5 ottobre 2018
Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre
«Nessuno ha dato un contributo di verità negli anni, possibile che tutti siano stati fatti fessi da Arnaldo La Barbera?».
Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater.
Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione.
In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia.
Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002.
Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio ( e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela.
Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?
Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori? Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre.
Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto. Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa.
Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto. Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni.
Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto? Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evi- denza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli?
di Damiano Aliprandi IL DUBBIO