Mafia, il pentito Gaspare Mutolo: “Il depistaggio sulla strage Borsellino c’è stato e continua…”

 

“Certo che c’è stato il depistaggio sulla strage Borsellino e continua ancora oggi. Non mi stupisce la sentenza d’appello di pochi giorni fa del processo ‘Borsellino quater’. Io conosco bene i soggetti e anche la storia…”. A parlare, in una intervista con l’Adnkronos, è il pentito di mafia Gaspare MUTOLO, ex picciotto di Cosa nostra, ventidue omicidi, guardaspalle del boss palermitano Rosario Riccobono, killer ed autista del capo dei capi corleonese, il sanguinario Totò Riina. Fino al 1991, quando decide di collaborare con i giudici Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo. Dalla sua residenza segreta, dove vive sotto protezione, Gaspare MUTOLO parla della sentenza emessa venerdì dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. “Per me – dice – il depistaggio sulla strage c’è stato. Falcone e Borsellino non erano invisi solo ai boss mafiosi…”. E racconta di avere conosciuto Paolo Borsellino nel 1976 “come giudice”, dice. “Iniziò proprio lui a farmi i primi processo”. La Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, venerdì sera, confermando la sentenza di primo grado, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della scorta. Condannati a dieci anni i ”falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato a Vincenzo Scarantino pure lui imputato di calunnia. Gaspare MUTOLO, che proprio in questi giorni è impegnato in una mostra di pittura a Giulianove dove ha esposto i suoi quadri, se la prende con l’ex capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera che era a capo del gruppo investigativo ‘Falcone e Borsellino’. In un altro processo, sempre a Caltanissetta, sono alla sbarra tre poliziotti accusati di calunnia in concorso perché secondo la Procura avrebbe indotto l’ex pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso sulla strage di via D’Amelio. “Ricordo che nei giorni in cui io venivo sentito dalla Dia a Roma – sottolinea MUTOLO – feci uno schema agli investigatori sui mafiosi, ebbene, non ho mai fatto il nome di Scarantino. La Barbera veniva spesso a guardarmi però senza mai chiedermi niente. Si limitava a fissarmi e basta”.

Poi, Gaspare MUTOLO, torna a parlare della sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone: “Era il dicembre del 1991 – dice – e dissi al giudice che volevo collaborare perché Cosa nostra aveva ucciso donne e bambini e non volevo più assistere a questo scempio. Io stesso avevo anche dei figli. Non mi sentivo più al sicuro. Ho parlato con Falcone e ricordo che c’era anche il magistrato Giannicola Sinisi. Io gli dissi: ‘Guardi che se inizio a parlare lo farò anche del suo ufficio e arriverò fino alla Cassazione, al giudice Corrado Carnevale’, che all’epoca era uno dei giudici più potenti in Italia. E Falcone mi spiegò che non poteva raccogliere le mie dichiarazioni e mi indicò Borsellino”. Ma l’allora Procuratore capo Giammanco non voleva che io parlassi con il giudice Paolo Borsellino. “E io dissi che se non avessi parlato con Borsellino non avrei continuato a collaborare. Alla fine ho vinto io…”. Tornando al depistaggio, dopo la sentenza del processo ‘Borsellino quater, Gaspare MUTOLO dice: “Borsellino e Falcone non si occupavano solo di mafia, c’era in quel periodo l’inchiesta di Mani pulite, c’erano tutti questi personaggi. Pensi che Falcone iniziò il cambiamento culturale. Prima nelle banche non si poteva entrare, se un giudice voleva avere delle informazioni, lo prendevan a calci nel sedere. Mentre Falcone riuscì a sconfiggere questa cosa. Lui riusciva a toccare i santuari che non venivano toccati. Falcone non se la prese solo con i mafiosi, sapeva che c’erano anche i cosiddetti colletti bianchi”.

 E alla vigilia del processo sul Capaci bis, che riprenderà domani mattina a Caltanissetta con le deposizioni dei collaboratori di giustizia Pietro Riggio e Maurizio Avola, MUTOLO spiega: “Si è sempre parlato di servizi segreti ma si ha paura”. Nei mesi scorsi il pentito Riggio, ex guardia penitenziaria, aveva detto ai magistrati che per la strage di Capaci, che il 23 maggio del 1992 costò la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, sarebbero stati utilizzati anche i “servizi segreti libici”. Riggio, il 7 giugno 2018, decise raccontare ai pm alcuni retroscena appresi sulla strage Falcone. Verbali che ora sono finiti agli atti del processo Capaci-bis. Parlando di un ex poliziotto, di cui cita anche il nome, spiega: “Mi disse che si erano avvalsi per la strage di Capaci dei servizi segreti libici”. La frase venne poi raccontata a un altro codetenuto di Riggio, di cui fa il nome, e dice: “Glielo raccontai e questi mi disse che effettivamente il suocero” dell’ex poliziotto era un appartenente ai servizi segreti libici”. E sempre Riggio aveva detto di avere appreso dal codetenuto che “mi disse che” l’ex poliziotto “era al Sismi e che il suocero era nei servizi libici e che stava a Catania”. “C’è sempre stata paura di parlare dei servizi segreti legati alla strage di Capaci – spiega Gaspare MUTOLO – perché se un mafioso cammina armato e lo beccano va in galera, mentre uno dei servizi deviati ha il tesserino e può camminare tranquillamente armato”. (di Elvira Terranova, Adnkronos 18.11.2019