: “Strage mosaico pieno di ombre, coinvolti altri gruppi di potere” Via D’Amelio, ecco quello che scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nelle 377 pagine della sentenza: “L’eliminazione del magistrato non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafia” “Non può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la ‘Trattativa Stato-mafia’ avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del Paese nella tornata di elezioni politiche del 1992”. Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”. Lo scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta che, nella sentenza del processo ‘Borsellino quater’ di secondo grado escludono nelle 377 pagine delle motivazioni che la trattativa abbia accelerato l’uccisione di Borsellino. Secondo i giudici “è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di ‘destabilizzazione’ intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso. Deve essere ritenuta ancora attuale – scrivono i giudici – la valutazione espressa dai Giudici Supremi in seno alla prima sentenza emessa nel procedimento Borsellino ter relativamente alla incidenza che la cosiddetta “trattativa Stato-mafia” avrebbe avuto sulla deliberazione della strage di via D’Amelio anche alla luce delle ulteriori acquisizioni probatorie cristallizzate nel presente procedimento”, dicono ancora i giudici. Matrice mafiosa Nel novembre 2019 la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, confermando la sentenza di primo grado ed accogliendo le richieste della Procura generale, condannò all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta. Condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo anche in appello i giudici avevano dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino. “Deve dunque escludersi la sussistenza di elementi probatori idonei a fare ritenere che vi sarebbe stata, per la sola strage di via D’Amelio, una sorta di “novazione” della deliberazione di morte, tale da avere determinato una soluzione di continuità rispetto alla precedente deliberazione stragista risalente alla riunione degli ‘auguri di fine anno 1991″, scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello. “Allo stato, comunque, il quadro probatorio appare immutato rispetto a quello già considerato dalla Suprema Corte di Cassazione nella richiamata pronuncia del 2003, non sussistendo altri elementi probatori per dire che la strage di via D’Amelio abbia avuto una causale diversa dalla matrice mafiosa o che la stessa sia ascrivibile a un contesto deliberativo diverso da quello accertato nel corso del presente procedimento, nel quale si inscrive il protagonismo dell’imputato appellante”. “Borsellino continuò sua instancabile opera nel contrasto ai boss” “Anche dopo il suo trasferimento a Marsala, il giudice Paolo Borsellino aveva continuato la sua instancabile opera nel contrasto alla criminalità organizzata, continuando a essere insieme al collega e amico Giovanni Falcone un simbolo della lotta alla mafia, rendendosi ben visibile anche agli occhi della stessa organizzazione criminale che continuava a concepire propositi omicidiari nei suoi confronti”, sottolineano i giudici nella sentenza. “Serviva consenso del capo mandamento” La strage di via D’Amelio “rientrava nel mandamento di Resuttana” e un “delitto eclatante come quello realizzato non avrebbe mai potuto essere realizzato senza il consenso del capo mandamento, in ossequio alle rigide regole di ‘competenza’ territoriali osservate in Cosa nostra. In via D’Amelio era ubicato il covo dove venne rinvenuto il ‘libro mastro’ delle estorsioni sequestrato nel 1989 al fratello dell’imputato Antonino Madonia, documento c he consentì di ricostruire la gestione del racket del ‘pizzo’ in una vasta zona di Palermo. Nelle immediate adiacenze del luogo della strage vi era, inoltre, un edificio in costruzione ad opera della dotta facente capo ai fratelli Graziano, imprenditori edili inclusi tra i prestanome dei Madonia”. “Dietro la strage anche altri gruppi di potere” “La strage di via D’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il maxiprocesso”. “Ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e terrore non può trovare accoglimento potendo, al più, le emergenze probatorie indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti o gruppi di potere interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”. “Ma tutto ciò non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dati causa agli eventi di cui si discute. E’ possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione provinciale e nelle precedenti riunioni della Commissione regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra”. “La strage è un mosaico ancora pieno di ombre” In 377 pagine i giudici ripercorrono le tappe della vicenda. E si soffermano soprattutto sulle “persistenti zone d’ombra e sulla paternità mafiosa della strage”. Tra le ombre citate dai giudici ci sono anche gli “uomini ‘sconosciuti’ sul luogo del delitto e nell’immediatezza dello stesso e i un uomo ‘estraneo a Cosa nostra’ al momento della consegna dell’autovettura Fiat 126 da parte di Gaspare Spatuzza“. “Le emergenze probatorie acquisite nel procedimento costituiscono singoli pezzo di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti. Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosa’ dell’agenda rossa del magistrato e alla ricomparsa della borsa stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio di Arnaldo La Barbera“. “Gli uomini incaricati di provvedere al successivo caricamento della stessa di esplosivo”. E si riferiscono alla “vicenda Mutolo e all’interruzione del suo interrogatorio e al successivo incontro da parte del giudice Borsellino con il dottor Contrada“. Non si hanno elementi in grado di adombrare profili di erroneità nella ricostruzione del momento deliberativo della strage e nella configurazione della ‘paternità mafiosa’ della stessa”. “Presenze dubbie sul luogo della strage in giacca e cravatta” “Le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione, ‘in giacca’ nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nella immediatezza come ‘appartenenti ai servizi segreti'”. “E tale ultimo particolare appare ancora più inquietante se si considera che ‘di un uomo estraneo a Cosa nostra’ ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la Fiat 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo”. 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