Il rapporto tra la criminalità organizzata e i governi locali

 

Introduzione

Il rapporto tra mafia e politica ha sempre rappresentato un’arma a doppio taglio. Se nel corso degli anni c’è stato uno Stato che ha cercato con ogni mezzo di reprimere questo fenomeno, come rovescio della medaglia, un’altra parte dello Stato, in tutti questi anni, ha continuato a condurre affari con la mafia.
I territori che vengono colpiti dalle infiltrazioni mafiose sono aree aride, dove la popolazione non riesce né ad avere servizi, né a sviluppare un senso di ribellione. Sono in molti a pensare che il fenomeno dei comuni “mafiocizzati” sia recente, invece non è così. A partire dal 1991 (anno in cui viene scoperta l’esistenza della ‘ndrangheta), sono venuti alla luce, da indagini svolte dalle forze dell’ordine, innumerevoli casi di soggetti legati alla criminalità organizzata, che rivestivano cariche all’interno dei Comuni. 
Da una statistica stilata, si scoprì che le regioni più colpite da questo fenomeno, erano la Sicilia e la Calabria (terre considerate, per il loro livello di arretratezza, come il terzo mondo del Mezzogiorno). 

1.1. Enti locali e mafia: un territorio conteso   

Per capire come le associazioni mafiose si insinuino ramificandosi all’interno delle amministrazioni pubbliche (in tutti i loro livelli), bisogna porre l’attenzione sul ruolo che hanno rivestito nel corso della storia dei Comuni, partendo dalla loro legislazione statutaria, e conseguentemente dalla loro autonomia, che rappresentò un fenomeno di proporzioni vastissime e raffigurò  la più  celebre  forma  di  codificazione  dello “ius proprium”.[1]
L’art. 5 della Costituzione italiana fonda l’articolazione dello Stato, da un punto di vista sia amministrativo che organizzativo, sugli Enti Locali. Possiamo dire che il nostro Paese è storicamente caratterizzato dall’istituzione comunale[2],quindi possiamo evincerne che gli apparati comunali, nel corso della storia, hanno sempre giocato un ruolo importante. Viene ormai riconosciuto legislativamente che il Comune va a costituire una componente fondamentale dell’articolazione dello Stato. In Italia, le amministrazioni locali da anni rappresentano indistintamente, da Nord a Sud, la frontiera più esposta alle infiltrazioni di stampo mafioso. 
A confermarlo sono le numerose indagini svolte dalla magistratura e le varie inchieste condotte
dalle commissioni parlamentari Antimafia, specialmente nel corso dell’ultima legislatura, che si è soffermata con particolare attenzione su questa evoluzione, la quale, soprattutto nel nostro settore, si manifesta nei centri di piccole e medie dimensioni[3]. 
Già nel lontano 1992 Giovanni Falcone aveva capito che le mafie non abitano un mondo a parte e che la loro forza risiede nella straordinaria ed immediata capacità che hanno di adattarsi ai tempi e di mimetizzarsi nel tessuto economico-sociale delle diverse comunità, stringendo relazioni ed alleanze di interessi sia con ambienti e settori professionali imprenditoriali, che operando alla luce del sole nella legalità. 
In poche parole la nuova mafia, che prende il nome di “mafia imprenditrice”, ha abbandonato i vecchi meccanismi di approvvigionamenti illeciti, come l’estorsione e il commercio di stupefacenti, per darsi all’imprenditoria (di loro particolare interesse sono soprattutto le gare d’appalto delle pubbliche amministrazioni). 
Con la Riforma del Titolo V della Costituzione, abbiamo assistito ad uno storico cambiamento di rotta rispetto al passato.
Da una parte il Titolo V ribadisce fra i suoi principi fondamentali la tutela delle formazioni sociali (art. 2) e il riconoscimento delle autonomie locali (art. 5). 
Lo stesso art. 5 comma 3[4] pone l’attuazione sia dell’autonomia che del  decentramento, fra gli obiettivi a cui deve tendere la legislazione ordinaria, la  quale deve adeguarvi i propri principi e metodi. Si afferma che lo Stato è  improntato verso il massimo rispetto per le autonomie sia locali che sociali.  
Nel corso degli anni si sono avute innumerevoli difficoltà nell’andare ad  attuare concretamente alcuni principi di carattere costituzionale, che hanno  trovato alcune resistenze alla loro messa in pratica. Visto l’insuccesso dei  principi costituzionali, e la loro conseguente mancata attuazione nel 1990, fu  emanata una legge organica di riforma degli Enti Locali (l.n.42/90)[5].
La l.142/90, al suo interno, attuava i principi costituzionali in materia, andando ad introdurre nel diritto degli Enti Locali il diritto di  partecipazione e di accesso dei cittadini ai procedimenti amministrativi[6] (prima  della riforma ogni attività della Pubblica Amministrazione si svolgeva nel più  totale silenzio). 
La l.142/90 ha apportato una significativa svolta, perché è andata a riformare l’ordinamento degli Enti Locali, rendendoli più efficienti, La conseguente riforma datata 25 marzo 1993, n.81, ha introdotto l’elezione diretta del sindaco e del presidente delle province. Successivamente, con il d.lgs. 267/2000, è stato emanato il Testo Unico Degli Enti Locali (T.U.E.L.). 
La nuova disciplina è andata a riconoscere i Comuni come: l’Ente Locale che rappresenta la propria comunità, curandone gli interessi e promuovendone lo sviluppo[7]. Una svolta nella ripartizione delle funzioni amministrative si è avuta ad opera della l.59/97[8], meglio conosciuta come legge Bassanini (che prende il suo nome dal ministro che ne fu il suo ideatore). 
La legge Bassanini introduceva il seguente principio: alle Regioni e agli Enti Locali dovevano essere attribuite tutte le funzioni e i compiti amministrativi  localizzabili nei rispettivi territori, con la sola eccezione di quei compiti e  funzioni amministrative riservati in modo espresso dalla legge medesima dello  Stato. Così facendo si andava ad operare un vero e proprio capovolgimento della  precedente logica di riparto: infatti, prima della l. 59/97, la Regione esercitava in  modo esclusivo le funzioni amministrative, nelle materie in cui essa aveva una competenza legislativa. Con la “Riforma Bassanini” si andava a realizzare un’evoluzione nell’andare ad interpretare l’art. 118 Cost.(integralmente riscritto),  in virtù della quale le funzioni amministrative venivano attribuite, in linea di  principio, sia alle Regioni che agli Enti Locali che nelle materie dello Stato che  avevano la titolarità della funzione legislativa. 
Un netto cambiamento si è avuto ad opera della Riforma Costituzionale del 2001, che ha profondamente innovato il Titolo V (cioè la parte della Carta Costituzionale  dedicata alle autonomie territoriali e al rapporto tra queste e lo Stato). Nel novellato art. 114 Cost., che apre il Titolo V[9], è attualmente sottoscritto che la Repubblica non si “riparte”, ma è “costituita” dagli Enti Locali che sono: i Comuni, le Province ed attualmente anche le Città Metropolitane. Il principio di sussidiarietà inizialmente era rinvenuto all’interno dell’art. 5 del T.U.E.L. (Cap I, par.3 e 4.8)[10]
Il principio di sussidiarietà nello specifico prevedeva che un’istituzione avente rango superiore potesse intervenire al posto di un’altra operante a livello inferiore, solamente nell’ipotesi in cui quest’ultima non fosse in grado di svolgere in modo adeguato i propri compiti. Attualmente il principio di sussidiarietà lo ritroviamo anche all’interno della nuova disciplina costituzionale, precisamente all’interno dell’art. 118 Cost. 
In sostanza, in questa disposizione, si prevede che tutte le funzioni di carattere amministrativo spettino ai comuni, salvo casi in cui, per assicurare un esercizio adeguato ed efficiente, esse non debbano essere conferite, a seconda dei casi, alle province, alle città metropolitane, alle regioni o allo Stato (C. cost., 303/2003; C.coat.,12/2004)[11].  
Di fondamentale importanza è anche il novellato art. 118 Cost. (riscritto  in seguito alla riforma del Titolo V del 2001), che testualmente afferma: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città Metropolitane, alle Regioni  e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. 
A seguito della riforma operata dalla legge cost. 3/2001, la condizione degli  Enti Locali è mutata profondamente. Prima di questa importante riforma, la loro  autonomia risultava sostanzialmente “decostituzionalizzata”, in particolar modo  per quanto riguarda quello statale. Con la riforma operata nel 2001, l’autonomia di Comuni, Province e Città Metropolitane ottiene la più ampia garanzia costituzionale. L’art. 114 Cost., non va ad operare una distinzione su questi enti, ma li va a mettere sullo stesso piano parificandoli sia alle Regioni che allo Stato. 
Tuttavia, la maggiore innovazione emersa dalla Riforma del 2001 riguarda le previsioni costituzionali, secondo cui l’amministrazione pubblica deve essere  tendenzialmente un’amministrazione locale. Infatti, l’art. 118 Cost. stabilisce da  un lato che le funzioni di carattere amministrativo siano attribuite agli enti  comunali e, dall’altro lato, che i vari Enti Locali siano anche titolari di funzioni  proprie, oltre a quelle conferite mediante legge statale o regionale. 
Dietro alle infiltrazioni mafiose all’interno dei vari comuni, non c’è soltanto un interesse economico, perché le associazioni mafiose e similari, insinuandosi all’interno degli apparati comunali, possono sia da un lato arricchirsi ed accrescere il loro patrimonio, sia esercitare un forte, potente ed incisivo controllo ad ampio raggio su tutto il territorio. 
Mediante il loro modus operandi, le consorterie criminali sottraggono allo Stato il monopolio che esso ha sul potere di organizzare la vita politica. 
I Comuni che dovrebbero rappresentare il primo presidio di legalità, il primo punto di riferimento per i cittadini e che, invece, scendono a patti con la malavita, diventando i loro “giocattoli”[12]. 
Gli Enti Locali dovrebbero assicurare ai propri cittadini dei servizi ad esempio: servizio scolastico, trasporto, buona amministrazione, ma, nei comuni “mafiocizzati”14, tutti questi servizi sono assenti. 
Si fa l’esempio del comune di Rosarno (Reggio Calabria), dove, nel 1992, si leggono le testuali parole:” Tutto rimane inerte eccetto la criminalità organizzata, il cui interesse esclusivo è solo quello di prevalere su quello pubblico”. 
I territori colpiti dal fenomeno delle infiltrazioni mafiose sono aree aride dove la popolazione non riesce né ad avere servizi né a sviluppare un senso di ribellione. Nei comuni “mafiocizzati” regnano il caos ed il non progresso. 

1.2. Il rapporto tra mafia e politica (l’evoluzione della legislazione di contrasto del fenomeno mafioso)  

Sono in molti a pensare che il fenomeno delle infiltrazioni mafiose all’interno dei Comuni sia un fenomeno recente, ma in realtà non è così. Da indagini svolte, soprattutto in Sicilia e a Reggio Calabria, sono emersi innumerevoli casi di personalità mafiose che, all’ interno dei vari Comuni, rivestivano ruoli di spicco. 
Per meglio chiarire e delineare la normativa riguardante lo scioglimento degli Enti Locali per conseguenze imputabili ad infiltrazioni mafiose, bisogna prima chiarire i presupposti che si sono intervallati nel corso degli anni tra la Pubblica Amministrazione e le organizzazioni mafiose e similari. 
Lo scopo principale della penetrazione delle organizzazioni criminali all’interno delle istituzioni è stato quello di ottenere il pieno controllo su tutto il territorio. In realtà i mafiosi non hanno in generale una vera e propria ambizione di governare o di sostituirsi alla politica locale. Il loro scopo è solo quello da una parte di usare le Pubbliche Amministrazioni come ripulitrici dei loro soldi guadagnati in modo illecito, e dall’altra di sfruttare i soldi che lo Stato concede ai vari Enti Pubblici, soprattutto presso i piccoli e medi Comuni dell’Italia del Mezzogiorno[13]
Gli Angloamericani avevano riconosciuto la mafia come “soggetto regolatore” dei conflitti sociali in grado di ottenere il controllo sul territori[14]. Da  ricerche storiche è emerso che, in tempi passati, molti mafiosi sono stati investiti di cariche elettive in molte regioni dalla Sicilia, alla Calabria, fino in Campania. 
In un discorso tenutosi davanti alla Camera, il Ministro di Giustizia Tajani affermava che:
Sulla scia della rivolta del 1866, la Destra aveva incoraggiato la polizia a collaborare con la mafia”[15]. Sempre il ministro Tajani, nel 1875, arrivò alla conclusione che: “La mafia non è pericolosa, ma strumento di governo locale” . 
Da questa forte conclusione, possiamo giungere ad affermare che, in quel particolare periodo storico, nel Sud Italia, l’infiltrazione mafiosa costituiva la regola sia di funzionamento che di nomina degli organi ammnistrativi locali, al fine di estendere il controllo su un’ampia fetta di territorio. 
Se nell’Italia meridionale il fenomeno delle infiltrazioni mafiose all’interno degli apparati pubblici si stava notevolmente ampliando, nel resto d’Italia (in particolar modo al Nord), le qualità per poter accedere a cariche ed incarichi  pubblici rimangono ancorate a sani principi politici come quelli morali. 
La mafia, durante questo periodo (fine anni ‘70 inizio anni ‘80) esce dal suo stato di clandestinità (in cui era abituata ad operare come un puparo che muove le  fila dei propri burattini) per manifestarsi. Gli esponenti mafiosi iniziano a  partecipare agli incontri e alle manifestazioni pubbliche, offrendo i loro servizi  a qualsiasi partito politico (la mafia non ha colori politici, è come un mercenario  che si offre al miglior offerente sul mercato, in modo da arricchirsi). 
La mafia, nel corso della storia, è riuscita a prendere il sopravvento perché inizialmente non vi erano controlli prefettizi sul funzionamento dell’Ente locale (se da una parte lo Stato aveva usufruito dei servizi offerti dalla criminalità organizzata, vi era un’altra parte che aveva sottovalutato questo crescente e pericoloso fenomeno). 
È proprio per questa sottovalutazione, trasformata in alcuni casi in negazionismo, e per la mancanza di una legislazione di contrasto, che la malavita ha accresciuto il suo potere riuscendo a ramificarsi ad ogni livello dei vari apparati pubblici. 
L’attenzione dello Stato sull’inaudita violenza della mafia, si accese negli anni ‘80, quando ebbero inizio le cosiddette “stragi di mafia”, o meglio quando alcune emittenti televisive dell’epoca iniziarono a trasmettere sui vari telegiornali regionali e nazionali le cruente immagini degli omicidi di “personalità eccellenti”[16]
Il primo caso nella storia dei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose risale al 1983, anno in cui l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini sciolse il comune di Limbardi in Calabria. Si scoprì che, tra gli eletti, spiccava il nome di “Ciccio” Mancuso, boss super votato anche se latitante, ricercato da ben due anni, perché indicato come un potente capomafia al vertice di una cosca che contava come suoi gregari quasi duecento affiliati[17]
Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, appena ebbe la notizia dell’elezione di “Ciccio” Mancuso, non permise nemmeno l’insediamento di quel Consiglio Comunale appena eletto; esso fu sciolto d’autorità nell’immediato per motivi legati all’ordine pubblico e soprattutto per non far perdere quella credibilità e quel prestigio che una Commissione deve sempre mantenere (in ogni caso)[18]
Si trattò di un provvedimento a carattere del tutto eccezionale, perché, per la prima volta nella storia, si riconosceva che un organo elettivo potesse essere non eletto su base democratica, ma che il procedimento elettivo in realtà era viziato[19] e che il mantenimento in carica del consiglio andava a costituire un gravissimo motivo di pericolo per l’ordine pubblico, pertanto sussistevano gli estremi di cui all’art. 323 del testo unico della legge e provinciale n.148/1915 per dar luogo allo scioglimento[20]
Lo Stato decide di dotarsi di strumenti concreti di contrasto alla mafia solo in seguito alla “stagione delle stragi” avvenuta negli anni ‘90.
Originariamente le norme di lotta furono pensate sotto un aspetto di carattere penalistico, facendole ricadere sotto l’art. 416 – bis c.p., che fu introdotto alla l.646/82 (Rongoni La Torre)[21]
Pio La Torre, durante il suo mandamento presso la Camera dei deputati, capì che, per dare una svolta incisiva alla lotta contro la criminalità organizzata, c’era bisogno di creare una legge (penale) che andasse incisivamente a colpire le loro ricchezze ed i loro patrimoni (indebitamente accumulati). Secondo La Torre, confiscare i patrimoni ai mafiosi significava indebolirli, diminuendo il loro potere e prestigio[22].  
Facendo un quadro generale, tirando le somme, ci troviamo le normative “antimafia” non perché pensate preventivamente dal legislatore, ma in seguito ad eclatanti fatti di cronaca nera che hanno insanguinato tutta l’Italia partendo dal Sud. Sempre nel contrasto alla mafia, viene emanata anche la l.55/1990, la quale recava nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre forme di pericolosità sociale. Ci si rende conto che le associazioni criminali non sono più interessate a fare business con il racket  o la vendita di stupefacenti, ma ad entrare nel mondo degli appalti pubblici. 
Bisogna però attendere la l.142/90 art.39 per avere, finalmente, l’introduzione delle ipotesi di intervento sostitutivo da parte dello Stato, con connessa rimozione degli amministratori in quegli enti che si caratterizzano per la loro collusione con la mafia e per gravi violazioni di legge, atti contrari alla Costituzione, o per gravi motivi legati all’ordine pubblico. 
Da inchieste svolte nel corso degli anni, è emerso che le relazioni tra i mafiosi e gli esponenti politici non derivano da un senso di paura o di assoggettamento, ma da qualche cosa di più profondo; vi è la  convinzione che anche la violenza, se controllata e disciplinata, può concorrere alla regolazione della società e  al successivo Governo territoriale di essa. 
Molti sindaci sono convinti che si possono servire delle mafie, e al contempo sbarazzarsi di esse senza problemi[23], ed è proprio questa convinzione che ha fatto sì che le associazioni criminali, nel corso degli anni, potessero indisturbatamente inficiarsi all’interno del tessuto economico e sociale italiano.
La parola chiave per capire perché in tutti questi anni la mafia non è stata presa sul serio è “sottovalutazione”. Lo Stato ed alcuni suoi esponenti, purtroppo, hanno pensato di ingaggiare in momenti di difficoltà la mafia, stipulando un tacito contratto, che, a differenza di uno normale (che può essere facilmente rescisso), porta a devastanti conseguenze. L’esempio sono le innumerevoli morti di personalità eccellenti e non, che, in questi lunghi anni, hanno cercato di fermare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose. 

1.3. Le origini e la diffusione della mafia all’interno dei governi locali

Per poter capire come il fenomeno “maffia” o “mafia” si sia sviluppato indisturbatamente fino ai giorni nostri, bisogna partire dalla storia della sua nascita e diffusione. Inizialmente alcuni esponenti politici locali, pur sapendo e servendosi di queste personalità mafiose, preferirono etichettare questo termine come “fantasioso”. 
“La mafia non esiste è un’invenzione dei giornalisti”: cosi molti nostri esponenti politici parlavano di questo problema, che poteva essere fermato fin dalle sue origini, e che invece silenziosamente ha continuato a proliferare per tutta l’Italia. 
Per poter meglio comprendere i rapporti tra la mafia e i governi locali, che, nel corso degli anni, si sono andati ad intersecare tra di loro, bisogna fare un piccolo excursus storico sulla nascita della mafia. 
Tra gli innumerevoli dossier sul tema della mafia, non si riescono a trovare facilmente libri di storia che spieghino questo fenomeno. Sia sa che il termine “maffia” o “mafia” si è sviluppato tra la fine dell’‘800 e l’inizio del ‘900. 
Questo fenomeno ha preso vita con il processo di democratizzazione che ha visto come principale protagonista il Sud Italia e più precisamente la regione Sicilia, dove le organizzazioni malavitose coltivavano e coltivano ancora oggi (come vedremo nelle pagine che seguiranno) fitti rapporti con esponenti politici durante le campagne elettorali (in particolar modo quelle comunali). 
Emerge con forza bruta il ritratto indelebile di una struttura criminale che aspira a modellarsi sullo Stato prendendone in appalto le funzioni fondamentali del monopolio della violenza territoriale[24].
Quando si parla dei rapporti tra mafia e governi locali, ritorna alla mente il dossier delle disavventure del dottor Galatri, alle prese con la mafia dell’Uditore, che non fu abbandonato in un cassetto, ma consegnato ad una Commissione Parlamentare d’inchiesta che indagava sullo stato dell’ordine pubblico in Sicilia[25]
L’inchiesta parlamentare che si svolse nell’estate nel 1875 (che però fu presentata solo nel gennaio del 1877) è stata la prima nella storia a trattare il tema delle mafie, in particolare a fare emergere i rapporti tra la mafia e la politica. 
L’inchiesta in realtà fa parte di un più ampio dramma politico che ebbe luogo in Sicilia tra il 1875 ed il 1877, da cui si ricava che il sistema politico italiano non soltanto non combatté la mafia dalle origini, ma contribuì attivamente al suo sviluppo. 
Da approfonditi studi si arrivò ad affermare che la mappa della politica italiana ricalcava quella della Sicilia. La storia prima menzionata non è stata raccontata a caso, perché ha rappresentato l’inizio della sottovalutazione del vero e reale potere della mafia, ad opera della prima commissione designata sul tema[26]
Già nel 1988, la classe politica italiana disponeva delle giuste conoscenze per combattere la mafia. Questa sottovalutazione del reale pericolo della criminalità organizzata fece si che essa potesse liberamente espandersi all’interno degli apparati amministrativi italiani. 
Giuseppe Albanese, questore di Palermo nel lontanissimo 1867, affermava che i capi mafia si potessero utilizzare a tutela della sicurezza (era quello che un contemporaneo dell’epoca definì come l’approccio omeopatico alla questione riguardante l’ordine pubblico). 
In pratica, lo scopo delineato dal questore di Palermo era quello di cercare di diventare “amici” dei mafiosi in modo da poterli utilizzare come procacciatori di voti ed all’occorrenza anche come agenti di polizia ufficiosi, e come contropartita per il loro aiuto si poteva offrire loro un concreto aiuto per controllare i loro nemici. Poi, ovviamente, si scoprì che Albanese era un colluso.
Possiamo concludere affermando che la mafia sia una banale storia criminale, perché essa, che piaccia o meno, fa parte della storia italiana, rivestendo un ruolo primario. 
Le organizzazioni criminali sono parte integrante della storia del potere in Italia e fanno parte a pieno titolo della storia sociale, civile, politica e religiosa del nostro bel Paese. Bisogna sempre tenere a mente che il Sud non è un mondo isolato dal resto d’Italia30
Non a caso Santi Romano, giurista di origini siciliane, che, durante i suoi studi, si pose il problema di studiare la società in relazione al diritto, arrivò alla bizzarra conclusione che non esiste solo l’ordinamento giuridico dello Stato, ma anche quello della mafia e della Chiesa31
Ma se gli organi preposti avevano fin dalle origini tutti gli strumenti per poter fermare  la criminalità organizzata, perché non li hanno messi in atto? Perché hanno continuato a sottovalutare questo fenomeno? Forse perché inizialmente si pensava di aver a che fare con semplici delinquenti di paese di un’Italia del Sud, dove regnava la più totale ignoranza. 
Ignoranza che, con il passar del tempo, è stata attribuita non più ai mafiosi, ma a coloro che non
hanno saputo gestirli e fermarli. Il mafioso non è mai stato solo un contadino ignorante, che andava con la sua coppola a zappare le terre dei ricchi possidenti terrieri, ma una personalità raffinata ed ingegnosa. 

1.4.  La nascita della normativa sugli scioglimenti dei comuni per infiltrazioni mafiose  

Ritroviamo all’interno del nostro ordinamento giuridico le normative “antimafia” non perché interrogatori arrivarono alla sconvolgente conclusione che vi era una fitta rete di corruzione tra malavita e politica. Peccato che dopo una prima e corretta intuizione, nel rapporto finale sottoscritto dalla stessa Commissione si arrivava alla conclusione che: la mafia era composta da soggetti disorganizzati ed imbroglioni, acerrimi nemici dello Stato, e non strumento di governo locale come alcuni avevano affermato

  • I. SALES, Storia dell’Italia mafiosa, Perché le mafie hanno avuto successo, Soveria Manelli, Rubbettino, 2015, p.14
  • A. FEBBRAJO, Sociologia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2013

 

ipotizzate preventivamente dal legislatore, ma in seguito a sanguinosi fatti di cronaca nera avvenuti nel 1991 a Reggio Calabria. 
Per molti anni da una parte si avevano uomini politici di differenti bandiere che a voce alta negarono l’esistenza della mafia; dall’altra parte, invece, c’era lo Stato, che inizialmente, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, non aveva prestato attenzione a questo fenomeno sviluppatosi nelle campagne siciliane.
Clamorosa fu nel 1963 la dichiarazione di un alto prelato all’indomani della strage di Ciaculli, in cui affermava che in realtà la mafia era un’invenzione dei comunisti per danneggiare la DC (Destra Democratica)[27]. Si deve la nascita della normativa sugli scioglimenti per infiltrazioni mafiose ad alcuni sanguinosi fatti di cronaca nera avvenuti a Reggio Calabria negli anni ‘90. 
Il 3 maggio 1991, tutta l’Italia apprese dai principali telegiornali dell’epoca l’esistenza della ‘ndrangheta[28]
Con la strage di Taurianova, piccolo centro agricolo della pianura di Gioia Tauro, si ebbe la prima di una lunga serie di sanguinose stragi. Tra le vittime della mattanza, il mondo intero rimase inorridito dalla morte di Giuseppe Grimaldi, barbaramente decapitato a colpi di machete in un venerdì ribattezzato come “nero”, che la storia non dimenticherà mai[29]
Lo scenario in cui si sviluppa la strage del “venerdì nero”, meglio conosciuta come la strage di Taurianova, ha come protagoniste alcune famiglie locali residenti nella provincia di Reggio Calabria, che, in quell’oscuro 3 maggio del 1991, uccisero quattro persone in orari ed in posti differenti della città.
Taurianova, negli anni ’90, era il chiaro esempio di come a comandare erano le “ndrine”[30] locali, mentre l’intera popolazione calabrese assisteva inerte, impotente e profondamente terrorizzata dalle continue e sanguinose faide. 
Dalle indagini svolte dalla polizia, si scoprì che la strage del “venerdì nero” avvenne come risposta all’omicidio di Rocco Zagari, ucciso sulla sedia del barbiere[31] (Zagari era considerato come il nuovo boss emergente, che doveva andare a sostituire Mimmo Giovinazzo, boss reggente assassinato nel maggio del 1990). 
Dopo l’eclatante caso di Taurianova, i giornali sia italiani che esteri riportarono una sequenza inarrestabile di feroci omicidi, partendo dalla strage di contrada Razzà verificatasi a metà degli anni ‘70.
La strage di Razzà viene ricordata per la morte di due militari, Stefano Condello e Vincenzo Caruso, del Nucleo Radiomobile della Compagnia locale, ma anche perché i due sfortunatissimi carabinieri assassinati involontariamente, durante il loro turno, assistettero ad una riunione della ‘ndrangheta avvenuta tra le più influenti famiglie di Gioia Tauro[32].  
In seguito alla strage di contrada Razzà, vengono scoperti alcuni fatti dell’organizzazione criminale calabrese (in particolare in materia di subappalti del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, di tangenti e di vari investimenti immobiliari). Ci siamo soffermati raccontando questi due “eclatanti” casi di cronaca nera perché è grazie a loro che si è arrivati alla l.n.142/90. 
La l. n.142/90  riguardava il nuovo ordinamento delle autonomie locali; all’art. 39 consentiva lo scioglimento dei consigli comunali in caso di atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi legati all’ordine pubblico. 
La strage di Taurianova rappresenta il primo di una lunga serie di scioglimenti di comuni per infiltrazioni operate da associazioni criminali. L’allora ministro dell’interno Vincenzo Scotti decise di sottoporre la questione al Consiglio dei Ministri. 
In quel periodo il Consiglio dei Ministri era presieduto dal Presidente del Consiglio Claudio Martella[33], il quale fu fortemente colpito dalla strage di Taurianova, nella quale si insediò un’amministrazione straordinaria per assicurare il ripristino delle condizioni di legalità (violate in seguito ad infiltrazioni da parte della ‘ndrangheta). 
Nello stesso anno, come abbiamo più volte ripetuto, fu emanato anche il decreto legge n.164/91, recante “Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, di tipo mafioso”. Il decreto legge, che introduceva al suo interno l’art. 15-bis alla legge antimafia n. 55/90, andava a prevedere un’“ipotesi” nuova di scioglimento rispetto a quelle disciplinate dalla legge sulle autonomie locali dello stesso anno.
Andando nello specifico, il decreto legge n.164/91 disponeva che: i consigli comunali e
provinciali potevano essere sciolti quando, in seguito all’esercizio di poteri associativi ed ispettivi del prefetto, fossero emersi degli elementi su collegamenti di natura diretta od indiretta degli amministratori con la criminalità organizzata, tali da andare a minare la sicurezza pubblica. 
In considerazione della specificità delle cause poste in essere alla base del provvedimento di scioglimento, il decreto legge prevedeva che esso venisse deliberato dal Consiglio dei Ministri prima ancora di essere sottoposto alla firma del Capo di Stato. 
La durata del periodo di scioglimento fu stabilita da un periodo minimo di diciotto mesi, ad un periodo più ampio rispetto all’ipotesi delineata dalla l.n.142/90. La norma, oltre alla durata dello “scioglimento”, stabiliva anche la nomina (mediante decreto di scioglimento), di un’apposita “commissione straordinaria”. La Commissione aveva come incarico principale quello di gestire l’ente: doveva essere composta da almeno tre membri che venivano scelti tra i funzionari dello Stato e fra i magistrati sia della giurisprudenza ordinaria che amministrativa. Il decreto legge, al suo interno, prevedeva anche una norma “antielusione”, che consentiva di poter dar  luogo all’adozione della misura di rigore anche in presenza di circostanze che avrebbero potuto determinare lo scioglimento per altre cause[34]

1.5. Excursus storico-normativo dell’istituto (cenni)   

Inizialmente lo Stato, non avendo preso in considerazione il “fenomeno” delle infiltrazioni mafiose, nei loro confronti non aveva attuato nessuna legge, in quanto definiva quelle organizzazioni come inoffensive. 
Dopo due anni dalla l.221/91 (legge che, come sappiamo, fu emanata nell’immediato, dopo le sanguinose stragi di Reggio Calabria), si avvertì l’esigenza di apportare alcune modifiche allo scarno impianto normativo. L’obiettivo principale fu quello di renderlo più idoneo a combattere il fenomeno delle infiltrazioni mafiose all’interno degli apparati dei vari enti locali. 
La criminalità, per molto tempo, aveva fatto da supplente allo Stato, rivelatosi incapace di gestire le associazioni criminali, che indisturbatamente stavano acquistando sempre maggiori consensi[35].
Da un’attenta analisi, emerse che, in alcuni casi, il ritorno alla gestione ordinaria dei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, avrebbe comportato la ricaduta alle elezioni degli stessi soggetti che erano stati causa del provvedimento di scioglimento. Se venivano rieletti gli stessi soggetti che in precedenza erano decaduti,  si  andava  a  vanificare  l’opera  di  risanamento  operata  dalla commissione straordinaria. 
Un’importante e significativa novità fu quella di permettere alle commissioni straordinarie di potersi avvalere di personale esterno all’amministrazione comunale. Molto spesso si scopriva all’interno dei vari comuni sciolti la presenza di personale legato alla precedente gestione o assunto non seguendo i normali criteri che dovevano rispondere all’esigenza del perseguimento dell’interesse pubblico (messo in pericolo dalla presenza di questi soggetti)[36]
È stato il d.l.n.164/91 ad aggiungere l’art.15- bis alla l.n.55/90, che andava ad introdurre una nuova ipotesi di scioglimento, rispetto a quelle previste dalla legge sulle autonomie locali promulgata nel 1990. 
Prima dell’emanazione della l.n.164/91, vi era la l.n.142/90, sull’ordinamento delle autonomie locali, la quale consentiva lo scioglimento dei singoli consigli comunali, nel caso in cui si fossero verificati gravi atti contrari alla Costituzione, o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi legati anche all’ordine pubblico. 
Il d.l.n.164/91, convertito in l.221/91, modificato ed integrato con l.n.108/94 di conversione del D.L. 529/1993, disponeva che i consigli comunali e provinciali potessero essere sciolti quando, in seguito all’esercizio dei poteri ispettivi di cui il prefetto era dotato, fossero stati accertati dei collegamenti diretti o indiretti[37] degli amministratori  tali da andare a compromettere la libera determinazione  degli  organi  elettivi  ed  anche  il  buon  andamento  delle amministrazioni sia provinciali che comunali (che in ogni caso si dovrebbero sempre tutelare), nonché il  regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati che risultino tali da arrecare un grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica. 
La l.108/94 andò ad istituire una corsia preferenziale per l’accesso ai finanziamenti sia statali che regionali per la realizzazione di opere pubbliche e per fronteggiare le varie disfunzioni dei servizi di competenza degli enti commissariati.
La l.n.108/94 si prefisse anche lo scopo di garantire nel tempo il ripristino delle condizioni di funzionalità degli Enti Locali. L’art. 15- bis, dal 1994, non è mai stato oggetto di nessuna riforma d’integrazione, perché sul piano normativo ha dimostrato di essere un valido strumento sia di contrasto alle infiltrazioni sia verso i condizionamenti malavitosi. 
L’unico intervento operato sull’art.15-bis (di tipo meramente formale) si è avuto in occasione dell’emanazione del D.lgs. n.267/2000, recante il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. 
Nello specifico, il contenuto dell’art.15- bis è stato trasferito nel Titolo VI, capo II, del testo unico, e in particolare negli artt. 143, 145 e 146. La l.n.108/94 introdusse anche la possibilità di prorogare la durata dello scioglimento, stabilita in un periodo compreso fra i dodici e i diciotto mesi, che, in alcune circostanze “particolari”, poteva essere esteso fino ad un massimo di ventiquattro mesi. 
I termini della durata dello scioglimento furono estesi in virtù dell’esigenza di assicurare il regolare funzionamento dei servizi pubblici. Altra novità sostanziale fu quella di dare la possibilità al prefetto di poter disporre, su richiesta della commissione straordinaria, l’assegnazione temporanea o il distacco di personale sia amministrativo che tecnico di amministrazioni di enti pubblici, anche in posizione di sovraordinazione. 
Presso il Ministero dell’Interno fu istituito anche un comitato di sostegno e monitoraggio
dell’azione delle commissioni straordinarie e dei comuni riportati a gestione straordinaria.  
La l.108/94  ha avuto una portata molto ampia perché, tra le tante cose, istituì anche un circuito preferenziale per l’accesso ai finanziamenti che dovevano permanere anche per la durata del primo mandato elettivo conseguente alla cessazione del commissariamento straordinario[38]
Siccome non è stata apportata nessuna modifica sostanziale nel 1994, l’interpretazione evolutiva operata dal giudice amministrativo non è stata capace di adeguare l’istituto dello scioglimento degli Enti Locali per infiltrazioni legate alla criminalità organizzata, al nuovo quadro normativo e alle nuove esigenze di lotta e contrasto alle mafie (mentre la normativa rimane ferma, negli anni, le varie organizzazioni criminali hanno saputo affinare le loro tecniche). 
Una delle maggiori preoccupazioni in questi venti anni dei vari legislatori è stata quella di cercare di fornire una maggiore efficacia ed incisività alla lotta dello Stato contro le inarrestabili infiltrazioni della malavita organizzata. 
Nel corso della XV Legislatura, la Commissione Affari Costituzionali della Camera, aveva esaminato alcune proposte di leggi in materia, andando ad elaborare un testo che nell’immediato fu condiviso dalla maggior parte dei partiti politici. 
Lo scopo principale di questo nuovo elaborato era quello di ottenere sanzioni più efficaci nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione che intrattenevano rapporti con la criminalità organizzata di stampo mafioso e similare. L’interessante proposta fu però presentata alla Commissione Affari Costituzionali soltanto nel 2005, proprio nelle ultime settimane della legislatura, e ciò, per ragioni tempistiche, portò all’insuccesso della proposta (che non fu nemmeno esaminata). 
Nel 2009 fu introdotta la l.n.94/09 (art.2, comma 30), la quale introdusse una riforma che prese il nome di “pacchetto sicurezza”. 
Si evince che le modifiche non sono state frutto di un provvedimento normativo ad hoc, ma sono avvenute tramite l’ inserimento di un provvedimento-omnibus. In sostanza, la l.n.94/09 riprende il testo di modifica che era stato elaborato in precedenza dalla Commissione  Affari  Costituzionali  della  Camera  nella  XV  legislatura, limitandosi però ad andare a riformare l’art. 143 del T.U.E.L. (di cui a breve parleremo nelle pagine che seguiranno). 
Le grandi novità operate dalla l.n.94/09 sono state le seguenti: l’introduzione di una disciplina più precisa dei presupposti, dei limiti e della procedura per l’adozione del provvedimento di scioglimento, seguito dall’estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto sia da un punto di vista oggettivo, perché sono state previste ulteriori tipologie di organizzazioni criminali, che di tipo soggettivo in relazione all’estensione delle misure applicabili. 
Attualmente le misure attuabili non prevedono più soltanto i membri appartenenti al consiglio, ma anche i dirigenti ed altri dipendenti pubblici. Per concludere, sempre nello stesso anno, si è avuta la riforma del 2009. 
Nello specifico, questa riforma ha riguardato l’introduzione, tra le conseguenze che  le  infiltrazioni  mafiose  devono  produrre,  della  compromissione  dell’imparzialità dell’amministrazione, oltre che del buon andamento[39].
Ancora oggi, una parte della dottrina afferma che le novità apportate dalla riforma del 2009 non rispondano a pieno alle innumerevoli esigenze dell’applicazione quotidiana dell’istituto. 
In particolare, si evidenzia che la legge del 2009 non ha preso in considerazione la necessità di prevedere strumenti più incisivi nella lotta contro la criminalità organizzata, che consente di allineare in modo definitivo le infiltrazioni di tipo mafioso che si vanno a sviluppare all’interno degli uffici comunali e provinciali. 
Interessanti da citare sono la proposta di legge “Villecco-Calipari” (l.n.152/2013), assegnata alla I Commissione Affari Costituzionali, ed il rapporto “Per una moderna politica antimafia”, della commissione istituita mediante d.l.n.7/2013 dall’ex presidente dei Ministri Enrico Letta, per l’abolizione di alcune proposte legate anche alla lotta patrimoniale della criminalità[40]
Mentre la normativa rimane ferma, negli anni le varie organizzazioni criminali hanno saputo affinare le loro tecniche. 
Ci troviamo in un contesto di logica emergenziale. Da una parte troviamo uno Stato impreparato ad affrontare la mafia, perché non dotato di giusti strumenti, e dall’altra parte l’altro Stato che inconsciamente si è servito delle associazioni criminali sottovalutandole. 
In molti tra esponenti politici e uomini di legge, avevano pensato che stipulare un accordo con la mafia equivalesse a sottoscrivere un normale contratto che si poteva facilmente recedere, ed invece non è stato cosi. 

Conclusioni 

Bisogna fin da subito mettere nero su bianco che la mafia, fin dalle origini, non è mai stata
considerata come un vero e proprio pericolo. In tutti questi anni, nonostante le morti di “personalità eccellenti”, come Pio La Torre, Rocco Chinnici, il Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, vi è stato un continuo meccanismo di sottovalutazione della mafia. 
È proprio questa continua e ripetuta “sottovalutazione” del reale e concreto pericolo che deriva dall’entrare in affari con la malavita, che ha permesso a quest’ultima di proliferare indisturbata in tutta l’Italia, dal Sud al Nord. 
Ma, se gli organi preposti avevano fin da subito tutti gli strumenti per poter fermare la criminalità organizzata, perché non li hanno messi in atto? 
Perché hanno continuato a sottovalutare questo fenomeno? Forse perché inizialmente si pensava di aver a che fare con semplici delinquenti di paese di un’Italia del Sud, dove regnava la più totale ignoranza. 
Ignoranza che, con il passar del tempo, è costata cara allo Stato, che si è visto ad introdurre le normative riguardanti lo scioglimento dei Comuni in seguito ad infiltrazioni e condizionamenti operati dalla mafia non come forma preventiva, ma emergenziale (si ricordi la strage di Taurianova del 1991). OFFICE ADVICE 27.6.2022