(…) Le suddette considerazioni inducono a ritenere che la decisione di Scarantino Vincenzo di ritrattare le precedenti dichiarazioni, accusando di oscuri ed incomprensibili complotti gli organi inquirenti, sia stata una scelta necessitata, imposta dalla minuziosità e concordanza delle prime dichiarazioni, che difficilmente potevano essere smentite solo in parte e tantomeno da un soggetto, sicuramente furbo, ma dotato di scarse capacità intellettive come Scarantino Vincenzo.
Ciò che conferma, comunque, l’assoluta mendacità della ritrattazione di Scarantino Vincenzo è l’acquisizione nel presente dibattimento di prove certe della concreta attuazione di una concertata e laboriosa preparazione di detta ritrattazione, con l’intervento di diversi soggetti che hanno realizzato una deplorevole opera di inquinamento probatorio che, fortunatamente, è stata scoperta prima della definizione del presente giudizio e che dovrà formare oggetto di attenta valutazione in separata sede per accertare eventuali responsabilità a vario livello. E’ doveroso avvertire che tali ultime acquisizioni probatorie non rientrano nel tema specifico di prova del presente giudizio se non nella misura in cui consentono di fare luce sull’anomalo sviluppo delle dichiarazioni rese da una fonte primaria come Scarantino Vincenzo…
(…) emerge chiaramente che la decisione di Scarantino Vincenzo di ritrattare certamente non è frutto, come lo stesso ha cercato di far credere, di una spontanea e travagliata scelta morale, dettata dal rimorso di avere accusato persone innocenti, ma, al contrario, discende da una decisione lucida, fredda e calcolata dell’ex collaboratore di giustizia, più volte annunciata attraverso comportamenti anomali e preceduta da una lunga contrattazione con ambienti mafiosi palermitani evidentemente interessati a detta ritrattazione, mediata dal fratello Rosario e culminata con l’acquisizione di concrete garanzie economiche, giuridiche e familiari. In buona sostanza, se non può evidentemente escludersi che sia stato proprio Scarantino Vincenzo ad assumere l’iniziativa di una simile indecente trattativa, appare certo che detta trattativa vi sia stata in concreto e che alla stessa abbiano preso parte attiva, in veste quantomeno di garanzia o di raccordo con ambienti mafiosi palermitani, componenti del nucleo familiare di Scarantino Vincenzo, cioè quegli stessi soggetti che sin dall’inizio hanno ostinatamente e disperatamente cercato di arginare la decisione del congiunto di collaborare con la giustizia esercitando, come si è detto, indicibili pressioni su quest’ultimo pur di mantenere i “privilegi” di cui godevano nel territorio della Guadagna per la luce mafiosa riflessa dal parente acquisito Profeta Salvatore, quegli stessi soggetti, ancora, che, come riferito da don Neri, hanno festeggiato poco prima che Scarantino Vincenzo venisse a ritrattare nell’udienza in Como del 15-9-1998, pur sapendo bene che le dichiarazioni che di li a poco avrebbe reso Scarantino Vincenzo, se avrebbero consentito loro di recuperare almeno in parte il prestigio in precedenza goduto nell’ambito della consorteria mafiosa, avrebbero comunque segnato irrimediabilmente la vita futura del loro congiunto, aprendogli le porte di una carcerazione certamente non breve e segnata, per di più, da un indelebile marchio di infamità, secondo gli inaccettabili principi dell’etica mafiosa.
Una contrattazione come quella che ha preceduto la ritrattazione di Scarantino Vincenzo paradossalmente poteva persino apparire umanamente comprensibile se avesse avuto ad oggetto solamente garanzie di sicurezza per i familiari. La stessa, invece, ha certamente avuto un ignobile contenuto patrimoniale che la rende assolutamente scellerata, poiché risulta dalla deposizione di Don Neri che Scarantino Vincenzo come prezzo della sua ritrattazione ha preteso di rientrare in possesso di valori e beni precedentemente acquisiti attraverso la sua pregressa attività criminale. Appare in questa sede poco importante quantificare le utilità economiche che sono state procurate a Scarantino Vincenzo per il suo mutato atteggiamento processuale o accertare compiutamente le esatte modalità con cui dette utilità sono state procurate, apparendo sufficiente in questa sede avere accertato attraverso le precise ed inequivoche dichiarazioni rese da Don Neri che è stata realizzata una complessa manovra, cui ha attivamente partecipato Scarantino Rosario, per consentire alla famiglia Scarantino di recuperare beni, verosimilmente intestati a prestanome facilmente controllabili dalla organizzazione mafiosa, di cui gli stessi non potevano disporre direttamente, e che siffatta manovra ha integrato parte del “prezzo” preteso, in modo arrogante e violento come risulta dalle minacce pronunciate nei confronti del fratello, da Scarantino Vincenzo per la sua ritrattazione. Una conferma indiretta di una simile indecente operazione si trae, come si è detto, dall’anomalo comportamento che questa Corte ha potuto verificare con riferimento al disposto esame di Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, ma soprattutto si trae dalle intercettazioni e dai pedinamenti compiuti nei confronti di D’Amore Cosima, moglie dell’imputato latitante Scotto Gaetano. Invero da tali intercettazioni e dalle dichiarazioni rese dal dott. Mario Bo circa l’esito delle indagini al riguardo svolte emerge in modo assolutamente inequivoco l’impegno di carattere economico richiesto ai familiari di un imputato latitante (significativo al riguardo è il fatto che gli stessi si interroghino sulle ragioni per le quali proprio loro avrebbero dovuto pagare, v. trascrizione della intercettazione in atti) per offrire a Scarantino Vincenzo le garanzie, anche di assistenza processuale, da lui richieste, nonché, anche a seguito di un apposito servizio di osservazione, un anomalo intervento nella vicenda, al di fuori dell’ordinario ambito processuale, da parte del difensore di Scotto Gaetano, avv. Giuseppe Scozzola. Va ribadito al riguardo che non rientra tra i compiti specifici di questa Corte accertare se da parte di uno dei difensori siano stati in concreto violati precisi doveri giuridici o semplicemente deontologici, ma non può farsi a meno di considerare il fatto che con riferimento alla ritrattazione di Scarantino Vincenzo si sia riprodotta una situazione per certi versi analoga e forse parallela a quella denunciata da Andriotta Francesco, riguardante le pressioni asseritamente esercitate nei suoi confronti per indurlo a modificare le dichiarazioni precedentemente rese, poiché tale fatto refluisce, evidentemente, sulla attendibilità delle ultime dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e rafforza il convincimento che le stesse siano frutto di una concertata opera di convincimento esercitata su una importante fonte di prova al di fuori del processo e delle garenzie del contraddittorio e, cosa questa particolarmente grave, che la decisione di Scarantino Vincenzo di ritrattare era ben nota ad alcune parti processuali ben prima che la stessa venisse esternata nel pubblico dibattimento, quando ancora la fonte era sottoposta ad un particolare sistema di protezione diretto ad assicurare non solo l’incolumità fisica del collaboratore di giustizia, ma anche a sottrarlo ad indebite pressioni esterne che potessero coartare la sua scelta di collaborazione con la giustizia.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte la ritrattazione operata da Scarantino Vincenzo, come si è anticipato all’inizio della presente esposizione, deve essere ritenuta del tutto inattendibile in quanto illogica, incoerente con altre autonome acquisizioni probatorie e frutto di una inaccettabile concertazione che appare particolarmente inquietante ove si consideri non solo la rilevata simmetria con il tentativo di indurre alla ritrattazione un’altra importante fonte come Andriotta Francesco, ma anche il riferimento operato dallo stesso Scarantino sempre nell’ambito di questo dibattimento a precedenti analoghi interventi subiti ad opera disuoi familiari circa il possibile recupero dei suoi beni condizionato ad una ritrattazione delle accuse, riferimento che fa apparire il verbale delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo all’udienza di Como del 15-9-1998 come la cronaca di una ritrattazione annunciata, che si è svolta secondo un copione scritto al di fuori del dibattimento e delle garanzie offerte dal contraddittorio tra le parti.
Le suddette considerazioni, comunque, non comportano che ogni affermazione di Scarantino Vincenzo in sede di ritrattazione debba necessariamente ritenersi per definizione inattendibile. Al contrario, infatti, sempre in forza della concordanza con altre pregnanti acquisizioni probatorie, questa Corte ritiene che talune dichiarazioni rese in tale ultimo contesto da Scarantino Vincenzo siano concretamente attendibili e contribuiscano addirittura a far piena luce su taluni punti oscuri delle precedenti dichiarazioni di segno inverso dello Scarantino. In particolare appare credibile l’affermazione di Scarantino secondo cui lo stesso si era determinato a collaborare perché sostanzialmente non sopportava più il rigoroso regime penitenziario cui era sottoposto. Di ciò emergono dagli atti diversi riscontri (v. dichiarazioni di collaboratori che hanno parlato persino di disperate scritte sulle pareti della nave con cui aveva viaggiato Scarantino quando era detenuto) ed il fatto non risulta neppure nuovo poiché lo Scarantino ne aveva in parte parlato anche nelle precedenti dichiarazioni. Tale peculiare motivazione della decisione di collaborare con la giustizia, se per un verso induce a valutare con cautela le originarie dichiarazioni accusatorie in quanto frutto di una base psicologica non forte che come si è potuto constatare non ha consentito allo Scarantino di reggere alle fortissime pressioni esercitate nei suoi confronti sin dall’inizio della collaborazione, per altro verso non consente di ritenere che dette dichiarazioni siano frutto di fantasia, poiché lo Scarantino ha riferito dettagli molto precisi, oggettivamente riscontrabili ed assolutamente concordanti con altre autonome fonti probatorie, che spesso hanno arricchito le conoscenze investigative dell’epoca e che quindi non potevano in alcun modo essere suggerite, come si è detto, dagli inquirenti che hanno raccolto le prime dichiarazioni dello Scarantino.
Altrettanto credibile appare l’affermazione dello Scarantino secondo cui lo stesso più volte nel corso della sua collaborazione aveva mostrato segni di cedimento ed aveva persino cercato di costituirsi in carcere per essere arrestato. Anche in questo caso si tratta di dichiarazioni non nuove che erano già state rese in epoca non sospetta dallo stesso Scarantino in una precedente fase di questo dibattimento, circostanza questa che ha indotto questa Corte a ritenere sostanzialmente superfluo l’approfondimento probatorio sul punto richiesto dalle difese in sede di richieste formulate ai sensi dell’art.507 c.p.p., anche in considerazione del limitato rilievo probatorio di un fatto idoneo a provare semplicemente la fragilità psicologica del soggetto e la sua lunga oscillazione tra la nuova vita offertagli dalla collaborazione con la giustizia ed il forte legame con un ambiente familiare permeato dai collegamenti con la criminalità mafiosa, considerazioni queste ampiamente desumibili dal complesso degli elementi già acquisiti.
Analogamente attendibile appare Scarantino Vincenzo quando afferma di avere ”studiato” le dichiarazioni precedentemente rese prima di comparire nei dibattimenti cui ha preso parte allo scopo di evitare di incorrere in incertezze e contraddizioni che potessero incrinarne l’attendibilità. Ancora una volta si è difronte a fatti già desumibili da precedenti acquisizioni probatorie. Alcuni difensori hanno ritenuto di potere argomentare l’ultima istanza di rimessione del procedimento addirittura sul rigetto della Corte della richiesta di ammissione dell’esame dei poliziotti indicati dallo stesso Scarantino come partecipi allo studio degli atti processuali, omettendo di considerare che la Corte non poteva esplicitare la motivazione di ritenere già positivamente provato il fatto senza anticipare indebitamente una valutazione, ma soprattutto trascurando il fatto che dalla deposizione resa da Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, nel primo dibattimento per la strage di via D’Amelio, i cui verbali sono stati acquisiti al presente giudizio e sono stati espressamente dichiarati utilizzabili, risulta già confermato il fatto e risultano addirittura indicati i nomi di battesimo, corrispondenti a quelli dei due soggetti indicati dallo Scarantino, degli agenti addetti alla protezione del collaboratore che lo avrebbero aiutato in tale opera di “ripasso” delle precedenti dichiarazioni e di individuazione delle contraddizioni da evitare in sede dibattimentale. Poteva ancora ritenersi assolutamente indispensabile ai fini del decidere l’esame dei testi sopra indicati alla stregua dei criteri fissati dall’art.507 c.p.p.? La domanda è evidentemente retorica poiché appare evidente dalle annotazioni aggiunte alle copie dei verbali che erano in possesso di Scarantino, che questa Corte ha acquisito su richiesta dei difensori, che Scarantino Vincenzo ha effettivamente analizzato il complesso delle dichiarazioni rese prima di affrontare gli esami dibattimentali senza incorrere in contraddizioni, avvalendosi verosimilmente dell’aiuto di qualcuno magari più colto di lui (il tenore letterale delle annotazioni rivela questo intento e l’intervento di qualcuno meno ignorante dello Scarantino), ma tutto ciò, ancora una volta, se induce a particolare cautela nel valutare possibili “aggiustamenti” delle dichiarazioni dibattimentali rese dallo Scarantino al fine di evitare incongruenze che, peraltro, appaiono assolutamente fisiologiche in relazione ad un numero assai elevato di dichiarazioni rese in un arco di tempo piuttosto ampio, non inficia in alcun modo le prime dichiarazioni rese dallo Scarantino all’inizio della collaborazione con la giustizia, la cui genuinità non può certo essere stata compromessa da una attività di “studio” delle dichiarazioni come quella sopra indicata, iniziata sicuramente dopo.
Certamente sincera ed attendibile appare, infine, l’ammissione di Scarantino Vincenzo nel corso della ritrattazione di avere mentito nell’indicare i collaboratori di giustizia Cancemi Salvatore, La Barbera Gioacchino e Di Matteo Mario Santo come partecipanti alla riunione nella villa di Calascibetta e nell’avere mantenuto tale posizione nel corso dei confronti sostenuti con i tre collaboratori di giustizia sopra indicati, allo scopo di non essere più creduto, con l’intento o almeno la speranza di essere in futuro smentito dagli stessi ed uscire in tal modo dalla condizione di collaboratore di giustizia che stava diventando per lui troppo pesante, anche per le gravissime pressioni nel frattempo subite nell’ambito della sua stessa famiglia di sangue, rimasta, come si è visto, tenacemente aggrappata a quell’ambiente mafioso in cui aveva trovato protezione e prosperità. Tale ultimo intento, palesemente rivelato in sede di ritrattazione, risulta, infatti, univocamente confermato dalla semplice considerazione che in effetti è proprio dopo la suddetta aggiunta di nomi e dopo l’ulteriore integrazione delle originarie dichiarazioni con l’indicazione tra i partecipanti di soggetti improbabili come Brusca Giovanni e Ganci Raffaele, integrazioni tutte riferibili ad un periodo successivo alla ripresa dei contatti da parte di Scarantino Vincenzo con il mondo esterno e con i propri familiari, che le originarie dichiarazioni perdono sempre di più l’originaria coerenza e logicità, come seguendo un oscuro disegno, certamente ben ideato, diretto a screditare progressivamente la fonte, ponendola sempre più in contrasto con tutte le altre acquisizioni probatorie.
Traendo spunto da queste ultime considerazioni va rilevato che le dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo, epurate della inattendibile ed orchestrata ritrattazione dallo stesso posta in essere in chiusura del presente giudizio, hanno mantenuto una certa costanza ed astratta coerenza: Scarantino Vincenzo, infatti, non ha mai mutato la struttura essenziale del suo racconto dei fatti relativi alla strage di via D’Amelio, in quanto, sin dalla prima dichiarazione ha riferito di una riunione organizzativa nella villa di “Peppuccio Calascibetta”, di una attività preparatoria nel corso della quale gli fu affidato il compito di reperire la Fiat 126 utilizzata come autobomba, di una attività di intercettazione telefonica per conoscere gli spostamenti del dott. Borsellino, di un caricamento dell’esplosivo sull’auto da lui procurata e di un trasferimento dell’autobomba sul luogo dell’attentato.
La sostanziale costanza e coerenza strutturale delle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo risulta incrinata in concreto solamente dalla aggiunta, operata in tempi successivi ai primi interrogatori resi in carcere, di qualche partecipante a taluna delle suddette fasi preparatorie, aggiunta che, tuttavia, grazie alla acquisizione di tutte le dichiarazioni rese dallo Scarantino nel corso delle indagini, è stato possibile circoscrivere nel tempo individuandone l’evidente scopo di neutralizzazione delle precedenti dichiarazioni anche in relazione alle pressioni di vario genere subite dallo Scarantino successivamente alla dimissione dello stesso dal circuito penitenziario in considerazione della sua collaborazione con la giustizia, da sempre osteggiata in ogni modo, come si è rilevato, dai familiari dello Scarantino.
Un primo inquinamento interno alle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo durante la sua collaborazione con la giustizia va individuato sicuramente nella indicazione dei tre collaboratori di giustizia Cancemi, La Barbera e Di Matteo tra ipartecipanti alla riunione presso la villa di Calascibetta. Tale aggiunta risponde ad una logica elementare nell’ottica di chi pensi di volersi sganciare dalla intrapresa collaborazione con la giustizia, poiché non vi sarebbe stato metodo migliore per diventare inattendibile che quello di farsi smentire dai tre pentiti all’epoca più credibili per avere rivelato i segreti della recente strage di Capaci, più che rischiare una ritrattazione estremamente difficoltosa dopo le una serie di dichiarazioni estremamente dettagliate e corredate da riferimenti precisi ed oggettivamente riscontrabili, senonchè l’autorevole smentita che Scarantino, in tempi brevi, probabilmente si attendeva di ricevere, come ha candidamente ammesso nelle ultime dichiarazioni dibattimentali prima richiamate non si è avuta ed è rimasta confinata nell’ambito di tre verbali di confronto con Cancemi, La Barbera e Di Matteo, assunti nel contesto di un distinto procedimento penale tutt’ora in corso, che di fatto non sono valsi all’epoca a demolire la credibilità di Scarantino, anche perché nel frattempo l’immagine dei tre suddetti collaboratori di giustizia aveva perduto, almeno in parte, l’originaria nitidezza per una serie di circostanze sopravvenute: perché Di Matteo ha, per così dire, rallentato la propria collaborazione travolto dalla dolorosa esperienza del sequestro del figlio, perché La Barbera è stato coinvolto, insieme ad altri “pentiti” appartenenti alla sua originaria famiglia, in vicende ancora non del tutto chiarite e comunque in azioni difficilmente compatibili con il ruolo di collaboratore di giustizia, perché, infine, altri attendibili collaboratori di giustizia, come si dirà più avanti, hanno rivelato la partecipazione di Cancemi Salvatore all’esecuzione della strage di via D’Amelio dallo stesso ostinatamente negata anche in occasione del confronto sostenuto con lo Scarantino.
Ulteriore elemento inquinante nelle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo successivamente alla sua uscita dal circuito penitenziario è costituito poi dalla aggiunta dei nomi di altri due noti esponenti mafiosi, che all’epoca svolgevano ruoli di capomandamento, come Brusca Giovanni e Ganci Raffaele a quelli in precedenza fatti con riferimento ai partecipanti alla riunione nella villa di Calascibetta. Appare evidente la forza dirompente di una simile aggiunta, poiché quella che in base alle prime dichiarazioni poteva essere agevolmente interpretata come una riunione operativa tra uomini appartenenti ai due mandamenti cui era stata affidata l’esecuzione materiale della strage, come altre ve ne erano state nell’esperienza di “Cosa nostra”, con la partecipazione di Salvatore Riina nella veste di coordinatore delle decisioni della Commissione provinciale e dei vertici dei due mandamenti, diviene improvvisamente un ibrido insensato ed incomprensibile, che non può essere certo considerato in base alle conoscenze acquisite come una riunione di Commissione per la deliberazione di un fatto delittuoso “eccellente” per la presenza attorno ad un unico tavolo di capi mandamento e semplici uomini d’onore e che comunque non può logicamente giustificare la presenza di due capi mandamento, esperti e cauti, come Brusca e Ganci in un contesto in cui erano assenti uomini dei rispettivi mandamenti. L’aggiunta di questi ulteriori nomi tra i partecipanti alla famosa riunione risponde dunque alla medesima logica di neutralizzazione delle originarie dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo attraverso la progressiva demolizione della coerenza intrinseca di dette dichiarazioni e va posta in correlazione con l’aggiunta dei nomi dei tre collaboratori di giustizia sopra indicati, la cui falsità emerge in modo palese non solo dall’esito dei confronti che sono stati acquisiti a questo dibattimento, ma anche dalle stesse ammissioni rese in sede di ritrattazione dallo stesso Scarantino Vincenzo ritenute sul punto attendibili in base alle considerazioni sopra espresse. Invero queste ultime aggiunte appiono come una ulteriore progressione nell’attività di inquinamento probatorio sopra evidenziata, attraverso l’introduzione di nuovi elementi di falsità, ancora una volta diretti a minare dall’interno la credibilità della fonte, che rivelano peraltro una sottigliezza di pensiero (appare quasi che rispondano ad una sapiente conoscenza dei principi elaborati dalla giurisprudenza per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni assunte ai sensi dell’art.210 c.p.p.) che potrebbe indurre a ritenere che possano essere frutto non solo della intelligenza di Scarantino Vincenzo e che, considerato che intervengono tutte dopo l’uscita del collaboratore dal circuito penitenziario e quindi dopo la ripresa dei contatti con l’esterno e con i familiari, possano essere state in parte suggerite da chi evidentemente aveva un interesse diretto a neutralizzare l’effetto delle originarie dichiarazioni di Scarantino. Appare doveroso segnalare a questo punto che le suddette inquinanti chiamate aggiuntive sono state purtroppo favorite e rese inizialmente credibili a causa di una improvvida indicazione in bianco contenuta nei primi verbali di interrogatorio, nei quali gli organi inquirenti, quasi a prevenire una temuta reticenza dello Scarantino, a seguito di reiterate e pressanti domande hanno ottenuto da Scarantino l’ammissione che nella riunione presso la villa di Calascibetta vi potessero essere altre tre o quattro persone di cui non ricordava il nome. Ciò evidentemente ha offerto successivamente a Scarantino Vincenzo l’opportunità di colmare questi spazi vuoti con le suddette integrazioni inquinanti, sfruttando persino in modo assai abile (forse troppo per le limitate capacità dell’ex collaboratore, il che rafforza il sospetto di una cooperazione inquinante esterna e raffinata) l’equivoco creato dal riferimento di Andriotta Francesco al nome di tale Mattia o La Mattia asseritamente fattogli dallo Scarantino, per accreditare attraverso un riscontro esterno l’assunto della partecipazione alla strage nella fase del caricamento dell’autobomba del collaboratore di giustizia Di Matteo Mario Santo pure in precedenza indicato tra i partecipanti alla riunione nella villa di Calascibetta. E’ agevole osservare che quest’ultima coincidenza, peraltro dovuta ad una semplice assonanza (al riguardo potrebbe persino osservarsi che l’indicazione dell’Andriotta è più vicina foneticamente al cognome di La Mattina che corrisponde a quello di uno degli odierni imputati) e verificatasi tra una fonte diretta ed una che riferisce solo notizie apprese da quest’ultima, determina solamente una parvenza di credibilità che non regge per le considerazioni sopra sviluppate ad un attento vaglio critico alla luce del complesso degli elementi probatori acquisiti, ma soprattutto deve rilevarsi che in ogni caso rimane inspiegabile, se non nell’ottica di un intento di inquinamento probatorio perseguito in un certo momento della collaborazione dallo Scarantino, il fatto che quest’ultimo non abbia ricordato nel primo interrogatorio nomi così importanti nell’ambiente mafioso come quelli di Brusca, Di Matteo, La Barbera, Ganci e Cancemi, che, peraltro, nel momento in cui la fonte ha avviato la collaborazione con la giustizia erano riportati quotidianamente da tutti i mezzi di informazione ed erano perciò ben conosciuti non solo negli ambienti della criminalità mafiosa, ma da chiunque seguisse anche distrattamente la cronaca giudiziaria sulle due stragi verificatesi nel 1992 a Palermo.
Appare probabile, a ben vedere, che gli inquirenti nella prima fase delle indagini siano potuti incorrere in un involontario e comprensibilissimo errore prospettico, che si è peraltro riflesso nella originaria formulazione del dell’imputazione di cui al capo F) della rubrica, poi modificata all’udienza del 4-6-1997, ritenendo che la riunione presso la villa di Calascibetta di cui aveva riferito Scarantino fosse una riunione deliberativa della strage che avrebbe dovuto necessariamente coinvolgere, secondo le concordi indicazioni fornite da tutti i collaboratori di giustizia in tema di omicidi “eccellenti”, tutti i componenti della commissione provinciale di “Cosa nostra”, non considerando invece che potesse trattarsi di una delle tante riunioni operative per organizzare l’esecuzione di una azione delittuosa particolarmente complessa, già deliberata nel rispetto delle regole dell’organizzazione mafiosa.
Una ultima conferma della chiara volontà perseguita a partire da un preciso momento da Scarantino Vincenzo di aggiungere elementi di falsità alle sue originarie dichiarazioni può trarsi, infine, dal vero e proprio “pasticcio” lucidamente creato da Scarantino Vincenzo in occasione dei riconoscimenti fotografici predisposti dagli inquirenti anche in esito alle aggiunte dei nomi sopra indicati. Invero Scarantino Vincenzo, pur nella sua dichiarata ignoranza, non può non avere compreso la valenza negativa ai fini della intrinseca attendibilità di una indicazione di persone con precisazione delle precise occasioni di incontro seguita, poi, da un mancato riconoscimento o peggio ancora da uno scambio di immagini fotografiche.
Le superiori considerazioni inducono a ritenere provato che le modifiche introdotte da Scarantino Vincenzo alle originarie dichiarazioni siano frutto della volontà, maturata dopo avere reso le dichiarazioni che hanno dato l’avvio al presente giudizio, di rendere sostanzialmente inattendibili dette dichiarazioni, sottraendosi alle conseguenze sociali ed umane derivanti dalla condizione di collaboratore di giustizia e recependo i chiarissimi segnali e le pressioni in tal senso provenienti principalmente dal proprio ambiente familiare, rimasto tenacemente legato alla cultura mafiosa da cui era permeato. Ciò che, comunque, deve essere sottolienato con forza è che tutti i segnali di inquinamento interno della fonte si verificano significativamente in un momento successivo all’avvio della collaborazione con la giustizia da parte di Scarantino Vincenzo e, più in particolare, quando non era più in atto la detenzione carceraria del collaboratore, sicuramente più idonea a garantire la genuinità della fonte, e quando quest’ultimo aveva ripreso i contatti con i componenti del proprio nucleo familiare, che, come si è avuto modo di rilevare, hanno sicuramente avuto un ruolo importante nella vita di Scarantino e che sin dall’inizio hanno cercato di ostacolare, frenare e deviare in vario modo e con ostinata perseveranza la scelta di quest’ultimo di collaborare con la giustizia, fino ad ottenere l’integrale ritrattazione nell’udienza dibattimentale tenutasi a Como il 15-9-1998, preceduta come si è detto da una allucinante festa familiare, esercitando una pressione enorme su una personalità fragile come quella di Scarantino Vincenzo. Non è superfluo in questa sede richiamare le numerose pressioni fisiche e psichiche che Scarantino Vincenzo ha rivelato di avere subito da propri familiari, il sincero dolore provato da Scarantino quando gli venivano riferiti in modo quantomeno esasperato le sofferenze asseritamente subite dalla madre, da altri familiari e persino da amici a seguito della sua collaborazione con la giustizia, le interminabili contese sostenute con la moglie per convincerla a seguirlo nelle località protette e persino per potere vedere i figli o parlare con loro nel periodo in cui erano lontani. Tutto ciò, infatti, ha sicuramente inciso negativamente sulla capacità di Scarantino Vincenzo di mantenere ferma la scelta di collaborazione con la giustizia seguita nelle primissime fasi con lucidità, coerenza, determinazione e coraggio, contribuendo a determinare l’inquinamento probatorio delle originarie dichiarazioni rese dal collaboratore nei termini sopra riferiti.
In conclusione del lungo excursus, a ritroso, attraverso le dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nella fase delle indagini e nel corso del presente dibattimento non rimane che esaminare attentamente le dichiarazioni originarie che risalgono al periodo in cui lo Scarantino era sottoposto a custodia cautelare in carcere, prima cioè che intervenissero i fattori di inquinamento sin qui evidenziati allo scopo di valutarne l’intrinseca attendibilità, sul presupposto della rilevata scindibilità delle singole dichiarazioni, rinviando la ricerca di eventuali riscontri esterni individualizzanti alla parte che sarà dedicata alla valutazione della posizione dei singoli imputati.
Dal tenore delle considerazioni sin qui svolte è agevole intuire che questa Corte ha ritenuto di potere attribuire una piena attendibilità intrinseca alle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nei primi interrogatori e precisamente alle dichiarazioni raccolte nei primi tre verbali, rese in carcere subito dopo la manifestazione della volontà di collaborare con la giustizia.
Va osservato in proposito che dette dichiarazioni appaiono assolutamente complete nella loro struttura essenziale, coerenti sotto il profilo logico e persino concordanti nelle linee generali sia con rilievi di carattere oggettivo, sia con dichiarazioni successivamente rese da altri collaboratori di giustizia che evidentemente non potevano essere conosciute da Scarantino Vincenzo né per scienza diretta, né attraverso suggerimenti esterni che lo stesso Scarantino in sede di ritrattazione ha cercato di accreditare senza, tuttavia, riuscire ad apparire credibile.
Invero, sotto il primo profilo è agevole constatare che Scarantino Vincenzo già nella prima dichiarazione, ha esaurito nelle linee essenziali l’esposizione dei fatti relativi alla strage di via D’Amelio, nelle dichiarazioni successive non ha né mutato la struttura e l’articolazione del suo racconto, né aggiunto particolari di rilievo, ma ha semplicemente integrato l’indicazione dei nomi fatti con riferimento alle varie fasi organizzative cadute sotto la sua diretta percezione ed ha precisato dettagli e circostanze di minore rilievo. Le prime dichiarazioni peraltro, come si è rilevato prospettano coerentemente una organizzazione della strage preceduta da una riunione di carattere esclusivamente operativo tra esponenti dei due mandamenti cui era stata affidata l’esecuzione finale della strage. In tale specifica ottica le prime dichiarazioni di Scarantino circa la riunione nella villa di Calascibetta assumono una logicità ed una concretezza tali da rendere assolutamente incontestabile l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni medesime. Infatti se, come pare confermato da una consistente serie di acquisizioni probatorie autonome, di cui meglio si dirà più avanti, ed in particolare dalle dichiarazioni sul punto di Brusca Giovanni, Cancemi Salvatore, Ganci Calogero, ed altri, si muove dal presupposto che l’uccisione del dott. Borsellino era stata adottata dai componenti della Commissione provinciale coordinata all’epoca da Riina Salvatore e che, conseguentemente, nella riunione descritta da Scarantino si sia semplicemente organizzata l’esecuzione materiale di una azione delittuosa particolarmente eclatante e complessa quale l’uccisione di un importantissimo magistrato sottoposto a rilevanti misure di protezione con un mezzo devastante quale una vettura imbottita di esplosivo affidata per volontà del Riina in modo diretto a due mandamenti (: Brancaccio e S.Maria di Gesù-Guadagna), appare evidente che ad una riunione come quella descritta da Scarantino, come indicato nella prima dichiarazione, oltre Riina e Biondino che svolgevano compiti di coordinamento e di raccordo con l’azione di copertura e di fiancheggiamento che sarebbe stata svolta da altri mandamenti, non potevano partecipare altri se non i vertici ed i “soldati” dei due mandamenti sopra indicati, cui era stato riservato, per volontà proprio del coordinatore della Commissione provinciale, Riina Salvatore, il compito di portare a termine la fase più direttamente esecutiva della strage, assegnando ad altri mandamenti compiti di copertura ed azioni di fiancheggiamento quali quelli del reperimento e della prova del telecomando, del pattugliamento delle strade il giorno dell’attentato, secondo una prassi ormai sperimentata di distribuzione degli incarichi delittuosi con l’alternanza a volte simmetrica dei vari mandamenti. Sarebbe stato assurdo in tale contesto, e non è un caso che non emerga dalle prime dichiarazioni giustamente ritenute attendibili di Scarantino, che il capo di un diverso mandamento avesse partecipato ad una riunione operativa come quella che Scarantino ha dichiarato essere avvenuta nella villa di Calascibetta, poiché sarebbe stata superflua ed irrituale la sua presenza e poiché ciò lo avrebbe solamente esposto inutilmente in un periodo particolarmente “caldo” e pericoloso come quello tra le due stragi del ’92. Addirittura per Ganci Raffaele, all’epoca capo del mandamento della “Noce”, è agli atti un diretto riscontro della logicità di quest’ultima argomentazione, poiché risulta dalle dichiarazioni del figlio Calogero Ganci che lo stesso, da persona cauta e da profondo conoscitore delle regole mafiose, invitato da Biondino ad assistere alle fasi di caricamento dell’autobomba si era limitato a declinare cortesemente l’invito ed a dichiarare la sua disponibilità in caso ve ne fosse bisogno. Sempre nell’ottica di considerare la riunione descritta da Scarantino come un incontro rigorosamente organizzativo di una azione delittuosa già decisa, la presenza di un capo indiscusso come Salvatore Riina allo stesso tavolo attorno al quale erano seduti anche semplici “soldati” e persino l’insolita entrata, probabilmente irriguardosa secondo i dettami del galateo mafioso, di un guardaspalle come Scarantino Vincenzo per prendere dell’acqua mentre era in corso la discussione, oltre a risultare perfettamente in linea con il livello di educazione non solo mafiosa di Scarantino, appare come un fatto quasi ordinario, che rientra nella comune esperienza. Per dare un senso logico all’intero racconto di Scarantino e per giustificare anche la durata della riunione indicata dallo stesso basta, come si è detto, abbandonare l’idea, certamente suggestiva ma non sorretta da alcun elemento di riscontro, che la riunione descritta da Scarantino sia stata quella in cui era stata deliberata l’uccisione del dottore Borsellino e ritenere, invece, che in tale riunione Riina Salvatore abbia semplicemente incontrato gli esponenti dei due mandamenti cui era stata attribuita la responsabilità dell’esecuzione finale di una strage già deliberata dai componenti della commissione provinciale, in attuazione di quei principi di compartimentazione dell’organizzazione “Cosa nostra” prudentemente seguiti da Riina Salvatore sia per ciò che concerne gli incontri di vertice, sia per ciò che concerne l’esecuzione di azioni delittuose eclatanti, in modo da evitare, dopo che l’inizio del fenomeno del “pentitismo” aveva messo in seria crisi l’organizzazione, che gli appartenenti ad un determinato mandamento mafioso conoscessero le attività di tutti gli altri gruppi.
Il fatto che la riunione di cui ha parlato Scarantino Vincenzo si sia svolta nella casa di un latitante è una incongruenza solo apparente, poiché innanzitutto i sopralluoghi eseguiti hanno dimostrato che il luogo era perfettamente idoneo allo scopo da un punto di vista strettamente logistico, trattandosi di una villa situata nel cuore di un rione ad altissima densità mafiosa, in una zona relativamente distante da altre abitazioni all’epoca occupate, cui si giunge attraverso una strada stretta e lunga che avrebbe consentito di notare con ampio anticipo movimenti sospetti di forze di polizia e che avrebbe consentito un rapido allontanamento dei partecipanti attraverso un secondo sbocco della strada chiuso da un cancello, ma soprattutto perché si è accertato che l’immobile, intestato ad un prestanome parente del Calascibetta, era ampiamente sicuro in quanto non conosciuto dalle forze di polizia, atteso che la prima perquisizione eseguita al suo interno è stata eseguita in epoca ampiamente successiva alla strage per cui si procede.
Le dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nella prima fase della sua collaborazione, contrariamente a quanto da lui sostenuto in sede di ritrattazione, non possono neppure ritenersi inficiate da oscillazioni nell’attribuzione dei ruoli ai singoli compartecipi, né da apprezzabili motivi di rancore verso alcuni dei soggetti chiamati in correità. Così, per esempio, le dichiarazioni inizialmente rese nei confronti di Tagliavia Francesco sono contrassegnate da una assoluta costanza, poiché Scarantino ha indicato sin dall’inizio il predetto imputato come partecipe a tutte le fasi organizzative della strage di cui ha parlato (riunione, caricamento dell’autobomba e trasporto sul luogo dell’attentato) e non ha progressivamente aggravato la chiamata, e ciò per il semplice fatto che nel primo interrogatorio che ha reso non poteva certo essersi verificato l’episodio della espressione offensiva proveniente dal Tagliavia riferito da Scarantino in sede di ritrattazione quale causa scatenente del suo asserito risentimento nei confronti del Tagliavia.
Le uniche incongruenze nel racconto di Scarantino, a ben vedere, riguardano soltanto le indicazioni relative alla data della riunione in casa di Calascibetta, al reperimento della Fiat 126 utilizzata come autobomba, alla partecipazione dell’imputato Romano ed all’impiego della bombola di gas che sarebbe stata procurata sulla base delle informazioni fornite da quest’ultimo.
Orbene, con riferimento a questi ultimi due punti è agevole osservare che i dettagli del racconto di Scarantino circa il luogo ove poteva essere reperita la bombola e, precisamente il cantiere per la realizzazione della metropolitana in prossimità della villa di Pietro Aglieri, circa il possibile impiego della bombola e le potenziali capacità devastanti della stessa hanno trovato sostanziale riscontro negli atti processuali.
Il fatto che gli accertamenti ed i rilievi tecnici eseguiti abbiano escluso sostanzialmente l’impiego concreto di una bombola di gas del tipo di quella indicata da Scarantino non comporta certamente l’inattendibilità delle dichiarazioni di quest’ultimo, poiché da una attenta lettura di dette dichiarazioni emerge in modo chiaro che Scarantino Vincenzo non ha in alcun modo partecipato al furto della bombola di gas e che ha semplicemente dedotto tale fatto ed il conseguente impiego per l’esecuzione della strage solamente dalla constatazione dell’effetto dirompente dell’esplosione di via D’Amelio e dalla corrispondenza a quanto aveva sentito dire da alcuni compartecipi.
Più complessa appare, invece, l’analisi delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo circa la data della riunione ed il reperimento della Fiat 126 commissionatagli dal cognato Profeta Salvatore, infatti appare incontestabile sin dalle prime dichiarazioni una parziale reticenza, l’indicazione di una sequenza di fatti assolutamente improbabile e, infine, la confluenza di tutte le dichiarazioni sul punto in una confusione inestricabile di affermazioni contrastanti, sopra richiamata.
A giudizio di questa Corte la verità essenziale che emerge dagli atti è che la Fiat 126 utilizzata come autobomba fu effettivamente procurata da Scarantino su incarico del cognato Profeta Salvatore e che Scarantino si sia rivolto effettivamente al Candura per procurarsela. Proprio quest’ultima circostanza e, in particolare, il fatto che Scarantino Vincenzo, anzicchè rubare personalmente la vettura che doveva essere impiegata per una azione tanto atroce quanto importante per gli interessi di “Cosa nostra”, si sia rivolto ad un balordo tossicodipendente come Candura per reperirla offre una convincente chiave di lettura di tutte le reticenze, le bugie e gli imbarazzi di Scarantino nel riferire l’esatta sequenza dei fatti relativi al reperimento della 126 utilizzata come autobomba. In sostanza appare ragionevole ritenere che le oscillanti indicazioni di Scarantino Vincenzo circa la data della riunione (facilmente correlabile alla data certa del furto dell’autovettura della Valenti Pietrina), lo sforzo per accreditare l’ipotesi del possesso di un’altra autovettura dello stesso tipo rubata precedentemente e poi sparita (di cui non vi è alcuna traccia nelle acquisizioni probatorie in atti), la negazione di dettagli più o meno rilevanti circa la consegna dell’auto riferiti dal Candura, le contrastanti indicazioni fornite circa la conservazione dell’autovettura prima che venisse caricata di esplosivo (discordanti in parte persino col racconto riferito dal compagno di detenzione Andriotta), altro non siano che ingenui ed infantili tentativi da parte di Scarantino, sin dalle prime fasi della sua collaborazione, di nascondere la verità che egli con estrema leggerezza aveva delegato un compito così delicato come quello di rubare l’auto che doveva essere utilizzata per l’esecuzione della strage di via D’Amelio ad una persona estranea ed inaffidabile come Candura, che poi in effetti si è rivelato come l’anello debole della catena, quello che ha consentito agli inquirenti di sviluppare le indagini arrivando a soggetti coinvolti nell’esecuzione materiale della strage come Scarantino Vincenzo ed il cognato Profeta Salvatore. Il suddetto atteggiamento processuale di Scarantino Vincenzo non è in contrasto con la piena collaborazione avviata nei primi interrogatori in quanto appare evidente che non è legato semplicemente ad una esigenza di tutela della propria immagine, che già sarebbe stata inevitabilmente ed irreversibilmente segnata dalla scelta di collaborare con la giustizia secondo i principi dell’etica mafiosa, quanto piuttosto all’esigenza, assolutamente primaria per Scarantino Vincenzo, anche dopo la scelta di collaborazione avviata, di preservare l’immagine ed il prestigio mafioso di un soggetto determinante per gli interessi dell’intera famiglia di sangue di Scarantino Vincenzo come Salvatore Profeta, personaggio emergente nel panorama mafioso, che nel pensiero costante del collaboratore di giustizia sarebbe stato l’unico capace di preservare da conseguenze gravi tutti i suoi familiari e in particolare i suoi figli ancora in tenera età e persino di proteggere lui stesso se un giorno avesse abbandonato la strada della collaborazione con la giustizia, idea questa che Scarantino Vincenzo, come ha candidamente ammesso in sede di ritrattazione aveva già maturato nel momento in cui indicò falsamente come partecipanti alla famosa riunione i tre collaboratori Di Matteo, La Barbera e Cancemi, iniziando a mentire affinchè non venissero più ritenute attendibili le sue precedenti dichiarazioni. Perché tutto ciò si potesse avverare era tuttavia essenziale che Profeta Salvatore mantenesse intatto il suo prestigio mafioso, cosa che difficilmente sarebbe potuta avvenire se si fosse avuta conferma del modo superficiale e balordo con cui era stata procurata l’autovettura con cui è stata eseguita la strage, esponendo a gravissimi rischi l’intera organizzazione.
La valutazione di intrinseca attendibilità delle iniziali dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo non riposa, tuttavia, solo sulla loro coerenza logica e sulla possibilità di spiegare le incongruenze sopra evidenziate, bensì anche, e forse soprattutto, sulla concordanza perfetta con altre dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, estremamente attendibili, con i quali per ragioni logiche e cronologiche Scarantino Vincenzo certamente non può essersi accordato. Come meglio si dirà più avanti, nelle parti dedicate all’esame delle dichiarazioni rese da altri collaboratori di giustizia, quanto riferito da Cancemi Salvatore, Ganci Calogero, Ferrante Giovan Battista, Brusca Giovanni ed altri dimostra in modo inequivoco, per l’attendibilità e la concordanza di dette dichiarazioni, che la fase più direttamente esecutiva della strage di via D’Amelio fu affidata da Salvatore Riina ai mandamenti di Brancaccio e della Guadagna; ebbene, come avrebbe potuto un soggetto sicuramente non importante nell’organizzazione mafiosa e le cui conoscenze di fatti di mafia non avrebbero potuto valicare i ridotti confini del territorio mafioso in cui operava, riferire della riunione organizzativa della strage indicando tra i partecipanti (oltre Riina e Biondino) sin dalla prima dichiarazione, da ritenere la più attendibile per le considerazioni sopra espresse, solamente soggetti appartenenti proprio ai due suddetti mandamenti mafiosi, se i fatti riferiti non fossero effettivamente caduti sotto la sua diretta percezione, posto che nessun inquirente avrebbe potuto suggerirgli elementi che sarebbero emersi solamente da acquisizioni probatorie successive? Ed ancora, come avrebbe potuto un semplice uomo d’onore di borgata riferire con certezza che Salvatore Riina era giunto alla riunione in compagnia di Biondino Salvatore a bordo di una autovettura di piccola cilindrata che, a differenza delle autovetture degli altri partecipanti alla riunione era stata parcheggiata all’interno della villa, conformemente ad una prassi costante che poi è stata confermata da diversi altri collaboratori, se non riferendo quanto aveva avuto modo di notare personalmente, posto che le dichiarazioni dei collaboratori che hanno confermato siffatta abitudine del Riina nel giungere nei luoghi di riunione sono tutte successive a quelle dello stesso Scarantino? La risposta a queste domande, alla luce delle considerazioni sopra sviluppate, non può che essere una: le dichiarazioni di Scarantino Vincenzo nella prima fase di collaborazione e, precisamente, quelle rese prima che intervenissero con la liberazione del collaboratore quei fattori di inquinamento che una attenta analisi ha consentito di individuare con relativa sicurezza, sono da ritenere intrinsecamente logiche, coerenti con altre acquisizioni probatorie e, quindi, astrattamente attendibili ed idonee a costituire prova dei fatti per i quali si procede ove sorrette da sufficienti riscontri individualizzanti di carattere oggettivo.
E’ doveroso osservare che l’operazione di cesello che ha consentito di enucleare dal complesso delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo un gruppo omogeneo di dichiarazioni intrinsecamente attendibili, rese nella prima fase della collaborazione, sul presupposto della scindibilità delle dichiarazioni provenienti da una medesima fonte, non è priva di effetti sul piano pratico della valutazione della prova, poiché, come si è detto, nell’ambito di detta valutazione non può non tenersi conto di elementi che incidono sicuramente sulla attendibilità astratta del soggetto, quali la costanza e la continuità delle accuse, che innegabilmente difettano nelle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo considerate nel loro complesso.
Quando al “BORSELLINO BIS” inquirenti e giudicanti non credettero (purtroppo) alla ritrattazione del falso pentito Vincenzo Scarantino