza della mafia sulle elezioni. Le elezioni ora avvengono all’insegna dell’illegalità più smaccata, con la diffusione infestante di gigantografie e manifesti, le campagne elettorali permanenti, la lievitazione incontrollabile delle spese. Ormai si è così abituati a questo straripamento dell’illegalità che non ci si pone neppure il problema di applicare le norme vigenti. Ognuno si sente autorizzato a emulare e a superare gli altri in questa corsa all’esibizionismo, solo che la disparità di mezzi (altro che par condicio!) è così schiacciante che i candidati dello schieramento avverso possono fare soltanto la figura degli straccioni. Le leggi n. 55 del 19 marzo 1990 e n. 16 del 18 gennaio 1992 prevedono le preclusioni alla possibilità di candidarsi alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali per chi è sottoposto a giudizio penale o a misura di prevenzione, ancorché non definitiva, per associazione mafiosa o per favoreggiamento, o per altri reati, ma alle elezioni politiche c’è il via libera alla candidatura di imputati per gli stessi reati e così sono stati candidati con la “Casa delle libertà” Marcello Dell’Utri e Gaspare Giudice, eletti a Milano e a Palermo. A Bari è stato eletto nella lista di Forza Italia Gianstefano Frigerio, successivamente arrestato per una condanna definitiva per corruzione, concussione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti, reati commessi quando era segretario della Dc lombarda. Tra le aziende che avevano pagato tangenti c’era la Edilnord di Paolo Berlusconi. Dato che è vano sperare in codici di autoregolamentazione, non si dovrebbe disporre che, con i processi in corso, non ci si possa candidare alle elezioni politiche? La risposta è scontata: non lo si è fatto prima e adesso una tale richiesta sarebbe bollata come “accanimento persecutorio”. L’art. 11 ter della legge n. 356 del 7 agosto 1992 ha introdotto il reato di scambio elettorale politico-mafioso, che consiste nella promessa di voti fatta dall’affiliato all’associazione mafiosa che in cambio riceve somme di denaro. La formulazione del disegno di legge era più ampia: prevedeva anche, come contraccambio alla promessa di voti, l’impegno di agevolare l’acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti, contributi, finanziamenti pubblici o, comunque, la realizzazione di profitti illeciti. Questo scambio voti-denaro è una fattispecie rachitica, di difficilissimo riscontro (credo che ci siano stati pochissimi casi: il più recente riguarda un certo Alfonso Lo Zito, presidente provinciale dell’Udeur e candidato in quel di Agrigento per l’Ulivo), assolutamente inadeguata per rappresentare la complessità dello scambio elettorale. Esso non è a senso unico: non sono i mafiosi a cercare i candidati, ma spesso sono questi ultimi che ricorrono ai mafiosi. E l’oggetto dello scambio non è tanto la dazione di una somma di denaro o l’adozione di un provvedimento determinato, quanto l’avvio di un rapporto che tornerà utile quando si presenterà l’occasione. Per l’ennesima volta il legislatore ha avuto una visione riduttiva e parziale del fenomeno mafioso, ma già la stessa legge antimafia del 1982, che pure rappresenta un fatto storico per l’individuazione dell’associazione mafiosa come reato, anche se con più di un secolo di ritardo, era arretrata rispetto alla realtà, bloccata com’era a una visione della mafia detentrice di beni immobili o dedita ad attività imprenditoriali, quando già negli anni ’70 si era fatta strada a grandi passi la “mafia finanziaria”38. Nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica la parola d’ordine più diffusa è stata la lotta contro la partitocrazia, indicata come la responsabile di tutti i mali, che ha assunto i caratteri di una vera e propria campagna di antipolitica, e le presunte grandi novità sono state il trasversalismo e la personalizzazione della politica. Con la crisi della forma-partito storica sono subentrate forme di rappresentanza caricaturali, come le liste nominative, i partiti personali, il partito-azienda, il padrone-leader, la politica come spettacolo e prodotto pubblicitario, il contratto diretto con gli elettori firmato negli studi televisivi, la nuova piazza mediatica in cui si esibiscono personaggi che sembrano tratti dalle commedie di Aristofane, come il conciapelli Paflagone e il salsicciaio Vincipiazza protagonisti de I cavalieri. Con tutti i loro limiti e con i gravi compromessi che sappiamo, i partiti politici erano il frutto di una storia, avevano una visione della società, una cultura, un galateo; ora sono stati sostituiti da macchine manageriali ancora più costose, da programmi-spot, dall’insulto e dalla diarrea iconografica, dall’arroganza tipica dei nuovi ricchi e dei loro clientes, dalla filosofia secondo cui tutto è permesso se hai mezzi e facciatosta per farla franca. Per la mafia, che pure ne ha conosciute di annate ricche, forse non c’è mai stato un contesto più ospitale di questo.
Controllo sull’attività politico-amministrativa Il controllo della mafia sulle istituzioni si è configurato come identificazione-compenetrazione con gruppi politici e burocratici, come rapporto di scambio, permanente o limitato, e si è concretato con la presenza in organi elettivi come i consigli comunali (dal 1991 a oggi ne sono stati sciolti 109, ma l’applicazione della legge n. 221 del 22 luglio 1991, che prevede lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, non sempre è apparsa limpidamente motivata) e con il ruolo negli appalti di opere pubbliche. Dalla lettura delle motivazioni dei decreti di scioglimento dei consigli comunali si ricavano indicazioni significative sulle modalità di attuazione del controllo mafioso sulle istituzioni. I mafiosi sono presenti direttamente come consiglieri comunali, assessori o sindaci, oppure hanno rapporti di parentela, di amicizia o di affari con rappresentanti delle istituzioni e in tal modo esercitano un condizionamento che si concreta nell’inosservanza del principio di legalità, nel mancato soddisfacimento dei diritti dei cittadini, nel favorire gli interessi di mafiosi e privati. Si rispettano le forme della democrazia rappresentativa ma essa viene svuotata dei suoi contenuti. Gli appalti sono stati considerati il punto d’incontro tra mafia, imprenditori, funzionari e politici e anche inchieste recenti hanno confermato il perdurare di una situazione che era emersa negli anni ’80. Prima si parlava di “accordi triangolari”, tra imprese, politici, pubblici funzionari, governati da un “ambasciatore” di Cosa Nostra o di un “comitato di gestione” formato da imprenditori sotto la supervisione dell’associazione mafiosa (il “tavolino”), e si pensava che in seguito alle rivelazioni di Angelo Siino e di altri e ai processi a imprenditori coinvolti in queste spartizioni le cose fossero cambiate. Ora si scopre che a vincere le gare d’appalto sono imprese esterne alla Sicilia con ribassi dell’uno per cento, mentre la media nazionale è del 16, e che le gare d’appalto indette dall’Anas sono controllate da un cartello di imprese di amici e prestanome di Bernardo Provenzano, latitante da 39 anni. In queste mani rischiano di finire i 18.600 miliardi di Agenda 2000. Provenzano, dopo aver praticato intensamente lo stragismo prima con Luciano Liggio e poi con Totò Riina, si sarebbe riconvertito alla mediazione e sarebbe il capo della cosiddetta “mafia sommersa”, da alcuni scambiata per sconfitta e inesistente39. A riprova che la mafia è stata e continua a essere un sistema adattivo: formalmente rigida e abbarbicata alle sue radici, di fatto elastica e aperta a tutte le possibilità di affari e di alleanze offerte dal contesto.
La relazione della Commissione antimafia su mafia e politica del 1993 aveva indicato con chiarezza quali sono gli obiettivi della mafia sul terreno degli appalti: …lucrare tangenti, collocare mano d’opera nei subappalti, far acquisire le forniture alle ditte “amiche”. Ma l’obiettivo generale è più ambizioso: con le mani sugli appalti Cosa Nostra riesce a controllare gli aspetti essenziali della vita politica ed economica del territorio, perché condiziona gli imprenditori, i politici, i burocrati, i lavoratori, i liberi professionisti. Questo aspetto contribuisce a rafforzare il dominio sul territorio, consolida il consenso sociale, potenzia le singole famiglie mafiose nel territorio, nella società e nell’ambiente politico ed amministrativo40. Le mani sugli appalti sono insomma una delle forme più significative dell’esercizio di quella che ho chiamato “signoria territoriale”, un dominio totalitario che costituisce una caratteristica storica della mafia siciliana41. Evidentemente gli interessi sono tali che molti pensano che bisogna continuare imperterriti su questa strada. In Sicilia ci sono 530 stazioni appaltanti, con tutto quello che ciò significa come possibilità di condizionamento e di spartizione della torta, e la proposta di ridurre il numero drasticamente a 9 (una per provincia) finora è rimasta nei cassetti.
Come la politica produce mafia. Dualità della mafia e dello Stato La politica contribuisce a perpetuare e a sviluppare il fenomeno mafioso, assicurando l’impunità, che è una forma di legittimazione, facendo funzionare le istituzioni in modo da ospitare e favorire soggetti e attività direttamente o indirettamente collegati con i mafiosi, erogando il denaro pubblico ai mafiosi e ai loro alleati, criminalizzando le istituzioni con l’introiezione di metodi e comportamenti illegali e mafiosi. È un discorso che comincia da lontano e che finora non è stato smentito. Si è parlato di “legalizzazione della mafia” per la politica della Sinistra negli anni Ottanta del XIX secolo e si possono ricordare la repressione del movimento contadino con l’uso intrecciato della violenza mafiosa e istituzionale che ha spianato la strada all’affermazione del dominio mafioso, il ruolo della spesa pubblica nella nascita della mafia urbano-imprenditoriale come “borghesia di Stato” (senza il capitale pubblico e senza il rapporto con le istituzioni non sarebbero nati i mafiosi-imprenditori degli anni ’50 e ’60), il ruolo dei servizi segreti regolarmente deviati e delle logge massoniche come la P2, fantasma dissoltosi ormai nell’aria, in cui figuravano vertici istituzionali, le pratiche di corruzione sistemica che hanno coinvolto imprese, partiti e istituzioni. Tutto questo non rientra nel novero delle disfunzioni e delle deviazioni, ma si inscrive in una sorta di codice genetico dello Stato così come si è concretamente configurato. Secondo uno stereotipo corrente la mafia, per i suoi delitti che colpiscono uomini delle istituzioni, si porrebbe come un “antistato”; in effetti la mafia più che violare il diritto nega il diritto perché non riconosce il monopolio statale della forza, ha un suo codice di regole e una sua giustizia e usa l’omicidio come una sanzione equivalente alla pena di morte. Quindi essa è fuori e contro lo Stato, ma per le sue attività legate all’uso del denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica, nelle forme che abbiamo già richiamato, la mafia è dentro e con lo Stato. A questa dualità della mafia corrisponde una dualità delle istituzioni e dello Stato. In tutta la vicenda del movimento contadino, dall’ultimo decennio del XIX secolo agli anni ’50 del XX, con la parentesi del ventennio fascista, il monopolio statale della violenza, formalmente costituito, conviveva con la violenza privata mafiosa, funzionale al mantenimento dell’assetto di potere, e anche se le inchieste sui delitti politico-mafiosi e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro paese, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, non dovessero arrivare a risultati giudiziari, come tutto lascia pensare, si può considerare un dato acquisito come verità storica che settori delle istituzioni hanno avuto un ruolo, quanto meno, nel coprire i responsabili e nell’ostacolare la ricerca della verità giudiziaria. È significativo che la Commissione stragi non sia riuscita a approvare una relazione ufficiale, per cui i membri del gruppo Democratici di sinistra hanno pubblicato una relazione di minoranza e il presidente della Commissione ha usato le pagine di un libro-intervista per dire che l’Italia ha vissuto una tragica esperienza di frontiera: una democrazia giovane e fragile con una collocazione geografica di confine e questo spiega tante cose43. Riprendendo un’espressione coniata da Ernst Fraenkel per analizzare la politica dello Stato nazista, lo storico Franco De Felice ha parlato di “doppio Stato” a proposito dello Stato italiano nel periodo della guerra fredda. Lo Stato avrebbe incorporato una doppia lealtà, cioè una doppia fedeltà, alle alleanze internazionali e alla Costituzione, e questa doppiezza spiegherebbe il comportamento dei servizi segreti, le vicende di Gladio e della P2 ecc.. Uno studioso americano, Alan Wolfe, negli anni Settanta aveva parlato di dualità dello Stato individuando una duplice articolazione nella politica degli Stati Uniti: da un lato i poteri ufficiali che prendevano le decisioni, dall’altro gli apparati per la creazione del consenso, operanti in segreto e nell’ ombra. Non è questo il luogo per riprendere la vexata quaestio della sovranità limitata, se non per dire che non condivido una visione secondo cui tutti gli ordini, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, venivano da Washington: in realtà più che il frutto di un’imposizione esterna la storia d’Italia dal dopoguerra a oggi è il prodotto di un matrimonio consensuale in cui si sono ritrovati interessi geopolitici e interessi nazionali e locali46. Lo Stato duale di Wolfe e il doppio Stato di De Felice sono elaborazioni teoriche che rispondono a esigenze analitiche determinate: il primo per lo studio della politica americana, il secondo per l’analisi del periodo della guerra fredda e dell’equilibrio bipolare. Non sono passe-partout buoni per tutti gli usi, con cui spiegare tutte le dicotomie istituzionali. Ciò non toglie che alcune indicazioni possano essere utilizzate purché si abbia cura di adattare gli strumenti analitici alla realtà ricostruita attraverso una documentazione adeguata. Per quasi mezzo secolo in Italia si sono confrontate la doppiezza dello Stato e la doppiezza del Pci, legato per lungo tempo a Mosca, e se l’antifascismo, da cui è nata la Costituzione, ha fatto da cemento unitario, ha agito una costituzione materiale che prevedeva il ricorso a qualsiasi mezzo pur di tenere lontani i comunisti dal potere istituzionale. La violenza mafiosa e stragista sono state usate a questo scopo. E per lunghi anni l’antimafia ha visto alla testa i partiti della opposizione social-comunista e si è scontrata con le istituzioni saldamente in mano ai partiti conservatori. Con la caduta del “socialismo reale” e con la dissoluzione del Pci, la doppiezza, che faceva convivere legalità formale e illegalità di fatto, dovrebbe essere finita ma il quadro attuale è ben lontano dal somigliare al migliore dei mondi possibili.
Quadro attuale: la legalizzazione dell’illegalità Recentemente ha suscitato comprensibili reazioni una dichiarazione del ministro dei lavori pubblici Lunardi che diceva che “con la mafia bisogna convivere”, come si convive con gli incidenti stradali che, tra l’altro, fanno più morti delle stragi mafiose. Al di là della battuta, la politica dell’attuale governo nei suoi primi cento giorni va ben oltre la convivenza con la mafia. Con una serie di provvedimenti che hanno tutta l’aria di essere i passaggi di una strategia ideata e attuata con la massima coerenza, il governo delle destre procede spedito sulla strada di una vera e propria legalizzazione dell’illegalità. Ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito che va oltre le politiche classiste. Potremmo chiamarlo: interesse privato in atti legislativi. La detassazione delle donazioni e delle successioni, la depenalizzazione del falso in bilancio, la legge sull’inutilizzabilità delle rogatorie, l’incentivazione al rientro dei capitali sono in primo luogo regali che il capo del governo fa a se stesso, ai suoi familiari e ai suoi soci in affari. Le giornate di Genova ci hanno mostrato cosa i nostri governanti intendono per ordine pubblico e la rimozione del Commissario antiracket Tano Grasso dà un’idea di che cos’è lo spoils system in versione italiana. La televisione pubblica si può dire già privatizzata. Sono in cantiere la riforma del Csm e la separazione delle carriere dei magistrati. Questi non sono problemi di categoria; se crolla l’indipendenza della magistratura, crolla uno dei pilastri della democrazia. Con la priorità sbandierata ai quattro venti della “guerra al terrorismo”, tutto il resto, a cominciare dalla mafia, diventa marginale e trascurabile, ma le rogatorie internazionali se non hanno un bollo a ogni pagina sono carta straccia, perché neppure la lotta al terrorismo può avere partita vinta contro gli interessi del presidente del consiglio e dei suoi amici che hanno diritto a prevalere su tutto. Il no del governo italiano a inserire tra i reati per cui si prevede il mandato di cattura europeo la corruzione e i reati finanziari, che toccano direttamente il premier, è la riprova di una politica volta a tutelare interessi personali, addebitando alla “campagna denigratoria” e al “mendacio” dell’opposizione, dei “comunisti”, l’isolamento del nostro paese. Il progetto di riforma dei servizi segreti, con licenza per gli 007 di compiere reati e con la sottrazione a ogni tipo di controllo, salvo quello diretto del capo del governo, inietterà un’ulteriore dose di illegalità garantita all’interno di un sistema già abbondantemente permeato dalla illegalità legalizzata. Tutto questo non può registrarsi sotto la voce “sorpresa”: i programmi di Forza Italia e della “Casa delle libertà” erano chiarissimi ed erano stati in larga parte preannunciati da Licio Gelli con il suo “Piano di rinascita democratica”: un personaggio dimenticato ma in realtà assurto a padre della patria. Il partito di Berlusconi è un puzzle o un’insalata mista, frutto di un gioco combinatorio che mette insieme un’iconografia calcistica (che ha un grande appeal, se si tiene conto che il pallone è diventato un business e un consumo obbligatorio quotidiano), una caricatura d’ideologia all’insegna del più viscerale, ma non per questo inefficace, anticomunismo e di un neoliberismo ridotto a legge della giungla e imposizione del più furbo, la pratica e la teorizzazione dell’illegalità e l’ostentazione dell’impunità, una macchina organizzativa robusta e diffusa sul territorio, riedizione aggiornata del partito-pigliatutto, guidata da un leader più esibizionista che carismatico e controllata dai suoi sottoposti con piglio padronale-manageriale, una propaganda ossessiva, con grande dispendio di mezzi, che usa le tecniche della comunicazione di massa con una spiccata predilezione per il linguaggio-spazzatura. Forza Italia è molto di più di un partito personale, di un partito-azienda. È il caglio di un blocco sociale e la summa di un modello antropologico. Nel successo delle destre hanno avuto un ruolo significativo le scelte della Confindustria e della Chiesa cattolica. Interessata la prima a rafforzare il comando del capitale, cancellando o riducendo drasticamente le conquiste dei lavoratori, mentre la seconda ha barattato il suo appoggio con qualcosa di più di un piatto di lenticchie, a cominciare dai finanziamenti alle scuole private. Fanno parte del blocco sociale imprenditori, professionisti, speculatori, faccendieri ecc. ecc., per i quali l’illegalità è una risorsa e il cui stile di vita è improntato alla ricerca del successo a ogni costo e alla competitività con tutti i mezzi. Il culto per il leader-liberatore, che va oltre il mito Berlusconi, la cultura della delega, il populismo e anni di istupidimento televisivo, che hanno visto le televisioni pubbliche nel ruolo di concorrenti, hanno fatto il resto. In Sicilia la vittoria delle destre è stata così schiacciante, dalle politiche alle regionali e alle amministrative, da far pensare che il blocco sociale sia così forte e compatto, nonostante qualche increspatura dovuta a ambizioni personali e all’intolleranza per atteggiamenti padronali, da assicurarsi un lungo e proficuo futuro. E qui, se possibile, anche più che altrove, il collante è costituito dall’illegalità, che va dall’abusivismo edilizio diffuso su tutto il territorio dell’isola al rientro della mafia non solo nel settore degli appalti. Uno dei luoghi classici della letteratura politologica distingue tra governo delle leggi e governo degli uomini. Governo delle leggi vuol dire: subordinazione del potere al diritto (governo sub lege) e statuizione di norme generali e astratte (governo per leges). Il governo degli uomini invece è fondato sull’arbitrio. In Italia attualmente abbiamo una forma di governo e di produzione delle leggi indubbiamente originale, tanto da essere unica nei paesi occidentali: le leggi sono ineccepibili dal punto di vista dell’iter previsto per la loro discussione e approvazione, anche se il ricorso continuo al voto di fiducia pone più di un problema, quindi non si può parlare di arbitrio, però non sono né generali né astratte ma finalizzate al perseguimento e alla tutela di interessi personali. Ed è questa privatizzazione del diritto l’aspetto più preoccupante. Bobbio nella voce “Legalità” del Dizionario di Politica cita Le Supplici di Euripide: “Nulla vi è per una città più nemico che un tiranno, quando non vi siano leggi generali, e un uomo solo ha il potere, facendo la legge egli stesso a se stesso, e non v’è affatto eguaglianza”. L’attuale capo del governo non sarà un tiranno, poiché è stato regolarmente eletto dalla maggioranza del popolo italiano, ma che si faccia fare le leggi su misura non ci sono dubbi. Ecco cosa scriveva la “Sueddeutsche Zeitung”, altro covo di estremisti irriducibili, lo scorso 19 novembre: “Berlusconi e la giustizia rappresentano un conflitto di ruolo che è senza uguali nell’Unione Europea: un capo del governo, che è anche un imputato, e che come Premier concepisce delle leggi dalle quali trae vantaggio l’imputato stesso”. L’attacco alla magistratura per questo governo, per questa maggioranza, per questo blocco sociale, non è espressione di intemperanza verbale, frutto della carenza di galateo istituzionale di qualcuno, ma una necessità che scaturisce da una precisa esigenza: l‘illegalità è funzionale alla costruzione del modello istituzionale e all’attuazione del modello di accumulazione e di sviluppo. Il primo è fondato sul rafforzamento del potere esecutivo, sull’asservimento del legislativo e la dipendenza del giudiziario; il secondo punta all’incremento dei capitali, a prescindere dalla loro provenienza, e alle grandi opere, da realizzare in gran fretta, abolendo o riducendo i controlli. Da questo punto di vista l’Italia non è un’anomalia, ma si inserisce in un contesto mondiale dominato dai processi di globalizzazione, all’insegna dell’affermazione di poteri di fatto (l’esempio più eclatante è il G8) e dei processi di finanziarizzazione, che offrono nuovi spazi alla simbiosi tra capitali illegali e legali. L’in più del “caso italiano” è la concentrazione di potere economico, politico e mediatico in un unico personaggio. Per condurre in porto questa strategia i governanti attuali menano colpi in tutte le direzioni. Si è cominciato riscrivendo la storia: secondo la vulgata corrente il primo governo Berlusconi non è caduto per le contraddizioni interne alla coalizione, non sono stati Bossi e Buttiglione a farlo cadere ma il “golpe giudiziario”. Si è continuato con gli attacchi ai magistrati, fino a chiederne l’arresto, perché non applicherebbero una sentenza della Corte costituzionale, ma in realtà per un delitto più grave: la lesa maestà del capo del governo e dei suoi amici. L’abolizione delle scorte ha tutto il sapore di una punizione: vi siete comportati male e adesso vi abbandoniamo al vostro destino. Mi auguro che non si apra una nuova stagione di sangue; i mafiosi hanno capito che bisogna controllare la violenza e non sono mai stati così bene, ma ovviamente non c’è da fidarsi. Anche se ne abbiamo viste tante, apprendere dagli organi di stampa che la madre del ministro degli interni è più protetta di un magistrato impegnato in indagini sulla mafia, fa ancora senso. Finora il collante della democrazia italiana è stato l’antifascismo; ora si sta diroccando anche questo pilastro portante in nome di una visione secondo cui contano le intenzioni e non le scelte per il loro valore oggettivo. Se non si tiene ferma la distinzione tra democrazia e fascismo e si guarda solo alla “buona fede”, si possono mettere sullo stesso piano Resistenza e Repubblica di Salò e si scambia per conciliazione nazionale una storia-marmellata che prelude a uno stravolgimento della Costituzione. Di questo passo l’Italia non sarà più una Repubblica fondata sul lavoro ma sull’interesse privato dei più ricchi e dei più forti. C’è da chiedersi se possano estendersi all’Italia attuale le analisi sugli “Stati-mafia” riguardanti alcuni Stati direttamente impegnati in attività criminali. Si tratta in particolare di Stati balcanici, come la Serbia e l’Albania, in cui le organizzazioni criminali, dedite al traffico di droghe e di armi e con un ruolo di primo piano nelle guerre che hanno insanguinato quell’area dopo la dissoluzione del regime socialista, si sono annidate al vertici delle istituzioni53. Situazioni sostanzialmente omologhe si sono registrate in altri paesi ex socialisti, a cominciare dalla Russia, dove le organizzazioni criminali si sono sviluppate dal seno stesso del Kgb e del Pcus e le borghesie in ascesa sono espressione di gruppi criminali, mentre pratiche illegali e corruzione allignano ai vertici del potere, come nel caso della famiglia Eltsin, coinvolta in operazioni di riciclaggio di capitali attraverso banche di vari paesi. L’espressione “Stati-mafia” è nuova ma il fenomeno non lo è. Di criminocrazia, più esattamente di narcocrazia, si è parlato per vari paesi i cui governanti sono risultati direttamente coinvolti nel traffico di droghe, e tra i casi più noti si citano la dittatura del generale García Meza in Bolivia, il regime di Noriega in Panama, il regime militare in Birmania. Per Stati-mafia possono intendersi Stati interessati da un duplice fenomeno: le connessioni tra organizzazioni criminali e istituzioni, rappresentate da uomini incriminati per corruzione o per mafia, e l’uso, continuativo o frequente, di pratiche criminali da parte delle istituzioni stesse. In Turchia attualmente sono al governo uomini che hanno fatto parte della banda politico-criminale dei Lupi grigi e ciò accade in un paese che fa parte della Nato e bussa alla porta dell’Unione Europea. Per l’Italia il quadro che abbiamo tracciato presenta molti elementi che inducono a pensare che ci troviamo di fronte a una forma di potere in cui l’illegalità viene rovesciata in legalità e questo va oltre la collusione di qualche politico con qualche boss o la commissione di uno o più reati da parte di singoli rappresentanti delle istituzioni.
Prospettive Stiamo vivendo uno dei periodi più difficili della storia dell’Italia repubblicana e dobbiamo ricostruire un quadro di analisi adeguato ed elaborare un programma d’azione praticabile. E ognuno deve fare la sua parte. I magistrati che si sono posti in sede inquirente e in sede giudicante il problema della plurisoggettività dei delitti politico-mafiosi e della responsabilità penale dei politici incriminati per rapporti con la mafia hanno fatto quel che hanno potuto, con risultati insoddisfacenti. Berlusconi e i suoi amici parlano di “condanne senza prove” ma a volte sembra di essere di fronte a “assoluzioni con prove”: non so se per un eccesso di garantismo o per qualcosa di simile alla “terza ipotesi” di cui hanno parlato Caselli e Ingroia. Strumenti come il concorso esterno si sono rivelati inadeguati e nel frattempo molte armi si sono spuntate: si è drasticamente ridotto il numero dei collaboratori, sottoposti a condizionamenti che scoraggiano, se non cancellano, la volontà di collaborare. L’azione della magistratura anche nel periodo più proficuo di contrasto alla mafia militare si è sviluppata in un vuoto di lotta politica e di impegno culturale. E qui c’è una responsabilità delle forze politiche che hanno caricato tutto sulle spalle dei magistrati, ma pure della società civile, più meno organizzata. Il trionfo delle destre e la sconfitta del centro-sinistra non sono casuali. I governi di centro-sinistra hanno peccato in atti e in omissioni: non hanno regolato il conflitto di interessi, non hanno varato una nuova legge elettorale, hanno fatto pesanti concessioni in tema di giustizia e diroccato una parte della legislazione antimafia, pensata e attuata in un’ottica di emergenza, non hanno regolato un tema delicato come quello delle rogatorie internazionali. E si potrebbe continuare. Ma non va ignorato quel tanto che si è riusciti a fare. Penso all’attività della Commissione antimafia e in particolare alla relazione sul caso Impastato, che ho definito “il primo capitolo di una storia dell’impunità”, con gravi responsabilità delle istituzioni puntualmente documentate, che difficilmente avrà un seguito. Il problema è che di “responsabilità politica” non parla più nessuno e le considerazioni della Commissione antimafia, che pure rappresentavano un’acquisizione significativa, sono rimaste lettera morta. A mio avviso è necessario riprendere quel tema e dargli quella concretezza che non aveva: qui si misura la volontà delle forze politiche di operare scelte coerenti con le dichiarazioni e i proclami antimafia. Voglio dire qualcosa di più su quella che considero casa mia, cioè sulla società civile. Anche qui ha dominato la cultura della delega al leader-liberatore e al santo-miracolatore (non per caso Leoluca Orlando si è autodefinito “il Berlusconi di Sicilia” e si sono avuti limiti gravi su cui non mi pare si voglia riflettere adeguatamente. Nella mia Storia del movimento antimafia ho cercato di tracciare un quadro in cui registro iniziative significative, non episodiche e precarie: il lavoro nelle scuole, le associazioni antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Ma qui voglio fare degli esempi in negativo, purtroppo non gradevoli. Ai tempi del maxiprocesso, ci siamo trovati in pochissimi, solo il Centro Impastato e l’Associazione delle donne siciliane contro la mafia, a sostenere due donne del popolo palermitano, Michela Buscemi e Vita Rugnetta, che si erano costituite parte civile ed erano state isolate da tutti in nome di una sorta di purezza razziale o classista della lotta alla mafia che ispirò la decisione del comitato per il sostegno delle parti civili di devolvere i fondi raccolti solo ai familiari dei servitori dello Stato, escludendo le due donne che avevano fatto la loro scelta spinte anche dal fatto che si era costituito quel comitato e che non sarebbero andate incontro a spese per loro proibitive. La motivazione dell’esclusione: i loro congiunti erano, o potevano essere, contigui alla mafia e forse esse stesse vivevano alla sua ombra. Abbiamo detto che le due signore facevano parte di un ambiente popolare tradizionalmente dominato dalla sudditanza alla mafia, e che il loro gesto aveva un’importanza enorme perché rompeva con quella cultura, e quindi andavano sostenute in modo da rendere la loro scelta un esempio da seguire; e che se fossero state in qualche modo legate alla mafia a maggior ragione si sarebbe dovuto sostenerle, per il significato che assumeva quella rottura. Ha prevalso quello che allora ho chiamato “bigottismo antimafia”, che considera la lotta contro la mafia come un impegno istituzionale e un’esclusiva della gente bene. Voglio ricordare che abbiamo aperto una nostra sottoscrizione e abbiamo raccolto una cifra assai modesta e che anche persone che ci hanno fatto sapere di non condividere la decisione del comitato si sono guardate bene dal dare una lira e dal dire una parola. In tal modo si sono scoraggiati gli altri che avrebbero potuto fare quella scelta e si è persa un’occasione per coinvolgere, in qualche modo, gli strati popolari. Si è troppo spesso praticata un’antimafia predicatoria, all’insegna di protagonismi discutibili. La vicenda del Coordinamento antimafia è una pagina segnata dalla rozzezza e dal settarismo, ma a suo tempo è stato fatto passare come il meglio dell’antimafia59. In anni non lontani un membro della Compagnia di Gesù teorizzava che il sospetto era “l’anticamera della verità”, attaccava Falcone sulle pagine de “l’Unità”60 e godeva di molto credito; in seguito si sarebbe avvicinato a Forza Italia, evidentemente sulla base della convinzione che i suoi esponenti siano al di sopra di ogni sospetto anche quando sono sotto processo per mafia. Oggi assistiamo alle iniziative di un personaggio singolare, che coniuga l’attivismo antimafia, con ampio coinvolgimento di magistrati e uomini di cultura, con i segni delle stimmate, i messaggi degli Ufo e i segreti di Fatima. Capisco che la lotta contro la mafia richiede la mobilitazione di tutte le nostre risorse e che bisogna sopravvivere, in qualche modo, in un mondo in cui più che andare in scena la fine della storia di Fukuyama o lo scontro tra civiltà di Huntington si diffonde un’epidemia, forse arrestabile ma finora non arrestata, di fondamentalismi, ma è troppo chiedere che ci sia un po’ più di razionalità? Recentemente Palermo è stata proclamata “capitale mondiale della cultura della legalità”. A dire il vero, nonostante le buone intenzioni e le manifestazioni antimafia, non c’è forse città in Occidente in cui l’illegalità sia così diffusa e tanto religiosamente praticata: dallo “sporco dunque sono”62 a come si prende l’autobus (pochissimi pagano il biglietto e quasi tutti entrano dall’uscita ed escono dall’entrata), ma qualcuno va in giro per il mondo a parlare di una Palermo più immaginaria che reale e in città vengono delegazioni a imparare la “cultura della legalità”. Sbaglio o ho ragione a pensare che se vogliamo sostenere le sfide che abbiamo di fronte, non di illusioni e di mitomanie abbiamo bisogno ma del massimo di intelligenza e di lucidità? Vorrei concludere con qualche proposta. Se non vogliamo che passino altri vent’anni per rivederci dobbiamo darci strumenti e forme di comunicazione permanente o almeno frequente. Penso a un allargamento della redazione della rivista “Questione Giustizia”, che va aperta alla collaborazione non solo degli “addetti ai lavori”; potremmo redigere un’agenda di impegni comuni, con scadenza annuale o più ravvicinata, e la prima iniziativa di riflessione potrebbe essere un seminario su “Istituzioni, economia e legalità”. La nostra “campagna per la libertà di stampa nella lotta contro la mafia”, dopo un avvio promettente, attraversa una fase di magra: ci sono ben altre cose a cui pensare, a cominciare dal terrorismo, e questo è un macigno che minaccia di schiacciare tutto e tutti. Mi rendo conto che tocchiamo un problema delicato e che non è facile trovare un equilibrio tra tutela della persona e diritto di cronaca e di critica, ma appunto per questo c’è bisogno di aprire una discussione e coinvolgere competenze diverse. Pensiamo alla costituzione di un gruppo di studio e di riflessione e chiediamo a giuristi e operatori della giustizia di darci una mano. Parlare di mafia e politica e di legalità oggi è necessario più che mai, ma non possiamo farlo sotto la spada di Damocle dell’impoverimento, con un uso distorto del ricorso al procedimento civile che fa parte di una strategia che vuole condannarci al silenzio in attesa di tempi migliori.
Mafia, parla un supertestimone: “Il sindaco di Calatafimi ha pagato trenta euro a voto” Il boss del paese seppe della deposizione e fece sapere: “Sono molto arrabbiato per queste cose dette alla polizia”. Il primo cittadino al palazzo di giustizia di Palermo, si avvale della facoltà di non rispondere Un testimone ha accettato di raccontare alla squadra mobile di Trapani cosa avvenne durante l’ultima campagna elettorale per le amministrative a Calatafimi: “A casa mia si presentò una persona che mi promise la somma di 50 euro per ogni voto che avrei fatto convogliare in favore del candidato sindaco Antonino Accardo. Mi vennero consegnati piccoli volantini elettorali, già compilati, sui quali era riportato il nome di Accardo”. Dopo la vittoria elettorale, quella persona si ripresentò dal testimone: “Mi diede 30 euro, somma che a suo dire proveniva direttamente dal sindaco. Mi infastidii per quella cifra, tanto che chiesi spiegazioni. Mi rispose che quella era la somma che gli era stata data dal sindaco per pagare i voti ricevuti da parte di coloro che lo avevano votato”. Il testimone non ha voluto fare il nome del presunto emissario. “Ho paura”, ha detto.
Mafia, affari e politica nel feudo di Messina Denaro, 13 fermi. Indagato il sindaco di Calatafimi
Qualche giorno dopo, non si sa come, la notizia della deposizione arrivò al boss di Calatafimi, Nicolò Pidone, che convocò un incontro fra i suoi fedelissimi per discutere del caso. “Doveva parlare di meno”, sbottò. Il clan era in agitazione. “Ha menzionato un sacco di persone”, disse un altro dei fidati di Pidone, e intanto una microspia della squadra mobile intercettava. Si stabilì di fare arrivare un messaggio al testimone. “Per fare cadere la cosa”.
La procura ha indagato il sindaco Accardo per corruzione elettorale. Oggi, il primo cittadino è stato convocato al palazzo di giustizia dai pm Francesca Dessì e Pierangelo Padova, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
“Le indagini hanno consentito di accertare in modo incontrovertibile – è scritto nel provvedimento di fermo – che molti dei voti espressi in favore del sindaco Antonino Accardo sono stati comprati attraverso la corresponsione di denaro agli elettori e ciò, per quanto allo stato emerso nelle investigazioni, in conformità alla volontà di Cosa nostra”. di Salvo Palazzolo 15 Dicembre 2020 LA REPUBBLICA
NOTE
1 La pagina su Palermo del sito Internet delle Nazioni Unite (htpp//www.odccp. org./ palermo) può considerarsi un esempio emblematico della disinformazione imperante. Dopo la citazione di una frase di Giovanni Falcone datata 2 dicembre 1992 (anche i meno informati sanno che Falcone è stato ucciso il 23 maggio di quell’anno), seguiva un testo in cui si affermava che prima la Sicilia era conosciuta in tutto il mondo per la mafia ma che nel corso degli anni ’80 “la mentalità dei siciliani cominciò a cambiare”, mentre l’inchiesta Mani pulite cambiava il sistema politico italiano, e ora la mafia è a pezzi e Palermo vive il suo Rinascimento. Non solo si dava un’immagine trionfalistica della lotta contro la mafia e la corruzione, smentita dai fatti, ma si ignoravano le grandi lotte contro la mafia che hanno visto come protagonista il movimento contadino, a cominciare dall’ultimo decennio del XIX secolo, inducendo a credere che la mobilitazione antimafia sarebbe cominciata solo negli ultimi anni, grazie al ruolo di alcuni personaggi, più interessati ad accreditare la loro immagine di “liberatori-miracolatori” che a promuovere un reale cambiamento. In parallelo con la conferenza delle Nazioni Unite alcune associazioni hanno organizzato un seminario dal titolo “I crimini della globalizzazione”, i cui Atti sono in corso di pubblicazione.
2 S. Romano, Un cavaliere all’estero, “Corriere della sera”, 26 ottobre 2001, p. 1.
3 Il motto è stato richiamato da un altro prestigioso editorialista, P. Ostellino, in un articolo intitolato Fassino, l’Airbus e l’orgoglio italiano, sempre sul “Corriere della sera”, 3 novembre 2001, p. 2 e dall’allora candidato alla segreteria del maggiore partito dell’opposizione: cfr. la risposta di P. Fassino, ivi, 4 novembre 2001, p. 35. Entrambi non sono a conoscenza che il motto anglosassone somiglia come due gocce d’acqua a un proverbio nostrano, cioè di Cosa nostra, che suona: “difenni u to, drittu o tortu”. Ai due illustri interlocutori si potrebbe consigliare la lettura del Gorgia di Platone e in particolare del brano in cui Socrate sostiene che bisogna denunciare l’ingiustizia anche quando viene commessa da se stessi, dalla propria famiglia e dalla patria: cfr. Platone, Gorgia, Laterza, Bari 1964, p. 90.
4 Cfr. C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori, Milano 1958, p. 202 (prima edizione: Einaudi, Torino 1945).
5 In Atti parlamentari, Consulta nazionale, Discussioni, seduta del 26 settembre 1945, p. 18.
6 Le recenti condanne in sede civile per diffamazione a mezzo stampa del politologo Claudio Riolo e di chi scrive hanno un significato che va oltre i singoli casi. Riolo è stato condannato per un articolo sul periodico “Narcomafie” del novembre 1994, in cui criticava il comportamento del presidente della provincia di Palermo Francesco Musotto che nel processo per la strage di Capaci difendeva un imputato mentre l’ente locale si costituiva parte civile; lo scrivente è stato condannato per aver pubblicato nel volume L’alleanza e il compromesso, edito nel 1997, alcuni stralci di un testo anonimo in cui si attribuiva all’ex ministro Calogero Mannino un ruolo nel delitto Lima. Secondo l’avvocato di Mannino, avrei fatto mie le affermazioni dell’anonimo, ma nel libro è detto esplicitamente che il testo proviene direttamente o indirettamente da ambienti mafiosi e da avversari politici dell’ex ministro. Nel giugno del 2001 con alcune associazioni abbiamo lanciato un “appello per la libertà di stampa nella lotta contro la mafia”, con due obiettivi: una nuova regolamentazione legislativa in materia di diffamazione e la costituzione di un fondo di solidarietà.
7 Il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, in una serie di rapporti redatti negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi anni del XX secolo e conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, parla di una associazione di malfattori organizzati in sezioni, divisi in gruppi sotto il comando di un capo, al cui vertice è un capo supremo. Il processo che scaturì dalle indagini del questore Sangiorgi, celebratosi nel 1901, in mancanza di prove testimoniali, si concluse con molte assoluzioni e lievi condanne. Cfr. S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1996, p. 117.
8 Procura della Repubblica di Palermo, Requisitoria contro affiliati a “Cosa Nostra”, Palermo 1985, p. 490.
9 Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione processi penali, Ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni +706, Palermo 1985, pp. 978 s.
10 Tribunale di Palermo, Corte di Assise, Sentenza contro Abbate Giovanni + 459, Palermo 1987, p. 1212.
11 Procura della Repubblica di Palermo, op. cit., pp. 461, 488.
12 Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione processi penali, Ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 162, Palermo 1987, pp. 429 ss.
13 G. Falcone – G. Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, in Consiglio Superiore della Magistratura, Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, Roma 1983, p. 49. La relazione fu ripubblicata in G. Borré – L. Pepino (a cura di), Mafia, ‘ndrangheta e camorra, F. Angeli, Milano 1983, pp. 177-209.
14 Il testo della relazione è stato pubblicato da “l’Unità” del 31 maggio 1992; la citazione è tratta da U. Santino, La mafia come soggetto politico, Centro Impastato, Palermo 1994, p. 32.
15 Verbale dell’audizione di G. Falcone al Csm del 15 ottobre 1991, p. 99.
16 Ivi, p. 35 bis.
17 Ivi, p. 58. Stralci del verbale dell’audizione di Falcone in U. Santino, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, pp. 58, 111 s.
18 Si veda U. Santino – G. La Fiura, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990, pp. 36-53.
19 Rimando alle mie considerazioni nel corso del seminario di Cosenza: cfr. U. Santino, Per una nuova analisi del fenomeno mafioso: dalla separatezza all’integrazione, in G. Borré – L. Pepino (a cura di), op. cit., pp. 37-53, in particolare pp. 46 ss.
20 Ricordo in particolare un articolo di Alessandro Pizzorusso su “l’Unità” del 12 marzo 1992, dal titolo: Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché. L’articolo è stato ripubblicato in G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 200-205.
21 Camera dei Deputati – Senato della Repubblica, XI Legislatura, Doc. XXIII, n. 2, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari (da ora in poi: Commissione antimafia), Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore L. Violante, Roma 1993, p. 22.
22 Ivi, p. 40.
23 Cfr. M. Morisi (a cura di), Far politica in Sicilia. Deferenza, consenso e protesta, Feltrinelli, Milano 1993.
24 R. D’Amico, La “cultura elettorale” dei siciliani, in M. Morisi (a cura di), op. cit., pp. 235 ss.
25 Cfr. U. Santino, La mafia come soggetto politico. Ovvero: la produzione mafiosa della politica e la produzione politica della mafia, in G. Fiandaca e S. Costantino (a cura di), Le mafia, le mafie tra vecchi e nuovi paradigmi, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 118-141; Idem, La mafia come soggetto politico, cit.; Idem, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, cit.
26 Com’è noto Leopoldo Franchetti, che assieme a Sidney Sonnino condusse un’inchiesta in Sicilia nel 1876, parlava, a proposito della mafia siciliana, di “industria della violenza” e di “facinorosi della classe media”. L’opera di Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, è stata ripubblicata dal’editore Donzelli di Roma nel 1993. Di Mario Mineo, dirigente prima del Psi, poi del Pci e infine della Nuova sinistra, si veda: Scritti sulla Sicilia, Flaccovio, Palermo 1995, in particolare pp. 208 s.
27 Per un’esposizione sintetica di questa analisi rimando al mio La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995.
28 Cfr. M. Weber, Economia e società, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano 1981, pp. 46 ss.
29 H. Popitz, Fenomenologia del potere, il Mulino, Bologna 1990, p. 65.
30 Il generale garibaldino Giovanni Corrao venne assassinato il 3 agosto 1863. Corrao, capo del gruppo radicale, veniva considerato da ambienti governativi, che mettevano insieme oppositori politici e criminali, il capo della mafia. Si parlò di delitto compiuto da sicari della polizia o di conflitti d’interessi per problemi di proprietà ma l’omicidio rimase impunito. Su Leopoldo Notarbartolo, ex sindaco di Palermo e ex direttore del Banco di Sicilia, ucciso il primo febbraio del 1893, particolarmente preziose le testimonianze del figlio Leopoldo che si battè perché fosse fatta giustizia, accusando come mandante del delitto il deputato liberale Raffaele Palizzolo, prima condannato e poi assolto. Cfr. L. Notarbartolo, Il caso Notarbartolo, Editrice Il Vespro, Palermo 1977; Idem, La città cannibale. Il memoriale Notarbartolo, Edizioni Novecento, Palermo 1994. Sul delitto Notartbartolo, che portò il problema della mafia alla ribalta nazionale, si veda la bibliografia nella mia Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 356.
31 Il primo mafioso collaboratore di giustizia è Salvatore D’Amico, che nel 1876 rivelava quel che sapeva della setta degli Stuppagghieri di Monreale, di cui faceva parte, e veniva ucciso prima del processo. Cfr. A. Crisantino, Della segreta e operosa associazione. Una setta all’origine della mafia, Sellerio, Palermo 2000.
32 In P. Pezzino, La congiura dei pugnalatori. Un caso politico-giudiziario alle origini della mafia, Marsilio, Venezia 1992, p. 62.
33 In L. Sciascia, I pugnalatori, Einaudi, Torino 1976, p. 60. Sul caso dei pugnalatori di Palermo, oltre ai libri di Sciascia e di Pezzino già citati, cfr. U. Santino, La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, pp. 148-156.
34 Cfr. C. Visconti, Vecchie pagine, in “L’Indice Penale”, Nuova serie, III, n. 1, gennaio-aprile 2000, pp. 421-429.
35 Cfr. G. Caselli – A. Ingroia, Rigore della prova e “metodo Falcone”, in “Questione Giustizia”, n. 4, 2001, pp. 705 s.
36 Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Appello avverso la sentenza n. 881/99, Palermo 2000, p. 2.
37 G. Caselli – A. Ingroia, op. cit., p. 708.
38 Sull’evoluzione del fenomeno mafioso rimando al mio La mafia finanziaria. Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario-industriale, in “Segno”, n. 69-70, aprile-maggio 1986, pp. 7-49; trad. inglese: The financial mafia. The illegal accumulation of wealth and the financial-industrial complex, in “Contemporary crises. Law, crime and social policy”, Vol. 12, No. 3, September 1988, pp. 203-243. Il testo italiano è stato ripubblicato in U. Santino, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso d’analisi, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 179-241.
39 Sugli appalti cfr. F. Viviano, Sicilia, appalti a misura di clan. Maxi-inchiesta dell’Antimafia, “la Repubblica”, 19 novembre 2001, p. 21; su Provenzano cfr. E. Oliva – S. Palazzolo, L’altra mafia. Biografia di Bernardo Provenzano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.
40 Commissione antimafia, op. cit., p. 71.
41 Cfr. i miei: L’omicidio mafioso in G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989, pp. 319 ss.; Se la società civile gioca fuori casa, in “Narcomafie”, III, n. 1, gennaio 1995, pp. 7-9; La mafia interpretata, cit., p. 152.
42 Cfr . U. Santino – G. La Fiura, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990, pp. 111 ss.
43 Cfr. Gruppo Democratici di Sinistra – L’Ulivo, Stragi e terrorismo in Italia dal dopoguerra al 1974, Roma 2000, dattiloscritto; G. Fasanella e C. Sestieri con G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000.
44 Cfr. E. Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983; F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi storici”, 1989, n. 3, pp. 493-563; P. Cucchiarelli – A. Giannulli, Lo Stato parallelo. L’Italia “oscura” nei documenti e nelle relazioni della Commissione Stragi, Gamberetti Editrice, Roma 1997; N. Tranfaglia, Un capitolo del “doppio stato”. La stagione delle stragi e dei terrorismi, 1969-84, in Aa.Vv., Storia dell’Italia repubblicana, 3**, Einaudi, Torino 1997, pp. 5-80; F .M. Biscione, La polemica sul doppio Stato e la conflittualità civile nell’Italia repubblicana, in corso di pubblicazione sulla rivista “Trimestre”.
45 Cfr. A. Wolfe, I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, De Donato, Bari 1981.
46 Rimando al mio La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
47 Il mandato di cattura europeo pone indubbiamente delicati problemi di armonizzazione delle legislazioni dei vari paesi, ma le giustificazioni addotte da Berlusconi sono di altro genere. Ha dichiarato agli ambasciatori a Roma dei paesi dell’Unione Europea: “La persecuzione di Garzón [il giudice spagnolo che indaga sulla Telecinco] nei miei confronti per reati fiscali del tutto inesistenti, è la riprova di quanto sia difficile che da noi possa venire un consenso a una cosa delicata come il mandato di arresto europeo”: cfr. U. Magri, “È tutta colpa dei Garzón…“, “La Stampa”, 7 dicembre 2001, p. 9. Successivamente si è trovata un’intesa ma il governo italiano ne ha sottoposto l’esecutività a una condizione: la modifica della Costituzione e la riforma del sistema giudiziario. Una prospettiva più preoccupante del mancato accordo. Berlusconi ha poi sostenuto che la modifica della Costituzione è imposta dall’Unione Europea. Siamo al gioco delle tre carte.
48 Il testo del Piano di rinascita democratica, con gli allegati, in Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2, 2-quater/3/VII-bis, pp. 603-625. Una sintesi in S. Flamigni, Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta P2, Kaos Edizioni, Milano 1996, pp. 113-135.
49 Per mesi, in una campagna elettorale interminabile, le gigantografie di Berlusconi hanno oscurato il paesaggio italiano, con messaggi martellanti: il “presidente imprenditore”, il “presidente operaio” e tanti altri presidenti, uno per ogni professione e per ogni mestiere, Berlusconi da solo, con faccia ritoccata, in doppiopetto-scafandro o in girocollo, in fotomontaggio con elettori sorridenti, con slogan che promettevano tutto e il contrario di tutto: meno tasse e più sviluppo, aumenti ai pensionati, lavoro per tutti, città sicure e il ponte sullo Stretto ecc. ecc. Un’offesa all’intelligenza e al buon gusto che ha raggiunto il suo acme con il libretto Una storia italiana, in cui l’enfasi autocelebrativa si accoppiava agli omissis su particolari incresciosi, dalle vicende familiari alle disavventure giudiziarie, presentate sotto la voce “golpe politico-giudiziario”. Eppure lo scopo è stato raggiunto: gli elettori-acquirenti hanno comprato il prodotto e premiato il venditore.
50 N. Bobbio e N. Matteucci, Dizionario di Politica, Utet, Torino 1976, pp. 518-520.
51 Su tali temi si vedano i miei: Una giungla chiamata capitalismo globale, in “Alternative”, n. 1, maggio-giugno 1995, pp. 17-22; Crimine transnazionale e capitalismo globale, in S. Vaccaro (a cura di), Il pianeta unico. Processi di globalizzazione, Elèuthera, Milano 1999, pp. 163-183; Dalla mafia al crimine transnazionale, in “Nuove Effemeridi”, n. 50, 2000/II, p. 92-101; Modello mafioso e globalizzazione, sito Internet del Centro Impastato: www.centroimpastato.it., in corso di pubblicazione nel volume con gli Atti del seminario “I crimini della globalizzazione”.
52 Cfr. P. Odello, Trenta agenti per le case vuote di Scajola, “l’Unità”, 22 ottobre 2001, p. 10.
53 Cfr. AA.VV., Gli Stati mafia, quaderno speciale di “Limes”, maggio 2000.
54 Si veda il mio Le mafie in Russia e nei paesi ex socialisti, in “Alternative”, n. 5-6, maggio-ottobre 1996, pp. 155-163. Nel corso del 1999 la stampa si è abbondantemente occupata degli “affari” della famiglia Eltsin in seguito a una serie di inchieste riguardanti il riciclaggio di 15 miliardi di dollari, in parte provenienti dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale, effettuato da Tatiana Dyacenko, figlia del presidente russo, con la collaborazione del ministro delle finanze Anatolij Ciubais e di altri membri del governo, del mafioso russo Semyon Yokovich Mogilevich, attraverso società off-shore e banche russe e straniere, tra cui la City Bank, la Chase Manhattan e la Republic National Bank negli Stati Uniti e la Credit Suisse. Si veda la Cronologia, a cura del Centro Impastato, pubblicata su “Narcomafie” e sul sito Internet del Centro.
55 Cfr. U. Santino – G. La Fiura, Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993, pp. 231 ss.
56 La relazione, presentata da Giovanni Russo Spena, è stata pubblicata nel volume: Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma 2001.
57 Cfr. “La Stampa”, 25 giugno 2001, p. 3 e il mio Cu vincìu? La Sicilia dopo la disfatta, in “la rivista del manifesto”, n. 20, settembre 2001, pp. 31-35.
58 Su questa vicenda si veda A. Puglisi, Sole contro la mafia, La Luna, Palermo 1990.
59 Si veda la mia Storia del movimento antimafia, cit., pp. 252 ss.
60 Si veda la prima pagina de “l’Unità” del 23 maggio 1990, con il titolo: Pintacuda contro Falcone: “Fa’ tu i nomi“; all’interno, p. 5, un altro titolo: Pintacuda: “Sì, io accuso Falcone”.
61 Per informazioni più dettagliate si veda P. Giovetti, L’esperienza straordinaria di Giorgio Bongiovanni. Segreti, stigmate, esseri luminosi, Edizioni Mediterranee, Roma 1997.
62 Mi sia consentito il rinvio a due miei testi letterari: (Anonimo del XX secolo), Una modesta proposta per pacificare la città di Palermo, Qualecultura, Napoli – Vibo Valentia 1985; I giorni della peste. Il festino di Santa Rosalia tra mito e spettacolo, Edizioni Grifo, Palermo 1999.
Relazione al Seminario nazionale di Magistratura Democratica: “La mafia fra tradizione e innovazione”, Palermo, 23-24 novembre 2001. CENTRO IMPASTATO Umberto Santino
Tesi-Magistrale