FIAMMETTA BORSELLINO – Interviste 2019

 


 

29.10.2024 FIAMMETTA BORSELLINO: «Ragazzi, non seguite le ‘liturgie’ dell’antimafia»



16.10.2019 – ATLANTIDE de LA7


5.7.2019 FIAMMETTA BORSELLINO: «SAPEVO CHE MIO PADRE POTEVA MORIRE OGNI GIORNO» L’INCONTRO Nel 1992 Paolo Borsellino fu ucciso dalla mafia insieme alla sua scorta. La figlia minore gira l’Italia per ottenere la verità: «Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse sparato avrebbe colpito me al posto suo» Era la piccola di casa, è diventata la testimone più ingombrante. Era la più attaccata a suo padre, ogni volta che lui diceva «Esco» lei si accodava, «Vengo anch’io», ma quando tutto s’è consumato era la più lontana, addirittura in un altro continente. Sembrava la più debole, s’è rivelata la più determinata nella ricerca della verità. Certamente la più esposta. «Ma noi eravamo e siamo una famiglia», precisa. «Quella di Paolo e Agnese Borsellino, i nostri genitori; di mia sorella Lucia e di mio fratello Manfredi, dei nostri figli. Eravamo la forza di mio padre, siamo la nostra». Fiammetta Borsellino è l’ultima figlia del magistrato ucciso dalla mafia – e forse non solo dalla mafia – ventisette anni fa, insieme ai cinque agenti di polizia che gli facevano da scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Era il 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio, nemmeno due mesi dopo quella di Capaci che aveva portato via Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta. Fiammetta aveva 19 anni quando suo padre saltò in aria. Oggi ne ha 46, ed è diventata un’infaticabile accusatrice del depistaggio che ha inquinato e continua a inquinare la verità su quella bomba: bugie di Stato servite a infliggere sette ergastoli contro altrettanti innocenti (oltre alle 26 condanne confermate) e coprire qualche colpevole mai individuato. Un mistero nel mistero che questa donna ha cominciato a denunciare da un palco televisivo nel venticinquesimo anniversario della strage, e da allora non s’è più fermata. Cominciando un cammino che l’ha portata nei tribunali e nelle aule delle commissioni d’inchiesta, ma anche nelle scuole, nelle parrocchie e ovunque la chiamino per ascoltare la sua domanda di giustizia, fino al carcere dove ha incontrato due carnefici di suo padre. Un percorso lungo e accidentato, ricostruito in questo racconto che è uno sfogo ma anche un segnale di speranza.

Io e mio padre «In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr). Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse spa rato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati».

La tragedia dietro l’angolo «Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo. «Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita».

Il 19 luglio 1992 «L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti. Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante. Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono. Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui. Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere. Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo».

Le mie due vite «Dopo la strage ho terminato gli studi all’università, ho cominciato a lavorare con una dedizione che non mi concedeva molto spazio per l’impegno civile. Insieme ai miei fratelli abbiamo seguito mia madre nella sua lunga malattia, e siamo rimasti in rispettosa attesa nei confronti delle istituzioni giudiziarie che dovevano darci delle risposte. In fondo anche questo è stato un insegnamento di nostro padre: avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. C’erano i processi, abbiamo aspettato che si concludessero. Nel frattempo ho messo al mondo due bambine, Felicita e Futura, che oggi hanno 8 e 6 anni e rappresentano il mio paradiso: sono loro a darmi la forza di guardare l’inferno che s’è spalancato davanti ai miei occhi quando ho scoperto i depistaggi fabbricati da alcuni investigatori, di fronte ai quale i magistrati non hanno sorvegliato o si sono voltati dall’altra parte. Ora che le mie figlie sono cresciute mi posso permettere di dedicarmi anche ad altro, la mia famiglia mi concede il tempo e il sostegno necessario a studiare le carte processuali e girare l’Italia per denunciare uno scandalo di cui ancora non si vede la fine. Forse in passato qualcuno ha scambiato la nostra educazione e il nostro rispetto verso le istituzioni per superficialità e buonismo, ma ha sbagliato i suoi calcoli. Prima la nostra casa era sempre piena di amici, falsi amici, mitomani, controllori che volevano verificare le nostre reazioni e tenerci buoni; adesso non ci cerca più nessuno, siamo soli. Ma non importa, abbiamo ugualmente la forza per andare avanti».

I depistaggi e le denunce «A forza di studiare verbali, perizie e sentenze mi sono fatta una certa competenza, e posso dire che la responsabilità dei depistaggi portati alla luce dal pentito Gaspare Spatuzza nel 2008 (si autodenunciò per la strage smascherando il falso pentito Vincenzo Scarantino, ndr) non è solo degli investigatori che hanno costruito a tavolino una falsa verità. I pubblici ministeri che negli anni Novanta hanno condotto le indagini e sostenuto l’accusa nei processi, non hanno visto o non hanno voluto vedere. A parte il balletto delle ritrattazioni e controritrattazioni, dopo un confronto tra Scarantino e un collaboratore del calibro di Salvatore Cancemi che implorava i magistrati di non credere alle bugie di quel personaggio, hanno evitato di depositare le trascrizioni lasciando che il depistaggio proseguisse. E chi s’è accorto che qualcosa non andava s’è limitato a un paio di lettere messe agli atti. Mio padre nel 1988 denunciò pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia, e per questo rischiò di finire sotto processo disciplinare davanti al Csm; è stato lui a insegnare a me, ma prima ancora ai suoi colleghi, che le ingiustizie vanno svelate. Il male non lo commette solo chi uccide, anche l’indifferenza è colpevole. Sulla strage di via D’Amelio c’è stata una regia occulta per sviare le indagini agevolata dalle sentinelle rimaste in silenzio. È come se un medico vedesse una cartella clinica palesemente falsa e non dicesse nulla. La cosa più incredibile di questa vicenda non è che qualcuno abbia depistato, perché questo purtroppo è accaduto più volte nella storia d’Italia, ma che nessuno si sia messo di traverso nonostante le carte parlassero da sole, fin da subito. Nella migliore delle ipotesi i magistrati sono stati funzionali al depistaggio con la loro incapacità o insipienza, e ancora oggi non ho sentito nessuno ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa».

L’incontro con gli assassini «Quando ho chiesto e ottenuto di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (due dei capimafia responsabili della strage di via D’Amelio, ndr) l’ho fatto per l’urgenza emotiva di condividere il dolore non solo con le persone vicine e affini, ma anche con chi quel dolore ha provocato. Guardarli e farmi vedere in faccia. E seppure non ci sono stati risultati tangibili, penso che per loro trovarsi di fronte a una vittima qualche effetto l’abbia provocato. Giuseppe è stato arrogante e quasi offensivo chiamando Paolo Borsellino “la buonanima di suo padre”, e ho notato una certa strafottenza mentre si vantava del figlio che è riuscito ad avere durante il “carcere duro”. Ma sono convinta che ad uscire rafforzata da quei colloqui sono stata io, non loro; loro sono i veri morti di questa storia, non io che vivo insieme a mio padre in ogni momento della mia esistenza. Ho fatto un salto nel buio che è servito a farmi sentire più forte, più determinata a chiedere spiegazioni. Io non cerco altre risposte precostituite, voglio solo ricostruire gli anelli di una catena. Lo ritengo un mio dovere, se ognuno avesse fatto il suo in questi anni oggi non saremmo a questo punto. Mio padre ha fatto tutto ciò che ha potuto non solo per processare i mafiosi ma anche per sconfiggere la cultura mafiosa, senza mai smettere di parlare ai giovani che sono la speranza per il futuro. È quello che provo a fare anch’io, perché in fondo pure le coperture e l’omertà istituzionale che hanno avallato i depistaggi rientrano nella cultura mafiosa.
La verità «Ma non impiccherò la mia vita a questa storia, non voglio rimanere inchiodata all’ingiustizia subita. La verità sulla strage di via D’Amelio e quello che è successo dopo non riguarda solo la nostra famiglia, ma l’intero Paese. E anche se non arriveremo a ricostruirla per intero, e dopo 27 anni so bene che è molto difficile, avrò comunque la consapevolezza di non dovermi rimproverare nulla. A differenza di altri”. di Giovanni Bianconi Corriere della Sera Luglio 2019


20 Maggio 2019 Fiammetta Borsellino “Abbiamo avuto indagini e processi fatti male” In corso a Caltanissetta il processo sul depistaggio delle indagini nella strage di via D’Amelio ove nel 1992 morirono il Giudice Borsellino e la sua scorta.

Da queste pagine abbiamo più volte argomentato su questa vicenda e in ultimo con “Il finto pentito di mafia che ha depistato le indagini sull’uccisione di Borsellino interloquiva con i Pm”. Ora la figlia del Magistrato Paolo Borsellino, assassinato da Cosa nostra il 19 luglio 1992, nel ricevere il Premio Eccellenza Franco Salvatore che quest’anno ha attribuito i riconoscimenti alle donne impegnate nel sociale, ha dichiarato al riguardo è ritornata “Il depistaggio fu una grave offesa”.

Abbiamo avuto indagini e processi fatti male. Oggi si sta cercando di capire grazie all’attività di nuove Procure perché tutto questo sia avvenuto. È ovvio che questo depistaggio, per quanto grossolano, è veramente un’offesa non soltanto all’intelligenza della nostra famiglia ma dell’intero popolo italiano“, ha dichiarato Fiammetta Borsellino.

“Nel 2017 – ha aggiunto Fiammetta Borsellino – c’è stata una sentenza, quella conclusiva del Borsellino quater che ha definito quello di via d’Amelio il più grave e grande depistaggio della storia giudiziaria di questo Paese. Il depistaggio anche nella sua grossolanità ha avuto l’effetto che doveva avere, cioè il passare del tempo. E il passare del tempo in questi casi è deleterio, compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità, ma non per questo si deve smettere di tendere ad essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. E questo noi non lo riteniamo ammissibile”.

Intanto si è avviato nell’’aula bunker del Tribunale di Caltanissetta, il processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio che vede imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex appartenenti del gruppo Falcone-Borsellino e che indagarono sull’attentato di quest’ultimo. Devono rispondere dell’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.

Il 17 maggio è stato sentito Vincenzo Scarantino, l’ex collaboratore di giustizia. Il picciotto della Guadagna ha ripreso la deposizione tornando ad accusare i poliziotti che lo avrebbero convinto ad autoaccusarsi della strage “Erano tutti consapevoli che io non sapevo niente. Ma dovevo portare questa croce… Mi hanno rovinato l’esistenza, io non ho mai fatto niente. Non c’entro con le stragi. I poliziotti mi dicevano cosa dovevo dire ai magistrati e me lo facevano ripetere Io ero un ragazzo. E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dei magistrati e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare”.

Questi aggiustamenti si sarebbero ripetuti più volte nel corso del 1995, nel periodo in cui lo stesso fu sentito per la prima volta in aula al processo Borsellino-uno “Io non riuscivo sempre a spiegare ai magistrati o alla corte quello che (i poliziotti, ndr) mi insegnavano. Loro mi dicevano. ‘Quando non sai una cosa basta che dici ai magistrati che devi andare in bagno, tu ti allontani e poi ci pensiamo noi. Ti diciamo noi quello che devi dire. Quando andavo alle udienze dicevo che dovevo fare la pipì, andavo nella stanza e mi dicevano loro cosa dire. E io poi n aula cercavo di ripetere le cose che mi dicevano”.

Quegli aggiustamenti – ha ricordato Scarantino – erano necessari per far combaciare le dichiarazioni mie con quelle di Andriotta e Candura. A San Bartolomeo a Mare cominciai a studiare con Mattei e Ribaudo”.

Rispondendo ad una domanda del Procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci (presente in aula anche il pm Stefano Luciani) ha anche riferito che durante il periodo in cui si trovava stato protezione a San Bartolomeo a Mare “veniva il dottor Bo con una carpetta e parlava con Fabrizio Mattei, a cui dava i fogli. Loro mi tranquillizzavano. Mi dicevano sempre di stare tranquillo ma la mia coscienza non mi permetteva di avere questa tranquillità che loro mi volevano trasmettere”.

Secondo quanto riferito dal “picciotto della Guadagna”, coperto da un paravento, ci sono state altre “minacce psicologiche” sarebbero state espresse anche da un altro poliziotto, Vincenzo Ricciardi, per lungo tempo indagato e poi archiviato dalla Procura nissena. Così come aveva detto al Borsellino quater, Scarantino ha accusato quest’ultimo di aver fatto pressione minacciando anche di “voler mettere i bambini nell’istituto”. “Gli dissi che ero innocente – ha detto il teste – lui mi ha fatto questa minaccia psicologica che ero lontano da mia moglie e dai miei figli che, per me, erano la cosa più importante della mia vita e quando toccavano questo tasto io rischiavo di impazzire“.

Parlando degli “aggiustamenti”, ripercorrendo le scritte su alcuni verbali di interrogatorio, il teste ha confermato che “io inserivo quello che loro mi dicevano di mettere. Il riferimento a Graviano presente nel momento della preparazione con l’autobomba? Non mi ricordo che ruolo diedi a Graviano ma ho memoria di un interrogatorio che dopo sono andato fuori e il dottor La Barbera mi diceva che c’era anche Graviano nel caricamento della macchina. Sono ricordi lontani. Anche Brusca non è che lo conoscevo. Però in queste iniziative erano cose che mi dicevano loro e io ho messo solo la mia bocca e la mia persona. Io ripetevo come i pappagalli. Conosco tutti quelli della Guadagna perché sono della mia borgata. Poi mi ricordo che mi hanno fatto inserire Carlo Greco”.

Durante l’esame a Scarantino sono anche stati mostrati dei ‘pizzini’, scritti a mano, scansionati su un computer, che erano stati aggiunti ai verbali, riferiti alle primarie dichiarazioni di Scarantino depositate al Borsellino uno, per spiegare all’ex pentito “cosa dire” durante gli interrogatori in aula al processo per la strage di Via d’Amelio. Secondo la Procura di Caltanissetta quei ‘pizzini’, che sarebbero stati vergati a mano dal funzionario Fabrizio Mattei e sarebbero una prova importante di quell’indottrinamento dell’ex pentito, per cui si trova sotto accusa assieme ai colleghi.

Proseguendo con la deposizione Scarantino ha anche ricordato l’episodio della sua ritrattazione “televisiva”, con il giornalista Mediaset Angelo Mangano “Non ce la facevo più a continuare a raccontare bugie, loro mi mettevano le cose in bocca e io le ripetevo come un pappagallo. Certe volte non riuscivo a capire, a memorizzare le parole e i poliziotti me le facevano ripetere più volte. Così telefonai a mia mamma, l’unica di cui mi fidavo, e le dissi che volevo raccontare tutta la verità, che non c’entravo niente con le stragi. Ero una bomba pronta a esplodere… Dissi a mia mamma che volevo dire la verità e lei mi rispose che era giusto e che dovevo dire solo la verità e mi ha dato il numero di un giornalista, Angelo Mangano”. “Dissi al poliziotto che era casa che volevo subito parlare con un magistrato ‘picchì un sapìa nienti’ (non sapevo ndente, ndr) – ha proseguito nel suo racconto l’ex pentito – E lui è andato a riferire che io volevo parlare con un magistrato per dire che non sapevo niente”.

Ricordando l’intervista con Mangano ha riferito “Gli raccontai al telefono che erano tutte falsità, queste persone accusate da me erano tutte innocenti. E che mi aveva fatto dire tutto Arnaldo La Barbera (che guidava il gruppo Falcone e Borsellino, ndr) e la Polizia. Mi ero liberato di un peso. Dopo che ho parlato con il giornalista è stato fissato un appuntamento con il magistrato”.

Il giorno dopo a San Bartolomeo a Mare, a detta del teste ma anche secondo quanto riferito dalla sua ex moglie, Rosalia Basile, vi sarà anche una colluttazione con Mario Bo. Ed oggi lo ha ribadito in aula: “Io dissi a Bo che avevo telefonato al giornalista perché non ne sapevo niente. E lui già stava dando i numeri e disse che dovevamo andare dai magistrati a Genova. Vado fuori nella macchina che c’erano anche i poliziotti di Imperia e scendiamo in giù con la macchina. Passa un dieci minuti, un quarto d’ora e il capo scorta si lamentava di Bo che non veniva. Io presi la scusa che mi stavo facendo la pipì addosso per tornare a casa. C’era la porta socchiusa e quando entro vedo che questo stava alzando le mani alla mia ex moglie, parlando con violenza e puntando il dito in faccia. Io così entro e gli dico ‘come ti permetti di parlare così a mia moglie?’ ma senza alzare le mani perché se lo avessi fatto gli davano mesi di prognosi. E’ lì che Bo e questo Di Ganci, che era presente, mi ha preso per il collo con la pistola in bocca. Lui mi dava calci e mi diceva urlando: ‘ti porto in un carcere peggio di Pianosa‘. I bambini piangevano e la mia ex moglie guardava disperata. Poi entrarono anche i poliziotti di Imperia che dissero che non dovevano permettersi di fare queste cose davanti ai bambini”. Scarantino ha poi spiegato di essere “tornato sui suoi passi” dopo aver parlato con il dottor Petralia (“Lui non mi disse ‘torna sui tuoi passi’ ma sono stato io a farlo”).

Nel corso dell’esame, Scarantino ha riferito che una volta la Pm Ilda Boccassini, a seguito di un interrogatorio, gli disse chiaramente “Scarantì, io non le credo“. Probabilmente il riferimento è a quell’interrogatorio dei primi di settembre 1994 in cui parlò per la prima volta di Cancemi, La Barbera e Di Matteo presenti nella riunione a casa Calascibetta. Successivamente, nell’ottobre 1994, proprio la Boccassini, prima di lasciare il suo incarico nella Procura di Caltanissetta, scrisse una lettera, inviata alle Procure di Caltanissetta e Palermo, in cui evidenziava le criticità del picciotto della Guadagna. Va comunque ricordato che prima di allora proprio la Boccassini, in una conferenza stampa datata 19 luglio 1994, a due anni esatti dall’eccidio di via d’Amelio, non metteva affatto in dubbio la credibilità dello stesso Scarantino.

Parlando del 1998, ovvero della ritrattazione di Como (durante il Borsellino bis), il teste ha raccontato che quella decisione fu maturata nel tempo “Io andai a trovare mio fratello Rosario, che stava a Modena. Lui mi diceva di dire sempre la verità, ma io dicevo che avevo paura. Gli dicevo che avevo paura della Polizia. Gli chiesi se poteva aiutare la mia famiglia, se poteva tenerla con lui perché io avevo deciso di dire tutta la verità. La verità era che io ero innocente – ha aggiunto – e che non sapevo niente della strage. Mio fratello ha accolto questa mia volontà e mi ha detto che per quanto riguardava la mia famiglia non c’erano problemi e che mi avrebbe aiutato a fare portare via la mia famiglia”. Scarantino ha anche ricordato un particolare, ovvero che “quando gli dissi che avevo paura della Polizia lui tolse la spina del telefono perché c’era la paura che ci potessero ascoltare“.

Mistero poi su un colloquio investigativo con il dottore Bo, prima del 24 giugno 1994. In una relazione, letta in aula dal Procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, datata 20 maggio 1994, si riporta di un colloquio autorizzato presso la casa circondariale di Termini Imerese in cui, apparentemente, si dava atto che lo Scarantino affermava la sua “totale estraneità rispetto i fatti contestati” ma “lasciando uno spiraglio aperto, in futuro, circa un possibile approccio collaborativo nella misura in cui possa venire a conoscenza di rapporti extra conigli della propria moglie”. “Nego categoricamente di aver avuto colloqui con Bo a Termini Imerese – ha detto Scarantino – A lui a Pianosa dissi che volevo fare ‘u spione’, non il collaboratore di giustizia. A Termini ho incontrato solo la mia ex moglie e mia madre”.

Scarantino, così come aveva fatto al Borsellino quater, non ha parlato solo dell’ex capo della Mobile di Palermo, La Barbera, tra i soggetti che si recavano da lui a Pianosa, prima che la sua collaborazione con la giustizia ebbe inizio. Vi sarebbe stato, a suo dire, anche un altro soggetto “Mi fu indicato come una persona più alto in grado di La Barbera. Nel parlare aveva più autorità di lui. Me l’ha presentato per tranquillizzarmi. Io ero all’isolamento ma già avevo dato i primi sintomi. Questa persona mi disse che non avrei mai avuto problemi nella mia vita e di fare quello che La Barbera mi avrebbe detto e di stare tranquillo“. “Di questo soggetto io parlai anche a Giampiero Guttadauro – ha aggiunto – Gli chiesi se era il capo della Polizia ma lui mi ha detto che era un’altra cosa, uno importante. Nei discorsi con Guttadauro mi spiegava che c’erano tanti corpi, mi parlava anche di servizi segreti e io afferri che poteva essere. Ma lui non mi disse niente”.

Un mondo, quello dei servizi di sicurezza, che aleggia come una grande ombra su tutta la vicenda del depistaggio. In anni più recenti si sarebbe scoperto che l’ex capo della Mobile era stato un appartenente dei servizi segreti con il nome in codice RutiliusIl processo è stato rinviato al prossimo 29 maggio per l’inizio del controesame. A prendere la parola per primi saranno i legali delle parti civili e nelle udienze successive toccherà alle difese.

“La mafia è una montagna di merda” viene scritto da anni sui muri, cartelli e lenzuoli, nei social, blog e siti, tuttavia di quello “sterco mentale” da decenni certo trasversale Stato si è risaputamente e di tutta evidenza cosparso al suo interno, dagli scranni più alti all’ultimo sgabello. Sarebbe l’ora, con leggi chiare, serie, leggibili, non ingannevoli, non troppo interpretabili, efficaci, certe e severissime, di fare pulizia e in tutte le “stanze” dello Stato, nessuna esente, diversamente se anche se ne rimane una sola “sporca” poi quel “guano” viene nuovamente trasportata sotto le “scarpe” in tutti gli altri Palazzi. Il motto dovrebbe essere: Nessuna pietà per accidia, connivenza, corruzione e criminalità. Altrimenti, come notoriamente da anni e sotto gli occhi di chi può e vuole vedere, conseguentemente la società intera scivola indolente verso l’ipocrisia, la retorica, l’omertà, la devianza pubblico-politica, le mafie e il lento declino generale, culturale ed economico.

Di Sebastiano Adduso – vivi centro


14.3.2019 LA LOTTA ALLA MAFIA E’ UN LAVORO DI TUTTI   Faccia a faccia con una donna che tutti i giorni si impegna per fare la differenza e che, proprio come suo padre, non ha paura di esporsi In questo mondo c’è chi lavora per vivere e chi muore per lavorare. O meglio: chi è morto perché ha fatto del proprio lavoro una missione di vita ed integrità. Fiammetta Borsellino è la terza figlia di uno di questi uomini: il magistrato palermitano Paolo Borsellino. Grazie all’operato di suo padre, conclusosi drammaticamente con la cosiddetta strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, esistono un «prima e un dopo» nella lotta a quel cancro italiano chiamato mafia. Incontriamo Fiammetta Borsellino in occasione di un incontro sul tema della legalità organizzato dal Gruppo Scout Agesci Fidenza 2. È solo uno dei tantissimi appuntamenti che la vedono continuamente in giro tra scuole, università e associazioni per portare la propria testimonianza. Una testimonianza senza cenni di autocommiserazione, non da «figlia della vittima», ma da persona combattiva, temprata dagli eventi, che contrasta ogni giorno omertà e silenzio lottando per una società e uno Stato liberi dalla mafia, ma anche per una verità (quella sulla morte del padre), ancora oggi negata. Non ama essere definita come qualcuno che sta facendo qualcosa di speciale (anche se è così) e non ama parlare con le persone stando lontano su un palco (ma a volte le tocca farlo). Fiammetta, classe 1973, vive con la valigia in mano e non si ferma mai anche se è stanca e se questo sottrae più tempo di quanto vorrebbe al compagno e alle due figlie. Se si cerca il suo nome su Google la si trova solo in veste di «figlia di», associata ad affermazioni dai toni importanti. Dall’immagine online, e alla luce dei fatti storici, ci si aspetterebbe qualcuno di indurito e rancoroso, invece appena la si incontra l’impressione netta è quella del calore del Sud, della passione sincera e di un sereno e consapevole baricentro.

«La rabbia c’è, ma ho trovato il mio equilibrio, mi sono fatta la mia famiglia e se ci fosse solo quella la darei vinta a chi non lo merita». Laureata in giurisprudenza, prima di dedicarsi interamente alla sua attività di «sensibilizzazione» e condivisione della propria esperienza personale, ha lavorato per 17 anni come dirigente all’interno della pubblica amministrazione nel Comune di Palermo, occupandosi dell’attivazione di servizi per tutte le fasce deboli. «Un’esperienza bellissima e interessante», ricorda.

Cosa è cambiato da quel pomeriggio del 1992, quando suo padre fu ucciso, ad oggi? Si sono fatti passi avanti nella lotta alla mafia o è solo apparenza? «Persone come mio padre sono morte semplicemente per aver compiuto con onestà il loro dovere e questo in un Paese normale non può accadere. In Italia accade perché la piaga della criminalità organizzata dal Sud al Nord è stata sempre esistente dal dopoguerra e chi la combatte incorre in chiari pericoli. Questo anche perché non si è abbastanza incoraggiati e protetti dallo Stato, dove, anzi, la criminalità ha spesso trovato terreno fertile, soprattutto in alcuni apparati. La lotta alla mafia in Italia è difficile e chi l’ha combattuta è morto perché è restato solo. Le stragi del ’92, però, hanno sicuramente segnato un giro di boa. Da quella data in poi qualcosa è cambiato, a partire dalla coscienza civile e dalla percezione collettiva. Se prima il problema sembrava appartenere solo agli addetti ai lavori dopo via D’Amelio c’è stato un sentire diverso da parte di tutti. Questo primo grande obiettivo è stato raggiunto, non dimentichiamo che tantissimi giovani italiani decisero di fare il magistrato proprio sull’onda di quanto successo. Oggi si denuncia di più e ci si volta meno dall’altra parte, ma non dobbiamo abbassare la guardia perché l’organizzazione criminale ha una capacità di riorganizzazione enorme, con controllo direttamente sul Pil del Paese. È un equilibrio molto sottile e non si deve mai parlare per slogan».

Per questo non apprezza particolarmente giornate dedicate ed eventi sul tema? «Non è che non le apprezzi, le rispetto, però sì, sinceramente ritengo molto più utile un impegno giornaliero e slegato da proclami od eventi. Insieme alle giornate dedicate e alle manifestazioni deve esserci un impegno costante. Io mi sento solo una persona che fa semplicemente il proprio dovere, niente di eccezionale, solo la condivisione di una testimonianza di vita. La mia è una forma di contrasto indiretta alla mafia, perché promuovere la cultura della legalità e del bene comune significa diffondere valori in contrasto alla mafia. La lotta a questo fenomeno deve coinvolgere tutti».

Da dove dobbiamo partire per fare la differenza? «Se le nuove generazioni hanno il coraggio di urlare ogni giorno il loro no alla mafia, la mafia finirà, perché la mafia è fatta di uomini. Per combatterla non ci vogliono le conoscenze giuste, ma la giusta conoscenza, quella che si impara a scuola. La prima cosa da fare quindi è studiare, avere consapevolezza dei propri diritti e doveri, come la casa, un lavoro, la bellezza. Sapere sempre innanzitutto che avere queste cose non deve essere una sorta di favore concesso da terzi a condizioni illecite: parliamo di diritti. Considerare uno Stato come amico e non come nemico, non cedendo all’indifferenza e denunciando quando qualcosa non va. La lotta alla mafia, come dicevo, è di tutti, non bisogna essere necessariamente dei magistrati e anche un magistrato se non è coadiuvato da una rete che lo appoggia non riesce a fare il proprio lavoro. Non basta appiccicare un bollino in negozio dicendo “io non pago il pizzo”, bisogna sempre pretendere da chi dice di lottare contro la mafia esempi concreti e azioni tangibili».

Lei vieni dal Sud Italia, dove una grande percentuale di donne non è autonoma e non lavora, ma è una di quelle che cerca di fare la differenza: come legge questo problema? «Si tratta sicuramente di un problema culturale. Quando le donne assumono un ruolo sul lavoro, in politica od economia sanno sempre dare una direzione innovativa alle cose. Lo stesso ruolo lo hanno avuto anche molte donne all’interno delle organizzazioni mafiose, sia in negativo proteggendo mariti e familiari, sia in positivo mostrando tantissimo coraggio nel combatterle. Io credo che questo ruolo fondamentale che ha la donna spesso spaventi l’uomo, culturalmente spinto ad affermare su di essa la propria supremazia. È un problema difficile da scardinare, ma l’unico modo per farlo è uscire dal silenzio. Ne è un esempio la recente testimonianza di una biologa siciliana che ha fatto richiesta d’assunzione al Nord e che per sbaglio ha ricevuto una mail delle due datrici di lavoro che si scambiavano commenti pregiudizievoli sul fatto che venisse da Palermo. Il fatto che questa ragazza abbia avuto il coraggio di denunciare l’accaduto ha fatto la differenza. Certi tabù possono essere scardinati solo a partire dalla rottura del silenzio». VANITY FAIR


12.6.2019 – FIAMMETTA BORSELLINO. «LA MEMORIA DEL SACRIFICIO DI MIO PADRE ANNACQUATA DALLA TV» Alessandra Turrisi La Procura di Catania ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati, sull’ultima puntata della trasmissione Realiti su Raidue, mentre il conduttore Enrico Lucci garantisce la bontà del suo operato e il direttore di rete, Carlo Freccero, rivendica le scelte antimafia nella programmazione di Raidue, che domani sera manderà in onda la ‘Trattativa’ di Sabina Guzzanti. Lo tsunami di polemiche che ha investito la trasmissione Realiti, che stasera però sarà spostata in seconda serata e registrata, non si ferma. Un’inchiesta è stata aperta dal procuratore aggiunto di Catania, Carmelo Petralia, che ha delegato le indagini alla polizia postale di Catania. Al centro le contestate dichiarazioni di due cantanti neomelodici: Leonardo Zappalà , presente in studio, e Niko Pandetta, nipote del boss ergastolano Salvatore Cappello, sui giudici Falcone e Borsellino. In particolare, Zappalà, 19 anni, riferendosi ai magistrati uccisi nel 1992, dice: «Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro». Un’affermazione che ha scatenato reazioni e polemiche. «Bisogna vigilare su quello che si manda in onda, sui contenuti che entrano nelle case di milioni di persone. Perché il rischio è che un lavoro capillare di testimonianza fatto nelle scuole venga annacquato da un messaggio opposto che viene dalla tv». Fiammetta Borsellino è un fiume in piena su quanto avvenuto nello studio di ‘Realiti’ su Raidue. La figlia più piccola del giudice Paolo Borsellino, ucciso nella strage di Via D’Amelio a Palermo, il 19 luglio 1992, è da tempo in prima linea nella ricerca di verità e giustizia per quello che accadde in quella tremenda estate di 27 anni fa, dopo depistaggi affermati da sentenze giudiziarie e responsabilità mai emerse. Non solo: Fiammetta Borsellino ha affrontato un percorso personale interiore, che l’ha portata a incontrare in carcere i boss mafiosi Giuseppe e Filippo Graviano, tra i responsabili delle stragi del 1992 e del 1993, ma anche a partecipare a incontri di sensibilizzazione nelle scuole e nelle case di reclusione. «Preferisco non parlare di indagini ancora in corso…» dice, appena si diffonde la notizia dell’inchiesta per calunnia aggravata, a Messina, nei confronti di alcuni pm che indagarono a Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio. Ma la considera un atto dovuto, alla luce di ciò che è emerso dalla sentenza Borsellino quater. La figlia del giudice ucciso ha sempre denunciato una «responsabilità collettiva da parte di magistrati che nei primi anni dopo la strage hanno sbagliato a Caltanissetta con comportamenti contra legem e che ad oggi non sono mai stati perseguiti». Accetta, però, di riflettere sul caso scoppiato dopo la trasmissione “incriminata”.

Com’è possibile che accadano ancora questi cortocircuiti mediatici? La questione non è tanto che un ragazzo dica quello che ha detto in tv, perché non fa altro che esprimere il contesto in cui purtroppo è cresciuto. Il vero problema è dare voce a certi elementi. La televisione pubblica deve esercitare un maggiore controllo sui messaggi che vengono veicolati.

La sua famiglia si è indignata con un post su Facebook. Chiederete qualche forma di replica? La produzione mi ha chiamato per chiarire subito che erano corsi ai ripari, chiedendomi anche di partecipare a una successiva trasmissione. Ma non è assolutamente questa la mia intenzione. Ritengo, invece, che ci debba essere un confronto televisivo tra ospiti appartenenti alla stessa generazione, perché da un lato ci sono questi cantanti neomelodici, dall’altro ci sono tantissimi ragazzi che hanno capito il vero sacrificio di Falcone e Borsellino.

Che ruolo ha il lavoro di educazione e informazione che viene fatto nelle scuole? Io lo testimonio con i fatti. Da un anno vado in giro a parlare con i ragazzi di tutta Italia, incessantemente. Il lavoro che viene fatto nelle scuole da un esercito di testimoni è importantissimo, ma si corre il rischio che questa opera capillare possa essere contrastata da un messaggio che proviene dalla tv.

Se avesse davanti questo giovane cantante, cosa gli direbbe? Che si trova sulla strada sbagliata, quella del male, perché le sue parole lasciano intendere che la morte se la sono cercata. La strada che ha intrapreso è opposta a quella percorsa da mio padre, da Falcone e da chi si è sacrificato per l’affer-mazione del bene comune, per liberare tutti dalla schiavitù della mafia. È una visione distorta che ricalca la mentalità mafiosa, quella che ha portato all’uccisione di tantissimi servitori dello Stato. AVVENIRE

 

29.10.2019 – FIAMMETTA BORSELLINO A BARI: «RAGAZZI, NON SEGUITE LE ‘LITURGIE’ DELL’ANTIMAFIA»  La figlia di Paolo Borsellino ha incontrato gli studenti dell’istituto Marconi del capoluogo e del Fiore di Modugno «Le nostre città sono cambiate, la mafia è cambiata. Ai ragazzi dico: pretendete modelli concreti di legalità, persone che mettono davvero in pratica certi valori, oltre le liturgie dell’antimafia». Minitour barese per Fiammetta Borsellino, figlia più piccola del magistrato Paolo, impegnata in un percorso di memoria e verità sui depistaggi che seguirono alla strage di via D’Amelio, in cui morirono suo padre e cinque agenti della scorta. Ieri è stata ospite dell’istituto «Guglielmo Marconi» di Bari, oggi sarà all’istituto «Tommaso Fiore» di Modugno, per un percorso di legalità a cura dell’associazione «Cariatide».

Cosa accade durante questi incontri? Chi sono i ragazzi che incontra? «Questi incontri sono un momento di confronto importante, di grande partecipazione spontanea, specie se i ragazzi sono stati accompagnati, dai docenti e dagli operatori, ad avvicinarsi e ad interrogarsi su alcuni temi. Si tratta, di solito, di tappe di un percorso più articolato, in cui i ragazzi imparano a riflettere su ciò che accade attorno a loro».

Non ci sono dunque solo baby criminali? A Bari, in particolare, l’età media in cui si comincia a delinquere è sempre più bassa… «È un tema che emerge spesso, anche oggi ne abbiamo parlato. I ragazzi sono affascinati da modelli negativi, alla ‘Gomorra’ per intenderci. E questo perché chi cresce in contesti di degrado spesso non ha alternative. Non che questo sia una giustificazione ma è indubbio che, per alcuni ragazzi, nati e vissuti in certi contesti, alcuni modelli sono più vicini, più attraenti. Ma c’è anche una seconda ragione. Questi modelli negativi offrono ai ragazzi l’opportunità di raggiungere, in poco tempo, il riconoscimento sociale e i soldi. Ma, attenzione, si tratta solo di un’illusione. Se uccidi a 16 anni, entri in una spirale di morte. Se delinqui da 16 anni, presto o tardi dovrai fare i conti con il carcere. Durante questi incontri, nelle scuole, parlo ai ragazzi di quest’illusione, invitandoli a guardare più lontano. Certo, questo non basta. È necessario offrire loro modelli concreti, non solo parole, di legalità».

Che ricordo ha di Palermo, e dei giovani palermitani, quando frequentava anche lei la scuole superiore?«Sono sempre stata una ragazza che ha vissuto la sua città, frequentavo anche i quartieri più degradati, perché facevo volontariato e perché credevo e continuo a credere che proprio nei quartieri più difficili, più degradati, si nasconde la bellezza più autentica. Adesso Palermo, come Bari e altre città del Mezzogiorno, è molto cambiata: ci sono i turisti, le zone pedonali, le attività commerciali, un processo di riqualificazione molto complesso, in cui nuove realtà convivono con chi, in questi quartieri, ha sempre vissuto».

Significa che la mafia ha perso il controllo su certi quartieri?  «È semplicistico dire “la mafia ha vinto” così come “la mafia ha perso”. In primo luogo, perché la mafia si è riorganizzata, è cambiata e guarda con interesse tutti quei fenomeni, come per esempio il turismo, che portano soldi. Oggi poi, rispetto al passato, la mafia risiede nei centri del potere economico, se volessimo semplificare diremmo nei colletti bianchi, pur continuando a gestire, per esempio, lo spaccio in strada».

Come si fa spiegare ai ragazzi che le indagini sulla strage di via D’Amelio sono state sviate?  «Comincio col dire che il mio è un percorso di verità e memoria, che vuole superare certe liturgie dell’antimafia. Continuo col dire che sono stati attivati percorsi istituzionali, che sono in corso processi, che riguardano anche figure istituzionali importanti. Tutto ciò naturalmente non può spiegarsi in uno o due incontri, proprio perché riguarda figure istituzionali significative. Non è facile da affrontare, non è facile da capire, ma è indispensabile per ricostruire la verità e la memoria».

Andare oltre le liturgie non è semplice, specie se i ragazzi, spesso loro malgrado, ne sono protagonisti.
«Quello che suggerisco loro è di non soffermarsi all’apparenza, alle parole, alla vetrina dei fenomeni. Devono cercare chi, dall’amministratore locale in su, certi valori li mette in pratica, pretendere che certi valori, tanto proclamati, diventino concreti». LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO

 


 20.3.2019 – FIAMMETTA BORSELLINO: «I GIOVANI CONTRO LE MAFIE»  La figlia del magistrato nell’isola a Cagliari, Nuoro e Oristano per raccontare la sua vita agli studenti: «Porterò la mia esperienza ai ragazzi, a loro servono gli esempi concreti»  In Sardegna c’era stata nell’estate del 1985, ma era solo una bambina: Fiammetta Borsellino aveva 11 anni, venne catapultata all’improvviso nell’isola dell’Asinara con tutta la famiglia, insieme a Giovanni Falcone e alla moglie Francesca Morvillo. Fu quella una necessità, perchè l’obiettivo era tutelare la vita dei due giudici antimafia impegnati a scrivere il primo maxiprocesso contro Cosa Nostra poi concretizzato con 475 imputati e 2665 anni di carcere. Ora la figlia di Paolo – il giudice ucciso dalla mafia a Palermo nella strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, quando lei aveva 19 anni – torna in terra sarda per dare forza al percorso che la porta in giro per l’Italia alla ricerca della verità. Perchè la verità è un diritto, e se manca, i servitori dello Stato come suo padre è come che siano stati uccisi due volte. Oggi Fiammetta Borsellino sarà a Cagliari alle 15,30 al Teatro Massimo per il ciclo di incontri organizzato dall’Osservatorio per la Giustizia presieduto dall’avvocato Patrizio Rovelli, domani a Nuoro, alle 10,30 al Teatro Eliseo e alle 15,30 a Oristano all’istituto superiore “De Castro” diretto da Pino Tilocca, l’ex sindaco di Burgos che ha avuto il padre ucciso in un attentato rimasto senza colpevoli.

Quindi cominciamo dall’Asinara, perchè quella è la prima vera volta in Sardegna… «Ho un ricordo molto lontano, ero solo una bambina e l’ho vissuta come un gioco, così pure mio fratello Manfredi. Per mia sorella Lucia, alla prima estate da adolescente, fu diverso e più difficile. Ma come sempre, per stare con nostro padre sapevamo che era giusto così e bisognava farlo. Riuscimmo a ritagliare in una vacanza forzata momenti di spensieratezza. Papà e Giovanni volevano lavorare ma non avevano le carte, e quando arrivarono si tuffarono nel loro impegno».

Oggi porta avanti l’eredità morale di suo padre. Gira l’Italia, incontra soprattutto i giovani nelle scuole come quelli che troverà a Oristano. Cosa dirà? «Non ho niente da insegnare a nessuno, porto umilmente la mia esperienza personale. Non sono abituata a fare proclami, ma sento il dovere di figlia, l’impegno civico. Sono come una bambina che ancora sogna e spera nel cambiamento vero delle coscienze. Da tempo incontro i giovani, dai ragazzi delle elementari, passando per le medie e le superiori. Seguo il primo grande insegnamento di mio padre: la vera lotta alla mafia si fa con quel movimento culturale che deve necessariamente coinvolgere le nuove generazioni».

E torniamo alla verità che manca. Ai depistaggi su via D’Amelio. L’agenda rossa che sparisce e tutte le altre anomalie. Come si fa a spiegare queste cose? «Ai ragazzi bisogna portare esempi concreti, storie vere. Altrimenti quelli sulla legalità restano solo programmi didattici che si perdono. É fondamentale. I giovani hanno bisogno di toccare con mano la realtà, anche attraverso le testimonianze dirette. Io faccio questo».

Si sente protagonista di una missione solitaria? Immaginava un coinvolgimento più ampio della società civile? «Non è un grido soltanto nostro, della famiglia Borsellino intendo. Il depistaggio e tutto quello che è successo attorno alla strage di via D’Amelio è l’offesa più grande che è stata fatta all’intero popolo italiano. Se resta questa ferita, se non ci sarà quel chiarimento che chiediamo, il Paese non ha futuro».

Basta slogan e passerelle, quindi. Lei ha detto più volte che la vera lotta alla mafia si fa aprendo gli archivi del Viminale e togliendo i segreti di Stato. Si aspetta risposte a breve? «É così, attendiamo segnali concreti che finora non abbiamo ricevuto. Andiamo avanti, c’è ancora tanto da fare purtroppo».

Eppure dopo la morte di Giovanni Falcone e di suo padre l’impressione fu quella di un cambiamento possibile sostenuto da un cambiamento vero delle coscienze. Una illusione? «Le pacche sulle spalle non bastano. Chi sa si assuma le proprie responsabilità, chi ha contribuito a realizzare il più grande depistaggio della storia d’Italia spieghi che cosa è successo e perchè. Altrimenti ciascuno se la vedrà con la propria coscienza. Mio padre era un vero servitore dello Stato, leale, coraggioso. Meritava un trattamento migliore».

Quel 19 luglio del 1992 con suo padre c’era un pezzo di Sardegna in via D’Amelio. Una ragazza, si chiamava Emanuela Loi: prima poliziotta a cadere in servizio. Cosa sa di lei? «Poco purtroppo, non l’ho conosciuta personalmente. In quel periodo c’era un avvicendarsi continuo degli addetti alla scorta. Posso però dire che era una di famiglia, perchè papà li trattava così i suoi angeli custodi. Emanuela era una di loro. Anche per lei è giusto continuare a cercare la verità e chiedere giustizia».

Evitare l’isolamento, specie dopo la morte del suo amico Giovanni Falcone. Paolo Borsellino non si è mai arreso ma sapeva che avrebbero colpito anche lui… «I 57 giorni intercorsi tra l’uccisione di Falcone e quella di mio padre sono stati frenetici. Tutti impegnati in una corsa contro il tempo. Così noi che avevano un padre sempre presente quasi non l’abbiamo più visto. Io ero fuori, un viaggio con amici di famiglia per il quale papà aveva insistito molto. Noi siamo rimasti gli stessi, i suoi insegnamenti vivranno per sempre. Una figlia non si può e non si deve arrendere mai: l’uccisione di tuo padre in quel modo è una cosa che ti tocca così forte fin dentro le viscere. Per questo dico che sarebbe innaturale, pur nella estrema difficoltà di questo percorso, smettere di fare la mia parte. Ho un desiderio di verità sulla morte di mio padre. E vado avanti con tutte le mie forze».

Sono passati quasi 27 anni dalla strage di via D’Amelio. Quanto tempo servirà ancora per fare emergere la verità? «Non si può fare passare neanche un giorno senza pretendere la verità. Chi ha cose da fare le faccia». LA NUOVA SARDEGNA


23.5.2019 – MAFIA, INTERVISTA A FIAMMETTA BORSELLINO: NON ABBASSARE LA GUARDIA!Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza. Oggi ricorre la giornata della legalità, 27mo anniversario dalla Strage di Capaci che vide la morte del Giudice Giovanni Falcone, della moglie, Francesca Morvillo e degli agenti della scorta avvenuto il 23 maggio del 1992. In questa giornata si commemorano quelle che sono state le grandi figure istituzionali e non, che hanno fatto della lotta alla mafia la loro ragion di vita e proprio per quest’ultima motivazione sono stati uccisi. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992 ci fu la Strage di Via d’Amelio, in cui rimase ucciso il Giudice Paolo Borsellino, che di Falcone era amico e con lui era stato protagonista del pool antimafia.

Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino, sul significato che hanno oggi queste ricorrenze alla luce delle domande rimaste ancora senza risposta, sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza.

Signora Borsellino, oggi ricorre il 27° anniversario dell’attentato a Giovanni Falcone, al quale seguì, il 19 luglio, quello a suo padre, Paolo Borsellino. Dopo 27 anni quanto ancora non si sa di questi attentati? Nel 2017 c’è stata una sentenza che ha stabilito come la strage di Via D’amelio sia stata una dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana. Sono stati anni di processi, ancora oggi si sta disperatamente cercando di capire chi ha cercato per tutti questi anni l’allontanamento della verità. Non è ancora chiaro chi che sono effettivamente i mandanti di quella terribile strage nella quale perse la vita mio padre. Una delle cose che ha impedito la scoperta della verità è stata sostanzialmente una serie di indagini, di processi fatti male, anche da parte delle istituzioni, che ha avuto come effetto principale l’occultamento e l’allontanamento della verità.

Alla luce dei depistaggi emersi dall’inchiesta sulla strage di via D’amelio, secondo lei, la mafia è solo un’esecutrice, il cui mandante è da cercare altrove? Ci sono delle indagini in corso, quindi, diciamo che non è opportuno trarre delle conclusioni. È molto probabile che ci siano state delle menti esterne a Cosa Nostra che si sono servite dell’odio che questi criminali avevano nei confronti dei magistrati. In questo senso possiamo dire che Cosa Nostra, quale mano armata, è stata “utilizzata” da chi all’esterno voleva l’eliminazione di queste persone.

Se un bambino dovesse fermarla per strada chiedendole cos’è la mafia, cosa risponderebbe? La mafia è un’organizzazione criminale fatta di regole, di rituali. Un’organizzazione simile ad uno Stato. Ha una mentalità che si basa sull’oppressione. È una mentalità che trae le sue fondamenta da una concezione della vita come affermazione del potere.

La mafia sembra essere un’argomento che torna di moda solo in occasione di questi anniversari, sembra che si voglia far passare l’idea che sia ormai un problema risolto o per lo meno divenuto marginale. Qual è il pericolo in questo atteggiamento? Il problema delle organizzazioni criminali, delle mafie è molto complesso, perché sono molto abili anche nel muoversi, hanno una buona capacità di organizzarsi, quindi, cedere alle semplificazioni ritenendo la mafia vinta è un atteggiamento che fa male al contrasto alla criminalità organizzata. È un problema troppo complesso, per tanto non si deve e non si può cedere alle semplificazioni, perché quando si abbassa la guardia si può dare agio a queste organizzazioni di agire. Ed è molto pericoloso. Bisogna diffidare da tutti coloro che pensano e che dicono che vogliono delle risoluzioni, perché il problema è di una complessità tale che non è facilmente risolvibile.

Quanto è importante la sensibilizzazione delle giovani generazioni e l’inserimento di questa storia nei libri scolastici? Far comprendere queste problematiche attraverso la storia degli uomini che l’hanno vissute è fondamentale perché la potenza criminale delle organizzazioni criminali si basa sul consenso dei giovani. Mio padre diceva sempre: “Quando le giovani generazioni le negheranno il consenso saremo avanti nella lotta alle mafie”. Questo problema si combatte con la cultura. Uno dei primi modi che hanno i giovani di contrastare la criminalità organizzata è studiare. È lo studio che ti dà consapevolezza dei tuoi diritti e dei tuoi doveri e anche di quelle che sono le proprie responsabilità. Se si ha questa consapevolezza, si è fatto già un primo passo nella lotta alla mafia.

 Paolo Borsellino diceva sempre che in qualunque caso, in qualunque luogo si sarebbe dovuto parlare della mafia: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”.  PANTELLERIA NOTIZIE


19.7.2019 – ESCLUSIVA – FIAMMETTA BORSELLINO: «MI VERGOGNO DI QUESTO STATO» INTERVISTA ALLA FIGLIA DEL MAGISTRATO UCCISO IL 19 LUGLIO 1992  Una lettera firmata dall’ormai ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, alla vigilia del 27° anniversario della strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta, è stata inviata ieri a Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992. 

«L’ultimo affronto (la lettera di Riccardo Fuzio, ndr), da parte di uno Stato che non ha mai voluto fare niente per individuare i veri colpevoli del depistaggio sulla morte di mio padre» rivela al Quotidiano del Sud Fiammetta Borsellino che da anni ha intrapreso una battaglia per avere verità e giustizia sulla morte di suo padre.

«Una lettera – sottolinea Fiammetta –  che vengono i brividi a leggerla, che mi indigna e che indignerebbe anche mio padre e tutti i magistrati che fanno e che hanno fatto il loro dovere».

Fiammetta Borsellino, indignata e amareggiata, rivela al Quotidiano del Sud di aver ricevuto proprio ieri la lettera di Fuzio (che si è dimesso dopo essere stato indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sull’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara). Una lettera che, dice ancora Fiammetta Borsellino, è la dimostrazione di uno Stato incapace di cercare la verità.

Ma non è tutto, Fiammetta Borsellino spara a zero anche contro la Commissione nazionale antimafia e contro il Parlamento che «strumentalizzano», a fini mediatici, e in occasione del 27° anniversario della morte di suo padre, desecretando atti del Csm e della stessa Commissione antimafia. «Una vergogna» dice Fiammetta Borsellino.

Ma cosa le ha scritto l’ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio? «Una lettera incredibile e vergognosa, nella quale dice di non essere riuscito a far nulla per avviare una indagine per l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio, indagati dalle procure di Messina e Caltanissetta: una indagine che avrebbe dovuto portare ad individuare i magistrati responsabili del depistaggio».

Mi spieghi, cosa non ha fatto l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio? «Un anno fa io e mia sorella Lucia siamo state convocate da Fuzio, al quale abbiamo portato carte, documenti testimonianze ed altro, e lui ci aveva assicurato un suo intervento per promuovere l’azione disciplinare. Perché che ci siano dei magistrati responsabili del depistaggio sull’inchiesta di mio padre, non lo diciamo noi figli di Paolo Borsellino, ma l’ultima sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta. Adesso questa lettera, scritta tra l’altro con i piedi, ci indigna ancor di più, perché dopo un anno Fuzio sostiene di non avere avuto il tempo di occuparsi di questa vicenda perché era impegnato in altre vicende giudiziarie. Quali lo abbiamo scoperto in queste ultime settimane, perché era occupato a pilotare con Luca Palamara  le nomine dei procuratori di Roma,Torino ed altre procure. Una vera e propria indecenza, si è consumato da solo».

 Insomma, è sempre più difficile ottenere la verità sulla morte di suo padre e dei suoi angeli custodi,  i cinque poliziotti che morirono con lui? «Sono passati 27 anni ed i risultati, quelli dal punto di vista processuale, dicono che  siamo con una sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta che prova il depistaggio ed un’altra inchiesta dove ci sono due magistrati indagati e non c’è stato nessun avvio  di provvedimenti, dopo evidenti anomalie. C’è stata  una totale presa in giro da parte della Procura generale della Cassazione».

Cioè? “Io e mia sorella Lucia siamo state convocate a Roma da Fuzio per fare verbali e dichiarazioni. Ma non è successo nulla, perché lui era impegnato in tutt’altro. Da allora, non si è saputo piu niente, non ha fatto nulla, non ha avviato nessuna azione di impulso per l’azione disciplinare nei confronti di quei magistrati coinvolti nel depistaggio: un totale silenzio, una totale inadempienza». Insomma, una delusione dietro l’altra da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti? «La cosa grave è che non si sono espressi in termini negativi o positivi, perché erano impegnati in altro, a mercanteggiare con le toghe da nominare. Fuzio mi ha scritto una lettera offensiva, scritta da una delle più alte cariche dello Stato . Una lettera scritta con i piedi in cui si legge: “Io (Riccardo Fuzio Procuratore Generale della Cassazione, ndr) non ho potuto fare nulla ed ho continuato ad acquisire carte ed elaborare l’istruttoria, avrei voluto fare qualcosa all’inaugurazione dell’ anno giudiziario”».

Quindi si è sentita offesa e indignata? «Ma le cose non si fanno nelle inaugurazioni degli anni giudiziari. Sono semplicemente allibita. Da mesi gli mandavo mail: caro dottor Fuzio, veramente lei ci prende per i fondelli, lei non è stato capace di produrre un atto per avviare un’azione disciplinare, il Procuratore generale della Cassazione è come il pm, se lui non ha fatto un’azione, se lui non si muove ha fatto un grave errore e forse un reato. Mi scrive: “Avrei voluto e avrei potuto fare qualcosa per soddisfare la vostra richiesta di verita”».

E lei cosa ha risposto a Fuzio? «Non ho capito la sua lettera, assolutamente priva di concretezza, perché oggi, a distanza di un anno dall’ istruttoria che avrebbe dovuto avviare, non può dire “ Io sto continuando a vedere carte. Io non sono come quelli che si pavoneggiano per il 19 luglio, io avrei voluto dare voce nell’inaugurazione dell‘anno giudiziario».

Tutto ciò sembra irreale. Lei che dice? «Ma Fuzio doveva produrre atti, provvedimenti. E comunque gli ho detto che questa lettera che mi ha mandato aveva il sapore di trincerarsi dietro false scuse per giustificare la sua inadempienza. Per me è stata una risposta di merda».

Si arriverà ad una verità? «Il danno lo hanno fatto grosso, al di là degli impegni delle procure di Messina e Caltanissetta uno non deve perdere la speranza di arrivare alla verità, non puoi mai abbandonare l’ idea di vedere la luce, queste persone indegne che hanno condotte le indagini, investigatori e magistrati, se hanno sbagliato devono pagare. Io mi riferisco a tutti i poliziotti, investigatori e magistrati che hanno lavorato fino a quando non ci fu il pentimento di Gaspare Spatuzza che ha svelato il depistaggio. Non lo dico io che c’è stato un depistaggio, lo dicono le sentenze. Ci sono dei magistrati che dicono che io sono una pazza. Ma le inchieste non dicono che sono pazza, perché hanno indagato magistrati e poliziotti. Certo, questo è stato uno dei più gravi errori giudiziari della storia italiana, una inchiesta che era coordinata dal procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, Maria Palma, Carmelo Petralia, Ilda Boccassini, la quale invece di denunciare pubblicamente quello che stava succedendo si è limitata a fare due lettere in cui prendeva le distanza da Tinebra, lettere che ha messo in un cassetto. Ilda Boccassini non doveva fare due lettere a Giovanni Tinebra, ma doveva fare una una denuncia pubblica, ha fatto quelle due lettere per “mettersi il ferro dietro la porta”. Avrebbe dovuto fare una denuncia pubblica dicendo che Scarantino era un falso pentito»,

Cosa chiede allo Stato? «Semplicemente di fare il proprio dovere. Questa è una storia molta amara, se ognuno avesse fatto il proprio dovere, di non girarsi dall’altra parte,  non avremmo magistrati indagati e poliziotti indagati. Semplicemente fare il proprio dovere dare un contributo di onestà da parte delle istituzioni».

Ma chi organizzò tutto questo ed incredibile depistaggio provato da sentenze ed inchieste? «Allora non ci furono soltanto i magistrati che lavoravano, ma un intero apparato, che investe i servizi segreti per fare delle indagini. Oggi, anzi ieri, molti si pavoneggiano di avere desecretato quegli atti. Loro (Commissione antimafia e Parlamento, ndr) puntano agli anniversari per fare vedere che lavorano. Loro, il Csm e la Commissione antimafia le fanno il 19 luglio nell’anniversario della morte di mio padre e degli uomini della sua scorta ed hanno il sapore della strumentalizzazione mediatica». QUOTIDIANO DEL SUD



16.10.2019 – Interviste tratte dallo speciale ” PAOLO BORSELLINO, depistaggio di Stato” – video


24.09.2019 – Fare Luce su Giammanco


21.07.2019 –  La famiglia Borsellino controllata a vista durante le indagine


19.07.2019 – Rassegna stampa – Fiammetta Borsellino – 27° Anniversario Via D’Amelio


19.07.2019 – Mi vergogno di questo Stato  Una lettera firmata dall’ormai ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, alla vigilia del 27° anniversario della strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta, è stata inviata ieri a Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992.   «L’ultimo affronto (la lettera di Riccardo Fuzio, ndr), da parte di uno Stato che non ha mai voluto fare niente per individuare i veri colpevoli del depistaggio sulla morte di mio padre» rivela al Quotidiano del Sud Fiammetta Borsellino che da anni ha  intrapreso una battaglia per avere verità e giustizia sulla morte di suo padre.  «Una lettera – sottolinea Fiammetta –  che vengono i brividi a leggerla, che mi indigna e che indignerebbe anche mio padre e tutti i magistrati che fanno e che hanno fatto il loro dovere». Fiammetta Borsellino, indignata e amareggiata, rivela al Quotidiano del Sud di aver ricevuto proprio ieri la lettera di Fuzio (che si è dimesso dopo essere stato indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sull’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara). Una lettera che, dice ancora Fiammetta Borsellino, è la dimostrazione di uno Stato incapace di cercare la verità. Ma non è tutto, Fiammetta Borsellino spara a zero anche contro la Commissione nazionale antimafia e contro il Parlamento che «strumentalizzano», a fini mediatici, e in occasione del 27° anniversario della morte di suo padre, desecretando atti del Csm e della stessa Commissione antimafia. «Una vergogna» dice Fiammetta Borsellino. Ma cosa le ha scritto l’ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio? «Una lettera incredibile e vergognosa, nella quale dice di non essere riuscito a far nulla per avviare una indagine per l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio, indagati dalle procure di Messina e Caltanissetta: una indagine che avrebbe dovuto portare ad individuare i magistrati responsabili del depistaggio». Mi spieghi, cosa non ha fatto l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio? «Un anno fa io e mia sorella Lucia siamo state convocate da Fuzio, al quale abbiamo portato carte, documenti testimonianze ed altro, e lui ci aveva assicurato un suo intervento per promuovere l’azione disciplinare. Perché che ci siano dei magistrati responsabili del depistaggio sull’inchiesta di mio padre, non lo diciamo noi figli di Paolo Borsellino, ma l’ultima sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta. Adesso questa lettera, scritta tra l’altro con i piedi, ci indigna ancor di più, perché dopo un anno Fuzio sostiene di non avere avuto il tempo di occuparsi di questa vicenda perché era impegnato in altre vicende giudiziarie. Quali lo abbiamo scoperto in queste ultime settimane, perché era occupato a pilotare con Luca Palamara  le nomine dei procuratori di Roma,Torino ed altre procure. Una vera e propria indecenza, si è consumato da solo». Insomma, è sempre più difficile ottenere la verità sulla morte di suo padre e dei suoi angeli custodi,  i cinque poliziotti che morirono con lui? «Sono passati 27 anni ed i risultati, quelli dal punto di vista processuale, dicono che  siamo con una sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta che prova il depistaggio ed un’altra inchiesta dove ci sono due magistrati indagati e non c’è stato nessun avvio  di provvedimenti, dopo evidenti anomalie. C’è stata  una totale presa in giro da parte della Procura generale della Cassazione». Cosa chiede allo Stato?  «Semplicemente di fare il proprio dovere. Questa è una storia molta amara, se ognuno avesse fatto il proprio dovere, di non girarsi dall’altra parte,  non avremmo magistrati indagati e poliziotti indagati. Semplicemente fare il proprio dovere dare un contributo di onestà da parte delle istituzioni».


17.07.2019 – Su indagini tante omissioni e irregolarità – Video

26.06.2019 –  I giudici che hanno lasciato solo mio padre

12.06.2019 –  Annacquata la memoria del sacrificio di mio padre in TV

23.05.2019 – Non abbassare la guardia!  Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza. Oggi ricorre la giornata della legalità, 27mo anniversario dalla Strage di Capaci che vide la morte del Giudice Giovanni Falcone, della moglie, Francesca Morvillo e degli agenti della scorta avvenuto il 23 maggio del 1992. In questa giornata si commemorano quelle che sono state le grandi figure istituzionali e non, che hanno fatto della lotta alla mafia la loro ragion di vita e proprio per quest’ultima motivazione sono stati uccisi. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992 ci fu la Strage di Via d’Amelio, in cui rimase ucciso il Giudice Paolo Borsellino, che di Falcone era amico e con lui era stato protagonista del pool antimafia. Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino, sul significato che hanno oggi queste ricorrenze alla luce delle domande rimaste ancora senza risposta, sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza.  
Signora Borsellino, oggi ricorre il 27° anniversario dell’attentato a Giovanni Falcone, al quale seguì, il 19 luglio, quello a suo padre, Paolo Borsellino. Dopo 27 anni quanto ancora non si sa di questi attentati? Nel 2017 c’è stata una sentenza che ha stabilito come la strage di Via D’amelio sia stata una dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana. Sono stati anni di processi, ancora oggi si sta disperatamente cercando di capire chi ha cercato per tutti questi anni l’allontanamento della verità. Non è ancora chiaro chi che sono effettivamente i mandanti di quella terribile strage nella quale perse la vita mio padre. Una delle cose che ha impedito la scoperta della verità è stata sostanzialmente una serie di indagini, di processi fatti male, anche da parte delle istituzioni, che ha avuto come effetto principale l’occultamento e l’allontanamento della verità.  
Alla luce dei depistaggi emersi dall’inchiesta sulla strage di via D’amelio, secondo lei, la mafia è solo un’esecutrice, il cui mandante è da cercare altrove? Ci sono delle indagini in corso, quindi, diciamo che non è opportuno trarre delle conclusioni. È molto probabile che ci siano state delle menti esterne a Cosa Nostra che si sono servite dell’odio che questi criminali avevano nei confronti dei magistrati. In questo senso possiamo dire che Cosa Nostra, quale mano armata, è stata “utilizzata” da chi all’esterno voleva l’eliminazione di queste persone.  
Se un bambino dovesse fermarla per strada chiedendole cos’è la mafia, cosa risponderebbe? La mafia è un’organizzazione criminale fatta di regole, di rituali. Un’organizzazione simile ad uno Stato. Ha una mentalità che si basa sull’oppressione. È una mentalità che trae le sue fondamenta da una concezione della vita come affermazione del potere.   
La mafia sembra essere un’argomento che torna di moda solo in occasione di questi anniversari, sembra che si voglia far passare l’idea che sia ormai un problema risolto o per lo meno divenuto marginale. Qual è il pericolo in questo atteggiamento? Il problema delle organizzazioni criminali, delle mafie è molto complesso, perché sono molto abili anche nel muoversi, hanno una buona capacità di organizzarsi, quindi, cedere alle semplificazioni ritenendo la mafia vinta è un’atteggiamento che fa male al contrasto alla criminalità organizzata. È un problema troppo complesso, per tanto non si deve e non si può cedere alle semplificazioni, perché quando si abbassa la guardia si può dare agio a queste organizzazioni di agire. Ed è molto pericoloso. Bisogna diffidare da tutti coloro che pensano e che dicono che vogliono delle risoluzioni, perché il problema è di una complessità tale che non è facilmente risolvibile.   
Quanto è importante la sensibilizzazione delle giovani generazioni e l’inserimento di questa storia nei libri scolastici? Far comprendere queste problematiche attraverso la storia degli uomini che l’hanno vissute è fondamentale perché la potenza criminale delle organizzazioni criminali si basa sul consenso dei giovani. Mio padre diceva sempre: “Quando le giovani generazioni le negheranno il consenso saremo avanti nella lotta alle mafie”. Questo problema si combatte con la cultura. Uno dei primi modi che hanno i giovani di contrastare la criminalità organizzata è studiare. È lo studio che ti dà consapevolezza dei tuoi diritti e dei tuoi doveri e anche di quelle che sono le proprie responsabilità. Se si ha questa consapevolezza, si è fatto già un primo passo nella lotta alla mafia. Paolo Borsellino diceva sempre che in qualunque caso, in qualunque luogo si sarebbe dovuto parlare della mafia: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. Punto e a Capo 23.5.2019


19.05.2019 –  IL DEPISTAGGIO? GRAVE OFFESA PER LA MIA FAMIGLIA E PER L’ITALIA INTERA   Abbiamo avuto indagini e processi fatti male. Oggi si sta cercando di capire grazie all’attività di nuove Procure perché tutto questo sia avvenuto. È ovvio che questo depistaggio, per quanto grossolano, è veramente un’offesa non soltanto all’intelligenza della nostra famiglia ma dell’intero popolo italiano”. “Nel 2017 c’è stata una sentenza, quella conclusiva del Borsellino quater che ha definito quello di via D’Amelio il più grave e grande depistaggio della storia giudiziaria di questo Paese. Il depistaggio anche nella sua grossolanità ha avuto l’effetto che doveva avere, cioè il passare del tempo. E il passare del tempo in questi casi è deleterio, compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità, ma non per questo si deve smettere di tendere ad essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. E questo noi non lo riteniamo ammissibile”.


5.05.2019  FIAMMETTA BORSELLINO : “PERCHE’ I MAGISTRATI NON PARLANO?”  La pista “mafia-appalti” per capire le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Torna a ribadirla con sempre maggior forza Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato coraggio che conFalcone stava indagando sui grandi lavori pubblici entrati nel mirino della delinquenza super organizzata, a partire da quelli per l’allora nascente Alta Velocità. Punta l’indice, Fiammetta, su quell’ultima bollente riunione che si svolse alla procura di Palermo cinque giorni prima del tritolo di via D’Amelio. Al centro della rovente discussione proprio l’inchiesta “mafia-appalti”, mai ufficialmente assegnata ai due magistrati, Giovanni Falcone Paolo Borsellino, ma da loro sempre seguita con grande attenzione per via delle enormi esperienze maturate sul campo. QUELLA RIUNIONE DEI MISTERI“. Cosa successe in quella riunione? Cosa si dissero i magistrati che vi parteciparono?”, si chiede con tormento Fiammetta. “Interrogativi ai quali non è mai stata data una risposta. Da nessuno di quei magistrati che vi presero parte. E’ ora che qualcuno parli”. Si sa che alla fine di quella riunione Borsellino era su tutte le furie. E poi quasi rassegnato, il viso rigato dal pianto. Parole dure come pietre, quelle della figlia Fiammetta. Chissà se riusciranno a smuovere il gigantesco macigno relativo al movente, quello vero, che ha armato le mani mafiose in grado di eseguire ordini più ‘alti’. Perché anche Borsellino, dopo Falcone, “Doveva morire”. “In quella maxi indagine mafia-appalti c’erano dentro politici, imprenditori, mafiosi”, ricorda Fiammetta, e tanti magistrati – oltre una mezza dozzina – si sono passati la patata bollente, senza imprimere peraltro una efficace svolta giudiziaria a quella mole di lavoro investigativa già svolta dal ROSdei carabinieri per ordine proprio di Falcone. Un’inchiesta che si sgonfierà come un palloncino praticamente “intempo reale”. Tutto in un baleno. A poche ore da quella infuocata riunione, Il 13 luglio di quel maledetto 1992, la procura di Palermo chiede infatti l’archiviazione. A firmare la richiesta i sostituti procuratori Guido Lo Forte Roberto Scarpinato. Il procuratore Pietro Giammanco (“perchè mai interrogato su quei fatti?”, si chiede Fiammetta) la controfirma quando il cadavere di Borsellino è ancora caldo, a tre giorni dall’eccidio di via D’Amelio. L’archiviazione definitiva si verifica dopo meno di un mese, alla vigilia di ferragosto, un periodo leggermente “atipico”. E’ il 14 agosto ‘92, infatti, quando il gip di Palermo Sergio La Commare mette una pietra tombale su quell’inchiesta che avrebbe fatto tremare l’Italia. Perché – si chiede oggi Fiammetta – nessuno vuol parlare di quella riunione e di quella decisione? Perché neanche una sillaba su quella archiviazione lampo, da guinness dei primati nella storia giudiziaria del nostro martoriato Paese?


FIAMMETTA BORSELLINO : «La lotta alla mafia è un lavoro di tutti»

 

 

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